Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
70% PER ATLANTE POLITICO, 60,1% PER EUROMEDIA DELLA GHISLERI… I CONTRARI 16% E 21,7%… MELONI E SALVINI SCONFESSATI DAL LORO ELETTORATO: SUI DIRITTI CIVILI SONO DEGLI ZOMBI
Venerdì è uscito un sondaggio di Atlante politico secondo cui il 70% degli Italiani è favorevole al ddl Zan.
Il quesito era posto in maiera molto semplice: «Si discute, in questi giorni, della cosiddetta legge Zan, per il contrasto alla violenza e alle discriminazioni legate all’omofobia. In base all’idea che si è fatto, rispetto alla legge Zan lei si direbbe…»
Queste le risposte e le relative percentuali: favorevole (24%), molto favorevole (46%), contrario (12%), molto contrario (4%), non sa non risponde (14%).
In particolare la maggioranza anche degli elettori del sedicente centrodestra a trazione sovranista si sono dichiarati favorevoli, sconfessando la linea dei loro leader.
Passiamo al sondaggio analogo di di Euromedia Research della Ghisleri: il 60,1% si dice favorevole al ddl Zan, il 21,7% è contrario.
Il 52,8% ritiene inoltre che l’approvazione della legge consentirebbe di avere un Paese più democratico e attento alle discriminazioni.
A conferma che Salvini e Meloni non rappresentano il proprio elettorato, visto che la metà dei loro elettori è favorevole al DDL Zasn anche in questo caso e non credono alle palle che gli raccontano.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
L’ATTACCO PER I LAVORI AL CENTRO SPORTIVO DEL TORINO… LA SINDACA: “NON RISPONDO AGLI INSULTI”
“Hanno trovato mile scuse, quella lì è veramente una def…”. Il presidente del Torino, Urbano Cairo, attacca la sindaca Chiara Appendino.
In un video girato da alcuni tifosi, diffuso dal quotidiano Tuttosport e diventato virale sul web, il patron granata se la prende con la prima cittadina, arrivando anche ad alcuni insulti, per il mancato avvio dei lavori del Robaldo, il nuovo centro sportivo che il club attende di realizzare da anni. “Appena andrà via lei avremo subito le autorizzazioni”, sostiene Cairo.
La reazione di Appendino al video, girato in occasione della trasferta a La Spezia, non si è fatta attendere.
“Non intendo rispondere a degli insulti, sono frasi che si commentano da sole – dice a Tuttosport e sui social -. Ciò che mi auguro, da sindaca della città, è che il Torino, nelle prossime due partite, possa fare i punti necessari per rimanere in A. Nel merito del Robaldo, come il presidente ben sa – puntualizza -, non sussistono questioni politiche, ma solo tecniche”.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
LE JOURNAL DU DIMANCHE PUBBLICA IL RAPPORTO FINALE DELL’UFFICO EUROPEO DELLA LOTTA ALLA CORRUZIONE
A meno di un anno dalle prossime elezioni presidenziali, lo spettro degli impieghi fittizi al Parlamento europeo del Rassemblement National torna a togliere il sonno a Marine Le Pen.
A far riemergere l’inchiesta lanciata nel 2015 ci ha pensato oggi il settimanale Le Journal du Dimanche, che ha pubblicato in esclusiva il rapporto finale dell’Ufficio della lotta alla corruzione e alle infrazioni finanziarie e fiscali (Oclciff).
Secondo gli inquirenti, il partito di estrema destra francese avrebbe messo in piedi un sistema “fraudolento di sottrazione di fondi europei a suo profitto”.
In altre parole, i fondi concessi da Bruxelles agli europarlamentari per stipendiare i propri assistenti sarebbero stati impiegati dal partito di estrema destra per coprire funzioni nazionali.
Un meccanismo lanciato in occasione delle elezioni europee del 2014, quando la formazione si chiamava ancora Front National ed era diretta da Jean-Marie Le Pen, che avrebbe così lasciato in eredità alla figlia un sistema ben rodato, diventato nel corso degli anni la norma da seguire per risparmiare sugli stipendi dei collaboratori.
L’attuale presidente del partito viene descritta dal Journal du Dimanche come “l’istigatrice e la beneficiaria di questo sistema”, grazie anche alla complicità del collaboratore belga Charles Van Houtte.
Le Pen avrebbe consentito agli europarlamentari di scegliere solamente un assistente, mentre gli altri sarebbero stati assunti direttamente da lei con compiti da svolgere per il partito, lontano dall’emiciclo europeo.
Secondo il rapporto, Van Houtte “faceva riempire delle deleghe ai deputati del Front National che gli permettevano così di avere accesso ai dati amministrativi e finanziari delle buste paga”. Il fedelissimo della Le Pen si è difeso rigettando tutta la responsabilità sulle spalle della sua leader: “Conoscete Marine Le Pen, con lei tutto è centralizzato”, ha detto ai giudici.
Adesso secondo il rapporto ci sono 17 dirigenti del Rassemblement National che rischiano di finire alla sbarra, tra cui Marine e Jean-Marie Le Pen, per una truffa stimata a 6,8 milioni di euro, contro la quale l’Europarlamento si costituito parte civile.
L’inchiesta è stata portata avanti negli anni nonostante le difficoltà, con i legali del Rassemblement National, che hanno presentato un’ondata di ricorsi nel tentativo di non far scoppiare un nuovo scandalo a ridosso del voto del prossimo anno.
Una strategia riuscita, visto che nel caso in cui il giudice dovesse rinviare a giudizio Le Pen è da escludere l’inizio del processo prima della primavera 2022.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
LO STUDIO DELL’ISTITUTO SUPERIORE DELLA SANITA’
I vaccini anti-Covid riducono sensibilmente il rischio di infezione, ricovero e decesso. Sono queste i risultati dello studio condotto da Istituto superiore di sanità e ministero della Salute sull’impatto delle vaccinazioni sul rischio di contagio, ricovero e morte per il Coronavirus.
“Il rischio di infezione, ricovero e decesso – si legge nel documento – diminuisce progressivamente dopo le prime due settimane e fino a circa 35 giorni dopo la somministrazione della prima dose. Dopo i 35 giorni si osserva una stabilizzazione della riduzione che è circa dell’80% per il rischio di diagnosi, del 90% per il rischio di ricovero e del 95% per il rischio di decesso”. Gli effetti sono simili tra uomini e donne.
Lo studio parte dai dati accumulati al 3 maggio, quando in Italia sono state vaccinate 14,36 milioni di persone per un totale di 21,2 milioni di dosi somministrazione.
Al fine dell’analisi il campione analizzato è di 13,72 milioni di persone che hanno ricevuto i vaccini Pfizer, Moderna, AstraZeneca e Johnson & Johnson.
In particolare la valutazione dei dati si concentra su 7,37 milioni di persone vaccinate prima del 4 aprile. Si sottolinea, inoltre, che per il 92,7% delle persone vaccinate con Pfizer e Moderna prima del 4 aprile sono stati rispettati i tempi per la somministrazione della seconda dose (tra 21 e 25 giorni per Pfizer e tra 28 e 30 per Moderna), con una minore osservanza di questa indicazione nelle Regioni del Sud, tra gli ospiti delle Rsa e nel personale scolastico (in questo caso la campagna è stata sospesa).
In tutti i periodi considerati, lo studio permette di “osservare una rapida riduzione dell’incidenza di diagnosi a partire dai 14 giorni successivi alla somministrazione della prima dose”.
Un dato che vale per tutte le categorie, partendo dal presupposto che inizialmente i gruppi con incidenza più elevata erano gli ospiti delle Rsa e gli operatori sanitari: “In tutte le categorie si osserva comunque una riduzione dell’incidenza all’aumentare del tempo dalla somministrazione della prima dose”. L’incidenza delle diagnosi di infezione, nelle due settimane successive alla somministrazione della prima dose di qualsiasi vaccino, si attesta a 2,90 per 10.000 giorni persona, mentre sopra i 15 giorni dalla prima dose questo tasso si riduce a 1,33.
Discorso simile vale anche per i casi gravi e l’incidenza dei ricoveri: si passa da 0,44 nelle due settimane successive a 0,18 dopo i 15 giorni dalla prima somministrazione. Dato in linea anche con quello dei decessi: l’incidenza scende da 0,18 a 0,04. L’età mediana delle persone vaccinate e poi contagiate è 57 anni, per quelle ricoverate è di 84 anni e per quelle decedute è di 87 anni. Questi dati valgono in maniera tra loro molto simile per tutte le fasce d’età, per tutte le categorie, per tutte le Regioni italiane e senza differenze tra uomini e donne.
La seconda parte dello studio si concentra sulle stime del rischio di diagnosi di Covid-19 dopo la prima dose: dai 14 ai 21 giorni successivi alla somministrazione della prima dose si registra una progressiva riduzione di questo rischio, con il plateau del rapporto tra le incidenze che si attesta a circa 0,20 dopo 35-42 giorni dalla prima dose. Dopo 35-42 giorni dal vaccino, quindi, la riduzione dei contagi è quasi massima, con la discesa statistica dei casi che rallenta ma senza registrare una nuova risalita del rischio. Lo stesso discorso vale per i ricoveri, con un plateau di 0,10 sempre a 35-42 giorni; non cambia nulla per i decessi, per cui si registra la stessa tendenza: il plateau di circa 0,05 viene raggiunto a 35-42 giorni dalla prima dose. Non ci sono differenze tra le varie categorie (stesso trend per operatori sanitari e ospiti delle Rsa) o tra uomini e donne. Per quanto riguarda le differenti fasce d’età, l’andamento è simile per tutti, con un plateau di circa 0,20 a 35-42 giorni. In più, per gli over 60 e per gli over 80 si vede anche un’ulteriore decrescita dei casi intorno ai 100 giorni dalla prima somministrazione.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA DEL REPORTER DI ASSOCIATED PRESS A GAZA
Fares Akram, reporter palestinese dell’agenzia di stampa internazionale, era tra le persone che il 15 maggio sono state costrette ad evacuare l’edificio di al-Jalaa
Non c’è pace nella Striscia di Gaza. I bombardamenti israeliani continuano per il settimo giorno consecutivo. Mentre si aggrava il bilancio delle vittime, sempre più vicino a 200, di cui 40 bambini, nella giornata del 15 maggio gli attacchi israeliani hanno colpito e distrutto un edificio a Gaza, la torre di al-Jalaa, in cui avevano sede al-Jazeera e l’Associated Press (AP).
Ed è proprio un giornalista dell’agenzia di stampa internazionale AP, Fares Akram, a raccontare in prima persona, in un articolo pubblicato sul The Guardian, i momenti prima e dopo la distruzione dell’edificio che per anni era stato la sua seconda casa.
«Mi hanno svegliato le grida dei miei colleghi», scrive Akram. «Mi sono precipitato al piano di sotto e ho visto i miei colleghi indossare elmetti e giubbotti protettivi. Gridavano: “Evacuazione! Evacuazione!”». L’esercito israeliano aveva dato ai giornalisti, e al resto delle persone presenti all’interno della torre, un’ora per lasciare tutto ed evacuare l’edificio. «Mi è stato detto: hai 10 minuti», ricorda Akram.
«Ho iniziato ad allontanarmi. Poi ho guardato indietro quel posto che era stato per anni la mia seconda casa. Mi sono reso conto che quella era l’ultima volta che l’avrei visto». Akram si mette un elmetto e inizia a correre. «Quando ho sentito di essere abbastanza lontano, ho parcheggiato la macchina e sono sceso», scrive Akram. Con lui ci sono anche i suoi colleghi. «Stavano guardando. Aspettavano quello che sarebbe successo».
«Dopo i giorni più sconvolgenti della comunità in cui sono nato e cresciuto e di cui ora copro le notizie – nel luogo in cui vivono mia madre, i miei fratelli, i miei cugini e gli zii – ora sono a casa vorrei poter dire che sono al sicuro qui, ma non posso. A Gaza non esiste un posto sicuro».
Come raccontato dallo stesso Akram attraverso un post su Twitter, la sua fattoria nel nord della Striscia di Gaza è stata distrutta da un attacco israeliano. «Questo è il luogo – racconta – dove mi ero messo in quarantena per sfuggire al virus, ma non è il posto migliore per ripararsi dai bombardamenti. I raid attuali ricordano la guerra del 2008, quando un attacco aereo su questa fattoria uccise mio padre»
Quasi tutti i giornalisti hanno dovuto abbandonare computer, telefonini e tutti i loro strumenti. «Ho pensato a tutti i centinaia di ricordi che ora erano in frantumi, incluso il registratore a cassette che ho usato quando sono diventato giornalista. Se avessi avuto un’ora, avrei preso tutto».
Secondo la giustificazione fornita dal governo israeliano, l’edificio conteneva equipaggiamenti militari appartenenti ad Hamas, ma il Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti ha affermato che l’attacco «solleva lo spettro che le forze di difesa israeliane stiano deliberatamente prendendo di mira le strutture dei media per interrompere la copertura delle sofferenze umane a Gaza».
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
I PRECEDENTI IMPUNITI DI ATTACCHI A SCUOLE, OSPEDALI E STAFF ONU, INFRASTRUTTURE CIVILI E UMANITARIE
Nella giornata di ieri l’esercito israeliano nel corso di una sessione di bombardamenti a tappeto su Gaza ha colpito e raso al suolo la torre Al Jala, un edificio di 13 piani – sessanta uffici, tra redazioni, studi medici, studi di avvocati – nel centro della città della Striscia.
Quasi immediatamente è uscita la notizia che il palazzo, individuato dalle Idf come un “rifugio di alcuni terroristi di Hamas e dei loro uffici di intelligence”, agli ultimi piani ospitava diversi giornalisti e le sedi delle emittenti internazionali per cui lavoravano, come Al Mayadeen, Voice of Prisoners, Doha media center, AP e Al Jazeera, tra le poche ad avere reporter di guerra non solo in Israele ma anche nella Striscia, oggetto da tre giorni di una brutale campagna militare.
A nulla è servita la telefonata, ripresa in diretta da Al Jazeera, che il proprietario della torre Al Jala, Jawad Mehdi, ha avuto nei pressi dell’edificio con un ufficiale delle IDF, chiedendogli più tempo per evacuare gli equipaggiamenti.
“È la vostra vita, non la mia, prega il Profeta“, dice ad un certo punto l’ufficiale, pochi secondi prima del crollo.
Immediato il comunicato di Joel Simon, direttore esecutivo del Committee to Protect Journalist (CPJ): “Questo attacco su un palazzo che Israele sapeva ospitare giornalisti solleva il dubbio che esso prenda deliberatamente di mira i media, così da impedire la copertura delle sofferenze umane provocate a Gaza. Chiediamo al governo israeliano di fornire un resoconto dettagliato e la documentazione necessaria a giustificare questo attacco su una infrastruttura civile, vista la possibile violazione del diritto umanitario internazionale”.
“Siamo scioccati e disgustati dal fatto che Israele abbia deciso di distruggere il palazzo che ospitava la AP e altri media a Gaza“, ha commentato per BusinessInsider Gary Pruitt, Ceo della AP. “Israele è da tempo al corrente di dove si trovi il nostro bureau, così come era al corrente che nel palazzo c’erano dei giornalisti. Ci hanno avvertito che l’edificio sarebbe stato colpito, e per poco non abbiamo perso una dozzina di giornalisti. Si tratta di uno sviluppo davvero inquietante, per via di ciò che è successo il mondo da ora avrà minore possibilità di sapere cosa accade a Gaza”, ha concluso, confermando che ai reporter è stato dato un preavviso di un’ora, senza la possibilità di mettere in salvo le strumentazioni.
“Ogni volta che vedete reporters collegati in diretta da Gaza, normalmente trasmettono dal tetto della torre Al Jala”, commenta la giornalista Halla Mohiedeen.
Più duro il direttore del Media network di Al Jazeera, Mostefa Souag, il quale al Guardian ha descritto questo bombardamento come una “palese violazione dei diritti umani e un crimine di guerra”, invitando poi la comunità internazionale a condannare l’attacco e “mettere Israele di fronte alle proprie responsabilità”.
Gli ha fatto eco Walid Al Omari, capo del bureau di Al Jazeera a Gerusalemme: “È chiaro che coloro che stanno portando avanti questa guerra non vogliono solo seminare distruzione e morte a Gaza, ma anche silenziare i media che ne sono testimoni, che documentano ciò che davvero sta accadendo. Ma questo è impossibile. È solo uno dei crimini che Israele ha commesso nella Striscia”.
E’ possibile radere al suolo un palazzo con sessanta uffici, tra i quali quelli delle uniche emittenti internazionali a Gaza, nella convinzione che all’interno si nascondano dei membri di Hamas?
È anche necessaria una “armonizzazione” delle versioni israeliane, se è vero che il portavoce delle IDF, Jonathan Conricus, non si è limitato a parlare della presenza di Hamas all’interno della torre, bensì ha esplicitamente negato che la stessa ospitasse sedi di emittenti giornalistiche, affermazione che risulta in ogni caso falsa.
Israele – che qualche ora prima della torre al Jala ha colpito un campo profughi uccidendo un paio di famiglie, in totale 10 persone di cui 8 bambini – non è nuova a questo tipo di operazioni su infrastrutture civili o umanitarie, sia a Gaza che altrove. Andando a ritroso, Tel Aviv già nell’estate 2014, durante l’operazione “margine protettivo” su Gaza, colpì in tre diverse sessioni di bombardamenti a tappeto i rifugi dell’Unrwa, uccidendo 44 civili, di cui 10 membri dello staff delle Nazioni Unite.-
Nell’operazione “piombo fuso” del 2009, sempre a Gaza, le IDF colpirono, nel popoloso quartiere di Tal Hawa, l’ospedale al Quds, una scuola, un altro media center e il quartier generale delle Nazioni Unite, ferendo tre persone del suo staff, alcune delle quali dichiararono che nei bombardamenti era stato usato il fosforo bianco.
In quell’occasione l’allora primo ministro israeliano, Ehud Olmert, dopo aver sostenuto che nel palazzo c’erano alcuni membri di Hamas – affermazione “priva di senso”, secondo il direttore operativo dell’Unrwa, John Ging -, si scusò per le “tristi conseguenze”, aggiungendo che “non sarebbe dovuto accadere niente di simile”.
Non solo a Gaza ma anche in Libano. Nella guerra del 2006, quattro peacekeepers disarmati delle Nazioni Unite (di nazionalità austriaca, cinese, finlandese e canadese) furono uccisi in un raid israeliano mentre si erano rifugiati in un bunker all’interno di in una stazione di osservazione nel sud del Paese, nei pressi di Khiyam, dove gli israeliani avevano “appaltato” all’Esercito del Libano del sud la gestione di un centro di detenzione e tortura, poi assediato e dismesso nel 2000 durante un’operazione di Hezbollah e di un centinaio di volontari locali.
Anche in quel caso le IDF affermarono che nell’area erano presenti postazioni di Hezbollah. Più o meno negli stessi giorni avviene il bombardamento aereo di Qana, nel quale vengono uccisi 56 civili, di cui 32 bambini, ed altri incidenti minori (tra cui quello in cui muore a Sidone un membro dello staff Unrwa, Abdel Saghir, in cui vengono feriti dei soldati della missione Unifil, in un paio di occasioni anche dal fuoco di Hezbollah.
Per il villaggio di Qana non si trattava delle prima volta: il 18 aprile 1996, durante l’operazione “Grappoli di rabbia”, le Israeli Defense Forces colpirono con l’artiglieria un compound delle Nazioni Unite, dove si erano rifugiati circa 800 civili. Centosei di essi furono uccisi, e altri 116 feriti, tra cui quattro soldati fijiani dell’Unifil in modo grave.
Pur esprimendo cordoglio e dispiacere per le vittime provocate, le autorità israeliane in tutte queste occasioni rigettarono le accuse e i report di Amnesty International, Human Rights Watch e delle Nazioni Unite – dalle quali non potrebbero essere sanzionati, visto il potere di veto statunitense nel Consiglio di Sicurezza -, definendoli “parziali” e “fuorvianti”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
IL GIALLO DEL COPASIR E GLI INCONTRI CON LO 007 MANCINI… REPORT PREANNUNCIA NOVITA’ …. IL PRESIDENTE DEL COPASIR HA ACCESSO A MOLTE INFORMAZIONI RISERVATE, PER QUELLO LA LEGA NON MOLLA LA POLTRONA
Nella Lega il servizio di Report che andrà in onda domani sera sugli incontri tra Matteo Salvini e il capo reparto del Dis, Marco Mancini, preoccupa molti.
Tant’è che l’ordine di scuderia arrivato da via Bellerio è quello di non commentare per non accostare il nome del leader della Lega al dirigente dei Servizi che già il 23 dicembre aveva incontrato Matteo Renzi in piena crisi di governo: se esplodesse il caso politico, come per Renzi, infatti, Salvini difficilmente riuscirebbe a sfuggire da una convocazione del Copasir.
I leghisti non sono solo preoccupati dall’ammissione del segretario sui suoi incontri con Mancini, ma anche da quello emergerà dalla puntata. Ovvero l’attenzione di Salvini per il tema dei Servizi.
Nell’inchiesta di Walter Molino, infatti, si parla della guerra sulla presidenza del Copasir, oggi occupata dal leghista Raffaele Volpi, che per legge spetterebbe a Fratelli d’Italia ma che la Lega non ha mai voluto lasciare. Il perché non si è ancora capito. Il caso però sembrava sciolto in partenza perché, come scritto dal Fatto il 21 febbraio e come confermato a Report dal vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, Volpi era in pole per fare il sottosegretario alla Difesa.
Al cronista di Report, La Russa spiega: “Volpi poteva fare il sottosegretario. Fino al giorno prima”. La notizia l’aveva avuta dal “capogruppo o dal vicecapogruppo della Lega in Senato”: “Mi ha detto guarda che il problema (del Copasir, ndr) forse si risolve perché mi pare sia in pole position per fare il sottosegretario”. Poi non andò così: “Il giorno dopo è uscita la lista dei sottosegretari e non c’era Volpi – continua La Russa – Lui era, questo lo so, sicuro di andare a fare il sottosegretario”. Perché il presidente del Copasir non ha ottenuto la poltrona di sottogoverno?
La vulgata è che Salvini, dopo lo smacco dei ministri vicini a Giancarlo Giorgetti, avesse chiesto tutti sottosegretari a lui fedeli (Volpi è vicino a Giorgetti). Ma forse il motivo è più recondito. E ad adombrarlo a Report è proprio La Russa.
Secondo il senatore di FdI non è stato Volpi a non voler mollare la poltrona (“Volpi è una brava persona, è un soldato”): “L’unica cosa che tutti hanno capito è che il problema non è Volpi” conclude La Russa. Potrebbe allora essere stato lo stesso Salvini a chiedere a Volpi di restare alla presidenza del Copasir? Volpi smentisce: “Assolutamente no”. Il sospetto – in queste ore in cui sono emersi gli incontri Salvini-Mancini, non sappiamo quanto retrodatati nel tempo – che quella poltrona possa essere particolarmente cara al leader della Lega è venuto a molti, però.
D’altronde il presidente del Copasir ha accesso a molte informazioni riservate e viene informato preventivamente da Palazzo Chigi sulle nomine. E alla vigilia delle scelte sui nuovi vertici di Dis e Aisi avere un amico a San Macuto poteva tornare comodo.
E forse non è un caso che ieri sul Corriere sia uscito un articolo in cui si raccontavano i timori del numero due della Lega Giorgetti che evocava una guerra di dossier che coinvolge il mondo dei Servizi. “Si prospettano mesi d’inferno” ha preconizzato Giorgetti, più preoccupato di questo che dei vaccini o del Recovery.
Il titolare del Mise ipotizza che dopo gli incontri tra Renzi e Salvini con Mancini usciranno altri dossier preoccupanti, per la guerra che sarebbe in corso tra 007.
Sarà anche per questo che la Lega ora si muove come i renziani: provare a delegittimare Report. Il capogruppo in Vigilanza Massimiliano Capitanio e il deputato Fabrizio Cecchetti attaccano la trasmissione su un servizio del 26 ottobre scorso sulla Regione Lombardia e la gestione dei test sierologici: “Per attaccare la Lega, Report si è affidato a un falso medico”. Peccato che sia falso, come ha spiegato Sigfrido Ranucci: per quel servizio Report non ha mai “né intervistato né menzionato” il medico oggi indagato per abuso di professione.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
IL PREMIER SI ‘E STANCATO DEGLI ULTIMATUM DEL LEGHISTA
Mario Draghi si è stufato degli ultimatum di Matteo Salvini. E anche delle furbe strategie del Capitano per mandarlo al Quirinale lasciando la via libera a lui per Palazzo Chigi. E così oggi su tutti i giornali i retroscena raccontano un presidente del Consiglio molto irritato con il segretario della Lega.
La Stampa racconta che il premier ha una road map precisa. Dopo l’ok al Decreto Sostegno e il nuovo provvedimento sulle riaperture e il coprifuoco, entro la fine del mese deve arrivare la norma sulla governance del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Poi quello sulle semplificazioni. Subito dopo, il governo si concentrerà sulla riforma della concorrenza, da presentare entro fine giugno, e sulla legge delega di riforma della giustizia civile.
La road map è questa e non si scappa. Perché, come ha più volte detto pubblicamente il premier, anche alle Camere, e poi ha ribadito la ministra della Giustizia Marta Cartabia meno di una settimana fa ai capigruppo: «Senza riforme non arriveranno i soldi del Recovery». È vitale, dunque, che la maggioranza non finisca nel pantano delle incertezze, dei sabotaggi, dei veti.
«Ne va della credibilità italiana e dei finanziamenti che possono migliorare il Paese», è il pensiero di Draghi. Salvini può dire quello che gli pare ma non c’è alternativa, secondo il premier. E sminuire questo percorso vuol dire rendere senza senso la nascita del governo di unità nazionale.
Anche Repubblica racconta che Draghi vuole «completare il lavoro» iniziato. È l’unico modo per mettere sul binario giusto il Recovery, una questione di «serietà». E quindi, non sarà Matteo Salvini a dettare i tempi al premier, nonostante gli scomposti avvertimenti lanciati dalle colonne di Repubblica.
Sostenere infatti, come fa il leghista, che non è questo l’esecutivo giusto per le riforme – a partire da quelle della giustizia e del fisco – significa boicottare in partenza due dei pilastri necessari al Next generation Eu.
Senza gli interventi strutturali, si «mette a rischio» la montagna di denaro del piano europeo. Draghi non accetterà che accada. «Rispetterò gli impegni presi con il Paese e con l’Europa», ecco il senso dei suoi ragionamenti in queste ore. Perché l’agenda di governo «c’è, è ben definita e non cambia»
Per questo Draghi è irritato, preoccupato e stufo. Perché l’attivismo del leghista rischia di diventare, anzi forse è già diventato un problema. Il timore è che sia alle porte una nuova fase, in cui l’ostilità del leader del Carroccio diventi sempre meno moderata.
Il sospetto, temono a Palazzo Chigi, è che la situazione peggiori durante l’estate, con la campagna per le amministrative d’autunno nelle grandi città. La scintilla capace di produrre nuovi equilibri, oppure il caos. Non è quello a cui Draghi intende sottoporsi
Consapevole della portata delle sfide che ha di fronte, ha promesso al Quirinale e ai suoi interlocutori europei e internazionali che farà di tutto per completare il lavoro avviato. Con un obiettivo non dichiarato: trasformare il Paese da laboratorio dei sovranismi ad asset fondamentale dell’unità europea e atlantica, anche in vista del dopo Merkel.
Letta, nell’assemblea di Articolo Uno che lo vede assieme a Giuseppe Conte e Roberto Speranza in un’ipotesi di centrosinistra unito, sceglie la linea della nettezza: “Salvini lasci. E lasci che le riforme le faccia Draghi con chi le vuole”.
A testimonianza del fatto che l’uscita della Lega della maggioranza, al centrosinistra non dispiacerebbe. Un centrosinistra che, nel frattempo, prova a superare le scorie della mancata alleanza con il M5S alle Comunali di Roma. “La nostra esperienza comune non può essere accantonata” in vista delle elezioni politiche, sottolinea Conte che, entro la fine di maggio, proverà a dare il là definitivo al nuovo M5S.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2021 Riccardo Fucile
GUALTIERI: “SALVINI NON HA CAPITO CHE COSI’ PERDIAMO I SOLDI DEL RECOVERY”
Nuova puntata dello scontro fra il Pd e Matteo Salvini. Questa volta tocca a Beppe Provenzano e Roberto Gualtieri attaccare il leader della Lega. “Ma che problemi ha Matteo Salvini con i fondi Ue? Prima a Bruxelles era contro Next Generation Eu, ora in Italia sabota le riforme per ottenerli. Sì, non può fargli fare la fine dei 49 miloni della Lega, ma se non li vuole è semplice: si dimettano i ministri leghisti chiamati a gestirli”, twitta il vicesegretario dem.
“Ci sono delle increspature nella maggioranza, Salvini dice di no alle riforme. Forse non ha capito che così perderemo i soldi, ma il Pd è il baricentro e la garanzia che l’Italia non perderà la straordinaria opportunità del Pnnr”, aggiunge l’ex ministro Roberto Gualtieri.
Nel Pd, spiega il candidato dem alla poltrona di sindaco di Roma “vedo una forte unità che nasce dalla consapevolezza di quanto fatto. Grazie al Pd l’Italia in crisi con il Papeete di Salvini è riuscita a rilanciarsi e affrontare la pandemia cambiando l’Europa e ottenendo un piano di rilanci. Il Pd è stato decisivo per salvare l’Italia, noi abbiamo puntato sull’Europa e ottenuto che l’Europa ci aiutasse”.
Dunque un nuovo affondo, dopo le critiche del segretario del Pd Enrico Letta all’intervista a Repubblica in cui aveva detto che questo governo non è in grado di fare le riforme necessarie per incassare i soldi europei. “Se Salvini dice che non si fanno le riforme, tragga le conseguenze ed esca da questo governo, che è fatto per fare le riforme”, aveva detto Letta nel corso del suo intervento all’Assemblea di Articolo 1.
Federico Fornaro capogruppo di Leu alla Camera pensa che “le ultime dichiarazioni del leader della Lega indicano una chiara volontà di guerriglia continua all’interno del governo. Salvini non pare interessato ad affrontare e risolvere i problemi degli italiani – continua il parlamentare -, ma piuttosto non apparire troppo arrendevole rispetto all’opposizione di Fratelli d’Italia”.
Per Fornaro, “con queste premesse il semestre bianco rischia di trasformarsi in un autentico Vietnam con continue imboscate al governo. Una prospettiva inaccettabile e contraria all’interesse di cittadini e imprese”.
(da La Repubblica”)
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