Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
“E’ UNA TORTURA MORALE ASCOLTARE IL TRIBUNO DI QUESTA SPORCA DESTRA XENOFOBA”
C’è miracolo e miracolo, diceva Troisi in “Ricomincio da tre”, e far ricrescere la mano a un monco è troppo anche per il Padreterno.
In compenso, si possono far drizzare i capelli in testa a un calvo. E’ quel che accade a Franco Cardini, uomo di destra, ogni volta che Salvini apre bocca.
E’ una tortura morale, ha detto ieri al Foglio, ascoltare il tribuno di questa “sporca destra xenofoba” che coltiva un anti islamismo caricaturale, si affida a ceffi come Steve Bannon e insegue strampalerie monetarie.
Cardini ha rievocato le avventure editoriali del conservatorismo intelligente, le ha comparate al vuoto di oggi e si è depresso: “I leader, i partiti si giudicano da quello che scrivono. Cosa scrive Salvini? Cosa scrive la Lega?”.
Ma per scrivere serve appunto la destra, e ridarla a un monco non si può.
L’èlite intellettuale (diciamo) della nuova egemonia non è composta da professori, ma dagli invasati dei talk-show.
Giorgia Meloni si affida a Mario Giordano e ad Alessandro Meluzzi, ossia a un matto urlante sul monopattino e a un primate ortodosso autocefalo (suona come una trafila di insulti, ma è proprio così).
Salvini ha reclutato i suoi gorilla dalla Gabbia di Paragone.
E la cultura? Ripenso a un panel del convegno “Europa Sovranista”, organizzato l’anno scorso dal think tank Nazione Futura. Tema: “Che cos’è il sovranismo?”. Ne parlano: Paolo Becchi, Maria Giovanna Maglie, Ilaria Bifarini.
Roba da far drizzare i capelli a un calvo, ma non certo da far rispuntare la mano a un monco
(da “il Foglio”)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
E SUI SOCIAL IMPAZZANO GLI SFOTTO’… LE MASCHERINE SONO EFFETTIVAMENTE PRODOTTE IN MAROCCO DA UN’AZIENDA PIEMONTESE NEL SUO STABILIMENTO DELOCALIZZATO NEL PAESE ARABO
Stanno arrivando in questi giorni nelle buche delle lettere, pur con i ritardi denunciati dall’assessore torinese Alberto Unia, le mascherine gratuite della Regione Piemonte prodotte, come annunciato diverse settimane fa dalla giunta a trazione Lega, da tre aziende piemontesi a cui è stata affidata la realizzazione di ben 5 milioni di pezzi. Tuttavia molti non hanno potuto non notare che, a dispetto della scritta di sapore autarchico sulla busta intestata Regione Piemonte, “prodotto e confezionato da aziende Piemontesi”, su molte mascherine la scritta sull’etichetta non lascia dubbi: “Made in Marocco”.
Risultato, valanghe di ironie e critiche sui social, a partire da Facebook dove è stato due giorni fa lo stesso Mauro Salizzoni, ex re dei trapianti di fegato e ora vicepresidente Pd del Consiglio regionale, a puntualizzare: “Io, residente a Torino, non ho ancora ricevuto la mascherina della Regione. E voi? Lasciate un commento qua sotto dicendomi se vi è arrivata e, se volete, il comune di residenza (oppure mandatemi un messaggio in privato). Vedo da queste foto, che circolano in rete, che l’operazione autarchica sta andando sempre più a bagno”, e il riferimento è appunto alla famosa etichetta “Made in Marocco”.
Oggi a rincarare la dose è stato Carlo Bogliotti, direttore editoriale di Slow Food Edizioni: lui la mascherina l’ha ricevuta e sempre su Facebook scrive ironicamente “Ho ricevuto grazie all’amministratore di condominio le mascherine promesse dalla Regione Piemonte. Molto gradite e anche comode, ne avevo bisogno e sono contento e grato di averle a disposizione mia e dei miei famigliari. Solo non pensavo che il Marocco fosse in Piemonte…”.
Dalla Regione si fa notare che sulla busta intestata non c’è scritto “prodotto e confezionato in Piemonte” ma “da aziende piemontesi”, ed ecco il punto, che pur si presta a equivoci e battute: parte delle mascherine realizzate da Miroglio, una delle tre aziende produttrici – 350mila pezzi su due milioni – esce effettivamente dallo stabilimento che il gruppo di Alba ha a Casablanca, in Marocco.
Non piemontesi, insomma, ma comunque “griffate” Miroglio
(da “NextQuotidiano”)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
“LA DESTRA ITALIANA E’ FINITA, LA LEGA NON E’ MAI STATA DI DESTRA, SALVINI E’ UN RADICALE TROZKISTA, I LIBERALI NON ESISTONO, LA MELONI PENSA SOLO A FARE IL VERSO A SALVINI
“Più veloce, più organizzata, con il senso del tragico”. Secondo il politologo Alessandro Campi queste le ragioni per cui “la pandemia ha colto le democrazie impreparate”.
E più che alla politica, “troppa concentrazione di poteri all’apparato tecnico-burocratico. Passata la paura, quando sarà finita, non ci ricorderemo di Conte, ma di Burioni e di Arcuri, della Capua e di Borrelli. Con il rischio che si affermi la visione di uno Stato grande elemosiniere e di un vassallaggio alla Cina”.
Campi, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia, è in libreria con “Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione e le relazioni internazionali” (Rubbettino).
Se per democrazia ci limitiamo a intendere il meccanismo attraverso cui si arriva alla decisione politica, qual è lo stato della democrazia in Italia?
Democrazia implica, come diceva già Tocqueville, l’homo democraticus. Prima di essere un sistema di regole essa è un abito mentale, un atteggiamento che si può sintetizzare nella massima: l’unità nella differenza cioè la convivenza pacifica tra idee diverse, gli interessi parziali che trovano una composizione nell’interesse generale. Già si vede che quest’abito in molte democrazie consolidate è venuto meno da un pezzo: la comunicazione digitale da questo punto di vista ha inferto un colpo mortale all’ethos civile democratico. L’immagine canonica e virtuosa dell’opinione pubblica democratica implica cittadini responsabili che si informano e discutono tra loro mossi dal senso critico. Ma questo santino sociologico semplicemente non esiste più: il dibattito pubblico (peraltro fortemente inquinato dalle false notizie) è ormai una battaglia all’ultimo insulto a partire dai pregiudizi che nutrono le nostre poche e spesso malsane idee. Chi è disposto oggi a cambiare idea per aver letto un articolo o per essersi confrontato liberamente con qualcuno? In seconda battuta, la democrazia è lo strumento attraverso cui scegliamo chi deve governarci. Ma se salta la capacità di mediazione tra istituzioni e società operata tradizionalmente dai partiti, se i luoghi di formazione dei gruppi dirigenti smettono di funzionare, allora ai vertici della rappresentanza e del governo può arrivare chiunque: avventurieri della peggiore specie o semplici avventizi senz’arte nè parte (anche se nobilitati dal bollino “società civile”).
La non-decisione, ovvero la crisi di funzionalità , di cui soffrono le democrazie contemporanee è il frutto, in gran parte, di questa doppia deriva: un popolo rissoso e fazioso, sempre più polarizzato senza nemmeno il conforto delle vecchie ideologie, che si sceglie rappresentanti incompetenti, o che periodicamente si affida — salvo restarne delusa — a questo o quel “salvatore della patria”. Oggi è il turno di Conte, nell’attesa che ci si stanchi anche di lui.
C’era un problema precedente all’emergenza pandemia, o la pandemia ha peggiorato la situazione, ha creato una distorsione e un abuso della decretazione d’urgenza? O l’urgenza era necessaria?
Prima della pandemia c’era il governo breve, ovvero lo sguardo corto di tutti i leader politici democratici. Preoccupati solo della loro rielezione e di lisciare il pelo al popolo con discorsi vuoti e promesse, non riuscendo più a dare risposte alle crescenti domande sociali. E impegnati solo a comunicare, comunicare, comunicare. Lo scoppio della crisi sanitaria ha semplicemente mostrato questo: nessun governo, nessun leader si era preoccupato di ragionare o programmare guardando al futuro. Anche perchè i cicli politici ormai si sono accorciati (così come si è drammat icamente ristretta la torta di spesa pubblica da redistribuire). Tolta la Merkel, e tolti naturalmente i leader autoritari, i capi di governo ormai durano lo spazio di pochi anni: vanno e vengono divorati da quello stesso popolo che prima li ha scelti.
La pandemia ha colto le democrazie impreparate: perchè lavorano politicamente ormai su tempi brevi (quelli imposti dalla comunicazione in rete), perchè hanno procedure decisionali per definizione lente (un handicap quando la velocità nelle risposte diventa decisiva) e, aggiungo, perchè essendo storicamente fondate sul mito dell’opulenza nemmeno riescono più a concepire, sul piano della mentalità collettiva, che dietro l’angolo possa esserci una tragedia in agguato (le democrazie liberali non coltivano il senso del tragico). Nello stato d’emergenza che abbiamo sperimentato non è emerso il sovrano che decide per tutti e fonda la sua legittimità , con buona pace di tutti quelli che in queste settimane hanno inutilmente scomodato Carl Schmitt e le sue teorie sullo stato d’eccezione. E’ emersa, per restare nel campo delle democrazie, la differenza tra le società meglio organizzate (la Germania) e quelle meno organizzate, tra chi ha ancora un residuo di classe dirigente (con relativo senso del dovere) e chi non l’ha più. Per il resto, come si è visto in Italia, la differenza nell’emergenza l’ha fatta l’abnegazione dei singoli.
Il ricorso all’urgenza ha funzionato? Cosa si perde in termini di dialettica democratica, ricorrendo all’urgenza?
I cocci dello Stato diritto, in Italia come altrove, li raccoglieremo nei prossimi anni. La tradizionale gerarchia delle fonti di diritto è stata stravolta. I parlamenti sono stati esautorati o chiamati ad esercitare una mera ratifica legale di decisioni prese in via puramente amministrativa e secondo procedure assai dubbie. C’è stata una concentrazione di poteri che non ha riguardato, come si sostiene, il livello del governo politico, ma gli apparati tecnico-burocratici. Scienziati e burocratici sono stati i protagonisti di questa crisi. In Italia, quando sarà finita, non ci ricorderemo di Conte, delle sue conferenze stampa e del suo decisionismo a favore di telecamere, ma di Burioni e di Arcuri, della Capua e di Borrelli. Così come ci ricorderemo dei numerosi e pletorici comitati di esperti, nati per supplire una politica evidentemente incapace di assumersi le sue responsabilità . E’ un cambiamento di attori (e di dinamiche) che in futuro potrebbe incidere molto sul modo di funzionare delle democrazie, destinate probabilmente ad evolvere verso una forma di tecno-populismo implicante una divisione funzionale dei compiti: i politici faranno le campagne elettorali, scriveranno sui social e andranno in televisione (il versante populista della politica democratica), la new class degli esperti e competenti nelle diverse materie prenderà invece le decisioni che contano (il lato tecnocratico della politica democratica).
C’è un problema di classe dirigente nel Paese o – se esiste – un problema di malfunzionamento della democrazia a priori? Il nostro sistema, la nostra architettura istituzionale non era attrezzata a fronteggiare emergenze come il virus?
La democrazia italiana è sgangherata, e non da oggi. Resiste perchè lo Stato italiano, che come tutti gli Stati dispone di un sistema nervoso tecnico-amministrativo e di apparati burocratici che riescono ancora a fare quello che la politica non sa più fare o, nei casi estremi, a riparare ai suoi errori. Tutti i tentativi di riforma del sistema politico italiana sono stati affossati negli anni grazie ad una cultura costituzionale di stampo, nemmeno conservatore, ma corporativo-conservativo. Anni passati a difendere la Repubblica parlamentare nata dalla Resistenza contro ogni minimo rischio di evoluzione in senso personal-presidenzialistico e il risultato è che nessuno ha mosso un dito quando lo storico e glorioso bicameralismo italico è stato declassato ad orpello formalistico in nome dell’emergenza. Quanto a come si seleziona una classe politica all’altezza, per l’ordinaria come per l’ordinaria amministrazione, dovevamo pensarci prima. Adesso ci teniamo quel che abbiamo e che Dio c’aiuti.
C’è chi sostiene, come Lucio Caracciolo su Repubblica, che contro il virus rinasce lo Stato. E’ d’accordo?
Più che lo Stato come apparato o struttura è tornata soprattutto l’idea — davvero hobbesiana — di un potere la cui funzione primaria (che poi è la ragione principale per cui ad esso si obbedisce) è quella di proteggere i cittadini dai pericoli. Laddove il pericolo principale è quello di morire. E’ in effetti impressionante, anche se perfettamente comprensibile in una logica appunto hobbesiana, il modo con cui milioni di cittadini hanno accettato senza battere ciglio di essere confinati nello loro case e privati di alcune libertà fondamentali da un potere al quale, sino al giorno prima, non avrebbero riservato altro che insulti. E il bello è che abbiamo anche scambiato per senso civico da cittadini il terrore panico da sudditi quali nuovamente ci siamo ritrovati ad essere grazie ad un esperimento sociale di confinamento domestico che personalmente mi è molto servito per capire come dovessero funzionare i regimi dell’Est all’epoca del “socialismo reale”: il vicino di casa delatore, la sorveglianza discreta della polizia, le persone che per strada si guardano con sospetto, il governo politico ridotto a grigia amministrazione, la riduzione dei spostamenti e dei contatti sociali, le code fuori dei negozi, i discorsi televisivi e rete unificate del leader, il dissenso intellettuale ridotto al minimo, il permesso delle autorità per spostarsi da un posto all’altro. Il problema, fatta questa digressione, è quello che accadrà passata la ‘grande paura’. Lo Stato, stante anche la recessione economica che tutti si aspettano, riprenderà il ruolo di imprenditore-innovatore di keynesiana memoria? La mia paura è che prevalga, ad esempio in Italia, una visione dello Stato come grande elemosiniere: poco a tutti per ragioni, al tempo stesso, di giustizia sociale e di consenso elettorale.
C’è poi l’aspetto internazionale. Con gli Stati, a partire da quelli grandi e più potenti, che si riprendono i loro spazi dì azione e di sovranità si indeboliranno sempre di più gli attori sovranazionali, già da un pezzo in crisi. Con la crisi del multilateralismo e dell’ordine mondiale liberale potrebbe aprirsi un nuovo ciclo di lotte per l’egemonia su scala globale. Mi chiedo a quel punto che scelte farà l’Italia. Sceglieremo il vassallaggio alla Cina come male minore?
Allargando il discorso, è mancata in questa fase una destra capace di fare un’opposizione non urlata, come sostiene per esempio lo storico Franco Cardini sul Foglio, e di incanalare la risposta dello Stato in chiave diversa?
L’equivoco — politico e ideologico al tempo stesso — è che Salvini e la Lega abbiano qualcosa a che vedere con la destra, conservatrice o nazionalista che sia, quella che per tradizione si vuole dotata di un grande senso dello Stato, tutta “ordine e disciplina”. La Lega nasce anti-italiana e anti-nazionale. Ha sempre avuto una carica sovversiva e anti-istituzionale che da Bossi arriva direttamente al radicalismo vagamente di Salvini. L’unica destra su piazza, in senso proprio, è quella della Meloni (essendo finito da un pezzo il sogno d’una destra liberale che intorno a Berlusconi non si è mai aggregata se non a chiacchiere). Ma la leader di Fratelli d’Italia ad un certo punto dovrà decidersi: fare il verso a Salvini per togliergli un po’ di elettorato sul suo stesso terreno propagandistico (facendosi forte dell’essere donna, giovane, abile nella comunicazione, più presentabile o semplicemente meno ambigua sulla scena internazionale) o ricordarsi da dove viene e provare a costruire una destra meno incline allo sciovinismo e alla demagogia? C’è però a destra un problema di elettorato: ormai radicalizzato e abituato a certe parole d’ordine e a certi cattivi umori. Non vedo dunque un grande spazio per un’azione di pedagogia politica che richiederebbe anni e che non sono nemmeno sicuro che la Meloni sia interessata a condurre, preferendo forse anch’essa un rapido incasso elettorato con i soliti sloga contro l’immigrazione o l’Europa o la finanza plutocratica. Forse è più semplice dire che la destra in Italia (forse nel mondo) è finita, come anche la sinistra. Solo altre le partite, le poste in gioco e le linee di divisione.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
“MI CHIEDI DA CHI PRENDO LO STIPENDIO? NON LO PRENDO PERCHE’ LO VERSO ALLE PERSONE IN DIFFICOLTA'”… “OFFENDI LE PERSONE SENZA CONTRADDITTORIO E NON SAI NEANCHE DI COSA PARLI”
«Prima di tutto io non prendo lo stipendio, ho versato i miei soldi alle persone in difficoltà . Poi tu, Nicola Porro, usi i classici schemi del populismo: parli senza contraddittorio di cose che non sai e cerchi di offendere gli altri senza manco sapere di cosa stai parlando»: anche Bruno Murzi, sindaco di Forte dei Marmi, ha riconosciuto Nicola Porro, uno che è talmente intelligente da chiamare Red Ronnie ed Eleonora Brigliadori per parlare di vaccini mettendo a rischio la salute pubblica con i soldi nostri, ovvero quelli del canone.
Nell’occasione Porro ha fatto la sua solita videoscenetta imitando Mario Giordano che imita Gianfranco Funari che imitava uno sciacquone che però a differenza degli altri tre almeno una sua funzione ce l’ha, prendendosela con il sindaco di Forte dei Marmi perchè ha dato il permesso di giocare a tennis soltanto ai residenti.
Murzi trasmette il video di Porro e risponde spiegando che è stato tra i primi a riaprire i circoli del tennis assumendosi delle responsabilità .
Poi prosegue: “Tu Porro non sai che neanche oggi i milanesi potrebbero venire a giocare a tennis a Forte dei Marmi, quindi lasciarlo fare ai residenti è una necessità . Io poi mi sono un po’ rotto i coglioni di avere gente come Porro, supponente e senza contraddittorio, che continua a gettare discredito sulla gente senza nessuno che dica “ehi amico, stai dicendo una bischerata. La tua responsabilità è quella di parlare davanti a una telecamera senza contraddittorio, la mia è quella di prendermi responsabilità : noi sindaci ce le prendiamo ogni giorno per due lire, tu li dovresti considerare degli eroi i sindaci italiani. Ma chi cazzo te lo paga? Neanche sai di cosa stiamo parlando, io non ho paura di assumermi le responsabilità e mettere le mani nella merda. Questa è la differenza tra chi parla, parla, parla senza assumersi responsabilità e me”.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
L’EX GENERALE RIVENDICA LA PRIMOGENITURA DELLA MANIFESTAZIONE DI PROTESTA DEL 2 GIUGNO, ORA LA FARSA E’ COMPLETA
Cari Salvini e Meloni, non ci provate. Anche se voi due avete contemporaneamente convocato una manifestazione della Lega e di Fratelli d’italia per farvi un dispetto, sappiate che qui c’è gente che si è messa in fila molto prima. E che quindi ha il diritto di prelazione.
Il non più generale Antonio Pappalardo, già reduce da una gloriosa candidatura in Umbria e dal processo per vilipendio nei confronti del presidente della Repubblica, aveva indetto per primo una manifestazione il 2 giugno e adesso non potete certo rubargli il posto. «Adesso tocca a noi, andremo a Roma a presentare il conto perchè la nostra libertà non è in affitto e il nostro Paese non è in vendita», ha annunciato per tempo Pappalardo e adesso non è che il primo Salvini che passa può rubargli l’idea e il posto.
E la stessa cosa vale per Giorgia Meloni, tanto che c’è già un gruppo pronto per pubblicizzare l’evento. «Credono di poterci trattare come bestie ma siamo buoni, non possiamo lasciare i nostri figli in questo inferno, adesso basta, si cambia musica», ha già annunciato.
E quindi anche per Salvini e Meloni ci sarà da rassegnarsi e mettersi in fila: le loro iniziative sono talmente originali da copiare quelle di Pappalardo: “Somari, somari, siete tutti somari, li cacceremo via il 30 maggio e il 2 giugno, noi siamo persone che parlano direttamente con voi in tutte le piazze d’Italia. Uscite fuori con le bandiere, il tricolore e la Costituzione in mano e gridate ‘Libertà ‘. Il 2 giugno a Roma, dobbiamo essere milioni, tantissimi”, ha già annunciato il generale.
Il resto sono solo squallide imitazioni.
(da “NextQuotidiano”)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
“FONTANA NON SI VERGOGNA A DIRE CHE LA SANITA’ LOMBARDA HA BEN FUNZIONATO? HA INDEBOLITO LA RETE DEI MEDICI DI BASE E LE TERAPIE INTENSIVE PER FARE PROFITTI”
«Nelle Rsa della Lombardia la mortalità è la più alta in assoluto, nemmeno New York ha fatto peggio. Il Pio Albergo Trivulzio è solo la punta dell’iceberg, sta succedendo anche in altre strutture, da Legnano a Crema, le storie sono tutte uguali (infatti sono diversi i fascicoli aperti in tutta Italia, ndr). Intanto, però, continuano i decessi per Coronavirus al Pat, e sapete cosa fanno adesso? Mandano in ospedale i pazienti in condizioni gravissime, a cui vengono somministrate cure palliative per poi portarli alla morte».
A parlare a Open è Alessandro Azzoni, portavoce del Comitato Giustizia e Verità per le vittime del Trivulzio.
Dalla battaglia per le cure alla madre è passato a coordinare un gruppo di familiari dei ricoverati (o delle vittime), tutti più o meno nella stessa situazione. Non sono mancate persino «le pressioni della struttura», spiega.
Ma lui non molla e sostiene che, nonostante lo scandalo e le inchieste penali, nella sostanza alla “Baggina” sia cambiato poco: «Ora spostano i malati in ospedale all’ultimo. A questo punto ci chiediamo: ma questi morti, spostati in fin di vita dalle Rsa in ospedale, vengono conteggiati tra i decessi delle Rsa o dei nosocomi?».
La Procura di Milano indaga per omicidio colposo ed epidemia colposa per la morte di circa 300 anziani solo al Trivulzio: nell’inchiesta è coinvolto anche il direttore generale della struttura, Giuseppe Calicchio e le verifiche includono i protocolli d’intesa tra Regione e residenze.
La frase di Fontana
Una risposta forte e chiara al governatore Attilio Fontana che, oggi 16 maggio, in un’intervista alla Stampa ha detto: «La sanità lombarda ha funzionato bene, si è dimostrata efficiente. C’è un clima avvelenato e il tasso d’infezione da noi è tra i migliori in Italia». E a proposito delle riaperture, nonostante i numeri non proprio confortanti (che parlano di un territorio ancora martoriato dal Covid-19 con oltre 27mila positivi e 15mila vittime, ndr) ha aggiunto: «Non si può tenere chiusa la regione più produttiva d’Italia».
«Anziani usati per fare profitto»
La sanità lombarda ha funzionato davvero bene, come dice Fontana? «Ci sembra che la rete di medici di base e degli ospedali lombardi, che avrebbe potuto arginare l’epidemia, negli anni sia stata smantellata e indebolita — ribatte Azzoni — I pronto soccorso e le terapie intensive sono stati trascurati a favore, invece, di visite specialistiche, eseguite dai privati e dunque particolarmente remunerative per la Regione».
E poi spiega ad Open di non sopportare l’idea che le persone più anziane siano diventate puro oggetto di «profitto», con ben poca cura per la loro vita e i rischi che correvano: «Gli anziani, considerati un “peso” per la società , sono stati usati per fare profitto, questa potrebbe essere la genesi del disastro, un disastro annunciato».
Gli errori sarebbero stati principalmente due: «L’aver vietato, fino al 23 marzo, l’uso dei dispositivi di protezione individuale al personale sanitario e l’aver trasferito i pazienti contagiosi dagli ospedali alle Rsa. Una gestione del tutto inadeguata per fronteggiare un’emergenza di questa portata». E ancora: «Al Pat ci sono reparti chiusi per assenza di personale, altri per eccesso di morti senza considerare ospiti e e personale continuamente spostati in altri reparti».
«Mia madre, 75 anni, venerdì scorso è stata mandata in ospedale in gravissime condizioni. Poi al San Paolo ha ricevuto le cure specialistiche che al Pio Albergo Trivulzio non sono stati in grado di dare e ora mi dicono che sia fuori pericolo, in fase di miglioramento. Le hanno fatto tutte le cure di cui aveva estremo bisogno: ossigeno, sondino gastrico per alimentarla e antibiotico specifico per curare un’infezione al sangue. Tutte cure che al Pat non le hanno mai applicato» ci racconta Alessandro Azzoni.
L’esposto collettivo
Adesso i familiari degli anziani pazienti (alcuni ancora in vita, altri deceduti, il totale è di circa 150 famiglie) hanno deciso di presentare un esposto collettivo. In un secondo momento — ci anticipano — fonderanno un’associazione che possa raggruppare tutte le richieste di verità e giustizia.
(da Open)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
SI SONO RADUNATI NONOSTANTE IL DIVIETO… IL SINDACO DELLA VICINA GUALDO TADINO: “PER 14 GIORNI VIETATO RECARSI A GUBBIO E VICEVERSA”
Blindato il confine tra Gualdo Tadino e Gubbio, le due storiche località della provincia di Perugia, per il rischio di nuovi contagi da coronavirus. Il sindaco di Gualdo, Massimiliano Presciutti, ha vietato per i prossimi 14 giorni, a partire da oggi, gli spostamenti dal comune verso Gubbio e viceversa.
Ci si potrà muovere solo attestando una comprovata esigenza lavorativa o situazioni di necessità , cioè per motivi di salute, “purchè venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di almeno un metro e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie”.
L’ordinanza restrittiva del sindaco Presciutti è stata firmata oggi a seguito “degli incresciosi ed intollerabili fatti” accaduti nel pomeriggio di ieri nella vie del centro storico di Gubbio, in occasione della Festa dei Ceri (pur in assenza della tradizionale corsa dedicata al patrono Sant’Ubaldo) dove si sono verificati “plurimi assembramenti in assenza pressochè totale dei dispositivi di protezione individuale ed un perpetrarsi di atteggiamenti contrari alla normativa tesa a ridurre il rischio sanitario dell’emergenza Covid-19, tali da far temere per una possibile ripresa e diffusione del contagio in tutto il territorio”.
Secondo il sindaco di Gualdo, nelle strade di Gubbio si sarebbero riversate almeno un migliaio di persone, stante il divieto di assembramento decretato con ordinanza apposita dal collega Filippo Mario Stirati.
“Stamattina ho provveduto ad emanare formale ordinanza per limitare, non potendo purtroppo per legge vietare, l’ingresso dei cittadini residenti nel comune di Gubbio nel territorio comunale di Gualdo Tadino e dei residenti nel comune di Gualdo Tadino nel territorio comunale di Gubbio”, spiega Presciutti.
“E’ un provvedimento che mi rammarica molto ma inevitabile e necessario stante la situazione che si è venuta a determinare: sulla salute e la sicurezza dei cittadini non sono concesse deroghe e le regole non si interpretano, si rispettano”, osserva Presciutti.
Ma cosa è successo di preciso, visto che nel post del comune non lo si dice? Lo ha raccontato con dovizia di particolari un testimone su Facebook: “Dopo la durissima, ma sacrosanta decisione di annullare la festa dei Ceri, oggi alle ore 18:00 circa, al Corso Garibaldi è andata in scena questa puttanata colossale, passatemi il termine! Centinaia di persone, molte senza mascherine, sono state partecipi in un assembramento che ad oggi sembrerebbe assurdo agli occhi di tutto il mondo, fregandosene di tutto e di tutti, a partire dalle leggi fino ad arrivare alla salute di ogni singolo cittadino”. In uno dei video si vede un vigile che viene aggredito perchè sta filmando gli assembramenti.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
L’ACCUSA A DI MAIO: “LA SICUREZZA ERA L’ULTIMA COSA A BORDO, ALTRO CHE PARLARE DI 80.000 ITALIANI RIMPATRIATI IN SICUREZZA”
ll suo Erasmus in Spagna si è concluso nel peggiore dei modi. Con un biglietto aereo pagato di tasca propria e un volo sul quale le distanze di sicurezza non sono state adottate. Una studentessa salentina denuncia su Facebook la sua odissea, per far ritorno a casa: “In partenza da Siviglia, con scalo tecnico a Milano Malpensa e ultima destinazione Roma”, un volo operato da AirDolomiti sul quale i passeggeri erano troppo vicini, nonostante le mascherine.
Un volo costato centinaia di euro che – scalo compreso – è durato cinque ore, e che non l’ha portata a destinazione: una volta a Roma, la studentessa ha dovuto prendere un altro aereo per avvicinarsi alla Puglia, e aspettare che sua sorella andasse a prenderla in auto a Bari, per poter finalmente tornare a casa.
La studentessa era a bordo del Siviglia-Roma insieme con altri Erasmus, e nel suo post se la prende con il ministro degli Esteri Luigi di Maio: “Vorrei far notare le parole scritte in un recente post su Instagram dal ministro degli Esteri – dice – in cui afferma: “Quasi 80mila connazionali rimpatriati in sicurezza in Italia””.
Dopo quello che è successo a lei, la ragazza non ci sta: “Caro ministro, la sicurezza era l’ultima cosa presente in questo rimpatrio e inoltre vorrei sottolineare i costi esorbitanti che ogni persona è costretta a pagare per tornare nella propria residenza”.
E ancora: “Trascorrere cinque ore di volo in questo modo è stato un incubo, costretta a stare molto vicina a persone a ma sconosciute, posti a sedere attaccati e un corridoio di meno di mezzo metro che divideva le due file sull’aereo. Dunque si può immaginare il grande rischio corso da ogni passeggero durante il viaggio”.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2020 Riccardo Fucile
VIAGGIO NELLA BARACCOPOLI DI MESSINA A RISCHIO EPIDEMIA, OTTOMILA PERSONE AMMASSATE TRA LE LAMIERE… 2500 FAMIGLIE VIVONO DA DECENNI IN TUGURI DI AMIANTO TRA RIVOLI DI FOGNA, UMIDITA’ E IMMONDIZIA
“Se qualcuno prende il virus è finita per tutti: ha visto come viviamo? Tutti appiccicati”. L’allerta è della signora Giovanna, che parla mentre indica la fila di baracche subito dopo la sua. Poi punta il dito verso il basso, indica un tombino dal quale scorrono rivoli di fogna, uno in direzione di casa sua: “Non moriremo di coronavirus, forse, ma di puzza di fogna sicuro”.
Siamo a Fondo Fucile, solo una delle 72 zone in cui vivono ammassate nelle storiche baracche di Messina più di 2500 famiglie. Una potenziale bomba pandemiologica: “Siamo nel 2020 e a Messina ci sono le baracche: nel 2020”, dice l’attore Nino Frassica, in un video in cui accoglie l’invito del comune per lanciare una raccolta fondi: “Ci sono 2500 famiglie, forse di più — continua il comico messinese -. Dobbiamo intervenire urgentemente, un solo positivo per creare una strage”.
“Finora nessuno è stato contagiato ma se si dovesse verificare stiamo mettendo a punto un piano di evacuazione”, spiega Marcello Scurria, presidente di A.Ris.Me, l’azienda del Comune per il risanamento voluta dal sindaco Cateno De Luca.
“Abbiamo i finanziamenti pubblici per gli alloggi, con la raccolta fondi chiediamo un sostegno in una situazione di urgenza per sostenere questa gente per l’acquisto di kit igienici e tablet”, dice Scurria. “Guardi qui, da un lato abbiamo l’amianto, dall’altro i ratti”, indica un’altra abitante della baraccopoli, la signora Maria, che vive con figlie e nipoti alla fine del rivolo che fuoriesce dal tombino.
È la mattina di giovedì 7 maggio, un giorno di agitazione per i “baraccati” di Fondo Fucile, come li chiamano da sempre a Messina. Protezione civile, esercito, vigili e perfino il vicesindaco, Salvatore Mondello, tutti lì, dove si fa fatica a percepire la mano dello Stato, per la sanificazione.
Sono stati avvertiti per tempo, ma al mattino c’è ancora chi chiede chiarimenti. “Mia moglie ha difficoltà respiratorie, come si fa?”. I funzionari del Comune devono spiegare che il prodotto che stanno spargendo non è nocivo per le persone: “Stiamo sanificando, per il loro bene lo facciamo, ma restano guardinghi”, sottolinea il presidente della società comunale.
L’attenzione della politica — di solito concentrata solo in periodi elettorali — da queste parti è vissuta sempre con diffidenza: “Va bene la disinfestazione ma questa immondizia quando la levate?”, la signora Santa lo chiede mano sul fianco alla squadra comunale, indicando un ammasso di immondizia, due metri circa di altezza e dieci di estensione: i rifiuti sono tutti a ridosso di un’altra fila di baracche.
Viste dall’alto formano un tappeto di amianto, interrotto da strade comunali, perfino da quella centrale che porta dritto all’autostrada. Da un lato e dall’altro della strada: proprio il muro che costeggia la grande arteria pre autostrada è un domino di baracche che termina solo quando iniziano le mura del Policlinico, la più grande struttura ospedaliera di tutta la provincia, sorta come cattedrale nel deserto, immersa com’è tra favelas ed edifici popolari.
Mentre il grosso della baraccopoli di Fondo Fucile inizia proprio a ridosso di una scuola, attaccata alle mura dell’Istituto comprensivo Albino Luciani.
Lì, a ridosso di uno dei pochissimi baluardi dello Stato, parte il rivolo di fogna che dall’alto dell’ammasso di baracche si fa strada verso un tortuoso e stretto percorso che a stento crea lo spazio per passare tra una baracca e l’altra.
È lì che si inoltrano gli uomini della Protezione civile, con le tute bianche e la pompa pronta a spruzzare il disinfettante. Che disinfetta ma non risolve il rivolo che dalla casa di Giovanna scorre fino a casa di Maria e le sue figli. Tutte chiuse in due stanze, più la cucina: “Entri, la prego, guardi quanta umidità nel tetto, ma anche qui in basso, così viviamo in sette, con la pensione del mio defunto marito: 500 euro”.
Così è la quarantena nelle baracche di Messina, tra rivoli di fogna, amianto, umidità , cumuli di immondizia e una distanza sociale impossibile da praticare, anche volendo.
Uno sviluppo urbanistico quello della terza città della Sicilia che non teme confronti con le favelas brasiliane: “Dall’inizio della pandemia abbiamo distribuito kit con mascherine e gel disinfettante prodotto assieme all’università . Adesso abbiamo già pronto un albergo tra i più ampi in città — l’Hotel Europa — per un’eventuale evacuazione”, sottolinea Scurria. Mentre arriva la macchina dell’espurgo del Comune per sistemare la fogna: “Abbiamo provveduto subito e così faremo per tutta l’immondizia”, assicura il vicesindaco Mondello.
Eppure le baracche non dovevano esserci più, così aveva promesso il sindaco solo la scorsa estate, annunciando le sue dimissioni nel caso non fosse riuscito a risolvere l’annosa questione dello sbaraccamento.
I toni di De Luca — s’è visto con la quarantena — sono sempre roboanti, ma il fenomeno urbanistico di estrema povertà a Messina è molto complesso e ha origine molto antiche. Risalgono addirittura al periodo post terremoto del 1908.
Di baracche sorte a causa della distruzione del grande evento tellurico non ce ne sono più, ma in quel periodo ha avuto origine quella che in città viene definita una vera e propria “cultura della baracca”: “Da quarant’anni sono qui ad aspettare un alloggio popolare”, grida una signora alla finestra della sua fatiscente dimora, scorgendo il passaggio del vicesindaco.
Ma subito dalla finestra accanto un’altra voce si innalza per smentirla: “Ed è da 40 anni che si lamenta appena vede un politico ma ogni volta che le hanno dato una casa, l’ha rifiutata”. “Non c’è altra soluzione che la demolizione”, allarga le braccia il politico. Assegnare la casa popolare, poi demolire la baracca, prima cioè che venga rioccupata da un estraneo o anche dagli stessi figli di chi ha avuto un alloggio comunale, così che ricominci la trafila per l’assegnazione: è questa la cultura della baracca, il fenomeno inarrestabile che al netto dell’inerzia dei tanti politici che si sono susseguiti in un secolo, blocca il risanamento.
“Queste sono zone a rischio ma il 95 percento degli abitanti sono persone perbene — spiega Scurria — e proprio per questo l’intervento dello Stato, così come le donazioni, sono ancora più urgenti in queste zone di povertà estrema”.
Ma non solo. Anche nel caso della demolizione, in pochi giorni la baracca è stata semplicemente ricostruita: “Sono 64 anni che vivo qui e a questo punto non vedo perchè dovrei andarmene”, il signor Antonio, 66 anni, alza le spalle. Vive con la moglie a Sottomontagna, un’altra delle 72 zone, stavolta a ridosso del centro cittadino. Ma la sua baracca, d’altronde, è diversa: “La rifaccio ogni anno, venga a vedere”. Fuori fatiscente, dentro un arredamento molto confortevole e due grandi televisori al plasma: “Sono venuto a vivere qui con i miei genitori che avevo due anni. Ora dopo anni di lavoro come operaio nei cantieri navali Rodriguez, sono in pensione: se vado via, dove mi mandano?”.
Eppure la sua come quelle vicine sorgono in strade comunali interamente occupate da “abitazioni” abusive. Un’intera via, per esempio, a Mangialupi, è stata completamente divorata dalla favela siciliana, risultando ora solo sulle mappe comunali: sarebbe via Gaetano Alessi ma nessuno la conosce perchè di fatto non esiste più.
Una “cultura”, lì dove lo Stato manca, che ha trovato senza dubbio un suo equilibrio: sul tappeto di amianto, spiccano le antenne satellitari e i condizionatori.
Negli spazi scarsi tra una porta e l’altra sono tanti i mezzi a due ruote. Qualcuno anche completamente smontato. E tutti, grosso modo, hanno un cane: “Bello, come si chiama?”, si prova a chiedere, ma la risposta è perlomeno curiosa: “Aspetti che chiedo a mio marito”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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