ILVA E ALTRE CRISI INDUSTRIALI: SULLA POLITICA INDUSTRIALE LINEA DEL GOVERNO NON PERVENUTA
SALE LA TENSIONE SOCIALE, MA PATUANELLI CON 150 EMERGENZE AZIENDALI NON HA NEANCHE ASSEGNATO LE DELEGHE AI SUOI VICEMINISTRI
“Può sembrare un paradosso, ma dobbiamo ringraziare Covid-19 e i divieti di spostamento perchè altrimenti qui sotto avremmo qualche problema a gestire le proteste degli operai. E non solo di quelli dell’Ilva”.
“Qui sotto” è via Molise, a Roma, e a parlare è un alto dirigente del ministero dello Sviluppo Economico, che chiede di mantenere l’anonimato. Poche parole per fotografare il caos della politica industriale italiana, il caotico vuoto di sempre aggravato dall’allarme sanitario.
Tanto da far temere il peggio in vista del riemergere delle tante crisi aziendali temporaneamente congelate dall’avvento del coronavirus. Ilva in primis, con le tensioni sociali di questi giorni negli stabilimenti di Taranto e Genova, sottoposti ad una grottesca altalena di cassa integrazione, avvisaglia di quello che potrà accadere nelle prossime settimane.
“E non voglio neanche pensare a quando, dopo l’estate, finiranno gli ammortizzatori sociali Covid, la moratoria sui licenziamenti e il re tornerà nudo…”.
Ilva, Whirlpool, Blutec, Wanbao, Jindal Piombino, Embraco, Bekaert…da Nord a Sud la geografia del declino industriale italiano: 150 emergenze irrisolte che coinvolgono 250mila lavoratori.
A inizio marzo era stato raggiunto un accordo tra ArcelorMittal e il governo per tentare il rilancio della più grande acciaieria d’Europa (solo a Taranto occupa oltre 8.000 lavoratori diretti, più altre migliaia dell’indotto) con una partnership pubblico-privata e con un progetto green di parziale decarbonizzazione.
Ma da quel momento nulla si è mosso e, anzi, è come se le lancette fossero state riportate indietro di mesi, creando le condizioni ideali per il disimpegno del gruppo franco-indiano. Così l’emergenza Covid è diventato il nuovo alibi dei Mittal (come lo era stato quello della cancellazione dello scudo penale) per prepararsi all’abbandono del nostro Paese e concentrarsi sulla picchiata dei ricavi del gruppo a livello globale per il crollo della domanda mondiale di acciaio (nel primo trimestre dell’anno, solo in parte influenzato dalla crisi sanitaria, il fatturato è sceso del 22,6% e la perdita è stata superiore al miliardo di dollari).
L’ennesimo errore strategico del governo che, appunto, prima con lo “stop and go” sulla tutela penale dei manager e ora con la clausola, inserita nell’accordo di marzo, che consente ai Mittal di sfilarsi pagando una penale di 500 milioni, si è sempre collocato in posizione svantaggiata davanti alla controparte.
È il risultato della confusione che regna sovrana al Mise dove il ministro Stefano Patuanelli, a otto mesi dall’insediamento, non ha ancora assegnato le deleghe ai sottosegretari (emarginando in particolare i rappresentanti dem, Gianpaolo Manzella e Alessia Morani) e dove si sovrappongono troppi organismi e troppi “master and commander”: la Direzione della politica industriale, riformata da Luigi Di Maio un attimo prima di passare le consegne a Patuanelli, e guidata ora da Mario Fiorentino che è succeduto al navigato Stefano Firpo; il nuovo capo di gabinetto, Francesco Fortuna, che era il vice di Vito Cozzoli (passato alla presidenza di Sport e Salute) ma la cui poltrona viene data già per traballante; il segretario generale del ministero, Filippo Barca; la task force delle crisi industriali, guidata da Giorgio Sorial che, oltre ad aver ereditato lo scomodo ruolo da un altro grand commis come Giampiero Castano, ha cercato fin qui vanamente maggior supporto dal ministero stesso.
Nè ha aiutato, restando al caso Ilva, il rimbalzo di competenze tra Mise, Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. “La realtà è che nessuno si sta veramente occupando dell’Ilva”, dice chi frequenta i piani alti del Palazzo dell’Industria.
In realtà qualcuno il dossier sul tavolo ce l’ha, ed è Invitalia che è il soggetto statale candidato a rilevare una quota del 40-45% nell’azienda siderurgica. Ma oltre al macigno precipitato sulla società pubblica di promozione industriale, con l’incarico totalizzante di commissario Covid assegnato al suo presidente Domenico Arcuri, il lavoro sul fronte Ilva procede a malapena proprio per l’assenza di sponde solide sul fronte politico, pronto oltretutto ad esplodere di nuovo sul caso siderurgia, tra Pd, Cinque Stelle (con le loro divisioni interne) e Italia Viva.
E, guardando all’altra metà campo, per la linea tenuta da ArcelorMittal che, anche in seguito a Covid e ai relativi problemi di cassa, è in ritardo nei pagamenti dell’indotto, dell’affitto ai commissari Ilva e nel rispetto delle scadenze Aia.
Per questo l’azienda aveva chiesto al governo la garanzia statale su un prestito da 400 milioni di euro, proposta non accolta perchè ArcelorMittal non ha ancora presentato il piano industriale di rilancio (si vocifera che in realtà quello predisposto dall’ad Lucia Morselli sarebbe pronto, ma che mancherebbe il placet dei Mittal a conferma del raffreddamento dei rapporti con la manager) e, soprattutto, perchè non dà rassicurazioni sulla volontà di rimanere.
I lavoratori dell’Ilva di Genova, un migliaio, sono già in sciopero e hanno annunciato per lunedì un’assemblea davanti ai cancelli della fabbrica. È la prima protesta operaia al tempo del coronavirus, ma non in difesa della salute.
Il migliaio di “caschi gialli” genovesi, come gli oltre ottomila a Taranto, e con loro tutti i 250mila delle crisi industriali italiane continuano la resistenza per il posto di lavoro.
(da “La Repubblica”)
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