Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
“IL SEGRETO E’ PUNTARE PIU’ SUI LETTORI CHE SULLA PUBBLICITA'”… “L’ACQUISIZIONE DI REPUBBLICA DA PARTE DI ELKANN? AVRA’ CONSEGUENZE POLITICHE MA LE RAGIONI SONO INDUSTRIALI”
A guardare oggi i risultati del New York Times — 6 milioni di abbonamenti e 800 milioni di dollari di ricavi digitali nel 2019 — si fa fatica a credergli.
Eppure — giura Mark Thompson, amministratore delegato e presidente del gruppo che edita il quotidiano americano — quando da Londra è arrivato a New York con il suo accento da èlite british e un’esperienza esclusivamente televisiva, tutti scommettevano che da lì a poco la “Gray Lady” sarebbe andata in bancarotta.
Era il 2012, Thompson lasciava una Bbc in grande forma e uno stipendio non legato ai ricavi aziendali, per trasferirsi in giornale poco incline a prendere in considerazione dirigenti cresciuti oltre i ponti e i tunnel di Manhattan, e che perdeva milioni di dollari — trimestre dopo trimestre — a causa di una strategia esangue che puntava tutto sui giornali locali e un digitale zoppicante.
Otto anni dopo, il New York Times è esattamente quello che l’amministratore delegato outsider aveva sognato: un brand globale, che macina profitti su diverse piattaforme e riesce — proprio per questo — a farsi amare dai millennial.
Certo, poi è arrivata la pandemia. Thompson, 63 anni, un libro tradotto in italiano La fine del dibattito pubblico, la affronta muovendosi solo in bicicletta e lavorando prevalentemente da casa. Da lì risponde via Zoom alle domande di Open.
Le aziende giornalistiche in tutto l’Occidente sembrano vittime di un crudele paradosso legato al Coronavirus: a una crescita esponenziale di lettori corrisponde un calo drastico degli investimenti pubblicitari che porta a licenziamenti, chiusure, tagli. Voi come state reagendo?
«Ci aspettiamo un dimezzamento degli investimenti pubblicitari ma i nostri abbonamenti digitali continuano a crescere: non dipendendo dalla pubblicità , soffriamo molto meno di altri. Faremo anche noi dei tagli ma non riguarderanno giornalisti, nè il comparto digitale. Mai come in questo periodo abbiamo bisogno di giornalismo di qualità e quindi continueremo ad assumere e investire: fortunatamente siamo abbastanza forti per potercelo permettere»
Cosa vuol dire essere un leader in questo momento?
«È strano fare il leader da casa. Non hai la percezione reale di quello che succede nella tua azienda: gli umori, i pensieri, le preoccupazioni per una fase durissima della vita pubblica e privata. Ma è anche un momento di grande energia in cui la missione del giornalismo si sente ancora di più. Stiamo ragionando anche su cosa prendere e lasciare dell’esperienza dello smart working, che di sicuro ci costringe a non dare più per scontata la presenza fisica negli uffici: ci interroghiamo su quale sia il beneficio reale dello stare insieme. Lo smart working non è una rivoluzione, ma permette di vedere chiaramente il suo opposto: il mondo statico e regimentato dell’ufficio, che però qui appartiene al passato: i nostri giornalisti sono già redazioni di corrispondenza individuali. Con il Coronavirus cambieranno solo le proporzioni»
Lavorare chiusi in casa davanti al pc non è in contraddizione con il mestiere di giornalista?
«Siamo dentro alla più grande storia giornalistica degli ultimi decenni, che è fatta anche di migliaia di rumors, false informazioni, cospirazioni che dobbiamo debunkare. Credo che il direttore del Times (Dean Baquet ndr) sia piuttosto contento del fatto che è possibile svolgere la maggior parte di questo lavoro con un cellulare. Certo, mandiamo ancora le persone fuori a raccontare quello che vedono, ma la maggior parte del giornalismo sta funzionando da remoto e va bene così. Tutti preferirebbero fare un’intervista di persona piuttosto che al telefono ma non dobbiamo essere sentimentali: il giornalismo moderno viene già fatto prevalentemente via Skype e al telefono. In particolare quello che coinvolge esperti, epidemiologi e scienziati»
Nonostante i giornali avessero iniziato a scrivere del pericolo del Coronavirus ben prima dell’inizio dell’emergenza, la maggior parte dei cittadini ha impiegato molte settimane preziose prima di crederci. Le persone non si fidano più dei giornali?
«Viviamo in un mondo dove molte persone leggono solo quello in cui credono. E, spesso, quando incontrano fatti che possono contraddirlo, continuano a preferire la loro visione del mondo. Eppure, anche se crediamo in qualche strana teoria sulla nutrizione o seguiamo una stramba dieta (e questo capita anche ai migliori), non vuol dire che smettiamo di andare dal dentista. Le persone rivendicano il diritto di essere scettiche e, allo stesso tempo, continuano ad andare dallo specialista se hanno problemi ai denti. Anche Trump non credo sia così azzardato con i denti come lo è quando deve scegliere il farmaco da assumere per proteggersi dal Coronavirus. In alcune zone d’America l’epidemia è vissuta come il cambiamento climatico: un piccolo problema che è stato montato dalle èlite contro i lavoratori. Le proteste contro il lockdown dipendono più dalla politica che dalla consapevolezza o dalla sfiducia nel giornalismo. Non è un caso che interessano principalmente gli Stati che hanno votato per Trump. Oggi è più facile farsi guidare dall’ideologia che dai fatti»
Alcuni ritengono che il New York Times contribuisca a polarizzare il dibattito politico: siete diventati il quotidiano globale del pensiero liberal?
«Non c’è dubbio che siamo diventati un giornale “globale” — per copertura e organizzazione — ma nel mercato globale del giornalismo in termini numerici valiamo molto poco. E non credo che fuori dagli Usa veniamo percepiti come una forza liberal o di “sinistra”. È vero però che i regimi non ci apprezzano, che a Bolsonaro e Orban non piace il New York Times»
Anche il fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo non vi ama.
«I politici tendenzialmente non amano il buon giornalismo. Ma cosa diversa è dire che siamo una forza polarizzante globale: la sinistra in Europa non c’entra nulla con noi. Le persone all’estero quando pagano per le news non scelgono noi. So bene che in molti mercati siamo il terzo, quarto, quinto giornale e va bene così. Se un lettore deve pagare per le notizie in Italia preferirà sempre comprare il Corriere, la Stampa o la Repubblica»
A proposito di editoria italiana, osservatori sostengono che l’acquisto da parte del gruppo Exor — di proprietà degli Agnelli — del gruppo Gedi, proprietario di Repubblica, provocherà uno spostamento del giornale verso il centro, cambiando così il dna del quotidiano. Cosa ne pensa?
«In moltissimi Paesi, inclusi gli Stati Uniti, stiamo assistendo a operazioni di consolidamento editoriale: giornali e gruppi che si fondono spinti da esigenze più economiche che politiche. È inevitabile: quando un’industria matura non riesce a crescere ha bisogno di fare un’operazione scalabile, è una tattica di difesa. Ora, il modello italiano è da sempre regionale e molto politico: per consolidarsi ha bisogno anche di passare a posizioni più centriste. Ma non è una questione ideologica: è industriale»
Un ragionamento che potrebbe sembrare controintuitivo: in un mondo polarizzato dovrebbe funzionare di più una testata con una forte connotazione politica. O no?
«Qui parliamo di principi economici di base. Una pubblicazione cartacea o digitale ha dei costi fissi molto alti: redazione, carta, sede, marketing, tecnologia. In passato, grazie a una pubblicità altamente profittevole potevi sostenere un giornale che vendeva solo in una regione o in un paio di regioni. Se hai meno margini di profitto, devi avere molti più lettori e allo stesso tempo tenere i tuoi costi bassi. È qui che parte il consolidamento: metti più giornali insieme per condividere i costi ed espandere il tuo lettorato. Per riuscirci devi passare da una prospettiva regionale a una nazionale, da una linea partigiana a una linea moderata: è sopravvivenza. È vero che Internet richiede opinioni molto forti, ma puoi avere un giornale “moderato” e aperto a diverse voci con una pagina delle opinioni molto forte. Comunque, siamo onesti, la carta collasserà in ogni caso. Le persone smetteranno definitivamente di comprare i quotidiani di carta»
Quando?
«Immagino un decennio di vita ancora per il New York Times cartaceo, che sono sicuro sarà uno degli ultimi giornali — Germania a parte — a sospendere le pubblicazioni in edicola. In un paio di decenni saremo un mondo post cartaceo, quindi la nostra sopravvivenza dipende solo dal digitale e dalle scelte che faremo in quell’ambito. La pubblicità online non è affidabile: bisogna puntare sugli abbonamenti, su un giornalismo per cui le persone scelgono di pagare»
Anche gli under 40?
«La mia azienda è composta al 50% dai millennial. Oggi in molti dipartimenti del giornale abbiamo leader ventenni che prendono decisioni. C’è stata una rivoluzione all’interno dell’organizzazione: i millennial si occupano di tutto — politica, esteri, cultura — e questo ci ha permesso di arrivare a loro. Il podcast The Daily ha 3 milioni di ascoltatori al giorno. Questo vuol dire che ogni giorno 3 milioni di persone dedicano 20, 30 minuti all’ascolto, che è molto di più del tempo che ormai si dedica alla lettura di un giornale. Sono tutti millennial. Se realizzi prodotti di qualità pensando a loro verrai premiato»
Nate Silver, il guru dei dati che ha lavorato con voi dal 2010 al 2013 , mi ha raccontato che, arrivato al giornale, un caporedattore gli disse: “Quando lavori al New York Times il tuo cognome è Times”. È curioso che in meno di un decennio il giornale sia cambiato così tanto.
«La guerra culturale con Nate è coincisa con il mio arrivo. Da allora abbiamo cambiato moltissimi capi di settore. Questo è cruciale: non puoi avere gli stessi capi per sempre. Sono davvero pochissime le persone del “vecchio mondo” che possono reggere la trasformazione di cui ha bisogno oggi un’azienda giornalistica. Persone che hanno fatto carriera in un modo pre-digitale come possono guidare la transizione verso il nuovo? Il carico professionale, tecnologico, ma anche personale ed emotivo che comporta questo lavoro è impressionante. Io riesco a sostenerlo ma siamo pochissimi. Una volta quelli che si occupavano di dati nei giornali erano gli uomini grigi in fondo al corridoio, oggi sono al centro del giornale.
Però, in qualche modo, è ancora vero che il cognome di chi lavora qui è Times. Quando Nate Silver è andato via non abbiamo finito di fare infografiche e data journalism, anzi siamo diventati bravissimi. E forse la forza del Times è proprio questa: essere la casa di individui che sono diventati brand a loro volta — penso a Thomas Friedman, Paul Krugman, Maureen Dowm, Michael Barbaro — ma che continuano a trovare un valore immenso nell’essere associati al Times. Noi vogliamo essere una fabbrica di star, un magnete creativo che attiri giovani di talento per dare loro una chance. I valori e le pratiche del giornalismo restano le stesse: fact checking, oggettività , fonti multiple, attenzione alla scrittura. Ma oggi sappiamo che tocca essere flessibili se vuoi avere a che fare con i talenti»
Parlando di talenti, il vostro ultimo acquisto Ben Smith — ex direttore di Buzzfeed — nella sua prima rubrica da media columnist ha sostenuto che siete diventati un monopolio dell’informazione: avete cannibalizzato tutte le nicchie digitali che vi sfidavano assumendo i giornalisti migliori.
«Quando dicono che siamo come Google o Amazon, io dico di guardare ai numeri. La ricerca su Google è redditizia in tutti Paesi occidentali, come l’e-commerce di Amazon. Io bramerei per raggiungere anche solo il 5% dei lettori di un Paese fuori dagli Stati Uniti»
Nei giorni scorsi ha fatto molto rumore un altro articolo di Smith che smonta la tecnica giornalistica di Ronan Farrow, autore delle inchieste che hanno dato via al MeeToo. Con un solo articolo vi siete fatti nemici sia i paladini del movimento che i colleghi del New Yorker.
«Non sono responsabile per la parte editoriale e posso solo dire che è stato un ottimo articolo. A proposito del #MeeToo voglio invece dire che l’impegno del Times verso il movimento è davvero difficile da mettere in discussione. Abbiamo seguito la vicenda ben prima che lo facesse Farrow, documentando da sempre le violenze subite da giovani donne e uomini sul posto di lavoro. Porre dubbi e domande sulla pratica investigativa non vuole dire mettere in discussione un movimento o un’istituzione come il New Yorker. Peraltro noi veniamo continuamente criticati da giornali autorevoli, ogni mattina trovo un plico di articoli che fanno le pulci al Times a firma del Washington Post o Vanity Fair. Sa che le dico? Questa è la vita».
(da Open)
argomento: Stampa | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
C’E’ CHI SCRIVE ALLE ASSOCIAZIONI A DIFESA DEI CONSUMATORI… ALLA FINE PAGA SEMPRE L’ULTIMA RUOTA DEL CARRO
L’aumento va da due a dieci euro, sotto la voce di tassa Covid, contributo sanificazione, presidio Covid. Non vale per tutti e non tutti lo stanno applicando. Ma è abbastanza diffuso da aver suscitato le prime segnalazioni alle associazioni di categoria, Codacons e Unione consumatori in testa.
Arrivano soprattutto da clienti di parrucchieri, centri estetici, meno bar e ristoranti: capiscono le difficoltà degli esercenti, ma aggiungono di non aver iniziato a guadagnare di più, durante il lockdown.
Anche se le categorie commerciali di cui stiamo parlando non hanno guadagnato niente, nelle ultime dieci settimane, mentre hanno continuato a pagare affitti, mutui e bollette.
«Abbiamo ricevuto decine di segnalazioni, da Castelnuovo di Asola, nel Mantovano, a Castelvetrano, nel Trapanese, da Milano a Roma, da Bordighera a Genova, da Castagnole di Paese a Catania», spiega Stefano Zerbi, portavoce di Codacons.
Le email, spesso accompagnate dagli scontrini incriminati, riguardano perlopiù l’attività di parrucchieri ed estetiste, che aggiungono al conto balzelli variabili per compensare le spese di messa a norma dei locali. Ma non riguardano soltanto loro.
Massimiliano Dona presidente di Consumatori.it, parla di «aumenti opachi» e racconta di dentisti e studi medici che stanno mettendo in carico ai pazienti 10 euro per i dispositivi di sicurezza obbligatori. Aggiunge: «Oggi si paga volentieri un caffè un euro e venti o un cappuccino un euro e 40, perchè si capisce la situazione. Il problema è se questi incrementi diventano strutturali e non durano soltanto un mese e mezzo».
Marco Accornero, segretario generale dell’Unione artigiani, non vuole sentir parlare di speculazione. «È un dato oggettivo: le mascherine costano, le sanificazioni pure, i dispositivi di sicurezza anche. Parrucchieri ed estetiste sono stati i più esposti alla crisi e ora stanno affrontando costi supplementari. Noi non incoraggiamo gli aumenti, ma non ci sentiamo di stigmatizzarli».
E lo stesso vale per Lino Stoppani, presidente del Fipe, la Federazione italiana pubblici esercenti. A lui tutti questi incrementi non risultano, a parte il caso dei 50 baristi di Vicenza che si sono accordati per far pagare il caffè un euro e trenta e il cappuccino un euro e ottanta. Dice: «Gli aumenti sono sporadici e, francamente, poco furbi, perchè questo è il momento in cui il cliente deve essere rassicurato e incoraggiato a tornare. Dopodichè non ci nascondiamo che durante le crisi le strade percorribili sono quattro: ridurre i costi, ma quelli fissi non si possono limitare; usare le riserve di liquidità ; fare debiti; ritoccare i prezzi».
Altroconsumo all’inizio della pandemia aveva presentato un esposto all’Antitrust per i costi folli degli igienizzanti su Amazon.
Adesso Marco Bulfon, coordinatore delle indagini sui prezzi, suggerisce ai consumatori la prima forma di difesa: «I prezzi devono essere esposti, è un obbligo di legge. Se non ci piacciono, ce ne possiamo andare».
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: denuncia | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
E DEFINIRE “PSEUDO-GIORNALISTI IN CERCA DI VISIBILITA'” LE TESTATE ON LINE DIMOSTRA SOLO LA SUA ARROGANZA
Prima ha tentato di spiegare, in preda al delirio, come funziona l’indice di trasmissibilità . Poi, non pago della sua gaffe, sul ciglio di una strada non meglio identificata, ci ha propinato un’altra perla video da ben 4 minuti e passa in cui sostanzialmente non spiega nulla.
Poco lucido e in evidenti difficoltà comunicative, “esemplificando” i suoi innumerevoli esempi molto poco chiari (in primis a lui) e con sprezzo verso tutti: opposizione, stampa, cittadini. Chiunque cioè non sia in grado di capire il Gallerese. Come difendere l’indifendibile e non riuscirci.
Il teatrino che ne è scaturito sarebbe anche comico, non fosse che Giulio Gallera è Assessore al Welfare e alla Sanità della Regione Lombardia, e che sotto la sua responsabilità ci sono oltre 10 milioni di lombardi ai quali, ancora oggi, non è dato sapere nulla a fronte di numeri di contagio ancora in aumento (ieri +669 in Italia, di cui in Lombardia 441).
E che negli ultimi tre mesi hanno vissuto l’incubo del Covid-19 in una delle regioni più colpite al mondo. Ma secondo Gallera e la sua giunta regionale non hanno “fatto errori”, certo non più di altre regioni (anzi siamo tra le “migliori ad aver contenuto il contagio”). Insomma: in Lombardia ci sono oltre 15mila morti, la metà dell’Italia intera, e nulla è accaduto.
Nessuno può dire nulla. Nessuno ha il diritto di fare domande e di valutare la gestione sanitaria e politica di quella Regione. Tranne lui, l’Assessore Gallera.
Fortuna che anche il suo Governatore, Attilio Fontana, nelle ultime ore era rinsavito, scaricandolo con un secco “Ha sbagliato” in merito alla mancata chiusura della Val Seriana che Gallera, giorni dopo, si era ricordato avrebbe potuto fare. Negli ultimi tempi non gliene va bene una.
Eppure basterebbe poco: ammettere anche solo uno della serie infinita di errori commessi e pronunciare con umiltà due parole: “Ho sbagliato”. Oppure tre: “Ci siamo sbagliati”. Rischierebbe persino di risultare umano rispetto alla gestione di un’emergenza senza precedenti. E invece no, giù con la storia del modello lombardo, il più efficiente al mondo che tutto il mondo ci invidia, e che ha risposto bene.
La cosa grave non è solo l’incompetenza di un uomo che dovrebbe guidare la sanità lombarda e che invece non sa come funziona l’indice di trasmissibilità ma anche il fatto che un’importante carica della Regione “che traina il paese” si rivolga così alla stampa:
“Caro Tpi, dormi sonni tranquilli … pseudo giornalisti in cerca di visibilità ”, ha sbottato ieri Gallera. Detto da un pseudo-assessore è perlomeno singolare tanto più, poi, se a fare la predica è chi per mesi ha inseguito quella stessa visibilità di cui parla, arrivando a ventilare — in piena emergenza Covid — la sua candidatura a sindaco di Milano. È questo tono paternalistico da quattro soldi, in perfetto stile politichese, dall’alto verso il basso, che rasenta il ridicolo. Della serie: “Io sò io e voi non siete un c***o”. E siamo certi del fatto che, fosse stato un altro “grande” giornale tradizionale ad aver chiesto conto dell’operato di Gallera (come fra l’altro qualsiasi testata dovrebbe fare con chi ci governa), la reazione scomposta dell’Assessore sarebbe stata la medesima, rivolgendosi a quel giornale così come ha fatto nei confronti del nostro giornale online, nemmeno fossimo un gruppo di scappati di casa per il sol fatto che non scriviamo sulla carta stampata e perchè non la pensiamo come lui.
Ebbene, sarebbe opportuno che Gallera sapesse — posto che molte poche cose sa, come si è visto — che siamo una testata giornalistica al pari di un qualsiasi altro quotidiano cartaceo (senza per giunta ricevere alcun finanziamento pubblico) che al suo interno annovera giornalisti seri capaci di raccontare fatti e di rivelare verità inedite nell’interesse di chi è governato. Anzi, una differenza c’è: siamo liberi, e padroni del nostro stesso giornale. Questo comporta il vantaggio che nessuno ci dice cosa scrivere, meno che mai un Assessore della Regione più disastrata degli ultimi tempi. ù
Il bug del sistema è questo: nella testa di Gallera, un giornale online che conduce un’inchiesta scomoda è per definizione (la sua e basta) un blog da quattro soldi fatto da blogger relegati nel dietro le quinte dell’informazione ovattata e asservita così come lui la vorrebbe. E quindi da trattare come tali.
“Tornate a dormire sonni tranquilli”. Capite come siamo messi e in mano di chi siamo? Così, nell’attribuire nomignoli e pochezza nel lavoro di chi un’impresa l’ha costruita da zero e resa sostenibile, Gallera denigra un’intera generazione a cui lui stesso e la classe politica che rappresenta devono molto.
Se l’Assessore ha qualcosa da dire, la dica chiaramente, non tergiversi, facendo finta di sapere cose che non dice e che non sa; faccia nomi e cognomi, invece di nascondersi dietro quanto gli hanno suggerito male, in un comportamento che scredita la sua figura pseudo-istituzionale e che mina fortemente la sua pseudo-credibilità agli occhi di chi, lì, ce lo ha messo. È a loro che Gallera deve innanzitutto una risposta, a chi l’ha votato, a chi non lo voterà più, a chi gli paga lo stipendio.
L’inchiesta che il nostro giornale ha condotto per due mesi a firma di Francesca Nava — in seguito alla quale la procura di Bergamo ha aperto un’indagine per epidemia colposa — ha portato a galla alcune imprescindibili verità che inchiodano la giunta regionale lombarda, responsabile di una serie di fallimenti dalle conseguenze devastanti sul territorio.
A queste accuse Gallera ancora oggi non ha mai risposto. Come mai? Dica come stanno le cose.
Ad oggi sappiamo:
1. Che l’ospedale di Alzano Lombardo doveva essere chiuso e che invece ordini superiori hanno impedito che accadesse, alimentando il contagio. Perchè ciò è potuto avvenire?
2. Che la zona rossa poteva essere disposta il 2 marzo e nessuno — Governo e Regione — ha deciso. Perchè non è stato fatto nulla, visto che “potevamo farla la zona rossa”, come ha poi ammesso Gallera? C’erano già militari e forze dell’ordine pronte a rendere operativa la zona rossa, erano già state portate pure le transenne. Chi e perchè ha cambiato idea?
3. Che le imprese hanno fatto pressioni nel tentativo di posticipare una eventuale chiusura dell’area, che avrebbe impattato pesantemente sulla loro attività produttiva (376 aziende, 4.000 dipendenti e un fatturato da 700 milioni di euro l’anno, molte delle quali non hanno mai davvero chiuso i battenti fino al 23 marzo, e nemmeno dopo per la verità , continuando a operare in deroga). È vero che c’è stata una riunione tra i vertici regionali e del Governo con i rappresentanti delle aziende della Val Seriana al termine della prima settimana di marzo per scongiurare la chiusura?
Del resto il leader degli industriali lombardi Marco Bonometti ha poi ammesso a TPI: “In Lombardia la produzione non si poteva fermare, non potevamo fare zone rosse”. In un’area come quella della Bergamasca ad altissima densità di imprese (1,6 ogni 100 abitanti), tra salute e lavoro ancora una volta sembra aver avuto la meglio l’interesse economico.
Se oggi asportassimo la Lombardia dalla mappa dell’Italia, i numeri di questa strage sarebbero di ben più modeste dimensioni (la metà delle 32.000 vittime totali proviene da questa regione), ed è evidente che tutto ciò non può essere frutto del caso. Qualcosa è andato storto. E il compito di un giornale come il nostro è quello di fare domande e trovare le risposte, anche quando le verità possono risultare scomode, e anche nei momenti più delicati come quello che sta attraversando il paese.
Da parte di chi come noi fa domande, non c’è alcun tentativo di sciacallaggio politico nei confronti della Regione Lombardia, ma voltarci dall’altra parte, questo no, non possiamo farlo.
I numeri certificati dall’ISTAT parlano chiaro e sono impressionanti. In Lombardia moltissime persone sono state abbandonate, i tamponi non vengono eseguiti e il sistema sanitario — al 75 per cento in mano ai privati — ha mostrato le sue falle in una crisi necessariamente pubblica, che andava gestita in modo centralizzato dallo Stato.
Come mai la Regione ha tagliato ogni ponte tra medici di base e pazienti? La Lombardia è una fra le prime 10 regioni più colpite al mondo dalla pandemia. Con oltre 86mila casi di Covid-19 ha superato le cifre ufficiali della Cina. E ancora oggi, a riaperture di fatto avvenute, ogni giorno ci sono nuovi contagi e nuove vittime.
Spiegateci chi sono e perchè si continua a morire, nonostante le misure di sicurezza così restrittive rimaste in vigore per settimane.
A queste domande finora la Regione Lombardia non ha mai risposto: nè il governatore Attilio Fontana, nè Giulio Gallera. Entrambi però una cosa potrebbero farla, e sarebbe buona e giusta: andare a casa. Senza grandi proclami, ma con dignità . Solo quando Gallera avrà ammesso un millesimo di quanto gli è stato contestato, allora potrà parlare. Possibilmente senza denigrare la stampa o augurarle “sonni tranquilli”.
(da TPI)
argomento: denuncia | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
LE REGIONI CHE FANNO APPOSTA POCHI TEST PER IL CORONAVIRUS
Il Corriere della Sera pubblica oggi un grafico che permette di valutare l’attuale livello di ricerca del virus delle Regioni, elaborato dagli esperti della Fondazione Gimbe.
Il periodo di riferimento è tra il 22 aprile e il 20 maggio, il passaggio dal lockdown alla «Fase 2».
Tre dati sono importanti: quanti tamponi «diagnostici» al giorno ogni 100 mila abitanti (i tamponi «diagnostici» sono i primi, quelli che servono a scoprire se una persona è infetta o no, escludendo i successivi di controllo); quanti «positivi» vengono scoperti (sempre per 100 mila abitanti), e infine la percentuale di tamponi «positivi» sul totale.
Incrociando i dati, le Regioni vengono collocate in quadranti: il primo è quello delle più virtuose, con numero di tamponi sopra la media italiana e numero di nuovi malati ben sotto la media. Tradotto: quelle Regioni cercano tanto il virus e lo trovano poco, dunque la bassa circolazione del Covid 19 è in qualche modo garantita da una vasta lente di ricerca.
Umbria e Basilicata, ad esempio, nel periodo di riferimento hanno fatto 2.700-2.800 tamponi e hanno trovato solo 8«positivi» (sempre su 100mila abitanti).
Nel secondo quadrante si posizionano invece le Regioni con tamponi sotto la media ma anche «positivi» sotto la media: trovano pochi malati, ma li cercano anche poco. Dunque, può restare il dubbio che circoli più virus di quello che viene intercettato. Puglia e Campania, ad esempio, hanno scoperto solo 19 e 10«positivi» per 100mila abitanti, tra il 22 aprile e il 20 maggio, ma hanno fatto anche meno di 600 tamponi.
Fare pochi tamponi potrebbe essere una strategia opportunistica (e rischiosa): tenere il numero di casi ufficiali basso e non andare a cercare gli asintomatici, col pericolo che poi il sommerso riemerga in ospedale, all’improvviso, coi ricoveri.
Dunque il vero tema è: quali Regioni stanno cercando il virus in maniera approfondita ed efficace?
Per certe Regioni come la Lombardia con un elevato numero di casi, il tracciamento dei contatti dei «positivi» può diventare problematico ma per uno screening profondo e capillare non c’è altra strada.
Nel terzo quadrante (il quarto è vuoto), si trovano Piemonte e Lombardia, più la Liguria e l’Emilia-Romagna, che fanno tamponi in media col resto d’Italia ma trovano più «positivi». «Vista l’incidenza dei nuovi casi, è auspicabile – ribadisce Cartabellotta – che queste Regioni aumentino la propria capacità di effettuare tamponi».
(da agenzie)
argomento: denuncia | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
“SI AVVII UN DIBATTITO PER RIFORMARE UNA GIUSTIZIA CHE NON REGGE PIU'”
Dopo quarantacinque anni di servizio nella magistratura si è convinto che bisogna mettere un punto: “L’idea che attraverso il diritto penale si possano risolvere i problemi della vita associata ha avuto effetti perversi. Sono anni che la politica scarica così sulla giustizia questioni che le competono e non riesce ad affrontare altrimenti. A ogni dramma, pezzi dell’opinione pubblica invocano ‘giustizia’, chiedono la creazione di nuove fattispecie di reato, vanno alla ricerca di un colpevole da punire per mettere le cose a posto. L’area del penale si è allargata a dismisura, penetrando in ogni piega della vita sociale. Il sistema è stato sommerso dalle pratiche, aggiungendo un altro problema a quelli che già c’erano. È il momento di invertire la tendenza e attuare un’immediata, radicale e ampia depenalizzazione, riducendo il numero dei reati drasticamente”.
Da un anno Giuseppe Pignatone è il presidente del Tribunale dello Stato Vaticano. Lo ha nominato Papa Francesco al termine del suo corpo a corpo — lungo quattro decenni — con le mafie italiane — prima Cosa Nostra a Palermo (coordinando, tra le altre, le indagini che portarono all’arresto di Bernardo Provenzano), poi la ‘ndrangheta a Reggio Calabria, infine le mafie a Roma.
Gli chiediamo di intervenire nel dibattito aperto da Gherardo Colombo sull’abolizione del carcere e gli vengono subito in mente due discorsi che Francesco ha tenuto di fronte ai penalisti di tutto il mondo, uno nel 2014, l’altro nel 2019: “Il Pontefice pone il problema di una giustizia che restauri i legami tra chi ha commesso il reato, le vittime e la società , attraverso un modello fondato sul dialogo. Dice che è il carcere deve avere sempre una ‘finestra’, cioè un orizzonte, poichè l’obiettivo della detenzione è il reinserimento della persona nella società , non la sua punizione brutale. È una sfida che una società razionale, pacifica e democratica deve affrontare, laicamente”.
Lei abolirebbe il carcere?
Io credo che sia legittimo, e anche nobile, immaginare una società senza carcere. Chi si è trovato a fare il lavoro che ho fatto io, è il primo a sognare una società in cui il carcere non sia più necessario. Un mondo in cui i fatti gravi che lo rendono indispensabile non accadano più. Al momento, però, non è realistico crederlo. Non c’è un solo stato al mondo in cui il carcere non ci sia
Perchè?
Perchè il carcere è necessario a garantire la sicurezza dei cittadini, quando non ci siano altri modi per farlo. Per esempio, lasciare che un mafioso affiliato alle organizzazioni tradizionali torni sul proprio territorio, significa consentire all’associazione a cui ha giurato fedeltà di reinserirlo immediatamente nel circuito operativo criminale.
Neanche Colombo propone di abolirlo per questi reati.
Bisogna entrare nel merito. Nei penitenziari, oggi, c’è un numero notevole di persone che sconta pene per reati gravissimi. Poi, ci sono persone che hanno commesso una serie di reati che, presi singolarmente, prevedono pene modeste, ma sommati raggiungono cifre alte. Ci sono quelli che hanno processi in corso e per cui il giudice ritiene ci siano esigenze cautelari, anche per evitare l’inquinamento delle prove. Infine, c’è un’altra fetta grande di persone — nella stragrande maggioranza, stranieri — che sono in carcere perchè il giudice non può fargli scontare delle pene alternative, poichè non hanno una casa in cui andare.
Dove vuole arrivare?
A dire che, se si guarda dentro il carcere, diventa chiaro che esso è solo un frammento di un problema più vasto, che ha caratteri sociali, economici, politici. Affrontarlo come una questione esclusivamente penale sarebbe riduttivo e sbagliato.
Lei come lo affronterebbe?
Io sono entrato per la prima volta in un carcere nel 1974. Facevo l’uditore a Palermo. Mi occupavo di contrabbandi, oltraggi, poi sono cominciati i processi per mafia. La situazione delle carceri è cambiata molto, da allora. I valori costituzionali hanno fatto progressi enormi. Soprattutto, per merito delle persone che ci lavorano. Bisogna andare ancora più avanti, rifiutando culturalmente l’idea che il degrado — là dove c’è — sia un problema dei detenuti, e tanto peggio per loro. Questo è inaccettabile.
Secondo lei, oggi il carcere ha un orizzonte?
Nella maggior parte dei casi, siamo ancora lontani dall’idea del carcere di cui parla Francesco: una finestra aperta sull’avvenire. In alcune carceri, invece, questa possibilità è stata realizzata. I detenuti possono lavorare, istruirsi, prepararsi al futuro. È necessario un grande lavoro culturale e politico per spingere il carcere reale ad avvicinarsi sempre di più al carcere ideale. Riconoscendo quanto di buono è già stato fatto e proseguendo il cammino.
Per esempio?
Già oggi, come ha ricordato Luciano Violante, ci sono 53 mila persone che scontano la pena in prigione e 61 mila che la scontano fuori. È un risultato che venti o trent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile.
Lei come andrebbe avanti?
Da una parte, facendo un salto di qualità nelle depenalizzazioni. In molti casi, fatti che oggi danno vita a processi per truffa o appropriazione indebita sono solo questioni di natura civilistica, in molti altri casi basterebbe, come nel resto d’Europa, una sanzione amministrativa. Ciò alleggerirebbe il sistema penale, rendendolo più veloce ed efficace.
E dall’altra?
Aprendo un dibattito culturale, che coinvolga giuristi, filosofi, antropologi, sociologi, per stabilire su basi nuove quali siano i reati che giustificano il carcere in questo secolo, ripensando il processo penale a trent’anni dall’entrata in vigore.
Con chi ne parlerebbe?
L’avvocato Franco Coppi, in alcuni suoi interventi, ha posto il problema in termini che condivido, citando alcuni ‘fallimenti disastrosi’ del codice del 1989. Io penso che i giuristi italiani dovrebbero sedersi intorno a un tavolo, senza tabù e pregiudizi, e cominciare a discuterne.
In che sede?
Il senso di una discussione del genere è offrire al Paese una base sulla quale confrontarsi, e al Parlamento un progetto sul quale decidere. Non penso certo a un convegno tra addetti ai lavori. La riforma del processo penale investe la sfera culturale, sociale, politica. Deve essere discussa a tutti questi livelli.
Avrebbe nemici?
Un cambiamento del genere si scontrerebbe con i sostenitori dello statu quo, presenti in tutti le categorie del mondo della giustizia, così come nell’opinione pubblica. Il panpenalismo è uno degli aspetti di una cultura che alcuni chiamano populismo penale, dilagato negli ultimi anni. È ovvio che una riforma così profonda dovrebbe affrontare queste resistenze.
Da cristiano, il carcere le ha mai posto un problema di coscienza?
No, non ho mai avuto un problema di coscienza nell’applicare le leggi dello stato italiano. Credo che l’Italia sia riuscita ad affrontare anche i periodi peggiori della propria storia — come il terrorismo e le stragi di mafia — rispettando lo stato di diritto e la Costituzione.
Nemmeno di fronte al 41 bis?
Comunemente questo regime è noto come ‘carcere duro’. È un’espressione che ritengo fuorviante. Poichè il 41 bis non è stato pensato per aggiungere crudeltà alla pena, come l’aggettivo — ‘duro’ — lascia credere. È stato pensato per impedire le comunicazioni del mafioso con l’esterno. L’ho avuto sempre chiaro in mente. L’obiettivo — come dice ancora Papa Francesco — è ‘fare giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore’.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
“BISOGNA SAPER ASCOLTARE IL MONDO E POI AGGIUNGERCI UN PO’ DI FANTASIA”
Eduardo De Filippo. Diceva “il punto di arrivo dell’uomo è il suo arrivo nel mondo, la sua nascita, mentre il punto di partenza è la morte, che oltre a rappresentare la sua partenza dal mondo, va a costruire il punto di partenza per i giovani”.
Nessuno come lui sapeva giocare con la realtà , ribaltarla e con questo movimento far intravedere le sue pieghe più nascoste dell’agire e del sentire umano, celato, camuffato per convenienza, per incuria, per paura, per convenzione, per pudore, per amore, per stanchezza, per sopravvivenza o per tradizione.
Lucido e sofisticato osservatore del suo presente, come tutti i Grandi, aveva lo sguardo che andava oltre, verso il futuro.
E’ stato sottolineato in molte occasioni, non ultime i momenti in cui ha ricevuto i numerosi premi e riconoscimenti tra cui l’essere stato nominato dal Presidente Pertini Senatore nel settembre del 1981, e sarà banale forse parlare ancora di quanto siano attuali i suoi testi ancora oggi, ma fare questa considerazione oggi, nell’epoca dei Social Network, della realtà virtuale, dei viaggi low cost, ci svela quanto alcuni tratti umani siano spesso constanti, ma anche quanto le dinamiche di interazione non si siano sviluppate, emancipate a pari passo della tecnologia, abbiamo ancora come allora in fondo la stessa paura, la stessa miseria, la stessa premura di conservare la faccia, la stessa difficoltà col denaro e di vivere i rapporti familiari in modo armonioso.
Abbiamo la stessa invidia per chi ha di più, e anche se solo raramente, magari solo dopo una grande perdita, abbiamo ancora la capacità di apprezzare le piccole cose, abitudini che “sono la poesia della vita” come prendere una tazza di caffè.
Abbiamo la stessa necessità di esorcizzare la dimensione della morte, dell’aldilà , del mondo dell’invisibile, anche se ora abbiamo microscopi e telescopi per vedere l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.
Ora che si può divorziare, che abbiamo il riscaldamento in casa, e almeno un’auto per famiglia. Oggi che compriamo da vestire con pochi euro in catene di grandi magazzini, che conosciamo bene l’esistenza di oggetti usa e getta e che piuttosto che nella condividere uno spazio abitativo e umanità , viviamo in appartamenti mini dove il solido seppur povero mobilio di un tempo, è stato sostituito da un arredamento costruito solo ipoteticamente in Svezia, più realisticamente in Cina , luoghi che nell’immediato dopoguerra, ai tempi di De Filippo nell’immaginario dei Napoletani era lontano dall’Italia quanto lo è oggi Marte per tutti noi.
Ancora oggi i suoi testi di Eduardo ci stupiscono, divertono, punzecchiano e trafiggono, ci fanno vedere quanta vita c’e’ dentro e dietro l’agire quotidiano, inevitabile, mosso dall’arte di arrangiarsi, faticoso, furbo, passionale, misero, colorato di umana varietà .
Eduardo uomo e artista era presenza e ascolto, sia per stare sul palcoscenico che per scrivere riteneva necessario “ascoltare il mondo e poi aggiungerci un po’ di fantasia”.
La dimensione dell’ascolto è la variabile che ha reso unico e straordinario De Filippo. È celebre la sua risposta a uno studente, durante una lezione di drammaturgia alla Sapienza di Roma, che dopo ore di letture aveva gridato “Sono stufo di ascoltare”.
Eduardo lo mandò via dicendogli che se non aveva la pazienza di ascoltare gli altri non sarebbe stato capace di ascoltare neppure se stesso.
La centralità dell’ascolto e della relazione con dell’altro da parte di Eduardo è evidente in tutte le sue dimensioni artistiche, di drammaturgo, di attore, di autore per la radio e per gli adattamenti televisivi ed ancora una grande lezione per l’oggi, non solo per l’arte ma per la vita.
Per Eduardo l’altro è colui da cui trarre ispirazione. Tutto il suo teatro è nato dall’osservazione del prossimo, “… quasi da un pedinamento con gli occhi e le orecchie della gente comune”.
L’altro è l’attore, l’attrice che sta con lui sulla scena, l’ascoltatore radiofonico che non vede e segue la drammaturgia dei suoni di una storia, lo spettatore che non è compresente alla messa in scena. L’altro è la società cui l’individuo si deve rapportare con le sue norme e condizioni. L’altro è il fuori campo che nelle sue opere svolge sempre un ruolo narrativo importante. L’altra è la battuta che viene dopo un silenzio.
“Tutto è relazione” come affermano i fisici contemporanei, come osservava Gregory Bateson in Verso un’ecologia della mente, De Filippo ne aveva profonda consapevolezza.
La sua capacità di ascolto è evidente anche nel ritmo della sua narrazione, nella scelta della lingua, della sua drammaturgia.
Le sue pause racchiudono mondi, consentono l’aprirsi di più dimensioni percettive e tessono, assieme agli snodi delle sue vicende, quel filo molto sottile su cui funambolicamente procedono i personaggi, le vicende, la storia e che sta tra il dramma e il grottesco, tra risata e stretta allo stomaco, sollievo e disperazione.
Eduardo ha consacrato la commedia a genere profondo, impossibile non ritrovarsi a riflettere “nonostante si rida”. Ha scritto vere e proprie partiture di parole, suoni, emozioni, pulsioni, sensi.
Senza voler ridurre la loro complessità , forse tutte le sue opere in fondo ci dicono: “Stai in ascolto, la realtà richiede menzogna, credenze, litigi, amore, tu stai in ascolto e forse riuscirai a scorgere cosa c’è tra una cosa e l’altra, che ci rende unici come esseri umani”. Ogni suo personaggio è un punto di vista sul mondo, guardarli tutti assieme ci permette di leggere ancora oggi il mondo, e forse di scegliere se stare dentro i ruoli precostituiti, o se si sente la necessità di cercare delle alternative, perchè il perpetuo conflitto individuo e società , che è uno degli elementi essenziali della sua opera, possa trovare nuove soluzioni.
Schivo nelle situazioni pubbliche, assente in quelle mondane, molto si è occupato delle questioni sociali, impegnandosi in prima persona per esempio per aiutare le vittime del terremoto in Irpinia e i ragazzi del carcere minorile di Filangieri di Napoli.
Molto si è battuto per aprire una scuola di teatro. Vita e arte per Eduardo erano una cosa sola.
In palcoscenico ha saputo restituire con semplicità le vicende umane senza mai ridurre la loro complessità . Forse anche perchè in lui gli opposti sembrano convivere: il rigore nel lavoro come nella vita e la leggerezza in palcoscenico, la presenza, la prontezza scenica e la teorizzazione dell’ “attore stanco”, le linee inconfondibili delle sue rughe e gli occhi dallo sguardo bambino, la poesia e la musicalità dei suoi stesti con la miseria dei personaggi che rappresentano, il mondo visibile e il mondo invisibile, l’amore per l’arte della finzione e la passione per la realtà .
L’umanità di Eduardo è spiazzante ed è forse ciò che lo ha reso così grande. Toccava sempre i nervi più scoperti dell’essenza umana, delle sue gioie, miserie e delle paure con delicatezza, ma anche spietatezza e ironia e una surreale semplicità .
Diceva: “… a me la morte m’incuriosisce, mi sgomenta, ma non mi fa paura, perchè la considero la fine di un ciclo — il mio ciclo — che però darà vita ad altri cicli legati al mio. Soltanto così anche se non crediamo in un dio al di fuori di noi, possiamo sperare nell’immortalità ; una immortalità umana, quindi limitata, ma all’uomo è stato concesso il dono di sognare, che non è poi piccola cosa…”
Prendendo ispirazione dai sui personaggi in questo anniversario, oggi possiamo sognare che lui stia guardando attraverso il buco della serratura di una stanza che è fuori dalla scena dove si svolgono le vicende del mondo, che osservi all’insaputa di tutti quali nuovi arrivi e punti di partenza siano succeduti alla sua partenza, e spieghi sul suo viso quel sorriso sempre un po’ malinconico ma di una dolcezza rara che regalava solo in particolari occasioni.
(da Globalist)
argomento: arte | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
STRANAMENTE I TAMPONI PASSANO DA 17.131 A 11.457 COSI’ SI ABBASSANO I NUOVI CONTAGIATI …PECCATO CHE VENERDI LA PERCENTUALE DEI POSITIVI SUI TAMPONI EFFETTUATI FOSSE DELL’1,5% E OGGI SIA SALITO AL 2,5%, QUALCOSA NON QUADRA SE SPARISCONO PURE I MORTI
Nel consueto bollettino di aggiornamento della situazione Coronavirus sul territorio, la Regione ha dato notizia di 0 nuovi casi di vittime legate al Covid-19 registrate nelle ultime 24 ore. Con una nota pubblicata insieme ai grafici, ha specificato che i flussi provenienti dalla rete ospedaliera e dalle anagrafi territoriali non hanno segnalato decessi.
L’assenza di nuovi decessi collegati a Covid-19, per la prima volta dall’inizio dell’epidemia a febbraio, potrebbe essere causata dalla mancata trasmissione dei dati dalla rete ospedaliera e dalle anagrafi dei Comuni. È già successo anche negli scorsi mesi, in occasione di festività o weekend, che i dati non fossero del tutto aggiornati e che quelli mancanti siano stati poi aggiunti il giorno dopo.
I nuovi casi positivi sono invece 285, anche questi in calo (ieri erano 441) ma leggendo bene i dati la notizia non è per nulla confortante perchè i tamponi fatti sono passati da 17.131 di ieri a 11.457 di oggi. Meno tamponi fai e meno risultano i contagiati.
Non solo: venerdi la percentuale dei positivi in rapporto ai tamponi effettuati era dell’1,5%, oggi è salito al 2,5% (sabato era del 2,6%).
Difficile credere che si sia passati dai 56 decessi di ieri agli zero di oggi.
Qualcosa non torna.
argomento: emergenza | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
“26 MILIARDI DI EURO A 18 MILIONI DI ITALIANI”
Presidente Tridico, come riassumerebbe il lavoro di questi mesi?
In modo sintetico? L’INPS paga.
Vi siete trovati in trincea per tre mesi. Adesso l’istituto ha pubblicato sul sito i numeri dell’emergenza. Che fotografia ne esce?
Io credo che l’INPS in questa crisi si sia confermata come il perno dello Stato sociale. Non era facile. Non era scontato.
Cosa risponde alle accuse di chi dice: “Non avete tutelato tutti”?
Che adesso è sotto gli occhi di tutti che è accaduto l’opposto: con la miriade di strumenti messi in campo abbiamo aderito a ogni piega della società italiana.
C’è qualcosa che vorrebbe copiare all’estero?
Veramente ci sono gli inglesi che vorrebbero copiare da noi la cassa integrazione, e le spiegherò perchè.
I tempi della cassa integrazione in deroga sono stati in alcuni casi farraginosi, è innegabile.
Sì, ma per via del meccanismo previsto dalla legge, non per nostri ritardi. Vorrei approfittare di questa intervista per spiegarlo.
Quindi lei dice che l’Inps va giudicata per quello che sta facendo ora, con i provvedimenti che sono entrati a regime
Esatto. Sono numeri che fanno tremare i polsi.
Cioè
Se a gennaio qualcuno mi avesse detto che oggi avremmo gestito 26 miliardi di euro (oltre ai 10 del decreto Cura Italia), riuscendo a coprire 18 milioni di persone (e 11 milioni di persone nel decreto Cura Italia), io lo avrei scambiato per un matto. Invece è esattamente quello che stiamo facendo.
Pasquale Tridico, Presidente dell’INPS. In queste ore si considera in trincea ed invita tutti ad andare “a leggere i dati integrali pubblicato sul sito”. In queste ore si dichiara “appassionato ed orgoglioso”. E osserva: “Le dimostrerò che ciò che abbiamo fatto ha messo in sicurezza il paese. Soprattutto le fasce più deboli”.
Partiamo dalle note dolenti, però, è giusto spiegare.
Certo. Il fatto è che la cassa integrazione è così, non potevano cambiare la legge con un colpo di bacchetta magica. Lo abbiamo fatto in corsa.
E la legge, tuttavia, prevedeva un congegno complesso.
Le aziende, e i suoi consulenti, fanno domanda alle regioni, che la mandano all’INPS. Poi l’Inps rimanda la pratica alle aziende. E poi le aziende rimandano la richiesta definitiva indietro solo nel mese successivo all’approvazione.
Perchè? Non è una follia?
C’è un motivo. Perchè potrebbe utilizzare molti lavoratori, in quel mese, anche in modo parziale. Quindi può spedire solo quando ha il consuntivo reale delle ore lavorate in quel mese.
Però il gomito del passaggio alle regioni, che ha fatto perdere tanto tempo non era inevitabile.
Ci sono state delle polemiche, e mi dispiace.
Come mai?
Adesso abbiamo dalle regioni tutte le domande. Ma bisogna anche capire il contesto.
Quale?
Anche le regioni si sono trovate di fronte una valanga di domande. Un fiume senza precedenti, la crisi più grande della nostra storia. Ci sono quattro filtri, adesso sappiamo come semplificare. E abbiamo anche deciso, nel decreto rilancio, che ci sarà l’anticipo della cassa integrazione del 40 per cento dato su domanda, entro 15 giorni.
Sì ma quanti cittadini sono rimasti ancora a secco secondo i vostri dati?
È un conto facile: su 7,5 milioni di potenziali percettori, noi abbiamo già pagato, tra conguagli e pagamenti diretti, casse integrazioni a 5 milioni di cittadini. Ma le attese sono finite, copriremo in breve tutti coloro che hanno diritto.
C’è qualche problema di disponibilità , o di copertura?
Nessuno. Per me anche la capacità previsionale che abbiamo dimostrato è un motivo di orgoglio, una prova della professionalità dei lavoratori e degli esperti dell’INPS.
Mi faccia un esempio.
Non abbiamo sbagliato un numero. Nel solo mese di aprile abbiamo erogato cassa integrazione pari a quella stanziata per tutti gli ultimi anni di crisi!
Di quanto parliamo?
Di 859 milioni di ore. E a proposito di capacità previsionale, arriveremo presto a pagare un miliardo e 200mila ore!
E sono parametri sostenibili?
È esattamente in linea con le risorse che abbiamo preventivato.
E non rischiamo di sforare se la crisi si aggrava?
No, per un ragionamento semplice. Malgrado la crisi e i vincoli, molte persone stanno già tornando al lavoro.
Quindi non può peggiorare nell’immediato?
Esatto. È come se la foto della crisi fosse fotografia dell’epidemia del Covid con due mesi di ritardo. Adesso che il contagio scende, malgrado tutt’e le difficoltà , il paese inizia a ripartire.
Gli strumenti hanno avuto percorsi diversi.
È dovuto al meccanismo della cassa che le ho descritto. I bonus, la naspi, il reddito di emergenza e il reddito di cittadinanza si chiedono direttamente all’INPS. È come se avessero viaggiato in una corsia preferenziale.
Cioè
Direi che sono numeri da record. Domanda e risposta in quindici giorni.
Perchè così facile in questo caso?
Perchè si tratta di un bonus di 600 euro. È denaro che va ad aiutare il cittadino, non interviene nella sua storia contributiva e previdenziale.
Cosa che avviene con la Cassa.
Questo è il punto. Perchè la cassa integrazione è così complessa? Perchè è un meccanismo sostitutivo perfetto del reddito: a parte l’importo ridotto è come come se fosse il normale cedolino del lavoratore
Intende dal punto di vista delle tutele.
Non perdi i contributi. Non perdi la previdenza. Non perdi gli assegni al nucleo familiare, non perdi nulla.
E questo la rende più complessa e onerosa di un semplice bonus.
È come se l’INPS dovesse fare le buste paga per tutte le aziende italiane. Ma attenzione
Cosa?
In Inghilterra si è aperto un dibattito — curiosi ne trovano traccia su Huffington post — sulla cassa integrazione italiana. E non per criticarla: perchè la vogliono adottare! È l’unico modo di garantire quelle tutele che con le altre forme di sussidio vanno perse. È lo strumento che ti tutela di più.
Ma si possono tagliare i tempi?
Si può semplificare ulteriormente e lo faremo. Anche perchè non siamo venuti mai meno all’esigenza del controllo
Parla dei furbetti?
È un punto importante: dobbiamo stare attenti a non dare casse integrazione ad aziende fittizie. Oppure lavoratori con cassa, a zero ore, che continuano a lavorare a nero.
E sappiamo quanti ci hanno provato?
Abbiamo scovato circa 8-10 lavoratori che erano agganciati ad aziende fittizie. Li abbiamo scovati e depennati
Qualcuno dice che non avete dato abbastanza
Le faccio un esempio di pessima informazione. C’era un articolo sul mattino: “L’INPS sta dando l’elemosina”.
Dicono che in alcuni casi gli importi sono bassi.
Ma qui non ci sono margini di equivoco. La cassa è l’80 per cento della busta paga reale. Quindi se qualcuno prende 500 euro di stipendio è ovvio che la cassa si aggiri sui 300 euro.
Capisco cosa intende. Se un lavoratore era pagato 500 euro in nero e 500 euro in chiaro non è colpa dell’INPS.
Spero che in questa crisi tutti i datori di lavoro abbiamo imparato che pagare in nero o evadere diventa una boomerang quando devi chiedere sussidi.
Parliamo dei 600 euro
Ricordo le facili ironie dei primi giorni
Quelli di chi diceva: “Non arriveranno”.
Sono arrivati. E dico di più: quelli che hanno già avuto i 600 euro adesso hanno già ottenuto — parlo di due giorni tra giovedì e venerdì — due milioni di bonifici. Lunedì altri due milioni di persone otterranno i bonifici
In totale 4 milioni.
Il mio parrucchiere ha avuto i soldi il 16 aprile. E quando sono andato a tagliarmi i capelli aveva già avuto il rinnovo automatico. E in tutto questo abbiamo continuato a pagare 20 milioni di pensioni, invalidità , maternità , e prestazioni a cittadini e servizi alle aziende per 41 milioni al mese
Sarà così per ogni rifinanziamento?
Senza dubbio: è un meccanismo creato dal nulla, in pochi giorni. una volta creata l’anagrafe arriva, puntuale come un orologio
Questi dati resteranno nella vostra memoria?
E sono un bene prezioso. Vede, nella catastrofe l’istituto ha imparato a conoscere meglio gli italiani
Anche le partite Iva?
Proprio loro. Gli autonomi e le partite Iva erano i lavoratori che conoscevamo meno. Adesso sappiamo molto più su di loro. Così come conosciamo meglio i poveri grazie al reddito di cittadinanza
E i numeri tornano?
Avevamo stimato una platea di 4,8 milioni. Ne abbiamo già liquidato 4 milioni, vediamo se arriveranno anche altri
Sono tanti gli esclusi dai 600 euro?
Non molti. Ma dobbiamo rispettare la legge, vincoli fissati dai provvedimenti.
Ad esempio
Se eri lavoratore dello spettacolo ti spettava il contributo se avevi lavorato almeno trenta giorni nel 2019
Oppure?
Se eri un lavoratore agricolo dovevi avere almeno 51 giornat
Oppure?
Non prendi i 600 euro se hai un altro reddito o pensione. Molte cose le aggiusteremo in corso, ripeto: noi stiamo scoprendo meglio il paese reale. È come individuiamo delle criticità interveniamo.
Ad esempio con il reddito di ultima istanza.
Esatto. È quello che va a coprire lavoratori intermittenti, lavoratori del turismo e lavoratori stagionali non turistici.
Questi ultimi chi sono?
Ad esempio un meccanico dipendente che lavora in una località turistica. Durante l’anno l’officina è chiusa e lui non lavora. Ma formalmente non è un lavoratore del turismo.
Che differenza c’è con il reddito di emergenza?
È una variante, ma parliamo di 2,8 milioni di persone potenziali.
Molte persone si sono impoverite velocemente.
E quelle le intercettiamo con il reddito di cittadinanza grazie ad un altro strumento di cui parlammo proprio su Tpi.it. L’Isee corrente.
Se si è abbassato il tuo reddito lo “fotografi” con l’Isee corrente e chiedi il Reddito. Ma i tempi?
Molto rapidi. Pensi che con questa procedura abbiamo già aumentato del 12 per cento le erogazioni, con centomila nuclei aggiuntivi.
Ma il reddito di emergenza sta tirando?
Scherza? In due giorni abbiamo già ottenuto 50mila domande.
Chi lo sceglie?
Persone che hanno una soglia Isee più alta del reddito di cittadinanza, per esempio. La soglia del Reddito ci cittadinanza è a Isee 9360, quella del reddito a Isee 15mila euro.
Ma ha anche altri usi, vero?
Se hai una cassa integrazione sotto i 400 euro puoi integrare con il reddito di emergenza.
Così viene elevato anche lui a una soglia minima.
Un part time subordinato a 500 euro può prendere 300 euro. Così arriva a 800 euro. Questo strumento lo abbiamo pensato per tutelare i lavoratori più deboli, magari proprio i sottopagati di cui parlavamo prima.
Quindi l’integrazione si somma alla cassa.
Con quattro persone di nucleo familiare arrivi a 800 euro. Nella cassa hai le tutele. Mentre la parte di reddito aggiuntivo funziona come un bonus.
E questa misura è universale?
Noi la eroghiamo a tutti i residenti in Italia. E vorrei ricordare a tanti che esaltano il modello americano: lì o prendono poco o non prendono niente. Lì arrivano soldi, ma non agli invisibili.
I cosiddetti poveri e incapienti
Esatto: io li chiamo fantasmi. Bene, con questo ultimo decreto in Italia per l’INPS non esistono fantasmi. Qualcuno potrà dire che potevamo dare di più, forse. Ma nessuno può dire che lasciamo indietro qualcuno.
Non ci sono fantasmi, intende?
Abbiamo strumenti così variegati che arriviamo a coprire tutte le categorie
Lei non nasconde il suo orgoglio
Le ripeto. Stiamo gestendo 26 miliardi di euro per 18 milioni di persone (più 11 miliardi nel decreto Cura Italia). Questo investimento è senza precedenti nella storia repubblicana.
E i famosi bonus baby sitter? Ora, a scuole chiuse serviranno di più.
E lo abbiamo già previsto. I bonus baby sitter (150mila persone), i congedi parentali (250mila) e i centri estivi. Sono andati a tutti coloro che avevano figli sotto i dodici anni. E sono stati erogati
Già pagati?
Sono arrivati a metà aprile e adesso vengono rinnovati. Con la logica dei bonus, quindi veloce: sei in anagrafe? Finchè c’è il buono si rinnova.
E il tasso di rifiuto?
È stato bassissimo. Per accadere ovviamente devi lavorare, e non devi essere in cassa integrazione. Abbiamo coperto tutto.
Davvero non vede nulla da copiare nel mondo?
Nel nostro settore? Qualcosa dei paesi scandinavi. Qualche intervento in Germania. Ma la risposta dello stato sociale italiano è stata straordinaria. In America e in tanti paesi i più poveri non prendono nulla. Qui siamo arrivati dappertutto. Abbiamo coperto tutte le categorie.
Cosa avete migliorato da un decreto all’altro?
Prima se tu avevi un sussidio non prendevi un altro sussidio. Adesso c’è il principio dell’integrazione.
Cosa manca?
Il paese aveva bisogno di liquidità e noi l’abbiamo data nei limiti del nostro mandato. Ma l’INPS non è una banca. Non fa prestiti. Eroga prestazioni sulla base di diritti soggettivi di cui deve controllare l’esistenza per non fare danno erariale
Sarà sostenibile questo debito?
Da economista so che recuperare 20 punti di Pil è molto più difficile. Ma il debito è sostenibile. Se non abbiamo sentito parlare di minaccia spread è per un motivo chiaro
E cioè?
Perchè la manovra fiscale è stata coordinata in ambito l’Ue. Perchè i nostri interventi sono stati mirati, ma non distribuiti a pioggia, in base ad una logica assistenziale. Anche se pensato nell’emergenza e con i tempi della crisi sono dei vestiti su misura.
/da TPI)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
780.000 EURO DEL GRUPPO DIROTTATI ALLA RADIO, MA ANCHE 500.000 EURO DALLA VECCHIA LEGA E 187.000 DAL NUOVO PARTITO: LE INDAGINI DELL’ANTIRICICLAGGIO
Nel numero in edicola oggi L’Espresso racconta dove sono finiti i finanziamenti del gruppo parlamentare della Lega e quelli del Carroccio, in un’ampia panoramica che comprende le società di Luca Morisi ma anche Radio Padania.
In particolare sull’emittente “comunitaria” arriva una pioggia di denaro pubblico che proviene dal gruppo: dal 7 settembre 2018 fino almeno al 20 novembre 2019 ha ricevuto 780 mila euro dal gruppo. Ma non ci sono solo quelli, spiegano Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian:
Radio Padania, tuttavia, non solo si mette in tasca 780 mila euro dal gruppo della Camera dei Deputati, ma a partire dal gennaio 2017 fino al settembre 2018 ottiene pure oltre mezzo milione dalla Lega Nord, quella stessa Lega rimasta a secco di liquidità , come ripeteva Salvini pubblicamente. A questo gruzzolo vanno aggiunti altri 187 mila euro ricevuti dalla nuova Lega-Salvini premier.
Ricapitolando, in due anni Radio Padania, tra denari pubblici del gruppo parlamentare e soldi del partito, si porta a casa oltre 1,2 milioni di euro. I sospetti dell’antiriciclaggio si concentrano soprattutto sui fondi della Camera.
Che tipo di servizio ha svolto Radio Padania per ricevere una fetta così rilevante di contributo pubblico? L’Espresso lo ha chiesto ai diretti interessati, Centemero e Manzoni: nessuna risposta. Di certo quasi un milione di euro in 13 mesi non è un prezzo di favore:
I detective dell’antiriciclaggio spiegano anche per cosa può essere usato il contributo che Montecitorio ha assicurato ai gruppi: «Esclusivamente agli scopi istituzionali riferiti all’attività parlamentare e alle funzioni di studio, editoria e comunicazione ad essa ricollegabili, nonchè alle spese per il funzionamento degli organi e delle strutture dei Gruppi, comprese quelle relative ai trattamenti economici».
In pratica, è possibile spendere il contributo onnicomprensivo soltanto per attività che hanno a che fare con la vita del gruppo e non del partito.
Che servizio ha svolto Radio Padania per i deputati della Camera?, abbiamo chiesto sempre a Manzoni e Centemero, che però hanno preferito non rispondere.
Nel palinsesto della radio non c’è un programma speciico sull’attività dei deputati leghisti e non è dato sapere se i leghisti abbiano utilizzato la radio per gestire l’ufficio stampa del gruppo.
Sappiamo, però, che nel corso del 2018, in soli tre mesi (settembre-dicembre) l’emittente leghista riceve i primi 292 mila euro.
Nello stesso anno il gruppo parlamentare iscrive a bilancio alla voce comunicazione la cifra di 201 mila euro. Inferiore, dunque, a quella incassata da Radio Padania.
E allora non resta che confrontarla con un altro capitolo di spesa, le “collaborazione professionali”, pari a 314 mila euro.
In mancanza di una spiegazione ufficiale, da noi richiesta, possiamo solo ipotizzare che i fondi destinati a Radio Padania siano stati spalmati su più voci di bilancio. Forse l’emittente è stata usata come jolly del gruppo, capace di assicurare studi, piani di comunicazione e prestazioni professionali?
(da “NextQuotidiano”)
argomento: denuncia | Commenta »