Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA CHOC DI CASSIDY HUTCHINSON, ASSISTENTE DELL’EX CAPO DELLO STAFF DELLA CASA BIANCA… SAPENDO CHE MOLTI DEI MANIFESTANTI IN MARCIA SU WASHINGTON ERANO ARMATI, TRUMP INTIMÒ AL SERVIZIO SEGRETO DI LASCIARLI ARRIVARE FINO ALLA CASA BIANCA E AL CONGRESSO SENZA PASSARE PER I METAL DETECTOR
Un Donald Trump furioso che il 6 gennaio dello scorso anno , sapendo che molti dei manifestanti in marcia su Washington erano armati, intimò al servizio segreto di lasciarli arrivare fino alla Casa Bianca e al Congresso senza passare per i metal detector perché «non ce l’hanno con me».
Poi cercò di andare fino al Congresso col suo popolo e reagì con violenza quando i suoi assistenti glielo impedirono per non esporlo a gravi conseguenze legali: provò ad afferrare il volante di The Beast, la limousine presidenziale, poi prese per il collo l’agente dei servizi che la guidava.
La testimonianza resa il 28 giugno da Cassidy Hutchinson, allora assistente di Mark Meadows, il capo di gabinetto del presidente, davanti alla Commissione parlamentare che indaga sull’assalto al Congresso di un anno e mezzo fa, ha gettato nuova, livida luce sulle ore più drammatiche vissute dalla democrazia americana.
Dettagliata la ricostruzione di quanto avvenuto dietro le quinte: un hearing che ha confermato le voci di un Trump furioso col suo vice fino al punto di non dolersi del desiderio dei manifestanti di impiccarlo.
Un leader fuori controllo fino al punto di spingere il suo avvocato, Pat Cipollone ad avvertire Meadows che il presidente stava rischiando gravi conseguenze penali per ostruzione delle elezioni.
La Hutchinson aveva già reso una lunga testimonianza alla Commissione, ma in questo nuovo hearing straordinario ha accettato di ricostruire quasi minuto per minuto quanto avvenuto alla Casa Bianca quel 6 gennaio e nei giorni immediatamente precedenti: dall’organizzazione (con la regia di Rudy Giuliani e di altri trumpiani) dell’assalto al Congresso con l’obiettivo di convincere Pence e i parlamentari a non ratificare la vittoria di Joe Biden , fino al rifiuto di Trump di fermare gli assaltatori del Congresso guidati dai suoi fedelissimi Proud Boys. Trump l’ha subito attaccata, negando tutto: «Una falsa totale e una delatrice».
La Hutchinson, interrogata dalla deputata repubblicana Liz Cheney (che ha notato come quasi tutti i testimoni dell’indagine siano conservatori) ha srotolato gli eventi di una giornata drammatica partendo da quando, affacciandosi sulla piazza dell’Eclipse, luogo del suo comizio incendiario, Trump si infuria perché vede grossi spazi vuoti: i manifestanti che entrano in piazza devono lasciare le armi proprie e improprie che hanno addosso e molti, allora, preferiscono restare alla larga. Trump sa che sono armati ma la cosa non lo preoccupa: «Non ce l’hanno con me».
E chiede al servizio segreto di rimuovere la barriera dei metal detector. Quando, più tardi, gli insorti sfondano le barriere di polizia a protezione del Congresso (che alla Casa Bianca sapevano essere insufficienti) e minacciano di impiccare Mike Pence, l’avvocato Cipollone sollecita Meadows a fare qualcosa per costringere Trump a fermare il suo popolo.
Ma si sente rispondere da uno sconsolato capo di gabinetto (nelle parole riferite dalla testimone oculare Cassidy): «L’hai sentito: lui pensa che Pence se lo meriti. Pensa che loro non stiano facendo nulla di male». Sono le 2 del pomeriggio e, nonostante le pressioni dei leader repubblicani, dei conduttori della Fox a lui vicini e dei suoi stessi figli, per altre due ore Trump si rifiuterà d’intervenire.§
Dopo il comizio
Finito il suo comizio, The Donald cerca di raggiungere i manifestanti sulla sua limousine. Gli avvocati avvertono: sarebbe un suicidio legale. Allora Meadows e il suo vice, Tony Ornato, decidono per il ritorno alla Casa Bianca. Trump si ribella: «Sono io il fottuto presidente», cerca di afferrare il volante, poi prende per il collo l’autista. La Hutchinson rivela altri suoi attacchi d’ira: quando il ministro della Giustizia, Barr, a dicembre rende noto di non aver trovato irregolarità nelle procedure elettorali, Trump scaglia il piatto col pranzo contro una parete di una sala della Casa Bianca.
Accessi d’ira sempre più frequenti dopo la sconfitta elettorale fino al drammatico 6 gennaio quando alcuni collaboratori, davanti alla sua folle ostinazione, pensano per un momento di attivare la procedura costituzionale per la rimozione del presidente per evidente incapacità di intendere e di volere.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
L’ESPERIENZA DELL’ATTRICE GAIA NANNI… SONO GLI STESSI CHE SE AFFOGA UN PROFUGO IN MARE SE NE FOTTONO
L’attrice Gaia Nanni ha raccontato tre giorni fa su Facebook la sua esperienza
con l’aborto a Firenze. Il post comincia con la mancata firma di una ginecologa che ha scelto l’obiezione di coscienza, che ha dato il via a una trafila lunga «giorni. Che sembrano mesi. Le settimane, anni». Tra psicologhe, assistenti sociali («vede, lei è emotivamente scossa. Piange, non siamo sicure che lo voglia davvero. Rifissiamo un altro appuntamento») e un ginecologo che la chiama «questa».
«Ero minorenne? No. Ero in un centro di accoglienza rifugiati e non parlavo una parola di italiano? No. Ero una donna che voleva mettere fine alla sua gravidanza ma la sua firma a nulla serviva».
Dopo la pubblicazione dell’articolo l’attrice ha avuto una brutta sorpresa in strada: «Oggi ho trovato la mia macchina cosparsa di immondizia e improvvisamente ho capito che davvero in Italia di alcune cose non si può parlare. Ho sopravvalutato il mio paese che quando giudica i vicini oltreoceano pare Pinco ma che alla fine resta un feudo medievale. Si tutela l’embrione e si augura la morte a quella che lo porta in grembo se non si comporta secondo i dettami stabiliti. Muori bastarda hai ucciso una vita!».
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
MONTANO I SOSPETTI SU DUE GRUPPI DI PRESSIONE
Il giorno precedente l’invasione russa dell’Ucraina, a Bruxelles si tenne un
incontro tra le principali lobby europee del settore del gas. Riunite nel Gas Coordination Group (Gcc), davanti alla minaccia sempre più concreta di un conflitto si confrontarono con la Commissione europea sulle misure da adottare per far fronte al rischio di un taglio delle forniture. Era il 23 febbraio.
Da allora si sono tenuti altri tre incontri del Gcc (11 marzo, 29 marzo e 13 maggio) e, in tutte le occasioni, il gruppo – che ha il compito di dare pareri alla Commissione nell’eventualità di un’emergenza a livello comunitario – ha insistito sulla centralità delle forniture di gas per l’Unione europea, invitando anzi a rafforzare l’impegno sul fronte del gas naturale liquido (Gnl).
Nell’incontro del 29 marzo, venne discussa anche la questione del pagamento del gas russo in rubli da parte delle aziende Ue. Vladimir Putin aveva annunciato la stretta da sei giorni e, nel corso della riunione del Gcc, emerse quella che sarebbe poi diventata la controversa linea della Commissione europea: «La Commissione dovrebbe attenersi ai termini del contratto e insistere sul pagamento in euro o dollari», si legge nella nota stilata al termine dell’incontro del Gcc.
Nei giorni seguenti, la Commissione non chiarì se l’apertura di un doppio conto – uno in euro o dollari per il pagamento delle forniture e uno per la conversione del pagamento stesso in rubli – rappresentasse una violazione delle sanzioni Ue contro la Russia.§
Nelle scorse settimane, la Commissione Ue è stata accusata di avere un approccio ambiguo e permissivo nei confronti di Mosca sulle sanzioni in materia di gas. Quando lo scorso 17 maggio Eni ha annunciato che avrebbe aperto un conto in rubli per continuare gli scambi commerciali di gas con la Russia, una fonte qualificata ha spiegato a Open che proprio la mancanza di linee guida europee chiare aveva permesso all’azienda di muoversi in «un vuoto legislativo non casuale».
«Se le regole sui pagamenti non sono esplicite, c’è un motivo – ha detto la fonte -, nessuno dei grandi Stati europei vuole e può rinunciare alle forniture da Mosca».
A giugno, durante il Forum economico internazionale di San Pietroburgo, il vicepremier russo Alexander Novak ha fatto sapere che circa il 90-95% del gas fornito all’Europa dalla Russia viene oggi pagato in rubli. Nel conteggio di Novak rientrano anche i pagamenti in altre valute (ad esempio l’euro) poi convertiti dalla Gazprombank.
A maggio Novak aveva dichiarato che, su 54 aziende europee che hanno contratti per le forniture di gas con Gazprom, circa la metà avrebbe aperto un conto in rubli. Chi possiede l’elenco dei clienti europei di Gazprom è l’ufficio della Commissione all’Azione Climatica e all’Energia che, dopo un primo sì, ha fatto un passo indietro sulla diffusione della lista completa. Finora solo alcune società energetiche hanno annunciato di aver aperto un conto in rubli con Gazprombank: oltre la metà di loro è legata alle lobby del gas che operano tutt’ora nelle istituzioni europee.
Negli ultimi 11 anni, il numero di lobby iscritte al Registro per la trasparenza dell’Unione europea è costantemente aumentato: dalle 545 del luglio 2011 alle 13.573 del febbraio 2022. Il dato è calato per la prima volta dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Al momento, risultano registrate 12.425 lobby (dato aggiornato al 16 giugno 2022, ndr). Il 2 giugno scorso, la presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola ha annunciato che i lobbisti che rappresentano aziende con sede in Russia non possono più accedere al Parlamento. Il divieto, tuttavia, non si applica alle società che rappresentano gli interessi di Mosca ma hanno sede in Paesi europei. Stando a quanto denunciato dalla Ong Global Witness, è il caso di Eurogas e Gas Infrastrutture Europe (Gie). Entrambe le organizzazioni, iscritte al Registro per la trasparenza, hanno sede a Bruxelles, in Belgio, fanno parte del già citato Gas Coordination Group e secondo quanto ricostruito hanno legami profondi con la Russia.
Fondata nel 1990, Eurogas ha otto rappresentanti iscritti nel Registro per la trasparenza, autorizzati a tenere colloqui ai più alti livelli con esponenti delle istituzioni Ue. L’associazione riunisce 63 aziende europee coinvolte nella distribuzione, la vendita al dettaglio e all’ingrosso di gas in Europa, inclusi giganti dei combustibili fossili come Eni, Shell e Total. Secondo quanto raccolto da Open, almeno 12 di queste compagnie hanno contratti con Gazprom per la fornitura di gas russo: Engie (Francia); Eni (Italia); E.On (Germania); Depa (Grecia); Galp (Portogallo) GasTerra (Paesi Bassi); Geoplin (Slovenia) Rwe (Germania); Spp (Slovacchia); Uniper (Germania); Vng (Germania).
Di queste, solo l’olandese GasTerra ha annunciato di non essere disposta ad accettare le condizioni del Cremlino per il pagamento delle forniture, rifiutandosi di aprire un conto in rubli.
Un annuncio che, lo scorso 30 maggio, ha portato alla decisione da parte di Gazprom di interrompere il flusso di gas verso i Paesi Bassi. L’Aia, va ricordato, si appoggia al gas russo solo per il 5% dei consumi: il resto è autoproduzione e per il 15% Gnl (gas naturale liquido, ndr).
Viceversa, ben 7 delle 10 compagnie europee che al momento hanno annunciato l’apertura di conti in rubli sono membri di Eurogas: la francese Engie, l’italiana Eni, le tedesche Rwe, Uniper e Vng, la slovacca Spp e la slovena Geoplin. Non solo.
Lo scorso aprile, la lettone Latvijas Gaze ha aperto al pagamento in valuta russa. A fine maggio, la greca Depa ha fatto sapere di avere concluso il pagamento per le forniture di gas a Gazprom, senza tuttavia specificare se questo sia avvenuto in rubli.
«Si tratta di accordi privati tra le singole compagnie e Gazprom», commentano fonti qualificate di Eurogas, «non sono scelte che dipendono da noi». James Watson, secretary general di Eurogas, chiarisce a Open: «Sosteniamo pienamente il rispetto del regime di sanzioni dell’Ue come risposta alla brutale invasione dell’Ucraina». Quanto all’attività di lobbying dell’associazione, «incontriamo regolarmente i decisori politici, discutendo di come le proposte legislative possono favorire o ostacolare i nostri obiettivi su gas e decarbonizzazione», dice Watson, smentendo però qualsiasi tipo di allineamento tra Eurogas e Mosca.
Dal 2006 all’inizio del 2022, Eurogas ha rappresentato – tra le altre aziende – anche la Russian Gas Society (Rgs). Le compagnie che fanno parte della Rgs producono più del 97% del gas russo, si legge sul profilo dell’associazione, guidata dal parlamentare russo Pavel Zavalny. Deputato del partito di Putin Russia Unita, Zavalny è stato, in passato, direttore generale di Gazprom Transgaz Yugorsk, società controllata da Gazprom, e dal 2015 presiede il Comitato per l’energia della Duma, la Camera bassa del Parlamento russo. Tra le figure apicali della Russian Gas Society figurano anche Markelov Vitaly Anatolievich, membro del board di Gazprom, e Shamsuarov Azat Angamovich, vicepresidente del colosso statale Lukoil. Lo scorso marzo, in seguito all’invasione dell’Ucraina, Eurogas ha sospeso la Russian Gas Society ed eliminato ogni riferimento all’associazione moscovita dal proprio sito web.
«La Russian Gas Society è stata sospesa ma non espulsa», commentano Global Witness a Open, «è attraverso organizzazioni come Eurogas che Gazprom è coinvolta nel lavoro di lobbying europeo». Secondo la Ong, che cita la stessa Russian Gas Society, l’associazione con base a Mosca ha preso parte a una decina di riunioni e gruppi di lavoro di Eurogas: «Adesso forse non verrà più invitata, ma la politica di Eurogas non è cambiata, e questo ci dice che l’allineamento con gli interessi della Russia c’è ancora». Il riferimento è alla refrattarietà dei colossi energetici europei, e di chi li rappresenta nelle istituzioni Ue, a tagliare la dipendenza dal gas: «Dicono: “La soluzione è più gas, più Gnl, più idrogeno“. Questa posizione arriva da qualche parte», continuano da Global Witness. «Gazprom vuole diventare il primo produttore di idrogeno al mondo, per esempio. Quanto ai membri di Eurogas, molti hanno ancora investimenti in Russia e dipendono da Gazprom. Non accetterebbero una presa di posizione forte contro il gas russo».
Quando a marzo la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato l’accordo tra i leader Ue sullo stop a gas e petrolio russi entro il 2027, Eurogas ha rifiutato di sostenerlo pubblicamente. Parlando con Open, Watson ha commentato: «Noi stiamo seguendo la linea tracciata dalle istituzioni dell’Ue. Le azioni della Russia hanno fatto crescere i dubbi sull’affidabilità del Paese come fornitore». Una presa di posizione ritenuta troppo timida da Global Witness: «È come dire “non infrangeremo la legge”, il che dovrebbe essere scontato», dice il senior campaigner Barnaby Pace. «Con queste parole Eurogas è ben lontana dal sostenere attivamente i piani dell’Unione europea per uscire dal gas russo e solleva seri interrogativi sul modo in cui stanno usando il loro accesso privilegiato ai più alti livelli della politica energetica dell’Ue».
Dal 2014, Eurogas si è assicurata oltre 50 incontri con funzionari della Commissione europea e ha membri nei consigli di esperti che forniscono consulenza alla stessa Commissione, come il Gcc. I rapporti con le istituzioni Ue sono così stretti che la commissaria per l’Energia Kadri Simson è intervenuta alla conferenza annuale di Eurogas del 2022, inizialmente prevista per marzo e poi rinviata al 14 giugno a seguito dello scoppio della guerra. Anche Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea con delega al Green Deal, aveva tenuto uno speech nella conferenza del 2021.
Un’altra lobby europea accusata di mantenere legami con Mosca nonostante le sanzioni Ue è Gas Infrastructure Europe (Gie). Tra le 68 compagnie che fanno parte dell’associazione figurano Gazprom Germany e Astora, entrambe controllate di Gazprom. Stando a quanto risulta a Open, dopo l’invasione russa dell’Ucraina Gie non ha interrotto i legami con le due aziende, che continuano a essere membri dell’associazione. Gazprom fornisce circa il 40% delle importazioni di gas fossile della Germania. Astora gestisce un quarto dello stoccaggio di gas nel Paese e ha impianti anche in Austria. Tra i membri di Gie ci sono anche quattro aziende europee che hanno contratti con Gazprom per la fornitura di gas: le tedesche Rwe, Uniper e Vng e l’austriaca Omv. Tutte hanno accettato di aprire conti in rubli.
L’attività delle lobby – e di Eurogas in particolare – non si è fermata nemmeno davanti al piano per la transizione ecologica europea. L’associazione, anzi, ha fatto del rinnovabile la sua nuova bandiera. Come ha spiegato lo stesso Watson, al momento la società è impegnata nella «decarbonizzazione», promuovendo progetti con idrogeno e biometano: «Lo scopo di Eurogas – dice a Open – è accelerare la transizione verso la neutralità climatica attraverso il dialogo e l’advocacy verso un’ottimizzazione dell’uso dei gas». Ma idrogeno e biometano, notano da Global Witness, continuerebbero a fluire attraverso l’infrastruttura del gas esistente, consentendo a molte società del gas di mantenere il proprio modello di business per i decenni a venire». Verde o no, l’industria del gas continua a esercitare una pressione importante sulle istituzioni.
La Commissione europea, comunque, non ha interesse a mantenere a lungo rapporti così stretti con Mosca. L’Ue – e quindi le aziende che operano nel territorio europeo – vuole puntare sempre di più su una più solida collaborazione con gli Stati fornitori di Gnl, il gas naturale liquido che viene trasportato via mare. Mentre il prezzo del gas schizza a causa del taglio delle forniture lungo il gasdotto Nord Stream 1, la stessa Eni ha annunciato di essere entrata nel più grande progetto al mondo di Gnl in Qatar – un progetto dal valore di 29 miliardi di dollari che punta ad aumentarne la produzione annuale. Anche le attività di lobbying, quindi, potrebbero cambiare a breve. Il segretario generale di Eurogas ha dichiarato che «le azioni della Russia hanno portato a crescenti dubbi sull’affidabilità del Paese come fornitore», facendo intendere cambiamenti in arrivo. La società ha anche confermato di essere stata coinvolta in una «riunione ad alto livello» per il commercio di Gnl tra Ue e Usa, «allo scopo di aiutare negli sforzi di diversificazione».
(da Open)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
“MAI PARLATO CON DE MASI DI QUESTA PRESUNTA RICHIESTA”
“Con le vostre storielle coprite la verità”: Beppe Grillo liquida così la vicenda
sollevata dal sociologo Domenico De Masi, che in un’intervista al Fatto Quotidiano ha spiegato di aver parlato proprio con il fondatore del Movimento 5 Stelle che gli avrebbe rivelato una richiesta arrivatagli da Mario Draghi, vale a dire rimuovere Giuseppe Conte da leader del partito.
“È indecente, si parla del tuo presidente, con quale diritto Draghi vi chiede questo?”, ha detto De Masi nelle conversazioni con Grillo. “Poi gli ho spiegato – ha aggiunto il sociologo – che vogliono tenerli nel governo per cuocerli a fuoco lento. Sanno che in autunno con questa crisi, i poveri aumenteranno in modo sensibile. Il M5s sarebbe pronto a farsene carico, a difenderli, e facendolo riacquisterebbe consensi, ma non vogliono che questo accada”.
Il fondatore del Movimento gli avrebbe dato ragione, pur rimanendo della sua opinione: “Non si esce dal governo per un inceneritore”. De Masi ha poi difeso Conte: “Fossi in lui ora me ne andrei. Non può venire una persona da Genova e decidere al posto tuo, dopo che ti sei caricato il peso del Movimento. Non puoi delegittimarlo così: è poco dignitoso”. Tra le rivelazioni di Grillo a De Masi, che ne ha parlato anche a Un Giorno da Pecora, anche il fatto che il premier scambia spesso messaggi con lui “sulle cose da fare, sui provvedimenti da approvare, insomma sul rapporto da tenere con il governo”.
“Finora Draghi mi ha dato tutto quello che gli ho chiesto sul piano politico da quando siamo al governo”, avrebbe detto Grillo, aggiungendo: “Io e il premier ci capiamo, siamo tutti e due dei nonni”. Anche per questo motivo probabilmente il fondatore del Movimento 5 Stelle non è d’accordo con l’uscire dalla maggioranza, ipotesi che serpeggia sempre più tra i parlamentari grillini.
(da NextQuotidiano)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
L’UNICA SOLUZIONE SAREBBE CAMBIARE I TRATTATI, MA INDOVINATE? SERVE L’UNANIMITÀ ANCHE PER QUELLO: E 13 STATI HANNO GIÀ DETTO NO
«Dobbiamo superare il principio dell’unanimità, da cui origina una logica fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata. Un’Europa capace di decidere in modo tempestivo, è più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo».
Le parole del premier Mario Draghi pronunciate il 3 maggio scorso durante la plenaria del Parlamento europeo espongono in modo chiaro quale sia il problema dell’Unione europea nel prendere decisioni.
L’Europa non è uno stato federale, la moneta unica è adottata solo da 19 Paesi su 27, non c’è una Costituzione europea perché nel 2005 i cittadini francesi e olandesi hanno votato contro in un referendum.
L’Unione europea è una comunità di diritto fondata sui Trattati negoziati dagli Stati membri, che hanno ceduto competenza verso Bruxelles ma non in egual misura in tutti i settori.
Sulle questioni considerate politicamente più sensibili bisogna che tutti gli Stati siano d’accordo. In pratica i Paesi sono disposti a cedere competenze a condizione di avere la garanzia di poter impedire l’adozione di decisioni a loro sgradite. L’unanimità però rallenta il processo decisionale dell’Unione, ed è talvolta usata da uno Stato membro per «ricattare» gli altri.
L’unanimità come ricatto
Il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina è stato bloccato per settimane dall’Ungheria, che ha esercitato il suo diritto di veto finché non ha ottenuto un’esenzione dall’embargo sul petrolio russo perché non ha sbocco al mare e le è difficile diversificare le forniture.
Ma poi ha rimesso il veto perché il patriarca di Mosca Kirill fosse escluso dalle sanzioni. La direttiva Ue che punta a garantire un livello minimo globale di tassazione al 15% per le multinazionali (global minimum tax) è stata bloccata dal veto della Polonia, che poi ha tolto, ma ora lo ha messo l’Ungheria.
Anche se non dichiarato ufficialmente, Varsavia aveva stoppato la direttiva per ottenere in cambio dalla Commissione Ue il semaforo verde sul proprio Recovery Fund. L’Ungheria ha messo a sua volta il veto per esercitare la stessa pressione. L’Ue ha introdotto un meccanismo per legare i fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto e Ungheria e Polonia hanno messo il veto al bilancio Ue 2021-2027 finché hanno ottenuto che non fosse applicato subito.
Nel 2020 Cipro ha ritardato per settimane le sanzioni dell’Ue contro la Bielorussia preoccupata per le provocazioni della Turchia, che svolgeva attività di ricerca di idrocarburi nelle acque di Nicosia senza autorizzazione.
Quando si decide all’unanimità
Dentro al Consiglio serve l’unanimità quando si prendono decisioni in questi ambiti: politica estera e di sicurezza comune (sanzioni, dichiarazioni politiche, missioni militari); imposizione fiscale (nuove tasse a livello Ue, come ad esempio la minimum tax per le multinazionali); sicurezza sociale o protezione sociale (diritti da riconoscere a livello Ue a tutti i cittadini europei); adesione di nuovi Stati all’Unione europea (per lo status di candidato all’Ucraina hanno dovuto approvare tutti e 27); cooperazione di polizia operativa tra gli Stati membri.
Negli altri casi il Consiglio decide a maggioranza qualificata, chiamata anche «doppia maggioranza»: devono essere favorevoli 15 Paesi su 27, e rappresentare almeno il 65% della popolazione totale dell’Ue. Un’astensione è considerata un voto contrario. La minoranza di blocco deve invece includere almeno quattro Paesi, che rappresentino oltre il 35% della popolazione dell’Ue.
Cosa dicono i Trattati
Nei Trattati attuali è già prevista la possibilità di procedere a maggioranza qualificata anche nei settori in cui si deve decidere all’unanimità ma per farlo è necessario che siano d’accordo tutti i 27 Stati membri: sono le «clausole passerella».
Cioè serve l’unanimità per non applicare l’unanimità. Mentre il cambiamento dei Trattati è regolato dall’articolo 48 del Trattato di Lisbona, che prevede una procedura ordinaria e due semplificate. In tutti e tre i casi il Consiglio europeo alla fine delibera all’unanimità.
Ebbene, dopo un anno di confronti tra cittadini, istituzioni, società civile e associazioni attraverso la Conferenza sul Futuro dell’Europa, i cittadini chiedono alle istituzioni europee che il principio dell’unanimità venga applicato solo per l’ingresso di un nuovo Stato nella Ue e la modifica dei principi fondanti. Il resto a maggioranza qualificata.
La decisione del Parlamento
Il 9 giugno il Parlamento Ue ha votato una risoluzione che chiede ai leader Ue di avviare il processo di modifica dei Trattati. Nel dettaglio le richieste sono queste:
1) passare dal voto all’unanimità a quello a maggioranza qualificata in ambiti come le sanzioni, le cosiddette clausole passerella (consentono di modificare i Trattati) e le emergenze;
2) modificare le competenze che l’Ue ha nei settori della salute, energia, difesa, politiche sociali ed economiche;
3) riconoscere al Parlamento Ue l’iniziativa legislativa e i pieni diritti di colegislatore sul bilancio Ue;
4) rafforzare la procedura di tutela dei valori fondanti dell’Unione e chiarire la definizione e le conseguenze delle violazioni.
Ora la palla passa al Consiglio europeo e sono i capi di Stato e di governo a decidere se istituire una Convenzione intergovernativa per la revisione dei Trattati. La decisione viene presa a maggioranza semplice, vuol dire 15 Stati membri su 27 (ma i risultati della Convenzione dovranno essere approvati all’unanimità).
E questo è il primo problema perché il 9 maggio scorso, poco dopo la chiusura dei lavori della Conferenza sul Futuro dell’Europa, 13 Paesi Ue — Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Svezia — hanno presentato un documento informale in cui scrivono che avviare un processo di modifica dei Trattati sarebbe «sconsiderato e prematuro», e rischierebbe «di togliere energia «alle sfide geopolitiche urgenti che l’Europa deve affrontare».
Sei Paesi — Italia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Spagna — hanno a loro volta presentato un documento alla Commissione con il quale chiedono di dividere le proposte «attuabili rapidamente nello schema dei trattati esistente» e «le riforme istituzionali di lungo periodo» e si dichiarano «in linea di principio aperti alla necessità di apporre cambiamenti ai Trattati definiti insieme».
Il Consiglio non si sbilancia
Il Consiglio europeo nella riunione di giovedì e venerdì scorsi nelle conclusioni «prende atto delle proposte» e sottolinea che «un seguito efficace» deve essere assicurato dalle istituzioni, «ciascuna nell’ambito delle proprie competenze e conformemente ai Trattati». Niente di più.
La palla quindi rimbalza sulla prossima presidenza del Consiglio Ue: a luglio passerà alla Repubblica Ceca e poi alla Svezia che non hanno fatto mistero di non voler toccare i Trattati. Difficile aspettarsi progressi su questo fronte.
Ma ci sono altre soluzioni, a partire dalla cooperazione rafforzata che è già prevista dai Trattati (è stata usata ad esempio per creare la Procura europea): permette a un minimo di nove Stati membri di cooperare in un ambito specifico
La pandemia e ora la guerra in Ucraina stanno dimostrando che le risposte ai grandi problemi non arrivano dai singoli Stati bensì dall’Ue nel suo insieme. Quando è esploso il Covid, l’acquisto congiunto dei vaccini si è dimostrata una strategia vincente. Il maxi piano di aiuti Next Generation Eu, finanziato per la prima volta con debito comune, rappresenta una svolta nella storia dell’Unione.
E allora sono i Paesi pronti ad avanzare che devono trovare il coraggio di farlo, lasciando a chi rema contro (e considera l’Ue solo uno strumento per incassare fondi), la responsabilità di restare indietro.
Francesca Basso e Milena Gabanelli
(da il “Corriere della Sera”)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO DI LEGAMBIENTE: UN ALTRO 12,5% REGALATO AI BALNEARI… IN LIGURIA LA LEGGE REGIONALE IMPONE CHE IL 40% SIANO SPIAGGE LIBERE, SI E’ ARRIVATI AL 10% IN ALCUNE LOCALITA’
Oggi è sempre più difficile potersi godere una giornata di relax senza pagare.
Lo certifica il rapporto 2021 di Legambiente secondo cui trovare una spiaggia libera è quasi diventata un’impresa. “Le concessioni sul demanio costiero sono arrivate a 61.426, mentre erano 52.619 nel 2018 – spiega l’associazione – Di queste, 12.166 sono per stabilimenti balneari, contro le 10.812 del 2018, con un aumento del 12,5%”.
Insomma, chi non vuole o non può pagare i lidi privati, dove il prezzo giornaliero per due adulti può arrivare fino a 75 euro, deve armarsi di tenacia e pazienza per individuare e raggiungere qualche tratto di sabbia accessibile e gratuito.
A Napoli, per esempio, in zona Posillipo si trova un tratto di spiaggia pubblica racchiuso tra il celebre palazzo Don’Anna e i lidi vicini. Il Comune di Napoli ha stabilito che quella piccola porzione di costa, raggiungibile dopo aver superato un cancello chiuso, superato gli stabilimenti vicini e attraversato il mare a carponi (non proprio agevolissimo), è a disposizione di massimo 12 persone contemporaneamente.
Una situazione non tanto diversa da altre in Italia. “Complessivamente si può stimare — si legge ancora sul report di Legambiente — che meno di metà delle spiagge del Paese sia liberamente accessibile e fruibile per fare un bagno”.
In alcune Regioni (Liguria, Emilia-Romagna e Campania) il 70% delle spiagge è occupato dai lidi anche se Legambiente specifica che “in Emilia-Romagna l’accessibilità è sempre garantita a tutti e in Veneto ci sono ampi spazi di spiaggia libera di fronte agli ombrelloni degli stabilimenti”.
Non è così dappertutto però. È recente la notizia dell’aggressione a Ostia alcuni militanti di “Mare libero” da parte di un bagnino di uno stabilimento perché il gruppo stava cercando di accedere alla spiaggia libera attraversando il lido.
Sempre di recente, gli attivisti napoletani di “Mare libero e gratuito” hanno protestato in kayak e canoe contro le concessioni. “Non vogliamo pagare per ciò che è già nostro – hanno spiegato -. La privatizzazione aumenta in diretta relazione all’aumento dei prezzi e del carovita. La speculazione nega il diritto al mare”.
In Liguria la percentuale di costa sabbiosa occupata da stabilimenti arriva al 69,9%. Numeri da record. Eppure esiste una legge regionale del 2008 a difesa delle spiagge libere ma i Comuni che ne tengono conto sono pochi. “La normativa regionale prevede il 40% tra spiagge libere e attrezzate ma non è prevista alcuna sanzione per chi non la rispetta – racconta Stefano Salvetti, presidente regionale di Adiconsum – È impensabile avere una parte della costa ligure occupata dai lidi anche per il 90%. Le spiagge sono un bene pubblico e vanno salvaguardate”.
(da agenzie)
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