Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
LE PURGHE DI QUESTI ANNI HANNO DECIMATO L’ELITE RUSSA: I POCHI RIMASTI, COME IL DELFINO DESIGNATO PATRUSHEV (EX AGENTE DEL KGB) , SONO PIÙ PUTINIANI DELL’ORIGINALE
Malato di cancro, di Parkinson, c’è chi parla di leucemia, chi è sicuro che ormai sia sostituito da un sosia, chi sa per certo che non arriverà al 2023, che la sua fine è scritta, morirà in un sanatorio di cui si sa già il nome, così come è scritto il nome del suo successore: Nikolai Patrushev, attuale segretario del Consiglio di sicurezza russo.
Un altro ex ufficiale del Kgb, un altro falco, e pure in buona salute. A cento giorni dall’invasione dell’Ucraina Vladimir Putin è sempre più isolato e più solo. Dal Cremlino non arrivano più notizie ma voci, o rapporti di intelligence.
Gli ultimi sono stati pubblicati ieri dal settimanale americano Newsweek, si tratta di tre fonti diverse e concordanti: Putin ha un cancro, ad aprile ha subito trattamenti pesanti e per questo era sparito dalla circolazione, è debole e costantemente seguito da una squadra di medici (almeno cinque, ma a volte sono anche dieci o dodici), a marzo sarebbe anche sfuggito a un attentato.
Ma soprattutto: non ci contate troppo, sul fatto che le cose finiranno per risolversi da sole. Sarà che i servizi di informazione, soprattutto quelli americani, hanno imparato la lezione di Saddam Hussein o Osama Bin Laden, e sanno che i dittatori raramente muoiono al momento giusto e di morte naturale.
«Dobbiamo essere ben consapevoli dell’influenza che possono avere su di noi le notizie che vorremmo sentirci dire» ha detto una delle fonti citate dal settimanale, un ex ufficiale dei Servizi della Difesa americana.
Su diversi punti, tuttavia, le informazioni sembrano concordare e non temere troppe smentite. Intanto lo stato di salute di Putin. Quattro giorni fa il ministro degli Esteri russo Lavrov è stato costretto a smentire che il presidente sia di salute cagionevole.
Ha addirittura accettato di parlare alle tv francesi TF1 e LCI per dichiarare che «non vedo come una persona normale possa notare in Putin il minimo segno di malattia». Il presidente compirà 70 anni il prossimo ottobre. Sul fisico vigoroso e un’ostentata salute di ferro ha costruito la sua immagine. Il declino è dunque tanto più visibile.
Qualche giorno prima dell’invasione dell’Ucraina, il 7 febbraio, aveva ricevuto il presidente francese Macron: l’immenso algido tavolo è passato già alla storia, ma molto di più avevano colpito la ritrosia di Putin ad avvicinarsi a Macron, a stringere le mani, attento a evitare qualsiasi contatto.
Altro segnale: l’atteggiamento alla parata militare del 9 maggio. Doveva essere la parata della vittoria sull’Ucraina, è diventata la parata della coperta, quella che Putin teneva sulle gambe, dando l’aria di acciaccato anziano accanto ai militari seduti in tribuna senza tremare. Ad aprile è stato quasi sempre latitante.
Quando è riapparso, il 22, sempre a un tavolo, ma questa volta di ridotte dimensioni, per un colloquio col ministro della Difesa Serguei Shoigu, ha impressionato per la rigidità del corpo, i movimenti quasi incontrollati delle gambe, il viso gonfio, e la mano destra aggrappata al bordo del tavolo.
«Fa come fanno gli ex agenti del Kgb, sempre pronti a imbracciare l’arma» ha detto qualcuno. Ma per i più il suo atteggiamento ha avvalorato l’ipotesi di un Parkinson galoppante assortito con un tumore, forse una leucemia. «Le manovre dentro al Cremlino non sono mai state così intense, tutti sanno che la fine è vicina» ha detto una delle tre fonti a Newsweek. Secondo la Cia, la sicurezza del Cremlino ha sventato a marzo un complotto per assassinare Putin.
«Il presidente russo è sicuramente malato – dicono in coro gli agenti Ma questo non significa che dobbiamo solo aspettare che muoia e non avere più nessuna politica nei suoi confronti. Anche perché un vuoto di potere dopo Putin potrebbe essere un pericolo ancora più grosso per il mondo».
«Una Russia dotata di armi nucleari è sempre una Russia dotata di armi nucleari dicono ancora – che Putin sia forte o debole, dentro o fuori, dobbiamo evitare di provocarlo, lui o il suo eventuale successore, facendo credere che siamo determinati a distruggerli».
Un eventuale rimpiazzo alla presidenza con Patrushev non avrebbe niente di rassicurante. Senza contare che le successive e ripetute purghe ai vertici del Cremlino oltre a varie defezioni e diserzioni – hanno ridotto le possibilità di rinnovo della classe dirigente.
L’altro ieri anche il genero di Eltsin, Valentin Yumashev, che aiutò Putin ad assumere il potere, ha abbandonato il ruolo di consigliere. Aveva un’influenza limitata, ma era l’ultimo legame con una Russia di riforme e di apertura verso l’Occidente.
(da il Messaggero)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
IL TELEFONO DEL MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO È BOLLENTE: A CHIAMARLO C’È UNA LUNGA SCHIERA DI SALVINIANI “DI CONVENIENZA”, CHE HANNO FRETTA DI SMARCARSI DAL “CAPITONE”… DAI CAPIGRUPPO ROMEO E MOLINARI A ROBERTO CALDEROLI, FINO AL VICESEGRETARIO ANDREA CRIPPA
Gli addetti ai livori in casa Lega riferiscono che il telefono di Giancarlo Giorgetti non abbia mai squillato tanto come in questi giorni.
L’elemento più interessante, però, non sta nella quantità di chiamate, quando nei nomi che si stanno affannando a comporre il numero del Ministro dello Sviluppo Economico.
Trattasi infatti della vastissima schiera di salviniani “di convenienza” (ovvero coloro che si erano affrettati a salire sul carro del “Capitone”), che ora si stanno affrettando a smarcarsi.
I nomi sarebbero di primissimo piano, dal capogruppo in Senato Massimiliano Romeo a quello alla Camera Riccardo Molinari, dal veterano Roberto Calderoli al giovane deputato e vicesegretario federale Andrea Crippa, dal senatore Stefano Candiani al deputato e segretario federale della Lega Giovani Toccalini. Tutti più o meno suonano lo stesso spartito: “Giancarlo, salvaci tu!”.
Sebbene nei consigli federali, tutti ostentino ancora una compattezza granitica attorno a Salvini, nelle conversazioni private la musica cambia drasticamente. E’ tutto un “ha perso lucidità”, “ha perso il tocco”, “non si rende conto di quello che fa”.
Fino alla processione (solo?) telefonica da Giorgetti, con un unico, insistente, martellante messaggio: il futuro politico della Lega (e delle loro poltrone) dipende ormai solo da te, che fai, ti muovi o non ti muovi? In ogni caso, tienici presente.
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
“NON GODE PIÙ DEL RISPETTO CHE L’ITALIA MALANDRINA RISERVA AL GABBAMONDO DI TALENTO, MA È ASSEDIATO DA QUEL DILEGGIO DEL GABBATO CHE SI CONTAGIA E CRESCE PER AMMICCAMENTI E RISOLINI”
Matteo Salvini non andrà da Putin, ma forse lo vedremo con Antonio Ingroia, guest star alla festa del Fatto Quotidiano . E magari terrà pure una lectio magistralis alla Luiss, Dipartimento Semivip, introdotto da Alessandro Orsini, da Donatella Di Cesare e dal generale Fabio Mini.
Di sicuro, da quando è diventato l’idolo dei suoi nemici, Salvini, soprattutto nella Lega, non gode più del rispetto che l’Italia malandrina riserva al gabbamondo di talento, ma è assediato da quel dileggio del gabbato che si contagia e cresce per ammiccamenti, risolini, sdegni compiaciuti e stupori. Difeso, nientemeno, da Santoro e Travaglio, ha ceduto il dito medio ai fracassoni del vaffa. Ed è persino trattato come compagno di strada da Marco Rizzo, il segretario dei comunisti.
E non crediate che ci siamo convertiti pure noi alla satira perché davvero l’Italia ha perduto lo sciamannato leader del “sovranismo” e della “destra di popolo” e si ritrova il re dei Giufà e dei Bertoldo.
Il leader che diceva «castriamo gli stupratori e i pedofili» e «spariamo ai ladri» è finito truffato dall’avvocato napoletano Antonio Capuano che, altro che Fontana di Trevi!, gli ha venduto il Vaticano, il Papa, Parolin, il cattivissimo ministro degli Esteri russo Lavrov e ovviamente un piano di pace in quattro punti che «Francesco non benedice, ma lascia fare », «e anche Putin lo apprezza».
Salvini si è pure consegnato all’indimenticabile signora Francesca Immacolata Chaouqui, che con Capuano, contro Capuano, sotto e sopra Capuano, è la papessa della “banda della magliara”, la stessa che portò Salvini in Polonia, proprio al confine con l’Ucraina, a farsi disprezzare dal sindaco di Przemysl che, rifiutando con sdegno la sua solidarietà, gli mostrò la maglietta con la faccia di Putin che lo stesso Salvini aveva indossato sulla Piazza Rossa: «Vieni che ti faccio un regalo».
Salvini balbettava nell’inglese basico che è la lingua del turismo: «Sorry, we are here for to help, sorry sorry».
Dunque adesso Chaouqui e Capuano, che in questa ciurma di finti pacifisti sono i soli professionisti, sia pure della finzione, due falsi autentici, due veri e dunque onestissimi truffatori, l’un contro l’altra si contendono Salvini.
Lei contro lui: «Guardate che per un leader della caratura di Matteo Salvini è facilissimo farsi ricevere da un ambasciatore di un qualsiasi paese, prendere un appuntamento. Non c’è bisogno mica di un mediatore ». Ma lui è orgoglioso dei quattro incontri, della cena «per la pace», e si vanta e racconta dettagli: «Fu l’ambasciatore Razov a chiedergli se se la sentiva di giocare la partita. E Matteo ha detto sì. Sono indignato per come viene trattato. Vuole portare la pace e lo massacrano ».
E in tanti dicono che quest’ ambasciatore russo Sergey Razov riesce ad essere misterioso a Roma, la città col cece in bocca, dove nessuno si tiene niente.
Ma che misterioso», mi dicono i diplomatici italiani. «Il solo mistero è come mai, dopo ben nove anni da ambasciatore, non spiccichi una sola parola d’italiano. Chissà cosa capisce di lui Salvini e cosa lui capisce di Salvini».
E va detto che questa Russia di Roma, con la quale Salvini «rivendica» di avere fatto «incontri nell’esclusivo interesse della pace e nell’interesse nazionale italiano », non è quella del cupo Dostoevskij, ma quella grottesca e comica del Cechov dei primi racconti (Bur, traduzioni di Alfredo Polledro): il punto esclamativo, le esagerazioni, gli equivoci, le umoresche.
E quasi non sembra vero che anche al Lega di Salvini faccia la fine della Lega di Bossi, travolta dall’Italia delle truffe e delle apparenze borgesiane.
La vecchia Lega secessionista fu sepolta dagli scandali del familismo sgangherato del Bossi vecchio e malato, decaduta insieme al corpo dello sciamano che era stato duro e puro ma poi, politicamente imbalsamato, aveva trasformato il partito in una banda di terroni padani, avidi, corrotti e soprattutto ridicoli.
Adesso Salvini finisce “suonato” nella Roma di Francesca Immacolata Chaouqui, un circo di maggiordomi del Papa e di cardinali infedeli, con nomi affascinanti e felliniani che cito a memoria: dal cardinale Jean-Louis Tauran alla contessa Marisa Pinto Olori del Poggio, e poi la Fondazione “Messaggeri della Pace” e la Commissione Cosea che aveva l’incarico di riformare le finanze della Santa Sede.
A questi fantasmi dei Vatileaks bisogna aggiungere i russi di Roma, non solo le trenta spie che sono state espulse dal governo italiano, le tigri del Gru nei ristoranti attorno a Campo di Fiori, l’intelligence militare, il Kgb putiniano in pizzeria, il condominio sull’Aurelia antica, che aveva come modello il famigerato Hotel Metropol di Mosca, dove passò anche Savoini, il presidente della Associazione Lombardia-Russia, quello della famosa presunta stecca, fedelissimo prima di Bossi e Maroni e, infine e soprattutto, di Salvini.
E la Chaouqui introduce nuove figure in questo teatro: «La Lega ha uno staff dedicato alla politica estera, più che qualificato. C’è gente come Lorenzo Fontana o Maria Giovanna Maglie, dei grandi professionisti che sono delegati al rapporto con le ambasciate. Non ne servono altre. Non ne servono!».
Neppure quell’altra eroina degli scandali vaticani Cecilia Marogna, che i giornali chiamano “la dama del cardinale” perché era molto legata ad Angelo Becciu
È la rivale di Francesca Chaouqui ma è amica di Capuano e di Salvini. Povero Salvini, difficile dire quanto durerà questo suo frollare nella Roma dei truffatori e dei finti pacifisti, dai neocomunsti a Casa Pound, ma è certo che il vecchio leader razzista non c’è più.
E noi non lo rimpiangeremo. Al suo posto c’è il super credulone, perfetto compare dei truffatori. Totò riusciva a vendere la Fontana di Trevi perché la offriva alla persone giuste, il suo genio truffaldino trovava l’incastro fertile nell’ottusità fatta di dollari di certi americani a Roma.
Allo stesso modo Capuano, la Chaouqui e tutte le altre maschere di questo imbroglio hanno costruito la patacca pacifista contando sull’eterna sintonia tra truffati e truffatori. Anche in politica la furbizia e la stupidità si ingravidano a vicenda.
Francesco Merlo
(da “la Repubblica”)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
L’AMBASCIATORE MASSOLO: “DI KIRILL GLI IMPORTA POCO, TENTA DI OTTENERE LO SBLOCCO DEI FINANZIAMENTI COMUNITARI PER IL SUO RECOVERY ANCORA FERMO”
«L’Europa di fronte a due grandi crisi come la pandemia e la guerra ha dato prova di compattezza, chi parla di fallimento esagera. Detto questo, è vero che esiste il problema del sistema delle decisioni all’unanimità e modificarlo è molto complicato. Però esistono strumenti che possono essere molto utili, come le cooperazioni rafforzate, che consentono di procedere per gruppi di Paesi».
L’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), già segretario generale della Farnesina e capo del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), invita a un’analisi razionale della fase di impasse che sta vivendo l’Unione europea con la posizione dell’Ungheria che frena sulle sanzioni alla Russia.
E avverte: per Orban si può parlare certo di un rapporto con Mosca, ma comunque l’obiettivo vero è quello di ottenere risultati per il suo Paese, sia per le forniture di petrolio sia per lo sblocco dei fondi del piano di recovery.
Ambasciatore, sul sesto pacchetto di sanzioni alla Russia, con il veto sulle misure previste per il patriarca Kirill espresso dall’Ungheria, emerge la debolezza dell’Unione europea? Il sistema delle decisioni all’unanimità causa la paralisi.
«Prima di tutto direi di non saltare a conclusioni a piè pari. Guardiamo a ciò che è successo negli ultimi due anni: l’Europa ha risposto in modo efficace a due grandi crisi come la pandemia e la guerra, sia pure dopo qualche esitazione iniziale».
In che modo?
«Ad esempio, sulla pandemia c’è stata una significativa capacità decisionale, pensi a quanto è stato messo in campo con i fondi di Next Generation Eu. Quando si è trovata sotto pressione l’Unione europea ha dimostrato di sapere rispondere».
Però oggi, di fronte a un tema delicato come quello delle sanzioni che devono colpire la Russia in seguito all’aggressione militare dell’Ucraina, si deve prendere atto della mancanza della necessaria compattezza dei 27 Paesi membri.
«Non saltiamo troppo frettolosamente a conclusioni azzardate dicendo che non funziona niente. Però il problema del meccanismo dell’unanimità esiste, è innegabile. Questi meccanismi dovrebbero essere più flessibili perché potrebbero consentire delle decisioni più rapide ed efficaci. Questo è un dato di fatto».
Perché allora non si modifica il sistema ricorrendo, ad esempio, a una maggioranza qualificata?
«Non è così semplice. Prima di tutto l’Unione europea non è una federazione. È una confederazione di Stati che mantengono un ruolo molto rilevante nei meccanismi decisionali. E sono Stati che hanno storie, tradizioni, sensibilità, opinioni pubbliche e sistemi istituzionali tra di loro differenti. Di questo va tenuto conto».
Ma c’è anche altro.
«Certo. Per passare a un sistema di voto maggioritario bisogna cambiare i trattati. E per farlo però serve l’unanimità. Il vero nodo è che per traghettare l’Unione verso un assetto più coraggioso c’è bisogno che tutti gli Stati più importanti, che hanno responsabilità, svolgano una funzione trainante.
Questo è l’unico modo perché, progressivamente e sempre nel rispetto delle tradizioni e delle sensibilità di tutti i Paesi membri, si raggiunga un assetto su livelli di equilibri più avanzati. Ma non è così semplice».
Abbiamo strumenti per affrontare le crisi come quella della guerra in Ucraina e della risposta alla Russia?
«Sì, ci sono. Già sono offerti dai trattati, penso alle cooperazioni rafforzate tra Stati. Gruppi di Paesi possono decidere di mettere in campo delle misure efficaci autonomamente, con una forma appunto di cooperazione rafforzata»
Una delle semplificazioni che si sentono in queste ore dice: l’Ungheria deve essere espulsa dall’Unione europea.
«Non è possibile. Dalla Ue non si può essere espulsi, si può solo uscire per decisione autonoma, come traumaticamente ha mostrato la Brexit. Nel caso dell’Ungheria, ma per altri tempi è successo anche per la Polonia, si può utilizzare uno meccanismo di condizionalità: subordinare l’erogazione di fondi comunitari all’adozione di determinate misure o alla sospensione di determinati comportamenti non in linea con quanto previsto dai trattati.
Tra le ragioni per cui Orban continua a esercitare questo potenziale ricatto sulle sanzioni, c’è anche il tentativo di ottenere lo sblocco dei finanziamenti comunitari per il suo piano nazionale di recovery. Ancora fermo proprio per ragioni di incompatibilità».
I veti che Orban pone non sono causati dal legame con Mosca?
«Guardi, penso che a Orban, con tutto il rispetto, del patriarca Kirill interessi poco. Lui sta cercando un compromesso, il meno dannoso possibile nell’ottica di Budapest, sull’embargo al petrolio russo. E punta, come detto, allo sblocco dei finanziamenti del recovery».
Non c’è più lo stretto rapporto Polonia-Ungheria.
«Diciamo che tra i quattro Paesi del Gruppo Visegrad, molto uniti su altri temi come le politiche migratorie, sulla guerra in Ucraina stanno emergendo posizioni molto differenti. Da parte della Polonia, ma pure della Repubblica Ceca, anche per ragioni storiche, stanno prevalendo sentimenti anti russi e anti Putin».
(da “il Messaggero”)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
COSTERA’ A MOSCA DAI 20 AI 60 MILIARDI DI DOLLARI ALL’ANNO, UN DANNO ENORME
L’embargo europeo al petrolio russo peserà sull’economia di Mosca in modo significativo.
Secondo diverse stime (da quella di Bloomberg, a quella del Wall Street Journal, passando per Reuters), il blocco alla vendita del greggio stabilito dal sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue, vale per il Cremlino tra i 20 e i 60 miliardi di dollari di introiti in meno ogni anno.
Una cifra enorme, che la Russia potrà riuscire a compensare solo in parte, grazie all’aumento dei prezzi degli ultimi mesi e alla crescita del suo export in Asia.
Il colpo arriva dopo settimane in cui gli analisti internazionali notavano una certa resilienza dell’economia russa, capace di resistere a cinque pacchetti di sanzioni europee e all’export ridotto all’osso negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
A inizio maggio l’Economist segnalava infatti che il rublo era tornato a valere come prima e Mosca sembrava poter rispettare tutti gli impegni legati al pagamento degli interessi sul debito in valuta estera. Non solo, si sottolineava un aumento dell’80% sui profitti per la vendita degli idrocarburi, un contenimento non esagerato dei beni energetici rispetto alle previsioni (dopo un primo choc a marzo) e la ripresa dei consumi interni. Tutto ciò faceva pensare che le stime che parlavano di una discesa del Pil tra l’8,5% e il 15% nel 2022 fossero “eccessivamente pessimistiche”
I primi effetti dell’embargo si vedranno tra sei mesi
Con l’embargo sul petrolio, però, qualcosa può cambiare. Di certo la misura non partirà subito, ci vorranno sei mesi per vietare completamente le importazioni. Il blocco, poi, colpirà il 90% delle vendite. Il petrolio fornito tramite il ramo meridionale dell’oleodotto Druzhba, poi, potrà ancora ancora essere ricevuto da Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, che sono tra i Paesi Ue più dipendenti. Alla Bulgaria è stato invece concesso un rinvio dell’embargo sulle forniture marittime fino alla fine del 2024.
In ogni caso, però, l’Europa è stato fino ad oggi il più grande mercato per la vendita del petrolio russo. Nel 2021 il Vecchio Continente ha assorbito la metà di tutte le esportazioni russe (111,2 milioni di tonnellate). I proventi della vendita di petrolio e gas sono poi la maggiore fonte di reddito per Mosca, con il primo che economicamente conta molto più del secondo. Sono infatti petrolio e prodotti petroliferi la principale fonte di guadagno delle esportazioni: nel 2021 hanno fruttato 180 miliardi di dollari, mentre il gas ha fatto guadagnare alla Russia 64 miliardi di dollari.
I possibili escamotage per aggirare il blocco
La ripresa della domanda continuerà a far salire i prezzi per tutto il 2022, ma non basterà a sanare le perdite. Tutto dipenderà dalla rapidità con cui la Russia potrà reindirizzare le esportazioni verso Cina, India e altri paesi asiatici (ad esempio Pakistan, Malesia, Indonesia e Vietnam. Ma la Russia, secondo la società di analisi Rystad Energy, sarà al massimo in grado di trovare acquirenti per solo 1 milione di barili al giorno, meno di un terzo dei 2,7 milioni di barili al giorno persi a causa dell’embargo petrolifero. Ci sono anche limitazioni impiantistiche e infrastrutturali: l’oleodotto principale verso la Cina, quello della Siberia orientale-Oceano Pacifico, può aumentare il flusso solo entro un certo limite e l’isolamento tecnologico di Mosca, dovuto alle sanzioni, fa sì che non ci siano appaltatori internazionali in grado di realizzare progetti complessi nel Paese per aumentare l’attività di perforazione (che anzi dovrebbe diminuire entro la fine del 2022).
Inoltre il ministro dell’Economia russo, Maxim Reshetnikov, ha dichiarato che il Paese rischia di subire una riduzione dei posti di lavoro e un calo degli investimenti a causa delle sanzioni.
(da Fanpage)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
NEI SUPERMERCATI SCARSEGGIANO PRODOTTI CASALINGHI E COSMETICI E NELLE SCUOLE SONO STATE ABOLITE LE VERIFICHE SCRITTE PERCHÉ IL PREZZO DELLA CARTA È ALLE STELLE
Stoleshnikov pereulok, strada dello shopping di lusso, è pressoché deserta da quando la stragrande maggioranza delle maison ha chiuso. Vetrine oscurate per Christian Dior, Fendi e Louis Vuitton.
Anche le corsie dei grandi magazzini Gum che con la loro imponente facciata dominano la piazza Rossa dal lato opposto del Cremlino sono una sequela di battenti serrati. Ikea, epitome del comfort moderno a prezzi accessibili, ha chiuso.
E dalle vetrine dell’ormai ex McDonald’s in piazza Pushkin, il primo ristorante della popolare catena statunitense ad aprire nel 1990 attirando oltre 30mila avventori nel giorno dell’inaugurazione, sono scomparsi gli iconici archi dorati.
Da quando il 24 febbraio la Russia ha lanciato la sua sanguinosa offensiva in Ucraina, circa mille compagnie occidentali si sono ritirate dal Paese o hanno ridotto o sospeso le loro operazioni, secondo il conteggio della Yale School of Management.
Un esodo così massiccio da avere invertito di colpo trent’ anni d’integrazione economica e avere messo a rischio decine di migliaia di posti di lavoro un tempo sicuri. A trent’ anni dal crollo dell’Urss, il Paese non ha ancora imparato a produrre merci all’avanguardia. E ora che quelle d’importazione non ci sono più, si torna indietro. Le aziende automobilistiche avvertono che stanno esaurendo i pezzi di ricambio.
Nei supermercati scarseggiano prodotti casalinghi e cosmetici. Nelle scuole sono state abolite le verifiche scritte perché il prezzo della carta è schizzato. Per colmare l’esodo di griffe come Zara, molti hanno iniziato a ordinare abiti su misura. Si stanno esaurendo anche le scorte di farmaci salvavita. E con il defitsity , la carenza di merci di sovietica memoria, sono tornati i fartsovshchiki , i commercianti in nero. «Viviamo letteralmente sulle montagne russe », confessa un imprenditore dietro anonimato.
Per sopperire ai vuoti, le autorità hanno persino autorizzato le cosiddette “importazioni parallele” o “grigie” risvegliando il ricordo di quelli che chiamavano chelnoki (dal nome della spola che muove l’ago avanti e indietro sui telai) che nei dolorosissimi anni Novanta andavano all’estero ad accaparrarsi le merci mancanti per poi rivenderle in patria. «Le autorità hanno deciso di realizzare la loro idea di una Russia deglobalizzata», sostiene l’analista di sicurezza Pavel Luzin. «L’idea che sia giunto il momento di fermare tutti questi giochi degli ultimi trent’ anni e mettere l’intero spazio ex sovietico sotto il loro controllo e, in breve, tirare nel loro guscio e vivere da soli». È il ritorno all’Urss.
Come le multinazionali, fuggono anche migliaia di cittadini spaventati dal rigurgito di totalitarismo. Quasi 15.500 persone sono state fermate per aver protestato contro l’offensiva in Ucraina. Dopo che a inizio marzo le autorità russe hanno approvato una legge che prevede fino a 15 anni di carcere per la diffusione di “notizie false” sulle forze armate, manifestanti sono stati arrestati anche per un foglio bianco o otto asterischi. Oggi la protesta è solo un sussurro, un graffito sul muro, un pupazzetto in miniatura o un cartellino del prezzo modificato.
Da quando Vladimir Putin ha diviso il popolo in “patrioti” e “traditori”, cittadini “pro” e “contro” l’operazione speciale, sono tornate in voga anche le delazioni di sovietica memoria. Il presidente russo, ha commentato Sam Greene, direttore del Russia Institute presso il King’ s College London, «sta effettivamente combattendo due guerre», una in Ucraina e una in patria. Duecentomila cittadini, secondo alcune stime, hanno lasciato il Paese soltanto nelle prime due settimane di offensiva.
Esiliati come i “Bjeloemigrant”, i “russi bianchi”, un secolo fa dopo la Rivoluzione. Una fuga resa ancora più complicata dalle chiusure dello spazio aereo e dalle restrizioni sul rilascio dei visti varate da Ue, Usa e Canada, nonché dallo stop ai collegamenti deciso da varie compagnie aeree senza più coperture assicurative nei cieli russi a causa delle sanzioni. Per raggiungere la vicina capitale estone Tallinn ora ci vogliono almeno 12 ore di volo via Istanbul invece dei soliti 90 minuti di aereo. E una volta raggiunta la meta, i russi sono spesso trattati da paria.
Anche i viaggi virtuali sono un miraggio. L’autorità censoria ha bandito social come Facebook e Instagram e chiuso l’accesso ai siti web di centinaia di testate. Molti media indipendenti sono stati costretti a chiudere o sospendere le operazioni. Sulle frequenze della storica radio della perestrojka Ekho Moskvy ora trasmette Radio Sputnik , mentre gran parte della redazione di Novaja Gazeta , il giornale diretto dal Nobel per la Pace Dmitrij Muratov, si è trasferita a Riga in Lettonia.
La maggior parte della popolazione resta in balia dei media di Stato che descrivono una realtà parallela dove, per parafrasare Peter Pomerantsev, “niente è vero, tutto è possibile”. Netflix ha staccato la spina e le major hollywoodiane non distribuiscono più i loro titoli. Nei cinema russi tornano i vecchi classici sovietici o sbarcano copie piratate delle pellicole occidentali. I russi si rifugiano nella lettura di volumi di autoaiuto e psicologia e, primo fra tutti, del romanzo distopico 1984 di George Orwell.
In un Paese che chiama “operazione militare speciale” la barbarie in Ucraina, il “bispensiero”, la riscrittura del passato e il “Grande Fratello” suonano come una profezia avverata. E quello slogan, «La guerra è pace», inciso sulla porta del “Ministero della Verità” nel mondo allucinato di Winston Smith, si rivela anche nel suo brutale contrario: «La pace è guerra». E anche qui in Russia fa le sue vittime.
(da la Repubblica)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
CIRCA 400 SACERDOTI E MONACI HANNO CHIESTO DI PROCESSARE KIRILL COME ERETICO PER LA SUA PROPAGANDA DEL “MONDO RUSSO” COME IDEOLOGIA DEL PUTINISMO… LA PATRIARCHIA DI MOSCA PERDE DUE TERZI DELLE SUE ENTRATE
Il patriarca di Mosca e di tutte le Russie può essere anche considerato intoccabile da Viktor Orban, pronto a scontrarsi con l’Unione Europea per difendere Kirill dalle sanzioni, ma le parrocchie in Ucraina non pregano più per la sua salute.
Il capo della Chiesa ortodossa russa è l’alleato più fedele del Cremlino, che non solo ha benedetto la “operazione militare speciale” contro l’Ucraina, ma l’ha anche giustificata con la difesa dei “valori tradizionali” tanto cari sia al leader ungherese che a Vladimir Putin: la sua dichiarazione che l’invasione ha «sventato il pericolo di sfilate di Gay Pride a Donetsk» ha fatto il giro del mondo, suonando scioccante perfino per molti conservatori.
Con i suoi orologi di lusso, le sue benedizioni delle testate atomiche e le amicizie con politici impresentabili – come Leonid Sluzky, il capo della commissione Esteri della Duma, sostenitore della pena di morte famoso per le sue molestie sessuali – il Patriarca era già un personaggio molto discusso.
E quando ha insistito che la Russia «sta promuovendo la pace», gli ortodossi ucraini si sono ribellati: domenica 29 maggio il metropolita di Kiev Onufrij, per la prima volta, non ha menzionato nella sua liturgia domenicale il patriarca di Mosca come «grande signore e padre nostro».
A utilizzare il calcolo di Stalin, che chiedeva di quante divisioni disponesse il Vaticano, Vladimir Putin rischia di perdere un fronte intero. Due giorni prima, durante un’assemblea tenuta a Kiev e trasformata in corso d’opera in concilio, la Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca si è proclamata «autonoma e indipendente», cancellando dal suo statuto ogni menzione del suo legame subordinato alla Chiesa russa.
A Mosca aspettano a parlare di scisma, ma è evidente che la chiesa ortodossa si è spaccata sulla guerra: la posizione di Kirill è stata bollata da Onufrij come “il peccato di Caino”, il sostegno a un massacro fratricida. Una presa d’atto seguita a una rivolta dei fedeli e del clero: circa 500 parrocchie avevano già dichiarato di uscire dalla giurisdizione del patriarcato di Mosca.
Il metropolita Evlogiy di Sumy aveva smesso di pregare per la salute di Kirill sotto le bombe russe, imitato da una quindicina delle 53 diocesi ucraine. Circa 400 sacerdoti e monaci hanno sottoscritto una lettera ai patriarchi delle antiche chiese di Oriente, chiedendo di processare il patriarca di Mosca come eretico per la sua propaganda del “mondo russo” come ideologia nazionalista del putinismo.
Nonostante diverse parrocchie avessero raccolto aiuti per i militari e per i profughi, e molti esponenti del clero avessero preso posizioni molto dure nei confronti dei principali moscoviti, la situazione era diventata insostenibile. Alla rabbia dei fedeli si erano aggiunte le pressioni delle autorità di molte regioni ucraine che avevano cominciato a mettere fuori legge le attività della “chiesa di Mosca”. E così, dal 27 maggio la Chiesa ortodossa ucraina si è dichiarata indipendente: ora potrà istituire parrocchie all’estero – dove sono fuggiti milioni di profughi ucraini – e ricominciare a preparare il crisma a Kiev, dopo che per più di un secolo l’olio per i sacramenti veniva inviato da Mosca.
Uno scisma che Kirill per ora evita di dichiarare tale, anche perché dovrebbe ammettere di aver perso un terzo delle sue parrocchie e fino a due terzi delle entrate, con un patrimonio immenso di immobili e reliquie, tra cui il monastero delle Grotte di Kiev, culla dell’ortodossia della Rus. Ma soprattutto, il monastero di San Daniele di Mosca smetterebbe di venire considerato il centro religioso di “tutte le Russie”, e la chiesa di Kirill si ridurrebbe di fatto a una istituzione nazionale russa, un colpo pesante all’ambizione di Putin e del suo patriarca di un nuovo impero del “mondo russo”.
Non stupisce dunque che Kirill abbia voluto smussare gli angoli, parlando di «decisioni sagge per non complicare la vita dei credenti» in Ucraina. Molto meno conciliante la posizione di numerosi funzionari della Chiesa russa: Aleksandr Shipkov del dipartimento delle relazioni esterne ha pronunciato la parola proibita «scisma», sostenendo che fosse avvenuto «su ordine del dipartimento di Stato Usa».
Una situazione complicata, anche perché dentro la Chiesa ucraina è già nato a sua volta uno scisma: praticamente tutti i 14 vescovi dei territori in mano ai russi, tra cui la Crimea, Donetsk e Novokakhovka, hanno deciso di mantenere la fedeltà a Kirill. «Ci rendiamo conto che nelle zone occupate esiste una realtà diversa», ha ammesso il metropolita Climent. È evidente che la linea dello scisma passerà dalla linea del fronte, che è soggetta a cambiamenti.
Il problema è cosa resterà dopo la guerra: in Ucraina infatti esiste anche la Chiesa ortodossa dell’Ucraina, frutto dello scisma dell’indipendenza, riconosciuta nel 2018 dal patriarca di Costantinopoli Bartolomeo come autocefala, e considerata “ufficiale” dal governo.
Uno smacco a Putin cui Kirill reagì rompendo ogni contatto con il centro dell’ortodossia mondiale. Ora, la nuova chiesa indipendente di Kiev è di fronte a un dilemma drammatico: se non ricuce i rapporti con Constantinopoli rischia di restare una scheggia illegittima dell’ortodossia. Motivo per il quale Serhiy Bortnik, teologo e collaboratore di Onufrij, dice che l’indipendenza da Mosca non significa la rottura di un legame “di preghiera”, forse in attesa che un giorno un cambio di regime al Cremlino trasformi anche la posizione militarista e imperialista di Kirill.
Una prudenza che potrebbe costare agli scismatici il loro futuro: molti in Ucraina continuano a considerarli troppo vicini all’invasore, e le parrocchie ribelli stanno passando nella giurisdizione dei concorrenti della Chiesa ortodossa dell’Ucraina, mentre le diocesi nei territori occupati potrebbero venire subordinate direttamente a Mosca.
(da la Stampa)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
PD E M5S PLAUDONO SCHOLZ
Il parlamento tedesco ha approvato l’aumento del salario minimo a 12 euro. La misura, che entrerà in vigore dal primo ottobre, era una delle più importanti promesse fatte dal cancelliere Olaf Scholz durante l’ultima campagna elettorale che ha portato l’Spd alla vittoria.
Attualmente il salario minimo è di 9,82 euro, anche se già da luglio era previsto un aumento a 10,45 euro.
La nuova legge, a firma del ministro del lavoro Hubertus Heil, ha avuto oggi il sostegno compatto della coalizione di governo, formata dai Socialdemocratici, dai Liberali e dai Verdi.
Cdu, Csu e AfD, invece, si sono astenuti.
Secondo la Zdf, il disegno di legge riguarderà circa 6,2 milioni di dipendenti, che al momento risultano avere una retribuzione oraria inferiore ai 12 euro.
A beneficiarne particolarmente saranno le donne lavoratrici. Nel 2014 la Germania di Angela Merkel aveva approvato per la prima volta un salario minimo (8,50 euro), e nel 2015 era stata istituita la la commissione di monitoraggio. Nel 2021 era stato poi alzato a 9,82 euro.§
Le reazioni italiane
Il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle hanno accolto con favore la novità tedesca sul minimum wage. Il segretario dem Enrico Letta ha detto di voler lavorare sulla proposta già in questa legislatura. Altrimenti, se non si riesce a farlo con questa maggioranza, il Pd «lo presenterà dentro il progetto per le prossime elezioni». «Il tema del salario minimo – ha detto Letta – sta prendendo giustamente piede in tante economie simili alla nostra e quindi è importante che anche noi facciamo un grosso passo avanti». A sperare in una svolta italiana in questa direzione è anche la presidente della Commissione lavoro del Senato, la cinquestelle Susy Matrisciano. «È il momento che la politica e i partiti dimostrino di esserci per i cittadini che li hanno votati. Non si può essere lavoratori poveri».
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
IL BEL GESTO AL POLICLINICO DI ZINGONIA DIMOSTRA CHE ESISTE ANCORA UN PAESE CON DEI VALORI UMANI
Sua moglie ha bisogno di cure per la grave malattia polmonare che sta affrontando, ma lui – Beppe, operatore sanitario di 47 anni – ha esaurito le ferie e non può starle accanto senza rischiare il lavoro.
Così i suoi colleghi del Policlinico San Marco di Zingonia, in provincia di Bergamo, hanno deciso di donargli parte dei propri giorni di vacanza. Un totale di 1.800 ore delle quali l’uomo potrà godere per stare vicino alla sua compagna.
A riportare la vicenda è il sindacato infermieristico Nursing Up, nelle parole del presidente nazionale Antonio De Palma ad assocarenews: “Quando i nostri referenti locali mi hanno raccontato questa vicenda non ho potuto fare a meno di pensare a come si sia sentito Beppe nel momento in cui gli hanno comunicato delle insperate ferie aggiuntive, ma soprattutto provo a pensare a come reagiranno le famiglie degli altri infermieri alla notizia che le loro mogli, i loro mariti, hanno rinunciato ad una parte di quel riposo che spetta di diritto a ogni operatore sanitario, così come a ogni lavoratore, per donarlo ad un collega in difficoltà”.
“E’ emblematico – continua De Palma – che mentre sindacati come il nostro combattono e denunciano in merito a centinaia di giorni di ferie finite nel dimenticatoio, sollevando il legittimo malcontento e la rabbia degli infermieri, ecco che, nonostante le ristrettezze, lo stress accumulato ogni giorno, le violenze subite che dovrebbero creare in noi solo disaffezione verso questo lavoro, siamo ancora capaci di compiere gesti del genere per un collega, per uno di noi”.
Una grande dimostrazione di empatia “che da una parte ci permette di combattere, professionalmente parlando, per la salute dei pazienti – prosegue De Palma – dall’altra ci consente di creare legami forti, con i malati ma anche con gli stessi infermieri, prima di tutto persone come noi e poi professionisti della sanità. E allora non è retorica affermare che siamo tutti Beppe, ci sentiamo tutti come lui, e la sua battaglia di vita è un po’ anche la nostra”.
(da NextQuotidiano)
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