Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
TUTTI I GUAI DEL CARROCCIO IN CALABRIA, LA PEDINA DI SALVINI FINISCE NELL’INCHIESTA PER MAFIA
Nella giornata di ieri, 28 maggio, l’operazione ‘Waterfront’ condotta dalla Dda di Reggio Calabria e coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha portato il G.I.P. Filippo Aragona a disporre provvedimenti cautelari nei confronti di 63 persone, imprenditori e pubblici ufficiali, ritenute responsabili, a vario titolo, dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d’asta, frode in pubbliche forniture, truffa aggravata per il conseguimento di erogazione pubbliche con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, nonchè abuso d’ufficio e corruzione.
La notizia dell’operazione ha avuto ampia eco nazionale perchè tra gli indagati (con la sola accusa di reato, in concorso, di ‘turbata libertà degli incanti’ in riferimento ad una gara d’appalto indetta dal Comune di Polistena per la realizzazione di un eliporto a supporto dell’ospedale) c’è l’unico parlamentare calabrese della Lega, Domenico Furgiuele.
Il deputato, nell’unica dichiarazione resa ieri, si è detto tranquillo e ha annunciato che avrebbe sentito direttamente il Capitano in serata. Non si sa se il telefono sia squillato a vuoto, quel che è certo è che Matteo Salvini in Calabria non sa’ proprio più come raccapezzarsi.
Il leader leghista aveva già commissariato il Partito (a scapito dello stesso Furgiuele che ne era a capo) alla vigilia delle elezioni europee dell’anno scorso catapultando all’estremo sud il deputato bergamasco Cristian Invernizzi (tendenzialmente a causa delle contrapposizioni tra la fronda lametina che fa capo al deputato e quella di Reggio Calabria, con a bordo i fedelissimi dell’ex Presidente di Regione Peppe Scopelliti), poi promosso lo scorso febbraio ‘segretario regionale’ per tre anni, forse proprio per ‘occupare’ il posto in lista che fu di Furgiuele, in vista delle prossime elezioni politiche.
Ad inizio anno, Salvini aveva mandato in Calabria un altro dirigente nazionale, Walter Rauti, vice-responsabile nazionale enti-locali della Lega, a dare manforte a Invernizzi, accusato dai delusi militanti calabresi ‘della prima ora’ di aver ‘estromesso i giovani, i militanti e gli amministratori della Lega per inserire i trasformisti provenienti da altre formazioni politiche’.
E già , perchè, nonostante la promessa di vento di novità (datata dicembre 2018) decantata dal vice segretario nazionale della Lega Andrea Crippa, che affermava di farsi garante nel mettere alla porta gli ex sodali di Peppe Scopelliti e Mario Oliverio che nel loro partito volevano riciclarsi, il ‘caos liste’ per le scorse elezioni regionali ha portato all’estromissione di militanti storici, tra cui il segretario regionale della Lega Giovani Carmine Bruno ed il coordinatore provinciale Michele Gullace per favorire a Reggio Calabria l’elezione della attuale capogruppo Tilde Minasi, già consigliera regionale con la lista ‘Scopelliti Presidente’ ed espressione del Movimento per la sovranità di Gianni Alemanno.
A Cosenza, al netto degli imbarazzi causati dall’ex consigliere comunale di Corigliano Alfio Baffa per l’ormai noto video col sigaro nella vasca da bagno dove saluta il gruppo ‘Revenge porn’, è stato eletto un rappresentante della Coldiretti, Pietro Molinaro; mentre, a Catanzaro, si è preferito puntare su Filippo Mancuso, fedelissimo del ventennale Sindaco e Presidente della Provincia Sergio Abramo (vicino, ma mai troppo, a Fi), a scapito del coordinatore cittadino della Lega Antonio Chiefalo.
Sarà per questo che alle regionali calabresi Via Bellerio ha partorito un topolino: il 12,3% e 4 consiglieri, per l’appunto, non proprio ‘leghisti doc’.
Tant’è che pare, addirittura, che di recente il dirigente nazionale leghista Walter Rauti sia venuto alle mani con uno dei consiglieri eletti in un’ascensore nel palazzo della Regione (per motivi personali poi sfociati nella ‘ripicca’ annunciata dal consigliere di non voler più pagare la quota mensile al Partito).
Inoltre, oggi le federazioni, quando presenti, sono allo sfascio: a Crotone è faida tra il ‘pro-vita’ ed ex fedelissimo di Giancarlo Giorgetti, Giancarlo Cerrelli e l’attuale fedelissimo di Cristian Invernizzi, Salvatore Gaetano, mentre a Reggio Calabria è catfight quotidiano tra la capogruppo Tilde Minasi e l’anti-scopellitiano, primo dei non eletti ed ex Sindaco di Taurianova Roy Biasi.
A risolvere le beghe della Lega ci sta pensando Jole Santelli. Già , la Presidente di Regione, che nel portfolio-social vanta innumerevoli selfie con Domenico Furgiuele, qualche settimana fa ha chiamato il leader leghista per far prenotare un volo di solo andata per Milano allo ‘scomodo’ Walter Rauti, mentre in precedenza aveva risolto il ‘toto-assessori regionali’ in quota Lega facendo indicare dallo stesso Salvini per la nomina l’ex Fi e Fdi Nino Spirlì, suo grande amico; ha calmato i bollenti spiriti di Pietro Molinaro (e della Coldiretti) per la mancata nomina ad assessore all’agricoltura creando una nuova commissione regionale ad hoc (con un costo annuale di 500.000 euro) apposta per lui. Insomma, un lavorone che le farebbe meritare la doppia-tessera Fi-Lega, come fece il suo romano collega di Partito Francesco Giro qualche mese fa.
Jole Santelli ha ridimensionato prima elettoralmente e poi politicamente gli ‘invasori del nord’ che avevano il vento in poppa, ‘sventolando’ il suo supporter numero uno, il deputato di Fi Francesco Cannizzaro, che nei corridoi della Regione Calabria non fa mistero nel dire ‘finchè ci siamo noi la Lega non tocca palla’.
(da TPI)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
DOVEVA ADEGUARSI, ALLA DOMANDA DEL SINDACO “MA CE L’HAI UN CERVELLO?”, LEI RISPONDE “NON AVRO’ UN CERVELLO MA ALMENO HO UNA COSCIENZA, NON AVALLO DELIBERE ILLEGALI”… E LA MAGISTRATURA APRE UN FASCICOLO PER ABUSO D’UFFICIO
Elisa Serafini, ex assessora alla Cultura del Comune di Genova nella giunta guidata dal leghista Marco Bucci, la prima di centrodestra dal Dopoguerra, nel luglio 2018 ha dato le dimissioni.
“Mi è stato chiesto di fare delle cose incompatibili con la mia coscienza. E anche con la legge. Comandati dalla Lega, che sta egemonizzando ogni settore, con strategie clientelari. Quelle contro cui in teoria dovremmo combattere. Ho sbagliato ad assumere questo ruolo”, ha scritto lei in una serie di messaggi inviati a Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria.
Che ora sono all’attenzione della magistratura:
Il pm Francesco Cardona Albini ipotizza il reato di abuso d’ufficio, per ora contro ignoti, per le pressioni denunciate da Serafini in un dettagliato esposto —su consiglio di un famoso whistleblower, Andrea Franzoso, che denunciò gli scandali di Ferrovie Nord — per il finanziamento di una mostra sulla storia dell’acciaieria Ilva.
Inchiesta che preoccupa i due poteri della città , saldamente nelle mani del centrodestra: il sindaco Bucci e il governatore Toti,in corsa per la rielezione
Il pressing per organizzare la mostra, scrive Serafini agli inquirenti, inizia col suo insediamento, nel 2017.
Il progetto viene presentato da Paola Santini e Flavio di Muro, assistenti di Rixi, allora assessore regionale allo Sviluppo economico.
La prima proposta è un libro fotografico da 50mila euro sull’Ilva. La maggior parte dei costi (15mila euro), sarebbero andati in consulenza alla curatrice dell’evento, Chiara Mastrolilli De Angelis, nel 2017 tra i candidati non eletti con la lista civica “Vince Genova”a sostegno di Bucci.
Serafini trova il libro insolitamente caro e rifiuta.
Seguono altre due proposte: un progetto per lezioni in acciaieria alle scuole (costo, 4mila euro cadauna) e una mostra già realizzata in altre città da 30mila euro, soglia sotto la quale, sottolinea Serafini, si possono dare affidamenti diretti.
Secondo la ricostruzione della giovane, è il sindaco Bucci a mettere le cose in chiaro, durante una riunione di giunta: “Ma ce l’hai un cervello?”.“Non avrò un cervello ma almeno ho una coscienza”, la risposta, “e io marchette alla Lega non ne faccio”.
Agli atti c’è anche una misteriosa telefonata arrivata il giorno delle dimissioni dal ministero dello Sviluppo economico, in pieno governo gialloverde: “Volevano sapere se mi fossi dimessa e chi rispondeva delle azioni civili e penali. La cosa mi spaventò molto. Del tipo ‘Cara Elisa, sappiamo che hai dato le dimissioni, magari non hai il controllo degli uffici, ma sei ancora penalmente perseguibile. Forse è meglio se te ne vai’ ”.
(da “NextQuotidiano”)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
“PRIVILEGIATI I GRANDI OSPEDALI, TERRITORIO INDIFESO”…LA FUGA DEI MEDICI ALL’ESTERO PER MANCANZA DI POSTI E BASSI STIPENDI
L’analisi della Corte dei Conti sui sistema sanitario italiano è chiara: la concentrazione delle cure nei grandi ospedali verificatasi negli ultimi anni e il conseguente impoverimento del sistema di assistenza sul territorio, divenuto sempre meno efficace, ha lasciato la popolazione italiana “senza protezioni adeguate” di fronte all’emergenza Covid. L’approfondimento sulla sanità da parte dell’organo dello Stato è contenuto nell’ultimo Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica.
La crisi sanitaria, spiega la Corte, ha messo in luce anche, e soprattutto, i rischi insiti nel ritardo con cui ci si è mossi per rafforzare le strutture territoriali, a fronte del forte sforzo operato per il recupero di più elevati livelli di efficienza e di appropriatezza nell’utilizzo delle strutture di ricovero.
“Se aveva sicuramente una sua giustificazione a tutela della salute dei cittadini la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate riducendo quelle minori che, per numero di casi e per disponibilità di tecnologie, non garantivano adeguati risultati di cura, la mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate, sottolineano i magistrati contabili.
Se fino ad ora tali carenze si erano scaricate non senza problemi sulle famiglie, contando sulle risorse economiche private e su una assistenza spesso basata su manodopera con bassa qualificazione sociosanitaria (badanti), finendo per incidere sul particolare individuale, esse hanno finito per rappresentare una debolezza anche dal punto di vista della difesa complessiva del sistema quando si è presentata una sfida nuova e sconosciuta”.
A giudizio della Corte, è infatti “sempre più evidente che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità , ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto”.
Una attenzione a questi temi si è vista nell’ultima legge di bilancio con la previsione di fondi per l’acquisto di attrezzature per gli ambulatori di medicina generale, “ma essa dovrà essere comunque implementata superata la crisi, così come risorse saranno necessarie per gli investimenti diretti a riportare le strutture sanitarie ad efficienza”.
La Corte dei Conti ha poi evidenziato la “fuga” di medici dall’Italia per mancanza di posti e bassi stipendi. E’ quella dei medici italiani, in cerca di fortuna all’estero. In base ai dati Ocse negli ultimi 8 anni, sono oltre 9.000 i medici formatisi in Italia che sono andati a lavorare all’estero. Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia sono i mercati che più degli altri hanno rappresentato una soluzione “alle legittime esigenze di occupazione e adeguata retribuzione quando non soddisfatte dal settore privato nazionale”.
Una condizione che, sottolineano i magistrati contabili, “pur deponendo a favore della qualità del sistema formativo nazionale, rischia di rendere le misure assunte per l’incremento delle specializzazioni poco efficaci, se non accompagnate da un sistema di incentivi che consenta di contrastare efficacemente le distorsioni evidenziate”.
(da agenzie)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
MANIFESTAZIONE DI CITTADINI SOTTO LA REGIONE PER CHIEDERE LE DIMISSIONI DI FONTANA E GALLERA
Manifestanti sotto la sede della regione Lombardia per chiedere le dimissioni del presidente Attilio Fontana e dell’assessore al Welfare Giulio Gallera.
Al grido di “dimissioni” e con alla mano cartelli con scritte come “ora a casa restateci voi” e “Fontana dorme tranquillo noi no” circa cento persone si sono radunate sotto Palazzo Lombardia per protestare contro la gestione dell’emergenza Covid in Lombardia.
Nessun simbolo di partito in piazza
“Le cose sono andate così perchè sono state fatte delle scelte e le conseguenze delle cose fatte sono sotto gli occhi di tutti e sono ecatombe — ha detto al megafono Gea Scancarello, tra i promotori dell’iniziativa — il problema non è la movida nè l’indisciplina dei cittadini, il problema sono loro, e lo sono ogni giorno di più”.
“È doveroso interrogarsi sulle responsabilità di chi ha gestito l’emergenza coronavirus e sull’adeguatezza di queste persone al compito a cui sono preposte. La tragedia e il dolore collettivo ce ne danno obbligo morale”, si legge nel comunicato pubblicato su Facebook alla pagina Distanti ma non assenti.
“Le scelte relative alle Rsa, la mancata trasparenza sui numeri, la confusione tra dimessi dagli ospedali e guariti dal virus, l’assenza di test e tracciamento nella fase più acuta dell’emergenza come in quella attuale e la carenza di dispostivi sanitari (mascherine) compongono un lungo elenco di errori, omissioni e superficialità di cui l’assessore deve rendere conto, senza rifugiarsi nel consueto refrain dell’«attacco politico contro la Lombardia».
Al contrario, infatti, chiedere conto all’assessore dell’operato significa difendere la Lombardia e i suoi cittadini”.
(da agenzie)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
“LA REGIONE PERMETTA L’ACCESSO AI DATI COME HA CHIESTO CARTABELLOTTA, INVECE DI NEGARLI”
La regione Lombardia si difende minacciando querele per chi critica o chiede chiarezza.
Ma è una pioggia di critiche.
“Forse è il caso di fermarsi a riflettere sui numeri e sulle diverse risposte tra i vari Paesi. In Corea del Sud aumento in un giorno di 79 nuovi positivi e nuovo lockdown nell’area metropolitana di Seoul. Ieri, solo in provincia di Bergamo, aumento di 69 casi positivi. In una settimana 563 casi, pari ad una media di 80 casi al giorno. Tutti i giorni. Insomma ci vuole molta prudenza”.
Lo ha scritto su Facebook Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao Assomed, principale sindacato della dirigenza medica.
“A questo proposito – sottolinea – la Regione Lombardia nella polemica con Gimbe, invece di elargire denunce solo per mostrare i propri possenti muscoli, farebbe bene a permettere un accesso ai dati come richiesto da Cartabellotta”, il presidente della Fondazione Gimbe.
(da agenzie)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
STORIA DI UNA CITTA’ SIMBOLO DEL PARADOSSO DEL SOGNO A STELLE E STRISCE
Mentre le proteste per la morte di George Floyd — il quarantaseienne afroamericano ucciso da un poliziotto il 25 maggio a Minneapolis — si estendono a tutti gli Stati Uniti, in città regna «il caos assoluto», per usare le parole del governatore democratico del Minnesota Tim Walz.
La pandemia è un ricordo lontano per le migliaia di persone che, nonostante il coprifuoco imposto dalle autorità , si sono riversate in strada per la quarta notte di seguito. A nulla è servita la notizia dell’arresto del responsabile materiale dell’omicidio: il poliziotto bianco Derek Chauvin. Minneapolis brucia.
Eppure le Twin City — così chiamate perchè uniscono in una grande area metropolitana le due città di Minneapolis e Saint Paul — sono da sempre considerate tra le città più vivibili degli Stati Uniti.
A partire dagli anni Settanta — quando è stata approvata una sorta di “patrimoniale” che distribuiva introiti fiscali ai quartieri più poveri — Minneapolis si è periodicamente guadagnata la copertina di riviste e giornali che ne celebravano le invidiabili qualità di metropoli a misura di classe media: dal Time che nel lontano 1973 metteva in copertina l’allora governatore sorridente con una canna da pesca in mano fino a The Atlantic, che nel 2015 titolava a gran voce Il Miracolo di Minneapolis, celebrando una città in grado di accogliere e coltivare i millennial di tutta America grazie ad affitti contenuti, buoni stipendi e una qualità della vita relativamente alta.
Il doppio binario del benessere
Come spesso accade in America, basterebbe però usare il criterio razziale per avere una fotografia opposta della realtà . Se è vero che le Twin City restano fra le città migliori in cui vivere, la condizione per accedere alle opportunità cittadine è essere bianchi.
«Se guardi in superficie — ha dichiarato al New Yorker Leslie Redmond, la ventenne presidente della sezione di Minneapolis del National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) -, il Minnesota è un grande Stato. Ha un sistema sanitario e scolastico di molto superiori alla media, e può essere considerato super progressista. Ma la domanda è: per chi è un grande Stato? La risposta è semplice: per i bianchi».
Con una popolazione di 400 mila abitanti, di cui il 60% bianchi, Minneapolis è da sempre ai primi posti per povertà razziale.
Nel 2019 si è posizionata al quarto posto nella classifica delle città peggiori per neri. Due elementi su tutti spiegano l’infelice primato: gli afroamericani che vivono sotto la soglia minima di povertà sono in numero 3 volte maggiore rispetto ai bianchi e rappresentano il 60% delle vittime delle sparatorie della polizia avvenute nell’ultimo decennio.
Mentre la città cresceva, diventando sempre più inclusiva per la middle class bianca, la maggior parte degli afroamericani continuava a vivere segregata in quartieri-ghetti: vere e proprie “zone rosse”, che negli anni hanno alimentato frustrazione e rabbia da parte degli abitanti.
Le contraddizioni non finiscono qua. L’attuale capo della polizia Medaria Arradondo all’inizio della sua carriera aveva denunciato, insieme ad altri colleghi, il suo superiore Bob Kroll, che amava esibire sulla motocicletta un adesivo con la scritta “White Power”.
Certo, quel giovane intollerante alle ingiustizie ha scalato i vertici nonostante la denuncia, diventando il primo capo nero della polizia di Minneapolis. Ma Kroll è ancora presidente della Police Officers Federation of Minneapolis.
Chi è il capo della polizia Medaria Arradondo
Fin dall’inizio del suo mandato, Arradondo — che ha sostituito Janeè Harteau, primo capo donna e gay della polizia di Minneapolis — ha fatto di tutto per ricostruire la relazione e la fiducia con la comunità afroamericana.
Nel 2018 è stato lui a sospendere le operazioni sotto copertura che prendevano di mira i piccoli spacciatori di marijuana dopo che uno studio aveva rivelato che il fenomeno riguardava solo neri.
E anche gli attivisti più intransigenti gli riconoscono in questi giorni una condotta senza macchie. Ma questo non basta, o meglio, non è bastato a risparmiare l’ennesimo omicidio per mano di un poliziotto.
La nomina di Arradondo doveva realizzare la missione lasciata in eredità — nelle buone intenzioni — da Harteau: fare pulizia all’interno della polizia.
Nel 2015 la donna aveva chiesto una mano al Dipartimento di Giustizia per un’ispezione all’interno del corpo di polizia. I risultati dell’indagine erano stati chiari: troppa brutalità e pregiudizi razziali, il dipartimento doveva essere riformato.
Fatalità della sorte, nello stesso anno dell’inchiesta, un giovane afroamericano di 24 anni, Jamar Clark, veniva ucciso da due agenti. Nessuna riforma è mai arrivata, nè tanto meno i responsabili di Clark sono stati condannati.
Nonostante i tentativi degli ultimi dirigenti di democratizzare la polizia, la cultura delle forze dell’ordine — dove i bianchi continuano a essere prevalenti — è paradossalmente più legata alle origini dell’identità americana che alle conquiste sociali e civili degli ultimi decenni: per molti cops i valori continuano a essere quelli della “Ricostruzione”, il periodo successivo alla Guerra di Secessione, «quando molti dipartimenti di polizia furono creati appositamente per tenere sotto controllo le comunità di afroamericani», come spiega al Time Keith A. Mayes, docente di African American & African Studies alla University of Minnesota.
La militarizzazione della polizia
A partire dalla fine degli anni Sessanta, la polizia di Minneapolis è stata dotata di un equipaggiamento e una struttura militare.
Negli anni Ottanta, durante la guerra alla droga dichiarata da Nixon, come racconta Philip V. McHarris sul Washington Post, i poliziotti erano diventati «veri e propri soldati in prima linea per stanare aggressivamente la vendita e il consumo di droga».
Dopo la morte del diciottenne afroamericano Michael Brown, quella che ha dato il via al movimento Black Lives Matter, Obama era finalmente intervenuto, firmando un ordine esecutivo che limitava l’utilizzo di fondi federali per “militarizzare” la polizia.
La presidenza Trump ha cancellato le restrizioni, riportando la situazione all’era nixoniana. «Quei limiti si sono spinti troppo oltre — aveva dichiarato trionfante il ministro di Giustizia Jeff Sessions, annunciando la misura -. Non faremo prevalere considerazioni superficiali in materia di sicurezza pubblica».
Denunce per abusi di potere della polizia sono all’ordine del giorno nella ricca Minneapolis come in una qualsiasi città del Sud degli Stati Uniti, e la sensazione in città è che ci sia una invisibile patente di immunità per le forze dell’ordine: quasi tutti i poliziotti coinvolti nella morte di Floyd erano stati già segnalati per abuso di potere.
Il quarantenne responsabile materiale dell’omicidio — Derek Chauvin — è stato sanzionato più volte per comportamenti inappropriati nei confronti dei cittadini afroamericani. La disparità di trattamento è sotto gli occhi di tutti: quattro giorni dopo l’uccisione di George Floyd, Chauvin è stato arrestato con l’accusa di omicidio.
Nel 2017, tre giorni dopo l’uccisione della bianca Justine Ruszczyk per mano di un poliziotto nero, l’ufficiale era già stato condannato per omicidio (poco tempo dopo la famiglia della donna avrebbe avuto un risarcimento di 20 milioni di dollari).
Secondo dati raccolti dal Marshall Project, anche se i vertici locali della polizia hanno cercato di intervenire con alcuni cambiamenti, «i rappresentanti delle forze dell’ordine non hanno avuto l’autorità o la volontà di rimuovere le mele marce dal corpo di polizia e hanno fallito anche nell’individuare dei criteri chiari sull’uso della forza».
Dopo l’omicidio di Philando Castille, il 32enne afroamericano morto nel 2016 per mano di un agente di polizia durante un normale controllo, a Minneapolis non sono arrivati quei cambiamenti che molti si aspettavano.
«Le riforme messe in campo, sono state inadeguate — ha dichiarato il procuratore generale del Minnesota Keith Ellison -. La questione è stata posta sullo scaffale fino alla prossima tragedia». La pratica della strozzatura, che ha contribuito ad ammazzare l’uomo, è stata vietata in molti Stati americani perchè causa accertata di morte, ma continuava a essere praticata in libertà a Minneapolis nonostante le raccomandazioni di Arradondo.
Le buone intenzioni dei politici
Ma non è solo il capo della polizia la tessera che stona nel puzzle: il sindaco di Minneapolis Jacob Frey, un democratico bianco molto progressista — «un debolissimo sindaco di estrema sinistra» per usare le parole di Trump — ha fatto delle diseguaglianze sociali e razziali il cuore della sua propaganda elettorale e del suo mandato. Mentre da Washington gli chiedevano durezza contro i manifestanti, lui dichiarava: «Essere nero in America non deve essere una sentenza di morte», per poi aggiungere a proposito dell’incendio alla stazione di polizia: «Il simbolismo di un palazzo non può essere paragonato all’importanza di una vita».
Il Minnesota è anche lo Stato di un’altra paladina delle pari opportunità tra bianchi e neri: la papabile vice di Biden nella corsa alla presidenza, Amy Klobuchar, che dal 1997 al 2007 ha svolto il ruolo di procuratrice distrettuale della Hennepin County.
Ancora una volta, alle buone intenzioni non hanno corrisposto buone azioni: nel 2006 fu sua la decisione di non procedere contro le forze dell’ordine accusate di abuso di potere e diverse malefatte. Tra questi c’era anche il poliziotto che ha ucciso Floyd, coinvolto nell’omicidio del giovane afroamericano Wayne Reyes.
Non sono bastati due mandati di un presidente nero, nè le proteste spettacolari — smorzate negli anni da una mancanza di leadership — di Black Lives Matter: il razzismo sistemico degli Stati Uniti continua a essere parte del dna del Paese.
La poetessa afroamericana Claudia Rankine lo spiega così: « È il razzismo insito nelle forze dell’ordine che arrestano i neri, nelle corti che li giudicano, negli avvocati che non li difendono, nelle scuole che li discriminano».
Una discriminazione istituzionalizzata che — come scrive Ta Nehis Coates nel suo imprescindibile Tra me e il Mondo — dai campi di cotone arriva dritto nelle periferie delle moderne metropoli. Di certo, non sarà Donald Trump a sistemare le cose.
(da Open)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
CI SI CHIEDE: PERCHE’ PREFETTURA E QUESTURA NON SONO INTERVENUTE?
Il sindaco Sala ha chiesto che gli organizzatori della manifestazione dei cosiddetti “gilet arancioni” vengano denunciati.
A dirlo è lo stesso sindaco attraverso un post su Facebook pubblicato questo pomeriggio a poche ore dal termine del corteo di protesta che ha visto circa trecento persone sfilare in piazza Duomo a Milano, la maggior parte delle quali senza mascherine e senza il rispetto delle distanze di sicurezza.
“Ho chiesto al Prefetto di denunciare gli organizzatori della manifestazione dei cosiddetti “gilet arancioni” — ha scritto il primo cittadino — un atto di irresponsabilità in una città come Milano che così faticosamente sta cercando di uscire dalla difficile situazione in cui si trova”.
Le immagini della manifestazione a Milano hanno fatto in poche ore il giro sei social suscitando non poche reazioni da parte dei milanesi e non solo: il movimento dei “gilet arancioni”, che vorrebbe riprendere la stagione dei “gilet gialli”, è nato su iniziativa dell’ex generale dei carabinieri Antonio Pappalardo.
Le iniziative in piazza sono state organizzate in tutta Italia. A Trento si svolge una assemblea per chiedere “la fine del Governo Conte, l’elezione di un nuovo Parlamento e di un nuovo capo dello Stato, e per porre fine alla dittatura sanitaria in atto”. Inoltre c’è la richiesta di “promuovere l’introduzione di una moneta, chiamata nuova lira italica, poter sostenere le famiglie e le imprese italiane”, ha detto il coordinatore regionale Renato Calcari.
(da Fanpage)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
IL CORTEO NON ERA AUTORIZZATO, PRESENTI ANCHE ESPONENTI DI CASAPOUND
Sono 70 al momento gli identificati e denunciati per la manifestazione non preavvisata di oggi a Roma promossa dal movimento “Marcia su Roma” per protestare contro le condizioni economiche post Coronavirus.
Secondo quanto si è appreso, sono al vaglio anche le sanzioni riguardo il mancato rispetto delle norme anti-Covid: i manifestanti erano senza mascherina, non rispettavano le distanze anti assembramento e alcuni arrivavano fuori dal Lazio, violando così il divieto di mobilità tra regioni.
Nel corso della manifestazione, sono stati numerosi i momenti di tensione. I manifestanti con le braccia alzate si sono avvicinati al cordone di polizia, in tenuta antisommossa, che bloccava l’accesso a via del Corso.
Ad un certo punto, una decina di manifestanti ha provato a spingere un blindato della polizia che sbarrava la strada.
«Fateci passare» hanno urlato i manifestanti agli agenti che erano schierati in tenuta antisommossa alle palle del blindato. «Ci hanno spruzzato lo spray al peperoncino per disperderci» hanno detto i manifestanti che si sono poi effettivamente allontananti dal presidio.
(da agenzie)
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Maggio 30th, 2020 Riccardo Fucile
MA AVEVA RICEVUTO SOLO UN “RICHIAMO”, MAI UN PROVVEDIMENTO DISCIPLINARE
Dal passato dell’agente arrestato per l’omicidio di Floyd emergono nuove ombre. Derek Chauvin aveva già ucciso un sospetto, partecipato ad una sparatoria risultata fatale per un altro e ricevuto almeno 17 denunce durante i suoi quasi 20 anni di servizio al dipartimento di polizia locale.
Prima aveva prestato servizio per otto anni come membro della polizia militare nella riserva dell’esercito, che aveva lasciato senza alcun riconoscimento.
In particolare Derek Chauvin era stato uno degli agenti che durante un’azione aveva ucciso Wayane Reyes, un latino-americano, raggiunto da ben 16 proiettili
Una “perversa indifferenza alla vita”, come ha dichiarato il procuratore Mike Freeman che ha ufficializzato l’arresto.
Chauvin, accusato di omicidio di III grado rischia 25 anni di carcere. Secondo quanto riportato dalla stampa Usa, sembrerebbe che fosse solo questione di tempo prima che Chauvin fosse coinvolto in un caso simile: nei suoi 19 anni nel dipartimento di polizia di Minneapolis, come detto, figurano diciassette denunce per il suo comportamento violento, ma non era mai stato avviato nessun procedimento disciplinare, tranne che in un solo caso in cui gli era stata inviata una lettera di richiamo.
(da agenzie)
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