Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
GOVERNO E REGIONI SI CONTENDONO REGOLE E SI RIMPALLANO RESPONSABILITA’ (CON FONTANA CHE PROVA A FARE IL FURBO)… ALLE 18 FINALMENTE ARRIVA IL DECRETO MA MOLTI DOMANI NON AVRANNO NEANCHE IL TEMPO DI ADEGUARSI… CONE DICEVA LONGANESI: “DESCRIVERE IL VAGO CON ESTREMA PRECISIONE”
Un grand commis di Stato racconta che ci sono problemi politici, ma anche umanissimi e tragicomici problemi da riunione di condominio: “Ieri, per dire, abbiamo passato mezz’ora inchiodati su un punto. Mezz’ora di accese discussioni se in un passaggio nemmeno poi così rilevante dovessimo scrivere ‘preso atto’ oppure ‘sentito’. E ti sto facendo solo un esempio”.
Tre giorni di Consiglio dei ministri a tappe, riunioni, vertici notturni, lavorio d’uffici per sfornare le centoquaranta pagine (venti di Decreto del presidente del consiglio, più centoventi di relativi allegati) che determineranno il futuro del paese e “descrivere il vago con estrema esattezza”, per dirla con Leo Longanesi.
Verso le 18 arriva la firma di Giuseppe Conte, quasi 24 ore dopo l’annuncio in conferenza stampa con i giornalisti, mentre per tutto il giorno da Palazzo Chigi si spiegava che si era in attesa dell’ultima versione delle linee guida delle Regioni, mentre i governatori protestavano che, in assenza di dpcm, non si potevano emettere le ordinanze regionali.
È partito un gioco al rimbalzo delle responsabilità . “Non possono addossarle tutte a noi”, dicono a microfoni spenti diversi governatori. È Vincenzo De Luca a imbracciare il proverbiale lanciafiamme: “C’è un clima di confusione: dovremo aprire domattina, ma noi non apriamo nè i ristoranti, nè i pub, nè altro per serietà . Abbiamo deciso di avere una interlocuzione con le categorie economiche per prepararli alla sanificazione a procurarsi pannelli”.
Tutto rimandato al 21 in Campania, così come il Piemonte ha deciso di differire la riapertura, ma per cautele legate al contagio.
In particolare De Luca contesta il monitoraggio che le Regioni devono effettuare sul contagio: “Su alcune norme di sicurezza generale deve pronunciarsi il Ministero della Salute, non è possibile che il Governo scarichi opportunisticamente tutte le decisioni sulle Regioni. Non è accettabile”.
Il rimpallo tra enti locali e Governo è continuo. Dopo aver rivendicato autonomia delle scelte per settimane, la palla della responsabilità scotta tra le mani dei governatori. Attilio Fontana, con alcune piccole differenze, ha deciso di rischiare e di seguire le linee guida per le riaperture, nonostante le centinaia di morti giornaliere.
È stato proprio il presidente della Lombardia nella riunione notturna di domenica a contribuire all’ennesimo supplemento di discussione. La Conferenza delle Regioni ha preteso di inserire le proprie linee guida tra gli allegati del dpcm, incontrando la resistenza del giurista Conte, per la mancanza di forza di legge del testo.
Qui Fontana ha provato a inserirsi, chiedendo una messa a punto delle norme nel testo, un nuovo confronto, magari un ulteriore passaggio con l’Inail.
A questo punto sia il premier sia il presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini hanno sentito puzza di bruciato.
Un esponente di Governo la spiega così: “La Lombardia è stata un disastro, e Fontana lo sa. Però non poteva permettersi di non riaprire con gli altri, avrebbe certificato la sua difficoltà , il suo fallimento, così ha provato a rimandare”.
Perchè ricominciare il gioco dell’oca di una nuova definizione delle regole avrebbe naturalmente portato a una dilazione dei tempi.
In questo puzzle dell’assurdo si metta anche in conto di una riunione finita alle 4 del mattino perchè, trovato faticosamente un accordo, non si riusciva a reperire Roberto Speranza.
“Serve il suo ok”, ha spiegato Conte, estensore del dpcm “su proposta del ministro della Salute”. Buttato finalmente giù dal letto il ministro, ecco l’avallo, seguito da una giornata intera di limature e correzioni al testo fino alla firma serale.
La cornice fornita da Palazzo Chigi dovrà essere riempita ora dalle singole ordinanze regionali. “Siamo pronti, aspettavamo solo il testo”, rispondono in coro Toti, Zaia, Bonaccini, Santelli.
Commercianti e imprenditori vengono messi a conoscenza dei criteri ufficiali per ripartire a poche ore dalla ripartenza. “È un pasticcio – spiega un dirigente del Pd – in tanti domani, magari anche dopodomani, rimarranno con la saracinesca chiusa, non puoi ridurti così all’ultimo, è anzitutto una questione di rispetto per i cittadini in difficoltà “.
Cittadini che dovranno fare lo slalom tra le peculiarità di ogni singolo territorio. A Milano e dintorni le mascherine saranno un obbligo anche all’esterno, nel Lazio la distanza da rispettare per le attività e per i servizi al pubblico sarà di un metro e mezzo anzichè di uno, la Toscana, visto il poco tempo, si riserva di emanare protocolli integrativi.
La Fase 2 da pianificazione accurata che doveva essere si è trasformata in una corsa affannosa piena d’inciampi e incertezze. Descrivere il vago con estrema esattezza.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
IL FONDATORE DEL CENSIS: “NEL DOPOGUERRA LO STATO FORNI’ GLI STRUMENTI PER LA RICOSTRUZIONE, MA POI FURONO GLI IMPRENDITORI A PRENDERE INIZIATIVE, NON STETTERO AD ASPETTARE CONTRIBUTI A FONDO PERDUTO”
Dal suo punto di vista, la questione va ribaltata: “Io sono spaventato dalla depressione del desiderio che vedo arrivare. La ripresa la fanno le persone, non il governo. Se lo stato ti dà i soldi per comprare una bicicletta, il denaro per pagare la baby sitter, gli incentivi per andare in vacanza, se cioè si preoccupa di non farti mancare niente, uccide l’iniziativa. Castra la libido. Il desiderio nasce dall’assenza. La pioggia di bonus, invece, lo spegne. Raffredda lo slancio. Inibisce la carica erotica del Paese”.
Da settant’anni impegnato a decifrare i movimenti sommersi della società italiana, Giuseppe De Rita è restio a dar troppa importanza a ciò che si vede a reti unificate: “Non ci credo a questa storia che i Dpcm, la decretazione d’urgenza, tutto il repertorio giuridico dell’emergenza, incideranno nei rapporti tra il parlamento e il governo, danneggiando la Costituzione. Nel caso so che potremmo contare su un certo numero di cani da guardia. Quello che mi preoccupa è la costituzione psicologica dell’Italia. Perchè la società non è fatta di circolari, di ordinanze, di protocolli. È fatta di testa, mani, rabbia, fantasia, ansia, voglia. Uno Stato che non sollecita le imprese del singolo, non incita l’attività , scoraggia i progetti, produce inerzia, attesa, rassegnazione. Nessuno si è mai ripreso così”.
Ottantotto anni, fondatore del Censis, De Rita non ha più l’età per ascoltare le indicazioni del comitato tecnico scientifico: “Quando qualcuno mi incontra sul marciapiede, mi guarda con angoscia. Io detesto la mascherina e mi rifiuto di indossarla. Questo sconcerta. Le persone mi vedono e raggelano. Poi, cambiano strada. Mi stupisco ogni mattina della paura che vedo in giro. Lei se lo sarebbe mai aspettato? Non dico i lombardi e i veneti — per loro era ovvio. Io dico tutti gli altri. Anche a Roma c’è gente terrorizzata. Un vecchietto, al semaforo, mi ha visto in macchina senza mascherina e ha iniziato a urlare ai carabinieri: ‘Arrestatelo, arrestatelo!”. Io sono un uomo vecchio. Ho vissuto la mia vita. Che vuole che me ne freghi di disinfettarmi le mani ogni quarto d’ora. Se è arrivato il momento di morire, morirò e amen”.
Non la preoccupa neanche la crisi economica?
Mi preoccupa l’idea che sarà lo Stato a tirarci fuori da questa situazione. Ho sentito più volte accostare il dopo pandemia al secondo dopoguerra. Molti dimenticano che la ricostruzione non l’ha fatta il governo. L’hanno fatta milioni di persone. Chi costruendo una casa, chi tirando su un’azienda, chi facendo una stradina per raggiungere un pezzo di terra.
Lo Stato non doveva intervenire?
Negli anni della ricostruzione, lo Stato si è mobilitato per fare ciò che i singoli non potevano fare. Infrastrutture, sistemi industriali, reti elettriche. Questo dovrebbe essere lo spazio dell’intervento statale anche oggi: fornire strumenti per stimolare l’iniziativa imprenditoriale, non distribuire sovvenzioni ad personam”
In realtà , c’è chi lamenta che i soldi siano stati solo promessi.
Ma, dal punto di vista della psicologia sociale, promettere equivale a erogare. L’annuncio mette in moto un’onda di soddisfazione che fa calare il desiderio, soffocando il bisogno di cui si nutre. Il capitalismo avanzato è un maestro in materia. Moltiplicando la disponibilità di beni, ne diminuisce la desiderabilità . Se posso avere tutto, non ho voglia di niente.
Era meglio governare di meno l’emergenza?
Le persone stavano morendo, i posti in terapia intensiva erano pochi, la gente era spaventata. Era necessario intervenire velocemente. La verticalizzazione è stata naturale. Del resto è avvenuta in tutti i paesi del mondo.
Si aspettava la disciplina degli italiani?
Non è stata disciplina: è stata paura. Le persone sono rimaste a casa per non essere contagiate. È stata una questione di vita o di morte. Non hanno accettato le limitazioni per assolvere a una missione nazionale.
Era scontato?
No, però l’Italia non era in una fase di slancio nè economico nè sociale nè culturale. Staccare la spina — non dico che sia stato facile — ma è stato meno doloroso di quanto lo sarebbe stato in altri momenti della nostra storia.
Quando finirà , con chi ce la prenderemo?
Con nessuno. È difficile dare la colpa di quello che è successo a un cattivo da trasformare in capro espiatorio. Durante Tangentopoli, colpevoli ne avevamo quanti ne volevamo. C’erano le mazzette, i partiti corrotti, Craxi e tutti gli altri politici da additare. Oggi l’assassino è un microbo. Si vede solo al microscopio. Mi sembra difficile riuscire a linciarlo in piazza
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
NON BASTANO LE MARCHETTE AI CACCIATORI, ORA PURE AI BRACCONIERI… IN LOMBARDIA IL 31% DEI REATI COMMESSI IN ITALIA
“Chiediamo alla Regione di non fare un regalo ai bracconieri”. È questo l’appello lanciato dalle Guardie Venatorie Volontarie lombarde del WWF impegnate in prima linea nella lotta al bracconaggio.
Puntano il dito contro un emendamento proposto dal consigliere leghista Floriano Massardi che prevede l’obbligo di indossare un giubbino e un copricapo ad alta visibilità “per prevenire incidenti”. L’emendamento è stato già approvato in Commissione VIII e la prossima settimana dovrebbe andare in Aula per la votazione ma le guardie lombarde chiedono di eliminarlo.
“Usano l’argomento della sicurezza — denuncia il coordinatore regionale delle Guardie Venatorie Volontarie lombarde Antonio Delle Monache — ma in tutto il mondo è chi pratica l’attività venatoria a dover essere casomai visibile. Così il nostro lavoro diventa sempre più di difficile”.
Durante la stagione della caccia, le guardie pattugliano i boschi e le pianure lombarde collaborando con le altre forze di polizia.
“I bracconieri sono per il 60% dei cacciatori con licenza, il 40% sono persone senza licenza — spiega una delle guardie volontarie, Filippo Bamberghi — in Lombardia cacciano prevalentemente uccelli migratori sia per scopi ludici sia per scopi economici”.
Stando ai dati forniti dalle guardie, la Lombardia è la maglia nera del bracconaggio con il 31% dei crimini commessi in tutta Italia.
Le Guardie Volontarie contribuiscono a segnalare un terzo dei reati di questo tipo. Un’attività che, secondo loro, potrebbe essere compromessa dall’approvazione di queste modifiche e per questo hanno lanciato una petizione anche su change.org per chiedere alla Regione di ritirare le modifiche alla legge.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
IL RICATTO DELLE GARANZIE SUL PRESTITO DA 6,3 MILIARDI DOPO CHE GLI AZIONISTI L’ANNO SCORSO SI SONO DIVISI 5,5 MILIARDI
I nodi vengono al pettine. Ed è chiaro a tutti che l’attacco concentrico al governo Conte, guidato lancia in resta dalla nuova Confindustria di Bonomi, non era affatto un’operazione neutrale.
Nè semplicemente il grido di dolore di un pezzo del mondo delle imprese davanti all’incedere di una crisi economica senza precedenti.
Tradotto in italiano, era soltanto un modo tutt’altro che sofisticato di battere cassa.
Lo sconto Irap generalizzato nel mese di giugno ne è l’esempio più palese e sfacciato.
Lo prende chi ha pagato un prezzo al lockdown e chi ha quasi raddoppiato il fatturato.
Tutti uguali, tutti sanati. Ancora una volta un pezzo delle classi dirigenti soffia sul fuoco del populismo antisistema per guadagnarci qualche soldo.
Sollevano il rischio di rivolta sociale la mattina, ma la notte trattano gli sgravi.
La storia è antica: fa parte del rapporto irrisolto tra le famiglie principali del capitalismo italiano e lo Stato. Quei 4 miliardi — maledetti e subito — potevano essere orientati alla domanda, alla qualità degli investimenti, all’innovazione tecnologica. Se servivano — e servono eccome — risorse per rilanciare il nostro tessuto imprenditoriale, la logica del fondo perduto a lungo termine rischia di fotografare soltanto la situazione esistente.
Che non era buona nemmeno prima della pandemia, con un’incapacità del nostro sistema economico — soprattutto nelle fasce produttivo a basso valore aggiunto — di stare sul mercato internazionale.
Già , perchè nessuno lo ammetterà mai, ma la crisi di domanda era già evidente prima del Covid.
Un’interpretazione rigida del divieto degli aiuti di stato voluti dall’Unione europea ha impedito al nostro paese di proteggere l’industria nazionale o per lo meno di avanzare fusioni internazionali senza apparire come un partner di secondo livello.
E oggi, dopo l’abbuffata dell’Irap, fa molto discutere il tema del ricorso al credito garantito dallo Stato da parte di alcune grandi imprese. Lo fanno anche quelle che negli anni hanno portato sede legale e sede fiscale altrove. Cosa che non è accaduto in Germania.
La Volkswagen, Bmw e Mercedes pagano le tasse laddove producono e fanno profitti. Oppure la Francia dove Renault in un paradiso fiscale sarebbe impensabile.
Al netto del giudizio morale – dopo che soltanto quest’anno gli azionisti si sono spartiti cinque miliardi e mezzo di dividendi dell’Fca non appena consumato il matrimonio con La Peugeot – colpisce la richiesta di 6,3 miliardi di prestiti.
Il messaggio è implicito: o ci date questi soldi oppure prendiamo baracche e burattini e trasferiamo altrove.
D’altra parte per chi viaggia tra Detroit, Amsterdam e Londra, gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco piuttosto che di Melfi non sono altro che lucine accese sul mappamondo di una grande multinazionale. Possono tranquillamente essere spente e riaccese altrove.
Ricatto? Certamente. Possibilità di evitare questo ennesimo maxiprestito con danaro pubblico? Quasi nessuna.
E oggi fanno sorridere i tanti che si strappano le vesti, dopo aver indossato per anni maglioncini alla Marchionne, che quando la Fca scelse di lasciare il paese dall’alto dei ministeri economici che occupavano non dissero nulla, magari accusando il sindacato di essere conservatore perchè non comprendeva il valore dell’internazionalizzazione della casa automobilistica di Torino.
A chi batte cassa vanno poste delle condizioni: se lo Stato paga, soprattutto per chi ha esposizioni bancarie notevoli, ha il diritto di dire qualcosa.
Ad esempio l’ingresso dei lavoratori nella gestione diretta delle aziende (una volta era uno dei cavalli di battaglia della destra sociale), nella pianificazione degli investimenti, nell’orientamento dell’automotive sulla frontiera dell’ibrido, dove Fca sconta il ritardo più grande. Significa in parole povere dare avvio a una nuova stagione di politiche industriali. Che è qualcosa di più di aprire il Bancomat degli sgravi.
(da Globalist)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
E GUARDA UN PO’: I RISPARMI DEGLI ITALIANI IN BANCA SONO SALITI DI 20 MILIARDI… CIRCA 15.000 MILIARDI DI RISPARMI MA TUTTI PIANGONO MISERIA E CHIEDONO SOLDI A FONDO PERDUTO
Il nostro Paese non ha mai avuto una performance così negativa. Secondo la Bce, in media, stanno lasciando l’Italia 16 miliardi al giorno di capitali investiti.
Al contempo crescono i risparmi: i conti in banca sono saliti di 20 miliardi. Ma l’economia è paralizzata.
L’Italia potrebbe mettere di più sul piatto — secondo l’economista francese Jean Paul Fitoussi – “ma la sorveglianza dei mercati su Roma è diventata molto aggressiva”.
La conferma viene dal collocamento sui mercati dei titoli di Stato.
Per una scadenza a soli 5 anni, il Tesoro ad aprile ha dovuto offrire un rendimento nettamente superiore a quello ad esempio del trentennale spagnolo.
E il trentennale italiano offre quasi il doppio dell’omologo emesso da Madrid.
Fa riflettere anche il dato che i conti in banca degli italiani siano aumentati di 20 miliardi, portando il totale dei risparmi a circa 1.500 miliardi.
Sono risparmi “diffusi” non quindi solo in mano a pochi privilegiati. Sarebbe interessante sapere quanti di costoro siano tra quelli che strillano “non abbiamo neanche i soldi per mangiare” o “senza contributi a fondo perduto saremo costretti a chiudere l’attività “.
Fa testo che tra i beneficiari dei 600 + 600 + 1000 euro destinati ad autonomi e professionisti, il 50% annovera oltre 50.000 euro depositati in banca.
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
SALE LA TENSIONE SOCIALE, MA PATUANELLI CON 150 EMERGENZE AZIENDALI NON HA NEANCHE ASSEGNATO LE DELEGHE AI SUOI VICEMINISTRI
“Può sembrare un paradosso, ma dobbiamo ringraziare Covid-19 e i divieti di spostamento perchè altrimenti qui sotto avremmo qualche problema a gestire le proteste degli operai. E non solo di quelli dell’Ilva”.
“Qui sotto” è via Molise, a Roma, e a parlare è un alto dirigente del ministero dello Sviluppo Economico, che chiede di mantenere l’anonimato. Poche parole per fotografare il caos della politica industriale italiana, il caotico vuoto di sempre aggravato dall’allarme sanitario.
Tanto da far temere il peggio in vista del riemergere delle tante crisi aziendali temporaneamente congelate dall’avvento del coronavirus. Ilva in primis, con le tensioni sociali di questi giorni negli stabilimenti di Taranto e Genova, sottoposti ad una grottesca altalena di cassa integrazione, avvisaglia di quello che potrà accadere nelle prossime settimane.
“E non voglio neanche pensare a quando, dopo l’estate, finiranno gli ammortizzatori sociali Covid, la moratoria sui licenziamenti e il re tornerà nudo…”.
Ilva, Whirlpool, Blutec, Wanbao, Jindal Piombino, Embraco, Bekaert…da Nord a Sud la geografia del declino industriale italiano: 150 emergenze irrisolte che coinvolgono 250mila lavoratori.
A inizio marzo era stato raggiunto un accordo tra ArcelorMittal e il governo per tentare il rilancio della più grande acciaieria d’Europa (solo a Taranto occupa oltre 8.000 lavoratori diretti, più altre migliaia dell’indotto) con una partnership pubblico-privata e con un progetto green di parziale decarbonizzazione.
Ma da quel momento nulla si è mosso e, anzi, è come se le lancette fossero state riportate indietro di mesi, creando le condizioni ideali per il disimpegno del gruppo franco-indiano. Così l’emergenza Covid è diventato il nuovo alibi dei Mittal (come lo era stato quello della cancellazione dello scudo penale) per prepararsi all’abbandono del nostro Paese e concentrarsi sulla picchiata dei ricavi del gruppo a livello globale per il crollo della domanda mondiale di acciaio (nel primo trimestre dell’anno, solo in parte influenzato dalla crisi sanitaria, il fatturato è sceso del 22,6% e la perdita è stata superiore al miliardo di dollari).
L’ennesimo errore strategico del governo che, appunto, prima con lo “stop and go” sulla tutela penale dei manager e ora con la clausola, inserita nell’accordo di marzo, che consente ai Mittal di sfilarsi pagando una penale di 500 milioni, si è sempre collocato in posizione svantaggiata davanti alla controparte.
È il risultato della confusione che regna sovrana al Mise dove il ministro Stefano Patuanelli, a otto mesi dall’insediamento, non ha ancora assegnato le deleghe ai sottosegretari (emarginando in particolare i rappresentanti dem, Gianpaolo Manzella e Alessia Morani) e dove si sovrappongono troppi organismi e troppi “master and commander”: la Direzione della politica industriale, riformata da Luigi Di Maio un attimo prima di passare le consegne a Patuanelli, e guidata ora da Mario Fiorentino che è succeduto al navigato Stefano Firpo; il nuovo capo di gabinetto, Francesco Fortuna, che era il vice di Vito Cozzoli (passato alla presidenza di Sport e Salute) ma la cui poltrona viene data già per traballante; il segretario generale del ministero, Filippo Barca; la task force delle crisi industriali, guidata da Giorgio Sorial che, oltre ad aver ereditato lo scomodo ruolo da un altro grand commis come Giampiero Castano, ha cercato fin qui vanamente maggior supporto dal ministero stesso.
Nè ha aiutato, restando al caso Ilva, il rimbalzo di competenze tra Mise, Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. “La realtà è che nessuno si sta veramente occupando dell’Ilva”, dice chi frequenta i piani alti del Palazzo dell’Industria.
In realtà qualcuno il dossier sul tavolo ce l’ha, ed è Invitalia che è il soggetto statale candidato a rilevare una quota del 40-45% nell’azienda siderurgica. Ma oltre al macigno precipitato sulla società pubblica di promozione industriale, con l’incarico totalizzante di commissario Covid assegnato al suo presidente Domenico Arcuri, il lavoro sul fronte Ilva procede a malapena proprio per l’assenza di sponde solide sul fronte politico, pronto oltretutto ad esplodere di nuovo sul caso siderurgia, tra Pd, Cinque Stelle (con le loro divisioni interne) e Italia Viva.
E, guardando all’altra metà campo, per la linea tenuta da ArcelorMittal che, anche in seguito a Covid e ai relativi problemi di cassa, è in ritardo nei pagamenti dell’indotto, dell’affitto ai commissari Ilva e nel rispetto delle scadenze Aia.
Per questo l’azienda aveva chiesto al governo la garanzia statale su un prestito da 400 milioni di euro, proposta non accolta perchè ArcelorMittal non ha ancora presentato il piano industriale di rilancio (si vocifera che in realtà quello predisposto dall’ad Lucia Morselli sarebbe pronto, ma che mancherebbe il placet dei Mittal a conferma del raffreddamento dei rapporti con la manager) e, soprattutto, perchè non dà rassicurazioni sulla volontà di rimanere.
I lavoratori dell’Ilva di Genova, un migliaio, sono già in sciopero e hanno annunciato per lunedì un’assemblea davanti ai cancelli della fabbrica. È la prima protesta operaia al tempo del coronavirus, ma non in difesa della salute.
Il migliaio di “caschi gialli” genovesi, come gli oltre ottomila a Taranto, e con loro tutti i 250mila delle crisi industriali italiane continuano la resistenza per il posto di lavoro.
(da “La Repubblica”)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
L’ESILARANTE TITOLO: “GIU’ LE MANI DALLA LOMBARDIA”… IL PROPRIETARIO DI “LIBERO” E’ IL RE DELLE CLINICHE PRIVATE ANGELUCCI… FORMIGONI FU CONDANNATO A 5 ANNI E 10 MESI PER “MERCIMONIO DELLA PROPRIA FUNZIONE”
“Gli errori li ha fatti il governo. Giù le mani dalla Lombardia“. E’ il titolo del colonnino che compare a pagina 9 dell’edizione odierna di Libero. Si parla di sanità e della gestione lombarda della pandemia.
Chi è l’autore dell’articolo? Roberto Formigoni, l’ex governatore condannato in via definitiva a 5 e 10 mesi per corruzione nella sanità per il caso Maugeri-San Raffaele (da luglio scorso ai domiciliari) nonchè condannato dalla Corte dei conti a versare 47,5 milioni di euro — in solido con gli altri protagonisti della vicenda — per il danno erariale arrecato alla Regione Lombardia.
Tradotto: un condannato per tangenti nella sanità che difende la sanità lombarda (la stessa che ha contribuito a cambiare nei suoi 18 anni alla guida del Pirellone) sul giornale edito dalla famiglia Angelucci, i re delle cliniche private.
Al netto del pedigree e della fedina penale di autore ed editore della difesa d’ufficio di Fontana, val la pena riportare alcuni passi dell’articolo del ‘Celeste’.
Formigoni innanzitutto attacca i 5 stelle, che nelle scorse settimane hanno chiesto il commissariamento della Regione, che a loro dire ha gestito malissimo l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus. Per l’ex governatore, però, Fontana e Gallera non hanno alcuna responsabilità : secondo l’ex parlamentare il problema è che la Lombardia è stata colpita poichè è un territorio iperdinamico e con solidi rapporti commerciali con la Cina. Nel giochino dell’attribuzione delle colpe, a detta del Celeste gli errori sono stati del governo e di alcuni sindaci: il primo ha chiuso solo i voli diretti per e dalla Cina, senza pensare agli scali; “e poi ha perso tempo nella proclamazione della zona rossa nelle valli bergamasche, che solo il governo aveva uomini e mezzi per decidere e far rispettare“.
Il tutto in barba all’ammissione dell’assessore regionale al Welfare Gallera, che nella querelle con Roma su chi potesse decretare la zona rossa, è stato costretto ad ammettere che la Regione poteva farlo ma decise di aspettare il governo, che a sua volta — questo sì — decise di non chiudere il Bergamasco.
Formigoni poi ammette che l’operato del Pirellone non è stato perfetto, sostiene che “tutto andrà esaminato nel momento opportuno”, ma poi assolve Fontana e Gallera perchè “al confronto con i grossolani errori del centro, governatori e assessori regionali escono assolti”.
Quella dell’ex governatore lombardo è naturalmente un’opinione, che in quanto tale non può che essere legittima per definizione. I fatti, invece, li accerteranno i magistrati e, in caso di processo, i giudici.
Diverso è il discorso circa l’opportunità morale e politica di un intervento del genere. E visto che le sentenze sono fatti e non opinioni, vale la pena riportare quella dei giudici di Cassazione, che il 21 febbraio 2019 hanno condannato Formigoni a 5 anni e 10 mesi di carcere per corruzione nella sanità : “Per quanto sul piano formale il Presidente della Regione non fosse il responsabile delle decisioni” in materia di sanità , “è stato accertato come il Formigoni di fatto avesse un totale predominio nella concreta procedura dei provvedimenti in questione”, ossia le delibere per “varie decine di milioni di euro” dati indebitamente alle Fondazioni Maugeri e San Raffaele che, corrompendo il ‘Celeste’, volevano “sterilizzare i risultati negativi” dei tagli alla sanità privata ottenendo dalla Regione Lombardia “provvedimenti favorevoli”.
I supremi giudici, parlando di “mercimonio della propria funzione” in riferimento a Formigoni, hanno ricordato sul fiume di soldi pubblici così erogato in favore delle fondazioni Maugeri e San Raffaele, “risultava del tutto pretermesso il parere contrario della Struttura tecnica che aveva rilevato la erroneità di impostazione dei rimborsi. Il risultato” era che “la quantificazione del dovuto era falsata in favore del privato e a danno del pubblico“.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
LA BRUTTA FIGURA DEI SOVRANISTI: CHE SENSO HA VOLER A TUTTI COSTI FAR PASSARE PER “PRODOTTE DA AZIENDE PIEMONTESI” MASCHERINE CHE FAI CONFEZIONARE IN MAROCCO E IN CAMPANIA?
Repubblica ha riportato tra gli altri il post di Mauro Salizzoni, ex re dei trapianti di fegato e ora vicepresidente del Consiglio regionale: “Io, residente a Torino, non ho ancora ricevuto la mascherina della Regione. E voi? Lasciate un commento qua sotto dicendomi se vi è arrivata e, se volete, il comune di residenza (oppure mandatemi un messaggio in privato). Vedo da queste foto, che circolano in rete, che l’operazione autarchica sta andando sempre più a bagno”, e il riferimento è appunto alla famosa etichetta “Made in Marocco”.
Lo stesso sarcasmo ha usato Carlo Bogliotti, direttore editoriale di Slow Food Edizioni, che almeno la mascherina l’ha ricevuta e sempre su Facebook ha scritto ironicamente: “Ho ricevuto grazie all’amministratore di condominio le mascherine promesse dalla Regione Piemonte. Molto gradite e anche comode, ne avevo bisogno e sono contento e grato di averle a disposizione mia e dei miei famigliari. Solo non pensavo che il Marocco fosse in Piemonte…”.
La Regione è intervenuta con un comunicato stampa che ha spiegato come mai c’è quell’etichetta in alcune (non tutte) le mascherine che arrivano ai piemontesi: “Si specifica che l’appalto per la realizzazione di 5 milioni di mascherine lavabili da distribuire gratuitamente a tutti i piemontesi è stato dato, attraverso bando di gara Scr, a tre aziende piemontesi. Le aziende Casalinda e Pratrivero si avvalgono della propria filiera di produzione, che include partner fuori dal territorio piemontese, ma comunque italiani. La ditta Miroglio, invece, si avvale del proprio stabilimento produttivo del Gruppo Miroglio in Marocco per una piccola parte della produzione destinata al Piemonte, circa 350mila mascherine su 2 milioni”
Sulla busta intestata non c’è scritto “prodotto e confezionato in Piemonte” ma “da aziende piemontesi”, il che è formalmente vero visto che le ditte che le hanno prodotte hanno la sede in Piemonte.
Le altre due aziende citate però confezionano le mascherine in Campania. Ma anche qui non c’è problema perchè la loro sede è in Piemonte.
O meglio: è esattamente con questo tipo di giochi di parole che la politica frega la cittadinanza: è formalmente vero che le aziende che hanno confezionato le mascherine sono piemontesi (e così la Regione può scriverlo bello grande sulla confezione) così come è sostanzialmente vero che quelle mascherine non sono state prodotte in Piemonte ma in Marocco e in Campania.
E così chi le riceve potrà rallegrarsi dell’autarchia in salsa di bagna cà uda con cui l’ente ha maschiamente risolto penuria di un bene di prima necessità , mentre chi ha lavorato davvero per produrle magari in Piemonte non ci ha mai messo piede.
Un barbatrucco che oggi serve per le mascherine e domani chissà .
(da “NextQuotidiano“)
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Maggio 17th, 2020 Riccardo Fucile
NELL’INTERVISTA AL GUARDIAN ANCHE UN RIFERIMENTO ALLA PRESSIONE PER FAR RIPARTIRE AD OGNI COSTO I CAMPIONATI: “DIFFICILE PER UN GIOCATORE RIMANERE CONCENTRATO MENTRE IL PAESE VIVE UN MOMENTO DIFFICILE”
Gianluca Vialli sta bene. Oggi, a 55 anni, dopo aver lottato e vinto contro il tumore, è dirigenteaccompagnatore della Nazionale.
Ha masticato pane e pallone da sempre, il calcio è stato (ed è) più di un mestiere: una ragione di vita che nemmeno la malattia ha potuto smorzare.
Ed è anche per questo motivo che, quando il reporter del The Guardian (tabloid inglese) gli chiede quando, se e fino a che punto è giusto che la Serie A riprenda, risponde mescolando sentimento e ragione assieme alla “compassione”. Non pietà o pena ma condivisione delle emozioni.
“Se fossi ancora un calciatore — ha ammesso Vialli — non so fino a che punto potrei essere concentrato solo sul calcio. È difficile farlo sapendo che le persone stanno ancora morendo”
Il calcio può essere uno strumento per alleggerire la tensione e aiutare le persone a lasciare alle spalle angosce quotidiane e preoccupazioni per il futuro? Argomento davvero scivoloso, difficile da sostenere soprattutto in un momento così delicato per la vita del Paese.
Le conseguenze economiche della pandemia da Covid-19 hanno avuto un impatto devastante sul mondo del lavoro
Vialli non cede alla retorica e resta nel solco del suo ragionamento. Quel “ai calciatori non saprei cosa dire nè quali consigli dare in questo momento” dà l’esatta misura di come sia difficile guardare avanti nonostate tutto.
(da Fanpage)
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