Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
DOPO 8 ANNI UN ALLOGGIO SU 10 E’ INAGIBILE, 94 FAMIGLIE DI NUOVO SFOLLATE
All’epoca Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso parlavano di “miracolo”. Il sindaco che sta per lasciare dopo dieci anni Massimo Cialente, invece, pure.
Era il 29 settembre del 2009, il giorno del 73esimo compleanno dell’allora Cavaliere e si inauguravano i primi 400 appartamenti del progetto C.A.S.E. — così, con i puntini — tassello iniziale della fantomatica new town (all’inizio se ne parlava al singolare) che avrebbe dovuto rimpiazzare L’Aquila, distrutta dal terremoto del 6 aprile.
Davanti ai nastri da tagliare, erano tutti entusiasti.
Otto anni dopo, a dispetto del luogo comune che rimbalza qua e là , quel progetto avveniristico si rivela un fallimento.
Gli appartamenti cadono a pezzi. Interi condomini vengono evacuati d’urgenza di fronte al rischio di crolli.
Si prospetta, addirittura, l’esigenza di abbattere alcuni di quei 19 quartieri costruiti in tutta fretta nell’emergenza post-sisma. In tutta fretta e con soldi pubblici, ovviamente: oltre un miliardo di euro.
E inevitabilmente si riaccendono le polemiche, con Cialente e Bertolaso che si rinfacciano a vicenda le responsabilità del disastro nelle interviste rilasciate al quotidiano Il Centro, che ha riportato in auge la questione.
Tanto più che L’Aquila vive la fase culminante della campagna elettorale per le amministrative dell’11 giugno: e nulla, come il progetto C.A.S.E., si presta bene per accuse incrociate e revisionismi.
Ma non è solo questione di propaganda, se proprio alla vigilia del voto si torna a parlare di quelle in città vengono spesso chiamate “le casette di Berlusconi”.
I problemi, per chi in quelle casette ci vive, sono assai concreti. Lo sono, ad esempio, per le 70 famiglie che mercoledì mattina hanno appreso che presto potrebbero essere sgomberate.
Sono solo gli ultimi episodi di una sequela ormai lunghissima di incidenti nelle new town berlusconiane.
Dai balconi che crollano agli intonaci che si staccano, dalle caldaie non coibentate e perennemente in tilt agli isolatori sismici che si scoprono non omologati.
L’assessore all’Assistenza alla popolazione, Fabio Pelini, tira le somme: “Gli alloggi inagibili, per vari motivi, sono oltre 500 su un totale di 4500”.
“Stiamo cercando di capire cosa ne sarà di noi, per il momento ci hanno solo detto che le nostre abitazioni non sono sicure”, si sfoga Anna.
Il rischio che corrono, ora, è quello di dover abbandonare i loro alloggi, installati su piattaforme antisismiche in stato di grave deterioramento.
Proprio come hanno dovuto fare, la settimana scorsa, i residenti della Piastra 1 di Coppito 2. Si tratta di 24 famiglie, costrette a sgomberare le loro abitazioni il 31 maggio.
“Tutto è successo senza alcun preavviso — racconta Debora — I vigili del fuoco ci hanno lasciato appena 5 minuti per recuperare qualche oggetto, poi ci hanno trasferiti”.
Per circa una settimana sono stati ospitati all’Hotel Amiternum, in attesa di una nuova destinazione. E nel frattempo la rabbia è montata.
“Da mesi — racconta Roberto — facevamo segnalazioni: nei locali sotterranei pioveva vistosamente”. Risposte? “Nessuna”. Poi, però, l’intervento d’urgenza.
Il problema, spiega ora Cialente a Ilfattoquotidiano.it, stava in una guaina impermeabilizzante tagliata male. “Era stata montata al contrario e dunque non bloccava le infiltrazioni di acqua”. Risultato: travi e pannelli bagnati e rischio di crolli.
“La responsabilità era evidentemente della ditta subappaltatrice: e a quel punto — prosegue il sindaco — abbiamo disposto i controlli sulle altre 11 piastre installate dalla Cosbau”. E così si è scoperto che altre 3 piattaforme — la numero 2 di Coppito 2, le numero 13 e 14 di Pagliare di Sassa — presentavano problemi analoghi.
“Non è detto che in questi casi sia necessario procedere allo sgombero”, afferma Cialente. Ma dal suo staff lo pronosticano come “fortemente probabile, almeno per 2 delle 3 piastre”.
Una situazione difficile da gestire e che col passare del tempo sembra destinata a peggiorare.
Secondo Guido Bertolaso, la colpa è di Cialente e della sua giunta, colpevoli di non avere effettuato i lavori di manutenzione necessari dal 2010 in poi.
Il sindaco non ci sta e parla di oltre “30 milioni di euro spesi in interventi di manutenzione”.
Il problema, secondo Cialente, è di ben altra natura. “Ha a che fare con la progettazione e la realizzazione di quelle strutture. L’esempio delle piastre evacuate in questi giorni è emblematico: lì ci sono delle guaine installate male da chi ha eseguito i lavori nel 2009. Cosa c’entra la manutenzione?”.
Certo, le new town nascevano per durare negli anni, proprio in contrapposizione coi container dell’Umbria e del Belice. “Assurdo pensare che opere pensate con queste finalità cadano a pezzi dopo pochi anni” ragiona Cialente.
Eppure, nell’autunno 2012, quando il Comune ha acquisito i “C.A.S.E.”, non ha effettuato verifiche sulla stabilità delle strutture. “Io mi sono fidato dei collaudi, che erano in regola. Cos’altro potevo fare?”.
Quando sarà terminata la carambola delle accuse reciproche, bisognerà poi anche capire cosa farne, di questo ingombrante e decrepito patrimonio.
Cialente una proposta ce l’ha: “Smantellare le piastre. Tutte”. Una proposta che ha infiammato la settimana finale di campagna elettorale. Coi candidati del Pd e del centrodestra divisi sulle attribuzioni delle colpe, ma concordi di fatto nello smentire Cialente e nel prospettare “solo abbattimenti selettivi”.
E coi comitati civici a sostegno dell’outsider Carla Cimoroni che denunciano “il vergognoso scaricabarile” tra le due opposte coalizioni, entrambe responsabili di quello che nel 2009 fu “un patto concordato tra le parti” che “ignorò puntualmente tutte le proposte alternative”.
Cialente comunque insiste: risistemare tutti gli alloggi danneggiati avrebbe costi enormi, secondo il sindaco, e soprattutto “grava il parere dell’Unione europea, che ha finanziato il progetto C.A.S.E. solo a patto che si trattasse di alloggi temporanei, come previsto dal Fondo di solidarietà ”.
Ma se gli si chiede quale sarebbe, il limite della “temporaneità ”, Cialente sorride sarcastico: “È quello che ho chiesto anche io a Bruxelles. Senza ricevere risposta. Ma resta il fatto che a breve bisognerà pensare di abbattere molte di quelle strutture”.
Di un progetto mastodontico, finanziato per 700 milioni dallo Stato italiano e per circa 350 dall’Ue, resterebbero soltanto macerie?
“Che fosse temporaneo, lo si sapeva fin dall’inizio. Semmai l’errore è stato rinunciare, nel 2009, a soluzioni meno onerose”. Peccato non averci pensato all’epoca, quando si tagliavano i nastri e si gridava al miracolo.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: denuncia | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
STADIO ROMA, IN VISTA DEL VOTO IN CAMPIDOGLIO E’ CACCIA AGLI ORTODOSSI
Colpirne uno per educarne non cento, ma almeno tre, o forse cinque.
E’ questo il ragionamento che ha portato il gruppo dirigente pentastellato capitolino (in stretta comunicazione con Genova) ad assumere in modo repentino e inatteso la decisione di sospendere a tempo indeterminato dal movimento la consigliere comunale Cristina Grancio, rea di avere espresso più di una perplessità in commissione su alcuni aspetti del nuovo progetto dello stadio della Roma e soprattutto la fretta con cui i suoi dirigenti stanno portando avanti l’iter in Consiglio.
Il salto di qualità nel contrasto agli “ortodossi” grillini è avvenuto nel tardo pomeriggio di venerdì, quando il capogruppo Paolo Ferrara, che a caldo aveva usato toni concilianti con la sua consigliera (che non aveva preso parte al voto sul progetto), dopo avere esaminato la situazione e simulato tutti gli scenari possibili assieme ai più stretti collaboratori della sindaca, ha optato per la linea dura e ha messo alla porta la Grancio, che non a caso, nel comunicare il provvedimento ai militanti sui social, ha parlato apertamente di “malafede” da parte dei piani alti di Palazzo Senatorio.
Ma cosa c’è dietro alla severità di una punizione che appare non commisurata alla colpa di sottrarsi a un parere, peraltro non vincolante?
La preoccupazione della sindaca Virginia Raggi è evidentemente quella di attraversare questa fase cruciale per la credibilità della sua giunta e della sua leadership, messa a durissima prova dopo un anno di governo, evitando di arrivare all’obiettivo dell’approvazione della delibera in consiglio con danni collaterali potenzialmente letali per la compattezza della sua maggioranza.
Nella fattispecie, la sospensione della Grancio, alla vigilia del tour de force consiliare previsto tra lunedì e mercoledì, che dovrà avere come esito obbligato quello di dare l’ok alla nuova delibera di interesse pubblico, sembra voler dire qualcosa a quei consiglieri che finora, in ogni passaggio interno del movimento, hanno rivolto al progetto della stadio critiche eguali o addirittura maggiori di quelle espresse dalla Grancio.
Se in passato quest’ultima, coerentemente, si era astenuta nella consultazioni di gruppo, altri erano andati oltre, ad esempio Alessandra Agnello e Alisia Mariani, che rispondono direttamente ai militanti e agli elettori di Tor di Valle e sanno perfettamente che nel territorio interessato dal progetto l’orientamento dei residenti e in particolare quello dei residenti grillini è molto critico.
Venerdì il IX Municipio, chiamato ad esprimere un parere quale parte in causa, ha vissuto una giornata di paralisi e ha rinviato il voto a domenica, per mantenere lo spazio per una difficile mediazione interna, proprio mentre le conferme ufficiali sulla contrazione delle opere pubbliche e l’aumento della parte di queste a carico dei contribuenti non fanno altro che dare fiato al dissenso.
Allo stato, i proponenti non dovranno più sobbarcarsi l’onere di alcun ponte sul Tevere, mentre sono spuntati 45 milioni per il rafforzamento della linea Roma-Lido che graveranno sul bilancio del Comune.
La Agnello e la Mariani, a fine febbraio, avevano votato contro le ipotesi che circolavano sul nuovo progetto assieme a Maria Agnese Catini, mentre una posizione critica era stata espressa anche da Teresa Zotta e Gemma Guerrini, che però sembra essere “rientrata”.
Sono loro le “sorvegliate speciali” del Campidoglio, oggetto non dichiarato ma ben circostanziato del tentativo di serrare i ranghi messo in campo nelle ultime ore.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Grillo | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
CADONO LE PRIME TESTE DOPO IL DELUDENTE RISULTATO DEI CONSERVATORI
I due capi dello staff di Theresa May, Nick Timothy e Fiona Hill, si sono dimessi. Lo riferisce l’Indipendent. Secondo il quotidiano, le dimissioni sono state chieste direttamente dal primo ministro dopo le forti pressioni arrivate nelle ore successive al voto da ambienti conservatori.
Secondo la Bbc, dalla nomenklatura del partito è scattato un vero e proprio ultimatum nei confronti di Theresa May: silurare i suoi influenti capi dello staff, Fiona Hill e Nick Timothy, entro lunedì se vuole garantire la fiducia al suo nuovo governo.
Hill e Timothy sono invisi a vari notabili e media per il ruolo di cani da guardia della premier e il loto potere da consiglieri ‘occulti’.
Decisivi, pare, nella scelta del voto anticipato.
“Mi assumo la responsabilità della campagna elettorale, che è stata un errore rispetto al nostro programma”, scrive Nick Timothy precisando di aver rassegnato le sue dimissioni già ieri.
“La ragione della nostra delusione non è il mancato sostegno a Theresa May e ai conservatori”, si legge nella lettera pubblicata sul sito dei Tory. “Bensì l’inaspettato aumento del seguito verso i laburisti”.
“Si possono fare tutte le speculazioni del mondo su questo, ma la semplice verità è che: la Gran Bretagna è un paese diviso. Molti sono stanchi dell’austerità , molti restano arrabbiati o frustrati per la Brexit e molti giovani sentono di non avere le opportunità che hanno avuto i loro genitori”.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: elezioni | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
SAREBBERO BASTATI PER AGGIUDICARSI 7 DEPUTATI IN PIU’ SOTTRAENDOLI AI CONSERVATORI
Uno studio pubblicato dal quotidiano Independent rivela che Jeremy Corbyn sarebbe potuto diventare primo ministro, se avesse ricevuto soltanto 2227 voti in più. Tanti sarebbero bastati a far vincere al Labour 7 deputati in più, e ai conservatori dunque 7 deputati in meno.
In tal modo il partito laburista avrebbe avuto abbastanza seggi per formare un governo di coalizione con i liberaldemocratici, i verdi, i nazionalisti scozzesi e nord-irlandesi, arrivando ad avere una maggioranza alla Camera dei Comuni e negandola ai Tories. i quali peraltro, alleati con gli unionisti nord-irlandesi, hanno ora una maggioranza di appena 2 seggi.
Sono gli effetti del maggioritario. Non conta quanti voti ha ricevuto un partito in assoluto (in questo ambito, i Tories hanno battuto il Labour 42,5 a 40 per cento), bensì quante delle 650 gare individuali si vincono per conquistare deputati.
Del resto alle elezioni del 2015, l’Ukip prese 4 milioni di voti, pari al 13 per cento, diventando il terzo più grande partito nazionale, ma ottenne un solo deputato: perchè, su 650 “gare”, ne aveva vinta appunto soltanto una.
Non conta arrivare secondi. Con una manciata di voti in più, 2227 per l’esattezza calcola l’Independent, sarebbe stato Corbyn ad andare dalla regina e dirle: “Sono in grado di formare un governo”.
(da agenzie)
argomento: elezioni | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
DIETRO LA SUA RIMONTA LE NUOVE GENERAZIONI: L’HA VOTATO IL 63% DEGLI UNDER 35… “NON SIAMO CITTADINI DI SERIE B”
L’abusivo è diventato il padrone della casa. Anche i più acerrimi nemici – e fra le file di Westminster targate Labour, Jeremy Corbyn ne ha parecchi – posano le armi e fanno mea culpa.
Non credevano nella leadership di Corbyn e continuano a non credere nel suo manifesto di equità sociale ed economica da vecchia sinistra, ma senza il 68enne di North Islington e il suo entusiasmo, la partita con i conservatori sarebbe stata ben diversa.
Owen Smith che fu avversario per la segreteria chiede scusa, David Miliband si entusiasma «per la nuova generazione che si è raccolta attorno a Jez» e Chuka Umunna, 38enne di belle speranze, saluta il boom dei Labour con toni entusiasti.
Nel 2010 Gordon Brown si fermò a 258 seggi, nel 2015 Ed Miliband a 232, nel 2017 Corbyn va a quota 262.
Labour al 40,1%, più 9,6% rispetto al 2015. Era dai tempi di Attlee – nel 1945 – che i laburisti non facevano un simile balzo. Il premier del secondo dopoguerra fece più 10,4%. Blair nel 1997 si fermò a più 8,8%. Però vinse. E questo qualcosa conta.
Peter Mandelson guru della Terza Via, ha un po’ di amaro in bocca. «Corbyn deve essere più ecumenico». Significa riuscire a parlare con quella parte della società britannica che non lo sopporta per il suo radicalismo dottrinale. Servirebbe a poter vincere.
Corbyn ha congelato la partita per la leadership. Ma soprattutto ha scoperto di avere un popolo con un’identità precisa. David Goodhart, scrittore e autore di «The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics», ricorda come è composto: «Ceti urbani, le classi più povere delle periferie, le minoranze, sono queste le tribù di Corbyn, la cui forza è stata da molti sottostimata».
E poi ci sono i giovani conquistati dai temi – sanità pubblica, abolizione delle tasse universitarie, minimo salariale – e dal suo essere controcorrente.
Come fu contro Hillary Bernie Sanders che si è congratulato con il britannico.
Corbyn ha trascinato i ragazzi prima ai comizi e poi alle urne. Si sapeva della loro fascinazione, non che avrebbero invaso le «polling station».
Ha votato il 66,4% degli under 35 contro il 43% del 2015 e il 63% ha preferito Corbyn; la registrazione alle liste elettorali ha avuto un picco nei giovanissimi, 246 mila contro i 137 mila di due anni fa.
Numeri che hanno spinto l’affluenza totale al 68,74%, (32 milioni di elettori) più bassa solo del 1992.
Nei seggi dove la partecipazione è salita del 5%, i laburisti hanno prevalso. Le città , i centri universitari sono color rosso Labour.
Molti ex elettori dello Ukip e «brexiteers» sono tornati dai laburisti anche se – spiegano alcuni analisti – la classe operaia bianca del Nord e del centro dell’Inghilterra ha optato per i Tory.
Anche le minoranze avrebbero trovato conforto nel Labour: secondo alcune fonti in 38 collegi la comunità musulmana potrebbe essere stata decisiva.
Il «Telegraph» scriveva di un messaggio recapitato agli elettori da due candidati musulmani delle Midlands. Invitavano i correligionari a votare Corbyn per bilanciare il ruolo che altre minoranze hanno nella società britannica.
Le radio del mondo arabo hanno salutato il successo di Corbyn, l’amico dei palestinesi, come il frutto dell’impegno dei 3 milioni di musulmani del Regno Unito. Spiega Robert Ford, università di Manchester: «Che molti musulmani si sentano quasi di serie B è evidente, il terrorismo e le preoccupazioni per la sicurezza hanno spinto le autorità a considerare gli islamici un sottogruppo fra le cosiddette minoranze». Vivono nelle periferie delle grandi città , e insieme ai neri e ad altre minoranze – dati del Runnymeda Trust – due sue tre hanno sostenuto i laburisti risultando decisivi nel sottrarre ai Tory seggi come Croydon Central o Ilford North.
È con questo popolo che Corbyn sfiderà su ogni punto la May.
(da “La Stampa”)
argomento: elezioni | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
SONDAGGIO IPSOS-FRANCE TV: MACRON AL 31,5% CON OLTRE 400 DEPUTATI, REPUBBLICANI AL 22%, FN SOLO TERZO AL 18%
Dopo la sconfitta incassata da Marine Le Pen alle ultime presidenziali, il Front National (Fn) cerca di rimettere insieme i pezzi in vista delle elezioni legislative previste per l’11 e il 18 giugno.
Secondo un sondaggio condotto dall’istituto Ipsos/Sopra-Steria e pubblicato ieri da France Tèlèvisions, il Fn dovrebbe raccogliere il 18% delle preferenze, arrivando sul gradino più basso del podio, dopo i Rèpublicains (22%) e la Rèpublique en Marche, il partito del presidente Macron, che insieme ai centristi del Mouvement Democratique (MoDem) si dovrebbe attestare al 31,5%, ottenendo così la maggioranza all’Assemblea Nazionale con più di 400 deputati su 577.
Se queste previsioni si dovessero confermare, il Fn riuscirebbe a far entrare in Parlamento non più di 15 rappresentanti, il numero minimo per formare un gruppo parlamentare.
Una sconfitta annunciata, sintomo del malessere che in queste ultime settimane sta alimentando le tensioni tra le fila dei dirigenti.
L’estrema destra francese si è impantanata nella palude del dibattito interno, tra regolamenti di conti e attriti personali, incapace di ritrovare la via per uscire da un’impasse che rischia di affossare definitivamente il partito.
Nonostante Marine Le Pen abbia registrato al ballottaggio con Macron un risultato storico per il suo gruppo con il 33,9% delle preferenze (nel 2002, contro Jacques Chirac, il padre Jean-Marie arrivò solo al 18%), sono in molti a vedere il bicchiere mezzo vuoto, rimproverando alla candidata frontista alcuni punti del suo programma. La leader dell’estrema destra si ritrova così a dover gestire i tanti malumori che erano rimasti sopiti durante l’ultima campagna elettorale.
Dal 2011, anno in cui ha preso in mano le redini del partito succedendo al padre, la rappresentante frontista ha messo in piedi un’operazione di anti-demonizzazione volta a ripulire l’immagine del Fn, smussandone gli aspetti più estremi.
Una mossa strategica, che ha però scontentato i militanti della prima ora, che non hanno mai visto di buon occhio questo processo di normalizzazione.
Tra i punti più criticati c’è quello riguardante l’uscita dall’euro, uno dei cavalli di battaglia durante la corsa all’Eliseo, che però sembra non aver convinto una parte dei simpatizzanti.
Sono in molti, infatti, a richiedere il ritiro della proposta, puntando il dito contro Florian Philippot, vicepresidente del Fn e braccio destro di Marine Le Pen, principale fautore del progetto antieuropeista.
Candidato nella sesta circoscrizione della Moselle, a est della Francia, Philippot ha già minacciato di abbandonare il partito nel caso in cui venisse accolta la richiesta.
Una dichiarazione accompagnata dalla creazione di un’associazione denominata “I Patrioti” (“Les Patriotes” in francese), nata ufficialmente per “allargare la base” degli elettori, anche se risulta evidente il messaggio lanciato alla sua famiglia politica.
A questo si aggiunge poi l’uscita di scena di Marion-Marechal Le Pen, nipote di Marine e deputata nel dipartimento di Vaucluse, nel sud della Francia.
Data da molti come possibile erede della zia, lo scorso 9 maggio la più piccola del clan dei Le Pen ha annunciato il ritiro temporaneo dalla vita politica per dedicarsi alla famiglia e continuare la sua carriera nel settore privato.
Una scelta inaspettata, che ha spiazzato i tanti sostenitori pronti ad appoggiare un’eventuale candidatura alla presidenza del partito.
Con la sua linea liberal-conservatrice di stampo fortemente cattolico, Marion-Marechal incarnava la corrente più tradizionalista, vicina alle idee del nonno Jean-Marie e in totale opposizione con Philippot.
In un clima generale di smarrimento, Marine Le Pen in queste ultime settimane è rimasta in disparte, portando avanti una campagna di basso profilo, senza particolare entusiasmo. “E’ stremata” ha confidato la madre Pierrette al quotidiano Le Parisien pochi giorni fa, dicendosi preoccupata per la salute della figlia.
L’ultima tegola è arrivata ieri, quando Le Monde ha pubblicato un’inchiesta secondo la quale almeno 30 candidati alle legislative “hanno legami famigliari con altri dirigenti o esponenti del Front National”.
Una proporzione definita “eccezionale” dal quotidiano, che anche se non ha nulla di illegale getta una cattiva luce sull’organizzazione interna.
Per queste legislative, la presidente del Fn ha scelto di giocare in casa, presentando la candidatura nell’11ima circoscrizione del Pas-de-Calais, nel nord della Francia.
Un terreno a lei favorevole, dove aveva raccolto il 58,17% dei voti al secondo turno delle ultime elezioni.
Anche se per il momento la sua leadership non è messa in discussione, dopo queste elezioni la leader frontista sarà costretta a ridefinire il partito su una linea politica stabile per ripartire in vista delle elezioni europee del 2019.
Intanto, l’unica strategia da attuare è quella difensiva, cercando di limitare i danni che potrebbero provocare le imminenti legislative.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: elezioni | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
SONDAGGIO PIEPOLI: TUTTI PER IL 36%, GRILLO PER IL 25%, RENZI PER IL 21% … LA MAGGIORANZA CONTRARIA AD ELEZIONI ANTICIPATE, MEGLIO ASPETTARE LA SCADENZA DEL 2018
Vox populi, vox dei (a volte).
Oggi La Stampa pubblica i risultati di un sondaggio sulla legge elettorale realizzato dall’Istituto Piepoli dal quale si evince che nonostante le opposte propagande la maggior parte di chi ha risposto ha dichiarato che ad affossare la legge elettorale sono stati “tutti” (i partiti), senza focalizzare precise responsabilità su qualcuno o qualcun altro, anche se al secondo posto c’è comunque Beppe Grillo
Più di due terzi degli italiani diceva di apprezzare l’accordo sulla legge elettorale con il modello tedesco. Poi il patto è saltato in parlamento e il fallimento è stato giudicato negativamente dall’opinione pubblica. Poche volte in vita mia ho assistito a un 67% di pareri negativi, quando il giorno prima lo stesso 67% aveva dimostrato di gradire.
Quindi ora tocca capire: a chi viene attribuita la responsabilità del crollo dell’accordo? Beppe Grillo e Matteo Renzi si contendono la palma, con una lieve prevalenza di Grillo. Quanto a Silvio Berlusconi, è del tutto marginale, comparendo solo per l’1%. Ma ci sono anche 4 italiani su 10 che dicono che tutti quanti a Montecitorio sono colpevoli di «legicidio».
Per quanto riguarda le intenzioni di voto, nelle rilevazioni di Piepoli il PD è ancora il primo partito seguito a un’incollatura dal MoVimento 5 Stelle; seguono la Lega Forza Italia.
Fdi (4%, AP e MDP (3%) lontani dalla soglia ipotetica del 5%.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
LA CORSA ALLE URNE RALLENTA E LUI VARA IL PIANO B
Non può certo rimanersene con le mani in mano.
Per questo Matteo Renzi, incassato il no alle elezioni anticipate, lavora al Piano B. Che prevede, scrive oggi La Stampa in un articolo a firma di Francesca Schianchi, per l’ex premier un corso intitolato “The Challenge of Europe” alla Stanford di Firenze in lingua inglese.
Di questo corso si era già parlato tempo fa, ma oggi a quanto pare è destinato a diventare realtà :
Una corsa al voto che probabilmente a questo punto è da spostarsi alla primavera prossima. Renzi ci aveva sperato davvero, che con l’accordo si potesse arrivare alle urne in autunno, ma nel frattempo si era preparato il piano B: ha firmato un contratto con la Stanford University, da settembre a dicembre terrà corsi in inglese agli studenti americani della sede di Firenze dal titolo: «The challenge of Europe». A Roma, intanto, la legislatura andrà avanti, incidenti al governo permettendo.
La notizia era stata anticipata dalla Nazione il 18 febbraio scorso: La sede principale della Stanford University è in California, nella Contea di Santa Clara, a circa 60 chilometri a sud di San Francisco, nel cuore della Silicon Valley. Quella di Firenze è la più longeva fra le sedi distaccate nel mondo.
Da sindaco Matteo Renzi era intervenuto all’epoca dell’inaugurazione della nuova sede.
“In questo momento, per l’Italia e per Firenze, è necessaria una visione, non una divisione”, aveva detto Renzi, “Qui a Firenze, Dostoevskij scrisse, ne ‘L’idiota’, che la bellezza salverà il mondo; io sono convinto che potrebbe salvarlo veramente non solo con i valori economici, ma con quelli civili”.
(da “NextQuotidiano”)
argomento: Renzi | Commenta »
Giugno 10th, 2017 Riccardo Fucile
ORA SGUARDO RIVOLTO PIU’ A SINISTRA: “CON PISAPIA POSSIAMO ARRIVARE AL 40%”
“Alla Camera il premio al 40% consente di tentare l’operazione maggioritaria, anche se non è facile. Con le forze alla sinistra del Pd siamo alleati in molti Comuni dove ora si vota. Pisapia ha fatto per cinque anni il sindaco di Milano con il contributo fondamentale del Pd. Noi ci siamo; vediamo che farà lui”
Lo dice il segretario del Pd Matteo Renzi in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ mostrando di voler continuare a corteggiare l’ex sindaco di Milano per formare una coalizione larga,che guarda a sinistra, in vista delle prossime elezioni.
Anche se c’è D’Alema?, gli viene chiesto da Aldo Cazzullo.
Il segretario Pd risponde così: “D’Alema è uscito dal Pd contro di me; non credo adesso voglia fare coalizione. Comunque non dipende dalle persone ma dai contenuti: tagli all’Irpef, periferie, lotta alla povertà , Jobs Act. Non ho niente contro i fuoriusciti – risponde – Credo però che alcuni faranno fatica anche a tornare alle feste dell’Unità ; perchè la nostra gente ha vissuto come una ferita il fatto che se ne siano andati non sulla base di un’idea, come nella tradizione anche nobile della sinistra, ma sulla base di un atavico odio ad personam . Da ultimo mi sono sentito fare la morale perchè non sostengo Gentiloni da gente che nel 2013 non l’avrebbe neanche candidato, e ora non gli vota la fiducia”.
Ci sarà il suo nome sul simbolo? “No, come non c’era alle Europee. Magari porta bene”, risponde Renzi.
Quanto alla possibilità che nel 2018 sarà lui il candidato premier, “a decidere il candidato sono i voti, non i veti. Al momento opportuno gli italiani decideranno. Noi intanto dobbiamo occupare lo spazio politico del buon senso, della ragionevolezza, contro gli urli e i populisti. È uno spazio che forse non vale il 51%; ma esiste. Una forza tranquilla”.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Renzi | Commenta »