Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
IL PREZZO DEI TRASPORTI È SCHIZZATO FINO ALL’80% E I PAESI PIÙ POVERI NON RIESCONO A PAGARE… CON MILIONI DI PERSONE GIÀ SULL’ORLO DELLA FAME IL CRIMINALE PUTIN SOFFIA SUL FUOCO DELLE RIVOLTE
La Russia, con 10,1 miliardi di dollari di valore all’anno, è il primo esportatore di grano al mondo, e da essa dipende la maggior parte dell’apporto calorico e del foraggio da animali da allevamento in molti Paesi poveri.
Si tratta di grano tenero, quello per fare il pane, che ha un peso importante sui panieri dei prezzi di tutti i Paesi: come per l’energia, chi controlla il grano controlla il carovita.
Una lista dei Paesi che dipendono per più del 50 per cento delle proprie importazioni dal grano russo fornisce un’idea accurata del peso di Vladimir Putin nella geopolitica della fame: secondo la Fao, Kazakhstan, Mongolia, Armenia, Azerbaijan e Georgia dipendono quasi al 100 per cento dal grano russo, mentre hanno una dipendenza tra il 50 e il 100 per cento Bielorussia, Turchia, Finlandia, Libano, Pakistan e molti Paesi africani.
La prima vittima: l’Africa
L’Egitto comprava dall’Ucraina il 22% del proprio fabbisogno, la Tunisia il 49%, la Libia il 48%, la Somalia il 60%, il Senegal il 20%, la RDC il 14%, la Tanzania il 4%, il Sudan il 5%.
Come è noto questo grano è bloccato.
Ma cosa sta accadendo nei porti russi? I numeri ci svelano che il granaio del mondo non ha mai smesso di mandare grano verso Turchia, Medio Oriente e i clienti africani: l’Egitto continua a ricevere da Mosca il 60% del proprio grano importato, la RDC il 55%, la Tanzania il 60%, il Senegal il 46%, il Sudan il 70%, la Somalia il 40%, il Benin il 100%, e di poco si discosta l’Eritrea.
Numeri che fanno comprendere bene alcune solide alleanze che si sono venute a creare in questi mesi. In primis la Turchia, un Paese che ha un’importanza strategica visto lo sbocco del Mar Nero: la Convenzione di Montreux del 1936 stabilisce che, quando c’è una guerra nell’area, spetta ad Ankara l’ultima parola su chi può navigare attraverso i Dardanelli e il Bosforo. Solo Bulgaria e Romania, altri due Paesi rivieraschi e membri della Nato, avrebbero il diritto di scortare i convogli navali.
Gli altri maggiori esportatori di grano (Canada, Argentina, Stati Uniti e Australia) si trovano tutti distanti dal Mediterraneo. In tutto il mondo, la produzione negli ultimi dieci anni è aumentata. Ma, di pari passo, sono cresciuti anche gli stock, e la conservazione del grano può superare i due anni.
Le vie alternative: impraticabili
Ricapitolando: il grano ucraino è fermo. Prima della guerra, l’Ucraina utilizzava per il 95% delle esportazioni i porti di Mariupol, Berdiansk, Kherson e Odessa. Impossibile usare altre vie: i quattro porti fluviali sono vecchi e piccoli, non possono esportare più di 300 mila tonnellate al mese; sulle tredici autostrade che portano in Polonia, Slovacchia, Ungheria, Moldova e Romania, possono marciare non più di 20 mila tonnellate al giorno, con alti costi di carburante e dogane; i treni sono impraticabili, perché i binari ucraini hanno un sistema di scartamento diverso da quelli europei.
Il grano russo viaggia più di prima
Il blocco dei cereali ucraini apre la porta a nuovi acquirenti di grano russo fuori dall’Europa. Lo scorso marzo, a guerra già iniziata, la Russia ha incrementato del 60% le esportazioni di grano secondo ProZerno, la «borsa» agricola russa: 1,7 milioni di tonnellate, contro l’1,1 milione di tonnellate del marzo 2021.
SovEcon, istituto che monitora i transiti di grano sul Mar Nero, conferma che la Russia ha aumentato queste esportazioni soprattutto verso il Medio Oriente e l’Africa (Turchia, Egitto, Iran e Libia), rimpiazzando le esportazioni ucraine bloccate nei porti.
Gli ultimi dati ufficiali disponibili successivi all’inizio della guerra, riguardano la prima metà di aprile. Nonostante le sanzioni e nonostante la crescita del costo di trasporto, circa 900 mila tonnellate di grano sono state caricate nei porti russi, in linea con i dati di marzo (fonte AgFlow). I maggiori acquirenti rimangono la Turchia (602 mila tonnellate solo nelle prime due settimane di aprile) e l’Egitto (231).
Dal rapporto del «Russian grain Union», nell’ultima settimana di maggio verso l’Africa stanno andando maggiori quantitativi: l’Egitto ha importato un po’ di più (62.000 ton), la Libia è tornata fra gli acquirenti (60.000 ton) e in Nigeria sono state spedite 40.000 ton.
Anche il prezzo di vendita ha avuto una leggera flessione: 399 $ a tonnellata. Solo la settimana prima il prezzo era di 410 dollari a tonnellata (Fonte FOB).
Il grano rubato a Kiev
I russi si stanno appropriando anche del grano ucraino: secondo Kiev tra le 400 e le 600 mila tonnellate sono state «rubate dai silos» e portate via mare dal porto di Sebastopoli prima in Egitto (che però ha rifiutato il carico) e poi in Siria. Un altro quantitativo da 1,4 milioni di tonnellate è stato portato in Russia, via Rostov.
I satelliti di Planet Labs hanno fotografato due navi russe (la Matros Pozynich e la Matros Koshka) nella zona di carico del porto di Mariupol, mentre imbarcavano il grano da un silos, oltre ai trenta camion con rimorchi che sono stati ripresi sull’autostrada di Melitopol.
I prezzi e la geopolitica della fame
Qual è l’effetto reale invece sui prezzi? Questa è la domanda chiave per comprendere l’affermazione della Fao secondo cui, anche a causa della guerra, le persone nel mondo che rischiano di soffrire la fame saliranno a 440 milioni. Il grano tenero è aumentato del 4,8% dall’inizio della guerra, ma del 57% negli ultimi 12 mesi.
Incidono i futures sul grano (prodotti finanziari che ne permettono l’acquisto a un prezzo atteso in una data futura) sulla Borsa di Chicago, ma a pesare sono soprattutto i costi di trasporto (aumentati già per effetto del Covid), e quelli sul Mar Nero che sono saliti dal 50 all’80% per la crescita dei costi assicurativi. Questo è il vero problema per quei Paesi che importavano il 50% del proprio fabbisogno esclusivamente da Russia e Ucraina.
Per il momento la Tunisia sostiene di avere scorte per tre mesi. Ma per evitare rivolte del cibo via Twitter, come accadde nelle Primavere arabe, i prodotti di base sono calmierati dal governo: il prezzo della baguette è bloccato a 6 centesimi da 10 anni.
Anche l’Algeria e il Marocco hanno imposto prezzi calmierati, ma siccome entrambi non importano grano tenero né
L’Egitto invece, per fronteggiare i rincari, ha dovuto indebitarsi per tre miliardi di dollari con l’Itfc, International Islamic Trade Finance Corporation, strumento di finanza islamica che sta in Arabia Saudita.
In tutto il Maghreb, i prezzi agricoli stavano già aumentando molto prima dell’invasione russa dell’Ucraina a causa di siccità, costi del carburante e carenza di concimi.
La leva dell’emigrazione
Lo scenario drammatico in Africa non si è ancora verificato, ma presentarlo già come esploso rischia di innescare l’emigrazione di massa come è già accaduto nel 2011. Uno spostamento che si andrà ad aggiungere a quello ucraino e che l’Europa non sarà in grado di reggere.
Lo scenario migliore per Putin, forse parte della sua strategia: utilizzare la leva alimentare per destabilizzare.
Ci aveva già provato ammassando migranti al confine con la Bielorussia. Gli era andata male. Di certo non ha nessuna pietà per quei 41 milioni di persone già sull’orlo della fame, che non contano niente perché non avendo i soldi per pagare lo scafista o il trafficante, non potranno mai spostarsi.
A loro non manda nemmeno un chicco del suo raccolto. Sono le popolazioni dello Yemen, del Chad, dell’Etiopia, dell’Afghanistan, del Bangladesh, assistite dal programma alimentare delle Nazioni Unite: il 45% del grano a loro destinato il World Food Program lo prendeva dall’Ucraina.
(da il Corriere della Sera)
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
SONO FUGGITI ANCHE LEV PONOMARIOV, A CAPO DEL FONDO IN DIFESA DEI DETENUTI, E LEONID GOZMAN, EX COPRESIDENTE DEL PARTITO RUSSIA GIUSTA – L’ULTIMO TRANSFUGA È MIKHAIL KASJANOV, L’EX PRIMO MINISTRO DI PUTIN
Pur di smentire i giornali che lo davano in fuga dalla Russia, l’oppositore settantenne Grigorij Javlinskij ha citato il leggendario cantautore sovietico Vladimir Vysotskij: «Non preoccuparti, non me ne sono andato. E non sperare, non me ne andrò!», ha scritto su Telegram.
Il tre volte candidato – sconfitto – alle presidenziali e fondatore del partito liberale Jabloko (Mela), non rappresentato in Parlamento dal 2007, era stato visto imbarcarsi lo scorso giovedì su un volo per Londra via Dubai. Il video di lui in coda agli imbarchi in aeroporto ben presto era rimbalzato su vari siti web e canali Telegram finché non è intervenuto il portavoce del partito, Igor Jakovlev, a sostenere che Javlinskij fosse andato in vacanza per due settimane.
Il dubbio resta. Da quando, il 24 febbraio, è cominciata l’offensiva russa in Ucraina, quasi tutti i politici liberali hanno lasciato il Paese. Compresi i leader delle ultime isole dell’opposizione liberale “sistemica”, ossia tollerata dalle autorità russe. Con l’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”, la musica è cambiata anche per loro. Sono fuggiti dissidenti come l’ottantenne Lev Ponomariov, a capo del Fondo in difesa dei detenuti, promotore della petizione che ha raccolto il numero record di oltre un milione di firme per la pace: dopo la minaccia di un processo legale, è volato in Georgia.
Hanno scelto l’esilio politici di lungo corso come Leonid Gozman, 71 anni, ex copresidente del partito Russia Giusta, oggi a capo del movimento “Unione delle forze di destra”, approdato a Berlino. E sono volati via dopo essersi dimessi Anatolij Chubajs e Valentin Jumashev. Nominalmente consiglieri di Putin, benché non contassero più nulla, erano tra gli ultimi reduci del “clan” Eltsin: architetto delle privatizzazioni il primo, avvistato giorni fa con un carrello vuoto in un supermercato di Limassol, a Cipro, genero dell’ex presidente il secondo.
L’ultimo transfuga è Mikhail Kasjanov, il copresidente di Parnas, il Partito della Libertà popolare, che nei giorni scorsi ha ammesso di trovarsi all’estero. «Ma spero non per lungo», ha scritto ad Afp . Kasjanov fu ministro delle Finanze sotto Boris Eltsin dal 1999 al 2000 e premier durante il primo mandato di Vladimir Putin al Cremlino dal 2000 fino all’allontanamento dal governo nel 2004. Tre anni dopo raccolse le firme necessarie a presentare la sua candidatura alle presidenziali del 2008, ma la Commissione elettorale centrale (Cec) la respinse con uno stratagemma consolidato: dichiarò nullo il 13 per cento delle firme. Da allora, Kasjanov è sempre stato sull’altro fronte della barricata rispetto al Cremlino. Nell’inverno 2011-2012 fu tra i principali oratori della cosiddetta “Rivoluzione bianca” in piazza Bolotnaja che chiedeva elezioni più eque. Con tempismo sospetto e nel classico stile dell’uso di sovietica memoria del “kompromat”, Ntv diffuse filmati di Kasjanov in intimità con una collaboratrice.
Dal 2015 il 64enne è co-presidente di Parnas, ultimo erede politico dell’era Eltsin nell’era Putin. La storia del partito risale ai primi Anni ’90 quando, sull’onda delle riforme democratiche, ex comunisti fondarono la Piattaforma Democratica prima e il Partito Repubblicano poi. Passati all’opposizione con l’ascesa al potere di Putin, i “repubblicani” diedero vita a una coalizione che poi confluì in Parnas, di fatto caduto nell’oblio dopo lo scandalo a sfondo sessuale che travolse Kasjanov. Tollerato sì, ma rappresentato solo a livello locale.
Perlomeno fino a qualche giorno fa quando si è visto revocare fino a settembre la registrazione dal ministero della Giustizia dopo che Kasjanov aveva prospettato una fusione con Open Russia, l’organizzazione “non grata” legata all’ex oligarca in esilio Mikhail Khodorkovskij. «I precedenti accordi con le autorità sulle garanzie personali per ogni liberale sistemico sono stati annullati dalla metamorfosi del Sistema causata dall’operazione», ha commentato il canale Telegram Kaktovottak.
La prossima vittima dell’operazione di pulizia del “campo non sistemico”, sostengono gli esperti, potrebbe essere proprio Jabloko, l’ultimo partito di spicco in Russia a non riconoscere il referendum in Crimea e ad aver condannato l’offensiva in Ucraina definendola «una guerra contro il corso oggettivo della storia ». Perciò il viaggio di Javlinskij fa pensare. Per Anatolij Nesmijan, commentatore nazionalista, Javlinskij e Kasjanov hanno colto i segnali: «Il prossimo passo saranno le rappresaglie dimostrative contro i “liberali”» .
(da la Repubblica)
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
IL GIUBILEO DELLA REGINA STA POMPANDO UNA BARCA DI SOLDI NELLE CASSE INGLESI: LA CORONA PORTA AL PAESE 4 MILIARDI DI EURO
Lunga vita alla regina, e al business del Giubileo cui si affida un’economia fiaccata da Brexit, pandemia e inflazione. «Gli inglesi, popolo di bottegai», disse Napoleone. Ma di talento.
«In tempi normali il beneficio economico che Windsor, cerimonie e palazzi portano all’economia supera i 2 miliardi di sterline l’anno. Ma in anni straordinari come questo il contributo della “Ditta” reale raddoppia: 3,5 miliardi di sterline (oltre 4 miliardi di euro), con i costi di sicurezza che pesano mezzo miliardo», spiega al Corriere David Haigh che nella City dal 2012 fa i conti alle finanze reali col report Monarchy di Brand Finance.
Le folle di questi giorni lo provano. «La monarchia è un volano che porta benefici in varie direzioni: c’è il turismo, 1,2 miliardi di sterline di stimolo legato al Giubileo per il brand Gran Bretagna: un maxi spot planetario gratuito, la sfilata chiusa dalla regina ieri è stata seguita da 1 miliardo di persone. Poi i benefici al commercio di prodotti britannici, con un lifting per i detentori di Royal warrant», dice Haigh. Sono i fornitori della casa reale il cui blasone è lucidato a ogni Giubileo. L’aiuto all’economia del tempo libero, dai ristoranti ai bar (UKHospitality stima +22%, 400 milioni di sterline), i più penalizzati dal Covid, è straordinario.
«Certo il Giubileo è stato un lungo weekend con due giorni di festa, due giorni in meno di Pil, circa 1-1,5 miliardi di sterline per due, a fine anno. Anche se le nuove dinamiche del lavoro, oggi spesso da casa, li faran pesare meno».
Il costo dei Windsor? È stabile, con il Sovereign grant (un tempo Civil list ) della regina per il 2021-22 che vale 86 milioni di sterline: un costo di poco più di 1 sterlina a contribuente. Cui si aggiungono i 28 milioni stanziati per il Giubileo dal governo (ma la parata si è autofinanziata: 50% con sponsor e 50% con privati).
E quando la staffetta passerà a Carlo? «Sarà confermato il rispetto per la figura del sovrano, ma il fascino del brand sarà meno seducente. Non a Londra, ma nel Commonwealth», dice l’esperto. William e Kate lanceranno un loro brand come Harry e Meghan? «Quando Carlo sarà re, William erediterà il ducato di Cornovaglia e passerà a lui la gestione di Duchy Originals la linea di prodotti naturali di Carlo. Poi credo William e Kate abbiano già depositato un loro brand, ma non hanno fretta di lanciarlo, e sarà filantropico: sono sotto i riflettori, troppe le commercializzazioni della Corona».
(da il Corriere della Sera)
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
QUATTRO GIORNI A PARITA’ DI STIPENDIO
Dopo Islanda, Scozia e Spagna anche il Regno Unito sperimenta la settimana lavorativa corta. Sarà un progetto pilota che vedrà 3.300 persone lavorare solo 4 giorni da questa settimana, ma con lo stesso stipendio.
Tra le 70 aziende che vi hanno aderito, che porteranno avanti l’esperimento per 6 mesi, spiccano i nomi di grandi realtà. Dall’azienda hi-tech di WANdisco, passando per le banche digitali di Atom a nomi del mondo del gaming online come Hutch.
A promuovere e monitorare a livello globale il meccanismo della settimana corta ci sono gli attivisti della campagna 4 Day Week Global che – con i ricercatori del think thank Autonomy di più università britanniche – stanno analizzando il sistema di rotazioni per i dipendenti affinché sia anche sostenibile economicamente per le azienda.
Si tratta di un processo di cambiamento che più Stati e realtà lavorative stanno iniziando ad accogliere in virtù di una prospettiva che migliori la qualità della produttività e della condizione dei lavoratori. John O’Connor, chief executive di 4 Day Week Global, ha apprezzato l’iniziativa inglese dicendo che si inserisce «sulla cresta dell’onda di una tendenza globale» che mette al centro della concorrenza la «qualità della vita e un orario fondato sulla produttività lavorativa». In Italia siamo ancora ben lontani da queste iniziative, nonostante il 56 per cento degli Italiani vorrebbe la settimana breve e il 26 per cento afferma di poter mantenere i 5 giorni se in smartworking almeno parte della settimana. É quanto emerge dall’indagine SWG per Italian Tech.
(da agenzie)
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
IN POCHISSIMI HANNO LA POSSIBILITÀ DI ESSERE RIELETTI E QUINDI LA TENTAZIONE DI TENERSI TUTTA L’INDENNITÀ È ALTISSIMA
L’ultima volta che il tesoriere Claudio Cominardi inviò una mail di sollecito a deputati e senatori – era il dicembre dello scorso anno – scoppiò un putiferio interno che, come si suol dire, la metà basta.
Perciò la stagione degli inviti a regolarizzarsi per adesso si è interrotta, meglio non mettere il dito nella piaga, però nell’approvare il bilancio del 2021 Cominardi ha spiegato che i mancati introiti per l’associazione Movimento 5 Stelle si aggirano sui 2 milioni di euro.
Ogni mese infatti i parlamentari dei 5 Stelle devono versare 1.000 euro al partito, una pratica comune a tutte le formazioni politiche per autofinanziarsi. Altri 1.500 euro invece vanno indirizzati al cosiddetto fondo restituzioni, un conto corrente gestito dai capigruppo; di volta in volta gli iscritti sono chiamati a decidere dove destinarli.
L’ultima volta, il mese scorso, 75 mila euro furono destinati all’associazione papa Giovanni XXIII, per pagare viaggio e accoglienza di 63 bambini ucraini.
Il problema però non è tanto di natura burocratica, quanto politica. Circa un terzo degli eletti del M5S infatti versa le somme a singhiozzo oppure ha smesso direttamente di farlo. Sarebbero 80-90 persone quelle coinvolte.
Confida uno di loro: «Pende anche la questione della legittimità degli attuali vertici politici, quindi sul fatto se siano titolati o meno a spenderli: quando verrà chiarita una volta per tutte la vicenda giuridica al tribunale di Napoli allora sarà diverso. Oggi non c’è il clima di fiducia necessario, dal punto di vista politico, amministrativo e legale».
Ognuno sulla carta ha delle ragioni più o meno legittime. La consulenza da 300 mila euro a Beppe Grillo non è andata giù a parecchi; la scelta della sede nella centrale e costosa via di Campo Marzio a Roma, quartier generale dove pochi parlamentari mettono piede non avendone particolare bisogno, idem; ma probabilmente la principale è la più semplice: considerato che in pochissimi hanno la possibilità di essere rieletti, visto il taglio dei parlamentari e il calo di consensi del Movimento, la tentazione di tenersi tutta l’indennità è altissima.
Nei mesi scorsi Giuseppe Conte ha fatto un’infornata di nomine interne ratificate online, tra vicepresidenti, responsabili e membri dei comitati quasi 100 persone. Tra i requisiti necessari per ottenere la carica, c’era quella di essere in regola con i versamenti.
Insomma, almeno su quei nomi c’è la ragionevole certezza che non siano “morosi”. «Non sono preoccupato perché il bilancio è in attivo – rassicura l’ex presidente del Consiglio, in trasferta elettorale a Portici, sollecitato dopo l’indiscrezione di Adnkronos -. Ovviamente il tema delle restituzioni esiste, l’affronteremo, ma molto serenamente perché per me gli impegni presi coi cittadini hanno, al di la dell’aspetto giuridico, un alto valore etico».
Di sicuro non sono previste espulsioni, almeno sul breve termine: proprio per via della causa aperta a Napoli da un gruppo di attivisti, a giorni è atteso un primo verdetto, tutti i procedimenti disciplinari sono congelati.
A proposito di denaro, c’è una certa trepidazione nei 5 Stelle per la puntata di Report questa sera.
Infatti la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci tornerà a parlare del gruppo Onorato e dei suoi passati rapporti con Grillo e con la Casaleggio associati, con un’inchiesta aperta per traffico di influenze illecite alla procura di Milano.
«Questo dobbiamo trattarlo bene», scriveva per sms e mail il fondatore ad alcuni esponenti del M5S, riferendosi all’armatore della Moby. E poi, altro focus, sulle “parlamentarie” del 2018, i clic in rete per scegliere i candidati.
Un attivista racconta infatti delle confidenze ricevute da Vito Crimi, all’epoca la democrazia diretta su Rousseau non funzionò a dovere: «Centinaia di persone erano state estromesse dal voto pur avendo tutti i requisiti, questo perché i big del partito avevano i loro protetti che dovevano far candidare.
Avevano la possibilità di togliere la spunta accanto al nome sul sito, così togliendo le persone dalla votazione. E io ero uno di questi come tanti altri». Insomma, più che i problemi tecnici furono le scelte politiche ad aggiustare le liste finali.
Pratica ammessa di fronte alla telecamera di Report dallo stesso Crimi, che poi è stato capo reggente del Movimento prima dell’arrivo di Conte: «Qualcuno aveva il potere di indicare magari a Luigi Di Maio, che era il capo politico e che aveva il diritto e il dovere di valutare le candidature: “Guarda quella persona forse non è il caso di candidarla. Per questo e quest’ altro motivo…”. L’ho fatto anche io? Beh, sì…».
“da la Repubblica”
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
IL GOLPISTA PERFETTO NON HA UNA IDEOLOGIA, LO MUOVE IL RANCORE O LA PAURA. MA PER AMMUTINARSI OCCORRONO TRUPPE FEDELI E FORSE I SOLDATI RUSSI ODIANO PIU’ I GENERALI, CORROTTI E INCAPACI, CHE PUTIN”
Chissà se nell’ufficio di Putin al Cremlino, dopo l’avvio della operazione speciale Ucraina, è stato collocato un enorme tabellone come quello che campeggiava al comando supremo di Cadorna ad Udine, fino a quando i tedeschi non lo fecero traslocare di alcune centinaia di chilometri.
C’erano impilati i nomi dei generali e dei colonnelli impegnati nella operazione speciale carsica e anti-austrungarica.
I nomi erano scritti a matita, come raccontavano tremebondi quelli che erano ammessi alla scrivania del Capo. Il capoufficio della anagrafe ufficialesca spiegava che così era più facile eliminare quelli che erano sottoposti al frenetico movimento quotidiano del «siluramento».
Nell’elenco putiniano l’ultimo nome defunto amministrativamente al servizio della patria è di gran peso, Dvornikov, il normalizzatore, a cannonate della Siria.
Gli era stata affidata, due mesi fa, l’operazione Donbass con la raccomandazione di tornare ai cari vecchi metodi delle armate russe, annientare tutto e poi occupare i susseguenti deserti. Metodo in cui lo si voleva giustamente maestro. Rimosso, silurato si dice senza nemmeno due parole, senza spiegazioni. Mosca tace. Brutto segno. Strano.
Al contrario dei colleghi di cui aveva preso il posto, poteva vantare risultati: avanzate frutto di bestiali spallate, resa di Mariupol, esercito ucraino messo alle strette con le cannonate tanto da dover ammettere dopo mesi di propaganda all’insegna di «abbiamo vinto» di essere in serie difficoltà. Il suo marchio di fabbrica, distruggere tutto compresi i civili perché le macerie non oppongono resistenza funzionava, c’era abbastanza materiale in ruderi per soddisfare gli appetiti di vittoria del suo comandante supremo. E invece…
Non si è prestato al siluramento dell’uomo che conquistò Aleppo riducendola in briciole con l’aviazione, il giusto peso. E se fosse l’anticamera di quello scricchiolio che, a orecchie tese, l’Occidente da più di cento giorni spera di avvertire nell’aria primaverile di Mosca, ovvero il tintinnar di sciabole, i mugugni degli alti comandi, ebbene sì il golpe aggiusta tutto?
Perché questo ci resta, dopo sanzioni e presunte aspirazioni alla rivolta della società civile e malattie a decorso assai lento. A rovesciare lo zar non saranno certo i cosiddetti oligarchi, una minutaglia troppo pavida e interessata per alzar la testa contro il padrone. Meno ancora i servizi di sicurezza, che, da vecchia spia, Putin maneggia come se fossero coltello e forchetta. Restano loro, i generali, che dispongono dell’unico arnese davvero indispensabile per rovesciare governi e tiranni, ovvero i carri armati.
È stato un errore imbastire delle iliadi sui generali russi uccisi in combattimento, traendone vaticini di collasso militare. Diciamo la verità: se i generali cadono in battaglia è un buon segno per la salute dei rispettivi eserciti. Vuol dire che non erano burocrati da scrivania, collezionisti di decorazioni e gradi a sbafo, frequentatori, più che di trincee, di anticamere ministeriali. A mieter vittime in questi stati di servizio sono apoplessie e implacabili tassi di colesterolo.
I generali italiani dei tempi delle guerre mondiali, ad esempio, erano celebri tra gli stati maggiori stranieri soprattutto per l’altissima qualità dei loro cuochi. Gli eserciti in cui muoiono solo dai colonnelli in giù non sono in genere efficienti. Quando i marescialli di Napoleone non risultarono più negli elenchi degli eroi caduti in battaglia accanto ai «grognard» ma solo in quelli di contee e marchesati l’orizzonte del poverino si restrinse rapidamente all’Elba e a Sant’ Elena.
I generali di Putin muoiono perché si arrabattano a comandare reggimenti e battaglioni per gli acciuffamenti quotidiani: già, scarseggiano gli ufficiali intermedi o non sono all’altezza, e quindi con fregi e medaglie devono avanzare anche loro in prima linea a controllare che i macelli si facciano a puntino.
Storia più ricca di seguiti importanti invece è quella dei liquidati, caduti sotto il fuoco implacabile dell’equivalente russo del nostro collocamento a riposo. Che sono ormai un bel gruppo.
Prendiamo Dvornikov, biografia e faccia interessante, significativa. Un classico militare non inceppato da sentimenti morali, un sinfoniarca del cannone e del plotone di esecuzione, il volto di quei re assiri scolpiti nei bassorilievi di Ninive per cui soldati e civili non erano altro che materiale da gettare nella fornace.
A guardarlo in fotografia l’uomo fa paura, ha nello sguardo una specie di vibrazione fredda che mette la tremarella perfino a collaboratori e sottoposti. Sulla «libretta rossa» di questo sessantenne sta scritto un abc tattico in poche parole: annientiamoli tutti.
Un tipo così lo immaginate, ora, a spasso per i vialetti di San Pietroburgo o del parco Gorki a spettegolare con qualche altro incartapecorito pensionato e rinvangare i bei tempi della Siria? Laggiù ha lavorato soprattutto con le forze speciali e i finti mercenari tipo Wagner.
Negli anni passati a eliminare gli oppositori di Bashar assai più che i jihadisti deve aver saldato fedeltà personali con questi centurioni fracassatori e dai mediocri scrupoli. Li può chiamare a raccolta per afferrare il potere. E la Russia di oggi non più quella sovietica dove era il partito che controllava i fucili.
Ci ammaestrano Malaparte che compilò un prontuario per il colpo di stato che, pare, affascinò anche Lenin, e i sudamericani che ne hanno fatto quasi una scienza esatta: il golpista perfetto, efficiente non ha una ideologia o dei sogni politici. Semplicemente lo muovono o il rancore o la paura
Putin ha commesso forse un errore, non ha applicato la lezione di un maestro forse insuperato in tirannide, Stalin. Il georgiano i generali, anche solo per un sospetto, non li mandava in pensione, li consegnava agli artigli dell’Nkvd e ai sotterranei della Lubianka. Con le «purghe» in un colpo solo furono eternamente collocati a riposo tre marescialli si cinque, tutti gli ammiragli, l’80 per cento dei generali di corpo d’armata e di divisione. Così mancava la materia prima per aspirare a un golpe. Inaridita alle radici.
A vincere la guerra, poi, bastarono qualche superstite e raccomandato come Zukov e Rokossovskij (ammaestrato da galera e percosse). Un colpo di stato è una operazione complicata, soprattutto in un posto come la Russia putiniana, se fallisci l’unica via di uscita è la morte. Il sospettoso Putin, oltre che sul suo fiuto nello scovare i traditori, può puntare su una constatazione: per ammutinarsi occorrono truppe fedeli, i generali da soli non bastano. E forse i soldati russi odiano più i generali, corrotti e incapaci, che lui.
Domenico Quirico
(da la Stampa)
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
5 ANNI NELLE CARCERI RUSSE… “IL BATTAGLIONE AZOV E’ LO SPAURACCHIO DEI RUSSI, NON SONO NAZISTI, SONO UN CORPO MILITARE D’ELITE”… “I RUSSI FARANNO UN PROCESSO FARSA E LI CONDANNERANNO A MORTE PER POI RICATTARE L’UCRAINA”
«Quando il 24 febbraio un razzo si è schiantato vicino a casa mia alle 4.30 del mattino, non ho avuto dubbi: ho preso la famiglia, l’ho portata a Leopoli e lo stesso giorno sono tornato a Kiev per arruolarmi nella Difesa territoriale».
Repubblica ha incontrato a Sloviansk Oleg Sentsov, da tre mesi sul fronte ucraino come soldato volontario. Regista, sceneggiatore e attivista di 46 anni, è stato un detenuto politico in Russia per cinque anni (di cui due nella peggiore colonia penale russa, quella di Labytnangi), per poi essere rilasciato nel 2019 in uno scambio di prigionieri grazie a una mobilitazione internazionale.
Nato in Crimea e arrestato con l’accusa di terrorismo in seguito all’annessione russa del 2014 della sua terra, non è la prima volta che il regista, premio Sakharov per la libertà di pensiero, si batte per il suo Paese: «Due anni dopo il mio rilascio dal carcere ho preso parte ufficiosamente all’operazione ucraina nel Donbass. Ho vissuto in prima linea per vedere cosa fosse la guerra. Saper sparare non è abbastanza, devi essere in grado di sopravvivere», racconta Sentsov, che però si sente più utile con un taccuino in mano piuttosto che imbracciando un fucile. «Non ho mai sparato un colpo. Non è un conflitto di scontri a fuoco, questo. Si combatte con l’artiglieria. Però scrivo. Scrivo tanto, in trincea, di notte, scrivo sotto le bombe, appunti, schizzi di memoria, mi vengono un sacco di idee per il mio prossimo film».
Un film sull’Azovstal
Un film che, ovviamente, parlerebbe della guerra. In particolare, spera Sentsov, dell’acciaieria Azovstal e dei suoi combattenti, ormai prigionieri della Russia. «Non ci si può fidare né della Russia né di Putin, però c’è un accordo con Kiev. Ho un amico lì tra loro, e ha detto che sono stati trattati bene. Temo però che non li scambieranno con dei prigionieri russi. Il Battaglione Azov è il loro spauracchio. Mosca li accusa di nazismo, anche se tutti sanno che sono un’unità militare d’élite e si sono sbarazzati di elementi marginali. Faranno un processo farsa a Donetsk, condannandoli a morte. Dopodiché ricatteranno l’Ucraina. In perfetto stile Putin, che è lo stile dell’Fsb, i servizi segreti».
«Cancelliamo la cultura russa»
Fsb, a detta del regista ucraino, sarebbe dietro la promozione in Occidente della narrazione secondo la quale «la guerra l’ha voluta Putin ma i russi in realtà sono innocenti». Perché permettere a Serebrennikov e Marina Ovsyannikova (la giornalista russa che ha protestato interrompendo un tg, ndr) di lasciare la Russia, dice Sentsov, se non per questo motivo? Ma «tutti i russi sono responsabili per la guerra: chi è venuto a uccidere la nostra gente, chi ce li ha mandati, chi li sostiene, chi è rimasto in silenzio e non ha fatto nulla per impedirlo», sostiene con durezza. E proprio per questo non bisogna fare loro alcuno sconto, nemmeno sulla cultura: «Dobbiamo cancellarla. Affari, politica, tutto. Fino a quando le truppe non si saranno ritirate, e Putin e i suoi alleati non saranno condannati, e le riparazioni non saranno pagate, l’intera Russia deve vivere nell’embargo totale, dal petrolio ai film».
(da agenzie)
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
COMANDAVA LE ARMATE RUSSE IN SIRIA QUANDO PUTIN L’HA SPOSTATO A CAPO DELLE FORZE RUSSE E DELLA REPUBBLICA POPOLARE DI DONETSK NEL DONBAS… LA RUSSIA AVREBBE ANNUNCIATO LA MORTE DI KUTUZOV PER MASCHERARE LA PERDITA DEL PIU’ FAMOSO BERDNIKO
Il presidente russo Vladimir Putin ha perso due dei suoi comandanti più anziani in un solo giorno in un’imboscata su un ponte nell’Ucraina orientale. Lo ha affermato un gruppo di giornalisti indipendenti che lavorano su entrambi i fronti della guerra.
La Russia ha confermato la morte del maggiore generale Roman Kutuzov domenica, ma nuovi rapporti di lunedì affermano che il tenente generale Roman Berdnikov è stato ucciso lo stesso giorno in un attacco effettuato dalle forze di Kiev.
La morte di Kutuzov è stata confermata da Mosca con insolita celerità, un fatto che è stato interpretato come un tentativo di coprire la perdita del 47enne Berdnikov.
Meno di un mese fa, Berdnikov era comandante della task force delle forze armate russe in Siria ed è stato spostato al comando delle forze di Putin e di quelle della Repubblica popolare di Donetsk [DPR] nel Donbas.
Se la sua morte sarà confermata, sarà il 12° generale ucciso in guerra.
Ciò significherebbe che due dei più alti comandanti russi a Donetsk sono stati eliminati in un colpo solo, un colpo durissimo per Putin.
Sia la notizia della morte di Berdnikov che quella di Kutuzov provengono dal canale Volya Telegram, da giornalisti di guerra indipendenti che lavorano su entrambe i fronti del conflitto.
“La mattina del 5 giugno, il tenente generale Roman Berdnikov, che guidava le truppe russe e le unità della DPR da Donetsk, è partito per un viaggio di lavoro”, si legge nel post. “Durante il tragitto, presumibilmente su un ponte, i veicoli sono stati attaccati da un gruppo di sabotaggio e ricognizione ucraino”.
Parte del convoglio è stato “distrutto o immobilizzato”, ma alcuni veicoli, “dopo aver subito gravi danni e aver risposto al fuoco, sono riusciti a sfuggire all’imboscata e ad andarsene”, si legge nel post.
“Dopodiché, le nostre fonti hanno riferito che Roman Berdnikov è morto nello scontro”, continuava il rapporto. “Poco dopo, altre due fonti lo hanno confermato, specificando che altri alti ufficiali potrebbero essere morti durante lo scontro.”
Rapporti successivi sono emersi secondo cui il secondo in comando di Berdnikov, Kutuzov, era morto.
Volya ha dichiarato di fidarsi delle sue fonti sul fatto che entrambi i generali siano stati uccisi: Kutuzov su un ponte nella regione di Donetsk, e non nel luogo nella regione di Luhansk specificato nei primi rapporti russi.
“È logico che entrambi viaggiassero nello stesso convoglio ed entrambi siano caduti in un’imboscata”, afferma il rapporto. «Una parte del convoglio è riuscita a fuggire. Partiamo dal presupposto che Berdnikov fosse su una delle auto sopravvissute, ma che sia morto durante i bombardamenti.
«Coloro che sono scampati al fuoco non hanno potuto conoscere la sorte di coloro che sono rimasti sul ponte. Hanno comunicato l’attacco e la morte di Berdnikov al quartier generale mentre quella parte del convoglio è rimasta isolata ed era sotto tiro.
«E’ diventato subito chiaro che il maggiore generale Kutuzov era tra quelli rimasti sul ponte. E non appena l’esercito russo è arrivato sul campo di battaglia, è stato trovato anche il suo corpo.’
Il rapporto afferma: “Quello che i comandanti russi avevano nelle loro mani [erano] due generali morti, uno dei quali guidava un intero raggruppamento dell’esercito in Siria [fino a maggio], e poi ha svolto un ruolo importante nel comandare l’intero raggruppamento nell’Ucraina orientale. ‘Le forze armate russe non avevano ancora perso due generali in un giorno in Ucraina.’E’ chiaro che i ‘sabotatori’ ucraini non taceranno e parleranno del successo dell’attacco.”Non sanno che sono riusciti a uccidere anche Berdnikov, perché hanno visto il corpo dell’unico maggiore generale Kutuzov.”
Il canale ha ipotizzato che la Russia abbia annunciato la morte di Kutuzov, nel tentativo di mascherare la perdita del “molto più famoso e importante Berdnikov”.
Bernikov, che in precedenza ha prestato servizio in Siberia, è apparso in un video meno di un mese fa, alla parata del Giorno della Vittoria del 9 maggio alla base aerea russa di Hmeimim in Siria.
Nel video si spiegava: “Soldati e ufficiali delle forze armate russe hanno difeso con onore gli interessi della Russia nella lotta al terrorismo internazionale nella Repubblica araba siriana e durante l’operazione militare speciale in Ucraina, continuando degnamente le tradizioni vittoriose degli eroi in prima linea”.
La Russia ha perso generali a un ritmo allarmante, con rapporti non confermati che suggeriscono che l’intelligence occidentale – in particolare quella degli Stati Uniti – ha aiutato l’Ucraina a prendere di mira le figure militari più importanti di Putin in Ucraina.
Perdere anche due generali in una guerra sarebbe considerato eccessivo nella maggior parte dei conflitti dalla seconda guerra mondiale. Se la morte di Berdnikov sarà confermata, Putin avrà visto uccidere una dozzina di suoi generali.
Inoltre, almeno 49 colonnelli sono stati uccisi finora nella guerra con l’Ucraina.
(da Daily Mail)
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Giugno 6th, 2022 Riccardo Fucile
L’IRA DEL MILIONARIO MINISTRO DEGLI ESTERI CON AMANTE A LONDRA: “OCCIDENTE SENZA SCRUPOLI”
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov aveva in programma un volo verso la Serbia. Un viaggio per partecipare a un forum in cui si sarebbe discusso della situazione politica in cui si trovano gli Stati balcanici nati dopo la disgregazione della Jugoslavia.
Lavrov ha dovuto però rinunciare, visto che nelle scorse ore diversi Stati europei hanno negato il permesso al suo aereo di attraversare i loro cieli. Il ministro ha reagito accusando i Paesi che hanno rifiutato il transito del suo aereo di aver privato la Russia della sua sovranità: «L’impensabile è accaduto. Si è trattato della privazione a uno stato sovranità di svolgere la propria politica estera».
Alla condanna si è unito anche il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov: «Simili azioni ostili contro il nostro Paese possono creare problemi». Lavrov ha accusato direttamente Bruxelles: «L’Occidente sta dimostrando chiaramente che non ha scrupoli nell’usare metodi impropri per mantenere la pressione».
(da agenzie)
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