Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
MELONI E BERLUSCONI: “MEGLIO MANIFESTARE A LUGLIO QUANDO CI SI POTRA’ SPOSTARE DA REGIONE A REGIONE”… SI ASPETTANO LE TRUPPE CAMMELLATE
Matteo Salvini tira dritto: la manifestazione del 2 giugno s’ha da fare. Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi rispondono che l’iniziativa si farà ma nel mese luglio quando saremo usciti dalla emergenza sanitaria e ci si potrà spostare da regione a regione. “Altrimenti i militanti rischiavano di prendere le multe”, osserva Ignazio La Russa, plenipotenziario di Fratelli d’Italia (più onesto dire che non si muoverebbero da casa o che Roma da sola non garantisce neanche 3.000 persone in piazza)
Dunque, ci risiamo: il centrodestra sembra dividersi ancora una volta. Galeotto fu il 2 giugno, giorno della festa della Repubblica.
La pasionaria di Fratelli d’Italia ha spiegato a La Verità le ragioni della frenata: “Prima abbiamo raccolto le adesioni dei nostri alleati. Poi abbiamo raccolto le perplessità . […] Ci siamo accorti di un paradosso, nel tempo del Covid. Treni, autubus, famiglie che annunciavano la loro presenza…. Rischiava di diventare pericolosa per chi avrebbe partecipato”.
Insomma, meglio evitare assembramenti e inviare un pessimo segnale all’opinione pubblica. Quindi non si fa? FdI annuncia per il 2 giugno solo manifestazioni simboliche perchè “è meglio avere i dati chiari prima di organizzare un evento di massa”.
Dello stesso avviso il partito di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere si trova sempre in Provenza dalla figlia Marina, ma affida ad Antonio Tajani la linea degli azzurri.
Ospite di “Un giorno da pecora” su Radiodue, l’ex presidente dell’Europarlamento assicura: “Nessuna manifestazione, ci saranno eventi simbolici, probabilmente in tutte le Regioni, con un numero limitato di persone, solo per far capire agli italiani che ci vogliamo far carico dei loro problemi economici. Nessuna manifestazione di massa. Non è finita la pandemia e non possiamo dire alla gente di non andare in piazza per fare l’aperitivo e poi io ci vado a fare la manifestazione″.
Tutto si tiene, salvo poi scoprire che a via Bellerio si continua a parlare della famosa manifestazione. Tant’è che domani si riunirà il consiglio federale della Lega in videoconferenza e uno dei punti all’ordine del giorno è proprio la manifestazione del 2 giugno: “Siamo pronti per la festa della Repubblica e poi se ne farà un’altra anche a luglio”.
Peccato che gli alleati, Fi e FdI, abbiano già tirato i remi in barca. “Gli altri partiti – avvertono da via Bellerio – sono meno abituati a organizzare le manifestazioni. Ma noi la faremo rispettando il protocollo sanitario”. Il giallo continua.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
LA FIGURACCIA DELLO ZELANTE SEGUACE DEL TEORICO DEI “TAXI DEL MARE”, SMENTITO PERSINO DALLA CAPITANERIA DI PORTO
Scambia un’imbarcazione di “clandestini” con una di palermitani che stava effettuando uno scalo tecnico al porto turistico di Ragusa.
È quello che è successo al capogruppo al consiglio comunale di Ragusa del M5s Sergio Firrincieli che ieri pomeriggio ha diffuso una nota: “Un arrivo di clandestini al porto di Marina di Ragusa? E’ la prima volta o ci sono già stati altri episodi? E perchè il sindaco non è intervenuto comunicando quello che stava accadendo alla cittadinanza? E, soprattutto, chi garantisce che siano state rispettate le misure anti-contagio?”.
Trascorrono un paio di ore e Firrincieli è costretto a fare una rapida inversione, anzi una virata.
“Sembra che si tratti di una famiglia palermitana domiciliata nel capoluogo isolano. E sembra che l’arrivo al porto turistico di Marina sia stato autorizzato. E’ stato, comunque, opportuno che sulla vicenda, dopo le segnalazioni, si facesse chiarezza per capire che cosa era realmente accaduto oggi al porto turistico di Marina”.
Nonostante la cantonata, il capogruppo 5stelle tiene il punto: “Resta da capire perchè è stato scelto il porto di Marina e non quello di Pozzallo” (saranno cazzi dei diportisti o no?…)
A raccontare quello che è avvenuto è la società che gestisce il porto turistico di Marina di Ragusa. “Ad arrivare al porto turistico è stata un’imbarcazione con bandiera maltese per un scalo tecnico. Una volta attraccata, un gruppo di cittadini ha chiesto di poter scendere a terra. Verificate le condizioni di salute, secondo le procedure anticovid, le forze dell’ordine hanno autorizzato lo sbarco e stabilito il trasferimento a Partinico, dove risiede il capofamiglia, per la quarantena”
(da agenzie)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
SONO SOLO CENTRI DI POTERE, MERCIMONIO DI POLTRONE E CENTRI DI CORRUZIONE
Prima che gli eventi ci costringessero per mesi a parlare quasi solo ed esclusivamente di Coronavirus, tra gli argomenti sul tavolo del Governo Conte II c’era il come dar seguito alla richiesta di maggiore autonomia da parte di alcune regioni (in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), ovvero la cosiddetta “autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario”.
In pratica, un ulteriore passaggio di competenze e risorse a completamento della riforma del Titolo V della Costituzione, che già aveva molto rafforzato i poteri degli enti locali. A spingere maggiormente per liberarsi dalle presunte catene di un presunto “Stato padrone”, la Lombardia e il Veneto, regioni in cui nel 2017 si svolse anche un referendum consultivo.
Le materie su cui i presidenti vorrebbero maggiore autonomia sono molte, dai rapporti con l’Ue al commercio con l’estero, dalla sicurezza sul lavoro all’istruzione, dalla promozione dei beni culturali al fisco.
Chi sostiene la riforma chiede che i famigerati soldi delle tasse degli italiani vengano utilizzati da chi amministra i territori, chi si oppone pensa invece che quelle risorse vadano comunque gestite dallo Stato centrale, che un ospedale in Calabria, ad esempio, dovrebbe essere trattato esattamente come un ospedale della Lombardia, per evitare che si accentui il già evidente gap che c’è tra il nord e il sud del Paese.
E di autonomia si è discusso molto, nelle lunghe settimane del lockdown, nelle “stanze dei bottoni” di Roma e in quelle locali.
Molti presidenti non hanno fatto segreto del loro disappunto su presunte “invasioni di campo” nelle scelte emergenziali del Governo, scelte in realtà coperte dall’articolo 117 della Costituzione che attribuisce allo Stato i “principi fondamentali” in materia di tutela della salute su tutto il territorio nazionale, senza distinzioni.
In realtà , il Coronavirus ha messo in luce — qualora ve ne fosse bisogno — tutti i limiti di quel federalismo populista e campanilista inizialmente bandiera della Lega Nord (quando Matteo Salvini trattava i meridionali assai peggio di come oggi tratta i migranti) che purtroppo negli anni è stato assecondato un po’ da tutte le forze politiche.
Abbiamo assistito a videomessaggi quasi quotidiani con “presidenti sceriffi”: un intrattenimento talvolta divertente, talvolta desolante, ma non certo degno di un Paese serio.
Semplificando, si potrebbe dire che si è preferito assecondare l’idea che in Italia vi fossero delle radicate identità territoriali (cosa in parte vera, ma risibile rispetto a quelle di Paesi come Germania e Inghilterra) e che queste dovessero avere un potere paragonabile a quello dello Stato centrale.
Sul fatto che vi siano delle palesi differenze di approccio alla cosa pubblica tra un siciliano e un piemontese non ci piove, che queste differenze dovessero distribuire per l’Italia venti potenziali Giulio Gallera è stato probabilmente un grave errore storico a cui forse bisognerebbe rimediare, placando i “sogni di gloria” di quei presidenti che vorrebbero diventare dei vicerè e magari tornando indietro e riconsegnando allo Stato centrale gestione di materie che non possono diventare oggetto di diseguaglianze tra cittadini della stessa nazione.
Sì, bisognerebbe depotenziare le regioni, se non abolirle del tutto e rimettere ordine in quel pastrocchio di competenze che si è venuto a creare negli ultimi anni.
Un pastrocchio che politicamente è stata una sorta di furba scorciatoia, perchè da un lato ci si è ben guardati dal mettere mano ai vetusti ingranaggi della macchina dello Stato, evitando di far entrare realmente le istanze territoriali nei palazzi di Roma, dall’altro si è scaricato sui territori fette di potere, di risorse e di interessi.
Non è un caso che negli ultimi anni i più grandi scandali di corruzione abbiano avuto come protagonista il personale politico delle regioni, dove tra l’altro i consiglieri vengono eletti con quel vettore di corruzione e voto di scambio che sono le preferenze.
E non è un caso che molti di quegli scandali abbiano colpito la sanità , materia su cui le regioni hanno la maggiore disponibilità di autonomia e risorse. Insomma, più che venti regioni l’Italia ha venti consigli regionali, venti presidenti, venti squadre di assessori e di conseguenza venti centri di potere, con annessi e connessi.
Un sistema perfetto per chi deve distribuire poltrone e consulenze, per giocare col “Cencelli” delle correnti dei partiti: un po’ meno per i cittadini italiani, da Predoi a Lampedusa.
(da TPI)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
LA DOPPIA VIA: ESUBERI O LASCIARE TARANTO
“La situazione com’è? Noi ci aspettiamo una conferma degli impegni condivisi, lo Stato è pronto a coinvestire”. La domanda delle domande, quella che punta a capire quali sono le reali intenzioni della controparte, Roberto Gualtieri la rivolge a Lucia Morselli, il volto italiano di Mittal, quando è passato poco più di un quarto d’ora dall’inizio della riunione in videconferenza sul futuro dell’ex Ilva di Taranto. È quasi mezzogiorno.
Fuori, in tutti gli stabilimenti controllati dal colosso franco-indiano dell’acciaio, gli operai scioperano. La manager risponde così: “Vogliamo onorare gli impegni presi, presenteremo un piano industriale entro dieci giorni, ma gli scenari cambiano ogni 24 ore alla luce dei danni del Covid”.
Ancora Gualtieri: “I dieci giorni di tempo sono ragionevoli”. I sindacati sbottano: il tempo è scaduto. Eccolo, in tre immagini, il gioco delle parti che non risolve, che rimanda, che lascia un punto interrogativo sul destino di undicimila lavoratori.
Morselli, dunque, dice che Mittal vuole tenere fede all’accordo raggiunto con il Governo il 4 marzo, quello che traccia una road map con alcuni punti chiari, come il corso green e l’ingresso dello Stato, ma che tiene in pancia anche tante questioni irrisolte, a iniziare da quella degli esuberi.
Il primo dato che emerge dalla riunione, però, è che non c’è ancora un piano industriale. Viene annunciato come imminente, cioè tra dieci giorni, ma sono le stesse parole della manager a mettere in evidenza la fragilità di questo impegno.
La colpa, qui, è del Covid. Perchè cosa sta succedendo all’ex Ilva lo racconta sempre Morselli. Così: “Tutti i giorni i nostri clienti ci mandano mail chiedendoci di ritardare di mesi le spedizioni perchè non sanno cosa farsene. Non laminiamo perchè non vogliono i nostri prodotti, in questo momento spedire per noi è impossibile”.
La produzione è ferma a settemila tonnellate di ghisa liquida al giorno, al minimo storico. Sui 10.700 dipendenti, sparsi tra Taranto, Genova, Novi Ligure e gli stabilimenti minori, circa cinquemila sono in cassa integrazione o comunque a casa.
L’ex Ilva ha girato al minimo durante il lockdown e la lenta ripresa alla normalità , iniziata il 4 maggio, si è subito trovata davanti il conto del Covid.
Ecco un altro tratto della fragilità dell’impegno dichiarato: “Dobbiamo ripianificare le produzioni perchè alcune ditte sono sparite per sempre. Dobbiamo ripensare gli appalti e i fornitori perchè alcuni interlocutori non ci saranno più”.
Quindi un piano industriale. Cioè un elenco di tutto quello che si può fare all’ex Ilva dopo il Covid.
Le strade sono due. La prima: restare a Taranto, ma a fronte di un impegno ridotto. E qui subentrano gli esuberi. La seconda: tradurre lo stato comatoso, indotto dalla crisi del mercato dell’acciaio e elevato a catastrofe dalla pandemia, in un bye bye Italia.
Aver preso dieci giorni di tempo tiene in pista entrambe le soluzioni.
Perchè nel frattempo balla una telefonata tra Giuseppe Conte e Lakshmi Mittal, il numero uno del colosso. Se ci sarà (è attesa oggi, ma potrebbe slittare nei prossimi giorni), fonti industriali vicine al dossier spiegano che sarà per concordare il valore della penale per lasciare Taranto.
L’accordo del 4 marzo prevede che Mittal può lasciare lo stabilimento entro fine anno, pagando 500 milioni, se non si arriva a firmare il nuovo contratto di investimento entro il 30 novembre.
Il Governo, nel caso, punterebbe a incassare un miliardo. L’altra strada, come si diceva, è quella di restare a Taranto, ma facendo ricorso agli esuberi. D’altronde proprio l’intesa di marzo, funzionale ad evitare lo scontro in tribunale non più rinviabile, lasciava aperta propria questa questione.
Dice, lo stesso accordo, che il perimetro occupazionale, da Mittal assicurato in 10.700 dipendenti ma fino al 2025, doveva passare per un altro accordo, con i sindacati. Da siglare entro il 31 maggio. Cioè tra sei giorni. Impresa ardua, di fatto impossibile, se si considera che cinque mesi di trattative non sono bastati per arrivare a tirare una linea.
“Tempo scaduto”, dice la Fiom. Anche la più aperturista Fim-Cisl, guidata da Marco Bentivogli, si ritiene molto insoddisfatta.
Ecco cosa dice il suo segretario generale: “A oggi abbiamo la sensazione che non ci sia solidità nel gruppo, nè voglia di portare a termine gli impegni presi”. Rocco Palombella, il numero uno della Uil, completa il quadro. Così ha parlato durante la riunione: “Il problema vero di Ilva è la prospettiva. Se il vostro piano è quello dei sogni o di impegni irrealizzabili con assetti societari misti e futuribili siamo di fronte al disastro occupazionale, economico e ambientale”.
I sindacati non stanno con Mittal. Rimproverano all’azienda di aver rimandato la soluzione ancora una volta. Poche parole chiare, a iniziare dall’intento di base, cioè se e come restare a Taranto. Annusano l’addio, ma prima ancora la possibilità che ci siano migliaia di esuberi. A molti non è sfuggito che Mittal ha sempre parlato di cinquemila esuberi e che oggi, tra cassintegrati e lavoratori comunque non a lavoro, gli esclusi sono circa cinquemila.
§Lo sviluppo di questo ragionamento è il rischio che la cassa integrazione per Covid si trasformi in esuberi.
Ma i sindacati non giocano neppure nel campo del Governo. Il dente è ancora avvelenato per i lunghi mesi della trattativa che hanno portato all’accordo di marzo. I sindacati furono tenuti fuori. E quel termine del 31 maggio per chiudere la partita degli esuberi è arrivato. La scollatura rispetto all’esecutivo è tutto nella richiesta, ribadita alla riunione: bisogna ritornare all’accordo siglato tra le parti nel settembre del 2018.
In quell’accordo era prevista una tutela futura per i circa 1.700 lavoratori appartenenti all’amministrazione straordinaria. Nell’accordo di marzo non compaiono: si parla solo di 10.700 lavoratori. Per il Governo tenere Mittal su quell’impegno sarebbe un miracolo perchè i franco-indiani pensano a un dimezzamento. I sindacati sono ancora più distanti, in senso opposto.
È stato il giorno della riunione in videoconferenza, la prima dopo quasi tre mesi, ma è stato anche il giorno della grande protesta. Sciopero in tutti gli stabilimenti del gruppo. A Taranto dalle 11 alle 15 e dalle 19 alle 23.
A Genova il blocco delle merci in entrata e in uscita. Fatta la riunione, la protesta decide di andare avanti. Poche risposte, se risposta si può definire la promessa di un impegno di cui non si è convinti fino in fondo.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
SERVE UN NUOVI PIANO DI AZIONE: TRE HUB PER UNA COMPAGNIA CON 100 AEREI E RASK A 6 CENTESIMI NON HA SENSO, VANNO RIDOTTI A UNO
L’avventura privata di Alitalia è terminata. Cinque amministratori delegati, quattro commissari, due bad companies, 1,6 miliardi di “prestiti ponte” e otto tentativi di vendita si concludono nella nazionalizzazione
Venduto come una necessità strategica, il salvataggio pubblico è un atto politico. Alitalia, non è, come ha detto la ministra De Micheli, “uno strumento di attrazione trasportistica internazionale delle persone per farle tornare in Italia”, qualunque cosa ciò voglia dire.
I dati parlano chiaro: Alitalia ha una quota di mercato risibile e in caduta; malgrado ciò i turisti in Italia sono aumentati del 50%.
La rinascita dalle ceneri delle varie LAI, CAI e SAI obbedisce a logiche di palazzo più che a dettami economici. Ma, data l’ingenza dell’investimento statale, è nel nostro interesse che he la nuova Alitalia riesca a vincere le sfide che l’attendono; in questo articolo cercherò di esporre i principali problemi che la compagnia pubblica dovrà affrontare.
Un passato improduttivo.
La buona notizia è che, per la prima volta, Alitalia inizia con un capitale adeguato, tre miliardi di euro; quella meno positiva è che, almeno in tempi recenti, la compagnia ha accumulato solo ingenti perdite, bruciando quasi un miliardo e mezzo a livello di EBITDA.
Confrontare la performance di Alitalia con altri vettori è difficile a causa della scarsità di dati emessi dalla compagnia, specialmente per quanto riguarda due misure-chiave per capirne il funzionamento: CASK e RASK, di cui sono disponibili solo i valori del 2017. Il primo acronimo significa Cost per Available Seat/Km e indica il costo sostenuto per far volare un sedile per un km; il secondo, invece, guarda al lato vendite.
Revenue per Available Seat/Km è l’ammontare ottenuto dal far volare un passeggero per un km. Di sotto si vede un raffronto tra Alitalia e alcune compagnie europee: Aer Lingus e Iberia sono due legacy di dimensioni comparabili, mentre Vueling e EasyJet sono competitori sui mercati a corto raggio.
È palese un problema: Alitalia ha guadagni da low cost che fa voli a corto raggio e costi da legacy che segue un modello“hub & spoke”.
Continuare il paragone sul lato costi è difficile, perchè oltre alla scarsità di dati si aggiungono diversi metodi contabili; comunque è possibile fare un raffronto per macro-aree, da cui si nota che i costi per carburante e personale di Alitalia sono grosso modo simile a quello delle due major e alla media IATA. In altre parole, c’è margine di miglioramento in quella miriade di voci di spesa che includono manutenzione, infrastrutture, IT, sales e via dicendo.
Una precisazione: anche ipotizzando di ridurre i costi in maniera spropositata, portandoli magari a livello di Aer Lingus, Alitalia rimarrebbe comunque in perdita o, nel migliore dei casi, a malapena profittevole. Perchè qui si trova il secondo — e secondo me cruciale – problema della compagnia.
Un decennio di strategie sbagliate.
L’Alitalia dei “Capitani coraggiosi” nasce dalle ceneri del progetto che la vedeva basata a Malpensa. È interessante pensare a cosa sarebbe successo con Linate chiuso e Alitalia parte di un gruppo con KLM, ma la storia insegna che la nuova Compagnia Aerea Italiana ripartì col Piano Fenice, centrato sul mercato nazionale e, in particolar modo, sulla navetta Roma-Milano, con i risultati che abbiamo visto.
Errare humanum est, sed perseverare diabolicum: in più di un decennio Alitalia non è riuscita a far altro che riproporre alternative del piano Fenice.
Cambiano i dirigenti sul palco e le soubrette che dirigono la claque, ma la realtà rimane la stessa: tre hub (MXP, LIN, FCO) e maggioranza dei passeggeri su voli nazionali, in competizione con le low cost e l’Alta Velocità . Con l’eccezione di SAS — che viene da anni di risultati asfittici — nessun’altra compagnia legacy europea ha una strategia simile.
Una congiuntura sfavorevole.
Non c’è mai un buon momento per aprire una nuova compagnia aerea, ma questo è di sicuro uno dei peggiori. La pandemia Covid-19 finirà , ma ha avuto l’effetto di precipitare una crisi le cui avvisaglie si vedevano da un po’.
Il settore è cresciuto tanto (persino troppo: i posti disponibili sono cresciuti del triplo rispetto al PIL pro-capite mondiale), e lo shock della pandemia ha gelato il mercato del trasporto aereo. IATA prevede un ritorno ai livelli del 2019 solo nel 2023. Lanciarsi nel momento in cui tutti tirano i remi in barca sarà molto difficile.
Un nuovo piano.
Alitalia ha bisogno di un nuovo piano di azione. La compagnia ha bisogno di rivedere i suoi costi e — soprattutto – la sua strategia. Tre hub per una compagnia con cento aerei e RASK a 6 centesimi sono due di troppo; il resto d’Europa insegna che, per sopravvivere e crescere, serve creare un hub singolo, su cui attrarre traffico in transito, abbandonando delusioni di grandeur e cercando, invece, i profitti.
Alitalia dovrebbe accentrarsi su Fiumicino e creare una compagnia in cui long e mid haul pesano per circa metà dei passeggeri, con una quota rilevante di transiti, come fanno Aer Lingus a Dublino e Iberia a Madrid.
Solo così si potranno abbattere i CASK e incrementare RASK. Ma per far ciò occorre indipendenza, autonomia: cose che l’Alitalia pubblica non avrà .
Strattonata dalle esigenze politiche, ridotta a fiche elettorale, è facile pensare che la compagnia aerea pubblica continuerà sulla strada attuale. Ed è altrettanto facile prevedere che, di qui a qualche anno, ci troveremo ancora a parlare di “crisi Alitalia”.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
L’ASSESSORE DELLA REGIONE LOMBARDIA AVEVA SOSTENUTO CHE L’UNIVERSITA’ DI PADOVA AVEVA DETTO LE SUE STESSE COSE
“0, 51 cosa vuol dire? Che per infettare me, bisogna trovare due persone allo stesso momento infette”: sabato 23 maggio, durante il bollettino quotidiano, l’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, ha spiegato così — sbagliando — l’indice di trasmissibilità .
Rt è il parametro che misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva. In pratica, è il numero medio delle infezioni prodotte da un individuo infetto.
Se è 1 vuol dire che un infetto infetta potenzialmente un’altra persona. In Lombardia in questo momento l’indice è 0,50, dunque significa che un infetto, grazie alle misure di contenimento, non infetta neppure una persona.
Dopo la pubblicazione dell’esilarante video-spiegazione fornita da Giulio Gallera sull’indice di trasmissibilità , l’assessore risponde attaccando la stampa e l’opposizione, e dice:
Come argomento in questo suo secondo video Gallera ha usato anche un articolo di Il Bo Live, la rivista dell’Università di Padova. Ma oggi è l’Università stessa a smentirlo: “L’articolo in questione è Rt inferiore a 1 in tutta Italia: cosa significa?, pubblicato il 7 maggio 2020. Ringraziamo molto l’assessore Gallera per l’attenzione riposta nei confronti della nostra testata. Tuttavia teniamo a precisare che nell’articolo in questione riportiamo l’esempio statistico sulle modalità di diffusione del virus attraverso il parametro R0, riferendoci a una percentuale”.
Nella nota si legge: “Come recita l’articolo infatti: “Lasciamo parlare i numeri per maggiore chiarezza e supponiamo per esempio che, per un particolare agente infettivo, R0 sia uguale a 1,7: ciò significa che un gruppo di 100 persone malate può contagiarne 170 (100à—1,7), queste 170 ne infettano altre 289 (170à—1,7), queste a loro volta 491. E così via. Se invece R0 fosse uguale a 0,5, lo stesso gruppo di 100 individui ne contagerebbe 50, questi a loro volta 25 e così di seguito”.
Nel pezzo, pertanto, non sosteniamo che con un indice di 0,51 siano necessarie e sufficienti due persone infette per contagiarne una sana“.
Anche le citazioni alle quali l’assessore al Welfare ha fatto riferimento sono dunque errate e prive di fondamento scientifico
(da TPI)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
“ABBIAMO SPESO MOLTO DI PIU’ PER COMPRARCI LE ATTREZZATURE CHE NON CI AVETE DATO”
No, grazie: “Noi vogliamo di più. La misura è colma”. Il sindacato medici Anaao, riapre la polemica sulla distibuzione dei premi per i sanitari. I 350 euro che con l’accordo per cui il 25 per cento delle risorse sarebbe destinato ai medici (13 milioni di euro per 11.000 camici bianchi in Piemonte) non sono, a giudizio del sindacato, una cifra accettabile.
“Tenetevi la vostra elemosina. Che se la tengano il governo nazionale e quello regionale – scrive l’Anaao – Abbiamo speso ben di più per comprarci le mascherine filtranti che non ci avete fornito. Cosa chiedeva un chirurgo mandato a visitare una polmonite Covid? Chiedeva di essere formato, istruito. Non soldi. Cosa chiedeva un ortopedico sbattuto in pronto soccorso a visitare pazienti di tutti i tipi? Chiedeva l’ordine di servizio. Non soldi. Cosa chiedeva un medico del reparto Covid? Chiedeva le maschere filtranti. Non soldi. Chiedeva il tampone se aveva la febbre, chiedeva la quarantena. Cosa chiedeva il rianimatore che doveva ventilare e non aveva i caschi? I caschi, perdio. Chiedeva i caschi e si inventava l’adattamento delle maschere di Decathlon. Non chiedeva soldi”
Il sindacato, che ha fatto stampare locandine in cui critica l’intesa che Anaao, Aaori, Cimo e Anpo non hanno firmato, chiedeva “di non aprire le scuole, la zona rossa, i percorsi separati, chiedeva di cambiare le linee guida dell’Istituto superiore di sanità , chiedeva i dispositivi di protezione individuale, chiedeva il telelavoro, chiedeva sicurezza, chiedeva tamponi. Tutto solo per il sistema, per i pazienti. Ora ci fate pentire dell’abnegazione dimostrata, della professionalità e della fiducia riposta. Noi vogliamo di più, molto, molto di più. Vogliamo dignità e rispetto, anche”.
(da agenzie)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
L’EVENTO PROVOCA ASSEMBRAMENTI E LA APPENDINO GIUSTAMENTE SI INCAVOLA
L’insostenibile leggerezza di avvicinarsi al prossimo, e non rispettare così la distanza di sicurezza imposta dalle direttive anti-Covid.
Succede nei weekend e nella piazze italiane, succede anche a Torino in un assolato pomeriggio torinese. Ironia della sorte l’esibizione dei nostri piloti doveva avvenire proprio per celebrare la “Fase 2” della lotta al nuovo coronavirus, e la parziale ripresa delle vite normale dei cittadini.
Ma nell’ammirare lo spettacolo sul cielo di Torino non sono stati pochi gli assembramenti che si sono venuti a creare, una dinamica denunciata da più di un osservatore.
Questa la denuncia di un collega del Corriere della Sera, raccolta nei pressi della Chiesa della Gran Madre, uno dei luoghi più suggestivi e importanti della città sabauda. Ma identici assembramenti si sono manifestati in varie zone della città come dimostra altre testimonianze, come quelle raccolte da Repubblica o quella testimoniata dal direttore di YouTrend Lorenzo Pregliasco
L’ennesima dimostrazione della difficoltà della gestione dell’ordine pubblico al tempo del Covid-19, specialmente nel caso di eventi collettivi e partecipati.
Finiscono sul tavolo di pubblica sicurezza gli assembramenti che si sono formati nel pomeriggio, in diversi punti di Torino, per il passaggio delle Frecce Tricolori. Ad annunciarlo, su facebook, è la sindaca Chiara Appendino. “Sono più che felice di complimentarmi con i torinesi e riconoscere l’impegno, loro e di noi come Istituzioni, quando le cose funzionano – scrive -. Ma questo non è stato il caso. Porterò questa situazione al tavolo di pubblica sicurezza”.
(da agenzie)
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Maggio 25th, 2020 Riccardo Fucile
SI E’ SPENTO A ROMA A 21 ANNI PER UN ARRESTO CARDIACO… ERA SBARCATO IN ITALIA A 15 ANNI CON IL SOGNO DI DIVENTARE CALCIATORE
Si è spenta ad appena 21 anni per un arresto cardiaco la favola di Joseph Perfection Bouasse Ombiogno, camerumense, classe 1998, ed ex Roma.
Il ragazzo era arrivato in Italia da profugo, come molti della sua generazione, ad appena 15 anni nel 2013, portando con sè nulla, se non il sogno di diventare calciatore. E dopo essere stato ingannato da chi gli prometteva un avvenire nei campi da calcio, e aver conosciuto la strada, la fame e la povertà , Joseph andò a prendersi quel pezzo di futuro desiderato da solo.
Cominciò a giocare con la Liberi Nantes, associazione Sportiva Dilettantistica che si occupa di dare possibilità sportive ai profughi e ai rifugiati. Forse non il palcoscenico desiderato, ma sufficiente per mettersi in mostra.
Il ragazzo approdò, dopo quell’esperienza, a Trigoria, nelle giovanli della Roma. Dal 2016 entrò nella primavera giallorossa poi, dopo un’esperienza in Serie B nel Vicenza, è poi approdato al Cluj, una società del campionato romeno.
E il tragico epilogo della sua vita si è consumato proprio nella Capitale dove tutto, compresa la sua carriera, era cominciata. Una scomparsa prematura ricordata, sui social, anche dal club giallorosso.
(da agenzie)
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