Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
LA TELEFONATA DOPO L’INCIDENTE
Gabriele Tadini, caposervizio della Ferrovie del Mottarone, società che gestisce l’impianto
della funivia che corre a pochi passi dal Lago Maggiore “ha ammesso” le proprie responsabilità rispetto ad alcune contestazioni, in particolare rispetto alla decisione di aggirare le norme relative al sistema frenante di sicurezza che domenica scorsa non è entrato in funzione portando alla morte di 14 persone.
“Li avevamo tolti per evitare che la cabina si bloccasse di continuo”, ha spiegato ai Carabinieri della stazione di Stresa
Una scelta, a dire della procura di Verbania, “consapevole e concordata” con il proprietario della struttura Luigi Nerini ed Enrico Perocchio, consulente esterno per la funivia e dipendente della Leitner che nell’impianto di Stresa ha in carico la manutenzione straordinaria e ordinaria.
Una volontà dettata dai tre – fermati per omicidio colposo plurimo e lesioni plurime – dalla necessità di fronte a delle “anomalie” senza ricorrere alla chiusura della funivia che avrebbe comportato danni economici.
Tadini, ascoltato in caserma a Stresa, avrebbe risposto alle domande del procuratore capo Olimpia Bossi e del pm Laura Carrera, i difensori degli altri due fermati invece precisano che la scorsa notte non sono mai stati sentiti dalla magistratura. Secondo il racconto di Tadini, riportato sul Fatto i superiori erano a conoscenza dell’inserimento dei forchettoni, il secondo è stato ritrovato ieri:
Chiama in causa i suoi superiori che, racconta, erano stati informati del problema, che “andava avanti dalla riapertura”, e cioè dal 26 aprile del 2021. Queste dichiarazioni, fra le 3 e le 4 del mattino di mercoledì, fanno scattare i fermi per altre due persone, anch’es -se convocate come testimoni: Luigi Nerini, 56 anni, amministratore e proprietario della società Funivie del Mottarone srl, ed Enrico Perocchio, 51 anni, ingegnere dipendente della Leitner, che in questo caso risponde per il ruolo di responsabile tecnico Precipita una cabina della funivia Stresa – Mottarone
Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini, i tre fermati accusati dalla procura di Verbania di omicidi colposo plurimo per la tragedia sulla funivia del Mottarone, in concorso tra loro, “omettevano di rimuovere i forchettoni rossi aventi la funzione di bloccare il freno” della cabinovia quindi “destinato a prevenire i disastri”, così “cagionando il disastro da cui derivava la morte delle persone”, secondo quanto si legge nel capo di imputazione della procura di Verbania nei confronti del gestore della funivia, del consulente esterno e del capo servizio dell’impianto in cui domenica scorsa hanno perso la vita 14 persone.
Il Fatto racconta che Tadini subito dopo l’incidente aveva telefonato a Perocchio spiegandogli che “la fune aveva i ceppi”, ovvero i forchettoni che bloccano l’azione dei freni:
“Enrico, ho una fune a terra. La fune è giù dalla scarpata. La vettura aveva i ceppi”. La chiamata si interrompe subito e a Perocchio, ingegnere con 25 anni di esperienza alle spalle nel settore, si gela il sangue nelle vene. È nella sua casa nel biellese, in quel momento. Si mette immediatamente in macchina. E alle 12.20, mentre è già in auto verso Stresa, il cellulare suona una seconda volta. È ancora Tadini. È agitatissimo e gli ripete la stessa cosa: “La vettura aveva i ceppi”.
I freni erano stati disattivati da fine aprile, per evitare che la cabina 3, quella precipitata nel vuoto, si fermasse di continuo. Anche la cabina 4, spiega Olimpia Bossi, la Procuratrice di Verbania che ha disposto i fermi, presentava in parte le stesse anomalie.
Perocchio però, per voce del suo avvocato Andrea Da Prato nega di essere stato a conoscenza della procedura per escludere i freni: “Portare persone con i forchettoni è una pratica suicida, una circostanza che il mio cliente respinge nel modo più assoluto. Non ne aveva idea”.
Proprio lui prima di essere indagato avrebbe mandato una mail alla Procura di Verbania per spiegare che aveva appreso informazioni da un dipendente riguardo “l ’utilizzo improprio del sistema frenante”.
(da NextQuotidiano)
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Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
LA PROCURATRICE: “PROVIAMO DOLORE E SCONCERTO, HANNO MESSO A REPENTAGLIO LA VITA DI ESSERI UMANI PER IL PROFITTO”
“In questa vicenda la parola soddisfazione non potrà mai esserci. Piuttosto abbiamo provato altro dolore e un amarissimo sconcerto quando ci siamo resi conto che il mancato funzionamento del sistema frenante era esito di una scelta. Qua non c’entra la negligenza, il pressappochismo, quell’errore umano che non rende immuni da responsabilità ma almeno genera una certa comprensione. Ci troviamo davanti a chi, a fronte di un proprio interesse, ha preferito mettere a repentaglio la vita degli altri”. Così, in un’intervista a La Stampa, Olimpia Bossi, procuratrice della Repubblica di Verbania che indaga sul disastro della funivia del Mottarone, costato la vita a 14 persone.
“L’intuito dei carabinieri – afferma Bossi – ha portato subito a un approfondimento e martedì pomeriggio abbiamo convocato i dipendenti di Ferrovie del Mottarone per capire da loro di cosa esattamente si trattava. Lo hanno spiegato ed è emerso in modo inequivocabile: tutti sapevano che il freno restava aperto anche se non doveva”.
Il caposervizio Gabriele Tadini ha ammesso questa consapevolezza?
“Sì, ha risposto alle domande e ha dichiarato che si era fatta quella scelta perché si era sicuri che mai il cavo traente si sarebbe spezzato. Le anomalie erano state riscontrate al sistema frenante della cabina 3, quella schizzata nel vuoto, e in parte nella 4, che fortunatamente domenica si è fermata senza schiantarsi. Da quello che abbiano desunto la 3 viaggiava col freno disattivato da fine aprile, quando è ripreso il trasporto dei passeggeri. Tadini in azienda ha una posizione subordinata al titolare e al direttore dell’esercizio. Noi sosteniamo quindi che anche Nerini e Perocchio sapevano e volevano che si procedesse così per non fermare l’impianto per un controllo approfondito. Quando l’altra notte sono emersi gravi indizi di colpevolezza, abbiamo convocato anche loro due e ho assunto la decisione di procedere con il fermo. Al momento gli altri dipendenti non sono indagati”.
(da agenzie)
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Maggio 27th, 2021 Riccardo Fucile
E’ STATA LA PIU’ GRANDE BALLERINA DEL MONDO: LE ORIGINI POPOLARI, LO STUDIO TENACE, I SUCCESSI NEI PIU’ GRANDI TEATRI DEL MONDO
È vissuta volando ma di sé diceva orgogliosa: “Sono cresciuta tra i contadini, nelle
campagne vicino Cremona, libera, tra molti affetti e necessità concrete. E proprio lì, ben piantate nella terra, ci sono le mie radici”.
E così, leggiadra e solida, dolce e tenace, se n’è andata un “monumento nazionale”, un mito del balletto, una delle più grandi artiste della danza internazionale.
Carla Fracci è morta a Milano a 84 anni per un tumore che l’aveva colpita già da tempo e che aveva vissuto con coraggio e strettissimo riserbo. “Eterna fanciulla danzante”, la definiì il poeta Eugenio Montale. “You are wonderul” le confessò commosso Charlie Chaplin dopo averla vista.
Carla Fracci è stata davvero una artista unica, un misto di concretezza meneghina e leggerezza della poesia, una protagonista sia dell’esclusivo mondo del balletto classico che di quello pop della televisione e dei rotocalchi: un viaggio longevo e trionfale, il suo, delicatissima e struggente Giselle, toccante Giulietta, aerea Sylphide nei più grandi teatri del mondo, dalla Scala al Royal Ballet, lo Stuttgart Ballet, il Royal Swedish Ballet, e dal 1967 artista ospite dell’American Ballet Theatre, con i più eccelsi partner come Erik Bruhn, Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Gheorghe Iancu, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, gli italiani Amedeo Amodio, Paolo Bortoluzzi, e coreografi come Cranko, Dell’Ara, Rodrigues, Nureyev, Butler, Béjart, Tetley e molti altri.
Carla Fracci era nata il 20 agosto del 1936 a Milano. Amici di famiglia convincono i genitori a iscriverla alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala dopo averla vista muoversi nel salone del dopolavoro del papà tranviere.
Carla ha 10 anni, è magra, esile, “all’inizio non capivo il senso degli esercizi ripetuti, del sacrificio, dell’impegno mentale e fisico. Io, poi, sognavo di fare la parrucchiera. Fu pesantissimo”, raccontava in una intervista sui suoi inizi.
Ma il visino dolce, la leggerezza dei movimenti colpiscono le insegnanti, Vera Valkova, Edda Martignoni, Paolina Giussani e a 12 anni è una comparsa in La bella addormentata con Margot Fonteyn. L’incontro ravvicinato con la grande ballerina le fa capire che i sacrifici, lo studio, la disciplina possono produrre poesia. Si diploma nel 1954, nel 1955 debutta nella Cenerentola alla Scala; nel 1958, a 22 anni, viene promossa prima ballerina.
Sapienza tecnica, leggerezza, una spiccata capacità interpretativa le aprono i teatri del mondo e i maggiori ruoli (ne ballerà circa centocinquanta): oltre ai popolarissimi Lago dei cigni, Lo schiaccianoci, diventano suoi i ruoli romantici, Giulietta, la Swanilda di Coppelia, Francesca da Rimini, soprattutto Giselle, il “suo” personaggio: nei panni della giovane contadinella innamorata, coi capelli sciolti e un leggerissimo tutù, entrerà per sempre nella storia del balletto.
Dopo la prima del ’59 a Londra al Royal Festival Hall, la Fracci sarà Giselle in tantissime edizioni e tra le più belle si ricordano quella con Erik Bruhn al Met, e l’altra con Nureyev.
L’incontro con Rudy risale al 1963 e sarà un sodalizio artistico che incanterà mezzo mondo per oltre un ventennio. “Ballare con Rudolf era una sfida. Carattere difficile. Eccentrico e competitivo. Ma di grandissima generosità. Era inammissibile per lui che nel lavoro non ci si impegnasse. E per guadagnarsi la sua stima, bisognava essere più forti e uscirne vittoriosi”, ricorderà lei che proprio nei primi anni Sessanta, aveva lasciato la Scala (con una polemica per un balletto cancellato) e da ballerina indipendente, era diventa l’étoile italiana più famosa nel mondo, “la prima ballerina assoluta” scriverà il New York Times.
“In tanti mi hanno chiesto come ci si sente a essere un mito. Ma i miei che erano dei lavoratori, padre tranviere, madre operaia mi hanno insegnato che il successo si deve guadagnare. E io ho lavorato, lavorato, lavorato… “.
Continua a farlo anche dopo il matrimonio con Beppe Menegatti, aiuto regista di Visconti, nel ’64, e dopo che è diventata mamma nel ’68. Con Menegatti realizzerà molti spettacoli e personaggi (Medea, Pantea, Titania, Ariel, Luna, Ofelia, Turandot), coinvolgendo compagnie non sempre all’altezza del suo nome. “L’importante è che la gente veda la danza” diceva, e lei lo ha fatto vedere con sorprendente longevità anche fuori dal repertorio classico – e tra Medea, Concerto barocco, Les demoiselles de la nuit, Il gabbiano, La bambola di Kokoschka, svetta la Gelsomina de La strada di Nino Rota creata apposta per lei dal coreografo Mario Pistoni – e anche fino a 80 anni quando, fisico ancora asciutto, elastico, fece un cameo in La musa della danza al San Carlo di Napoli.
Ben prima di Roberto Bolle, Carla Fracci ha contribuito a portare la danza in contesti pop, a cominciare dalla televisione: nel’67 con Scarpette rosa, di Vito Molinari, in molti show del sabato sera e ancora in quella che resta una autentica e notevole prova di attrice, nello sceneggiato tv su Giuseppe Verdi, come indimenticata Giuseppina Strepponi, la soprano e seconda moglie del compositore (ma attrice lo è stata anche al cinema in Storia vera della signora delle Camelie di Bolognini con Isabelle Huppert e Gian Maria Volonté, Nijinskij di Herbert Ross con Jeremy Irons), fino alle civetteria di ridere con autoironia della bella imitazione di Virginia Raffaele al Festival di Sanremo
Per la diffusione del balletto, d’altra parte, Carla Fracci si è spesa nei contesti più diversi, anche politici.
Da sempre mpegnata a sinistra (nel 2009 diventa assessore alla Cultura della Provincia di Firenze) si è battuta contro lo smantellamento dei Corpi di Ballo dalle fondazioni liriche, anche con un appello nel 2012 all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Il ballo classico ha dato prestigio al nostro Paese ed è triste che oggi sia considerato residuale. Un’arte nobile come questa non può essere trattata come una Cenerentola”.
Lei stessa si era impegnata in prima persona a tenerli vivi: alla fine degli anni Ottanta quando dirige il Corpo di Ballo del Teatro San Carlo di Napoli, poi nel ’96 quello dell’Arena di Verona, e dal 2000 per dieci anni alla testa della compagnia di danza all’Opera di Roma, tuttavia sempre nel rimpianto, carico di rancori, della mancata direzione del balletto alla Scala dove proprio per questi dissapori non ballerà più dal ’99.
A gennaio di questo 2021 è il nuovo direttore del Ballo, Manuel Legris, a invitarla a tenere due masterclass su Giselle, ricucendo così quella rottura, e di cui resta una testimonianza nella docufiction Corpo di ballo su RaiPlay.
“Mi ha toccata l’accoglienza di tutto il teatro, il lungo applauso. Ho sentito rispetto e gratitudine. Spero che ci saranno altre di queste masterclass. Ai giovani voglio spiegare che la tecnica c’è ma non va esibita”.
Leggendaria la sua frase “la danza non è piedi e gambe. È testa”, che racchiude tutta la sua poetica.
La sua storia, invece, l’ha raccolta nell’autobiografia Passo dopo passo (Mondadori, 2013), che ora diventerà una fiction tv con Alessandra Mastronardi: non solo ha dato la sua consulenza insieme al marito e alla storica collaboratrice Luisa Graziadei, ma ha regalato un cameo nei panni della sua insegnante alla scuola della Scala. Come a chiudere il cerchio. “Mi lamento spesso e sono una polemica” ha confessato in una delle ultime apparizioni tv, vestita di bianco, come sempre, suo unico vezzo, “ma la mia è stata una gran bella vita”.
(da La Repubblica)
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