Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
“DICONO CHE NON HO ESPERIENZA IN POLITICA, MA POI HANNO COPIATO DAL MIO PROGRAMMA”
Lunedì scorso, a Verona, subito dopo lo scrutinio che gli ha regalato un sorprendente 40% (e la prima posizione in vista del ballottaggio) contro due vecchie volpi della politica come Flavio Tosi e Federico Sboarina, il telefono di Damiano Tommasi è impazzito.
Richieste di interviste da ogni genere di testata (quotidiani, televisioni, periodici sportivi) e da diverse nazioni (dalla Spagna alla Cina, due Paesi dove l’ex centrocampista ha giocato).
Il giorno dopo il cognome del candidato sindaco era per ore la parola più discussa su Twitter. Ma Tommasi ha ragione quando dice, con una punta di soddisfazione, che i suoi due sfidanti lo hanno sottovalutato.
Invece, il giorno stesso in cui si è presentato come candidato “civico” in una coalizione di centrosinistra, per aiutarlo nella sua campagna elettorale, nella sede del suo comitato si sono presentati centinaia di volontari di ogni tipo, dai tifosi ai boy scout, molti di loro lontanissimi da ogni esperienza politica.
Invece lui, ex giocatore di Verona e Roma, ex nazionale azzurro, ex segretario dell’Associazione Calciatori, faccia d’angelo e cervello fino («Ho sei figli e una sola moglie», dice con ironia) si diverte a ostentare un umore zen: «Dobbiamo ancora finire il lavoro che abbiamo iniziato».
Damiano Tommasi, è preoccupato per il secondo turno elettorale che l’attende?
«Io? Non sono mai stato così sereno».
Cosa si prova a passare in un solo giorno, dopo uno scrutinio, dal ruolo di outsider sottovalutato a simbolo vincente?
(Ride). «Tutto dipende da cosa si intende per “simbolo”».
Che tutti i giornali, per esempio, abbiano indicato il suo risultato a Verona come la vera «sorpresa» di tutte le amministrative.
«E quale sarebbe la sorpresa?».
Magari il fatto di arrivare primo davanti a un sindaco che ha guidato per dieci anni la sua città, e prima di un altro sindaco, che oggi è ancora in carica?
«Posso essere sincero con lei? Io non mi sono sorpreso di questo risultato».
Non la stupisce arrivare davanti a entrambi i candidati di centrodestra in una città che il centrodestra governa da trent’anni?
(Ride di nuovo). «Sono rimasti sorpresi loro, casomai, perché probabilmente mi avevano sottovalutato».
Perché lei invece aveva previsto questo risultato prima del voto?
«Io sapevo che era un risultato possibile. Il che, tuttavia, è molto diverso dall’ostentare certezze».
Che differenza c’è?
«In tutta la mia vita, anche prima del calcio, ho imparato che ci sono due regole molto importanti da capire, quando si gioca una partita».
La prima?
«Non sottovalutare mai nessun avversario e nessuno dei problemi che si affrontano».
E la seconda?
«Avere sempre la percezione del risultato massimo che puoi realmente ottenere».
E adesso c’è il ballottaggio per la carica di sindaco: che «percezione» ha dei rapporti di forza del secondo turno?
«Le elezioni, in questo, sono esattamente come le partite di calcio: si giocano in due tempi e fino all’ultimo minuto. Manca ancora un pezzo, ma ci arriveremo».
Se vince festeggerà come ha fatto per lo scudetto della Roma del 2001?
«È già tutto programmato. Me ne vado sullo Stelvio, alla cima Coppi: ovviamente in bicicletta».
Tommasi, cosa la colpisce di più dopo aver studiato i dati del primo turno?
«Che a Verona si sia registrato il risultato elettorale più basso di un sindaco uscente. Fossi nei suoi panni non sarei molto soddisfatto».ù
Questo sindaco, però, oggi è il suo sfidante. E dice di lei: «Tommasi è il cavallo di Troia della sinistra».
«Bene».
Come bene?
«Se devono ridursi a parlare male di te, senza entrare nel merito delle tue proposte, significa che non hanno idee su come affrontare la sfida».
Ma da che storia arriva Damiano Tommasi?
«Lo sa che i miei due nonni maschi erano entrambi falegnami?».
Me lo dice perché questo ha contato nella sua formazione?
«Molto. Uno non ho fatto in tempo a conoscerlo, ma ha lasciato un segno profondo nelle persone che amo».
I suoi avversari, però, ricordano sempre che lei non ha esperienza della macchina amministrativa.
«Non sono un tuttologo, e non devo nemmeno diventarlo. Chi dirige deve scegliere le direttrici di fondo e i progetti, e poi deve saper trovare le migliori competenze per realizzarli. Sono stato il primo a presentare un programma elettorale, e mi sono tolto la soddisfazione di vedere che dopo due mesi gli altri candidati erano andati a saccheggiare le mie proposte per copiarle: evidentemente non erano così malvagie».
Però quando le dicono che non ha esperienza di governo questo la fa arrabbiare, confessi.
«Io non mi arrabbio mai. Ma considero queste battute come il termometro del loro “sentiment”: parlare male dell’avversario sperando di fermarlo così».
Quando le chiedono che lavoro fa, lei non risponde «ex giocatore», ma «dirigente».
«È la verità. Non posso essere «ex» perché non ho mai smesso di giocare. Al massimo sono un “ex professionista”. Sui campetti ci vado ancora».
Non l’ha sorpresa che Romano Prodi abbia detto di lei «Non lo conosco come calciatore, ma lo apprezzo come ex sindacalista»?
«Mi stupisce scoprire che uno come Prodi dica parole di stima nei miei confronti. Ma in effetti sono un sindacalista, sia pure nel mondo del calcio».
Suo padre cosa faceva?
«Era un cavatore di marmo. Artigiano anche lui, dunque. Ho imparato nella mia famiglia la cosa più importante: saper fare le cose con quello che si ha a disposizione».
Mi dica il suo peggiore difetto.
«Sono testardo».
E il suo miglior pregio?
(Ride). «Sono testardo».
È una bella battuta a effetto. Ma non può darmi la stessa risposta per due domande diverse.
«E perché? È una grande verità. Nella vita, molto spesso, avere una forte determinazione ti fa saltare ogni ostacolo: ma talvolta ti può portare a sbattere contro un muro».
E a lei come è andata?
«Tante volte mi sono ritrovato a giocarmi le mie carte su questa linea sottile tra successo e suicidio. Ma se non si rischia non si può vincere».
In campo la chiamavano «il chierichetto» perché serviva palle al gran sacerdote del pallone, Francesco Totti?
«No, mi chiamavano così proprio perché letteralmente facevo il chierichetto. Lo facevo persino a Trigoria, quando si diceva messa lì».
Lei viene da una cultura cattolica progressista.
«Quella è stata la mia scuola. Non sul piano delle ideologie, ma su quello dei valori. Sono cresciuto in questo mondo, l’ambiente delle parrocchie e degli oratori. E lì ho imparato tante cose».
Ha fondato una scuola bilingue parificata, intitolandola a Don Milani.
«Eravamo partiti con un asilo, poi abbiamo corretto l’obiettivo in corsa alzando le nostre ambizioni. Però è vero che considero Don Milani un grande maestro di vita».
È in suo nome che ha rinunciato per sempre al porto d’armi?
«Sono stato il primo giocatore obiettore di coscienza della serie A».
Lei è riuscito a costruire una famiglia di sei figli.
«In realtà c’è riuscita mia moglie Chiara. Senza di lei non sarebbe esistita la mia carriera di calciatore e nemmeno la mia candidatura a sindaco. Chiara è il perno della mia vita».
Potrebbe diventare la sua first lady, ma le piace poco apparire.
«Ci siamo fidanzati a 15 anni sui banchi dell’istituto Lorenzo Calabrese, alle scuole superiori. Ci siamo sposati a 22 anni. Parliamoci chiaro: senza di lei io non vado da nessuna parte».
Lei da giocatore di serie A fece un gesto clamoroso. Dopo un grave infortunio al ginocchio chiese alla Roma di autoridursi uno stipendio milionario al salario choc di 1.500 euro al mese.
«Bisogna raccontare cosa era accaduto. Pochi o nessuno avevano avuto un infortunio grave come il mio. C’erano delle perplessità sulla mia effettiva capacità di recupero fisico, ma io volevo tornare ad ogni costo».
E così ha rinunciato ad un super stipendio da calciatore per darsene uno da postino, pur di continuare a giocare.
«Ed è stata una delle scelte migliori della mia vita. Perché poi, alla fine del campionato, abbiamo vinto in due».
Lei è riuscito a tornare titolare.
«E tutti insieme siamo arrivati a una finale di Coppa Italia che forse, se mi fossi tenuto il mio ingaggio garantito, non avrei mai potuto giocare».
Ci vede una lezione in questa storia?
«Sì, perché io ne ho tratto un insegnamento molto importante: nella vita bisogna avere il coraggio di mettersi e rimettersi sempre in gioco».
Voi Tommasi siete una famiglia così numerosa che – lei racconta – spesso faticate a ritrovarvi insieme.
«Quando i tuoi figli hanno dai 24 ai 9 anni di età riesci a riunire tutti quanti intorno a uno stesso tavolo solo per le feste comandate e per i compleanni. Questa esperienza mi insegna quanto è importante, in una città, il legame sociale delle famiglie»
Abita in campagna.
«È stato quello che ci ha salvato durante il lockdown. Altrimenti credo che in sei saremmo impazziti tutti».
Mi racconti Verona in tre immagini.
«Due corridoi su nove in Europa passano per la nostra città. È un’opportunità enorme. Ma se non sai che strada vuoi fare, quella opportunità non la sfrutti».
E poi?
«La nostra città oggi ha più mezzi che fini: siamo di fronte al dilemma di tante altre città, bellissime, che non sanno bene cosa fare della loro ricchezza».
Lei dice che vuole puntare tutti gli investimenti sull’ambiente e sullo sviluppo sostenibile.
«Non è una stranezza: lo stanno facendo tutte le grandi capitali europee, e da anni. Dobbiamo recuperare il nostro ritardo».
Non teme che i suoi concittadini non siano contenti di sentirselo dire?
«Non ho paura di dirlo, perché è la realtà. Verona è una delle città italiane che oggi ha il più alto potenziale inespresso. E dunque deve resistere alla tentazione di poter bastare a se stessa».
Lei è stato anche il primo giocatore italiano a trasferirsi in Cina.
«Ho lavorato, giocato e vissuto in quel Paese per un anno. Ho visto un possibile futuro e ho anche capito quello che non mi piace di un modello di sviluppo».
(da TPI)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
SALA, CHE HA SENTITO ANCHE CALENDA, CINGOLANI E LA CARFAGNA, DISPONIBILE A COSTRUIRE UN NUOVO POLO POLITICO RIFORMISTA E AMBIENTALISTA
L’incontro a New York tra Luigi Di Maio e Beppe Sala è stato lungo e, come si dice in questi casi, proficuo. Risale a un mese fa: entrambi si trovavano negli Usa, all’Onu. Dopo, ci sono stati i colloqui del sindaco di Milano con il ministro Roberto Cingolani, con Carlo Calenda, e alcuni scambi d’opinione anche con Mara Carfagna.
È presto per dire se le idee che il sindaco di Milano coltiva sulla costruzione di un nuovo polo politico riformista e ambientalista possano incrociarsi anche con un’eventuale scissione in casa M5S.
Di certo, per ora, c’è la considerazione di Sala per Di Maio («Ho grande stima di lui», ha confidato a più di un interlocutore) e la determinazione con cui si sta muovendo per costruire una rete che potrebbe dare vita a un movimento, «una cosa politica» nuova.
Un pensiero che Sala ha da tempo, a cui sta lavorando di sponda con i Verdi europei – di cui ha firmato la Carta – e in particolare con l’eurodeputato Philippe Lamberts.
Ma una operazione che ha tempi stretti di realizzazione – se non vede la luce in vista delle politiche del 2023, rischia di naufragare per sempre – e un problema da aggirare: Sala non vuole che un suo nuovo ruolo nazionale porti Milano al voto anticipato.
A Matteo Renzi e a Carlo Calenda, che l’hanno chiamato in causa perché guidi il polo di centro, il sindaco risponde così: «Sono un moderato radicale, ma siamo davanti a un Big Bang sociale che richiede una nuova visione, non bastano formule». Soprattutto non basta l’aritmetica di un centro non meglio identificato, che avrebbe forse più leader che potenziali elettori.
Di Maio però, ormai in rotta di collisione con il Movimento di Giuseppe Conte, potrebbe rappresentare la marcia in più per fare decollare il progetto di Sala, il quale punta anche all’eredità migliore del fu Movimento di Grillo (con il quale, peraltro, il sindaco di Milano coltiva da tempo buoni rapporti personali).
Né va trascurato un punto: la probabile conferma del limite dei due mandati in casa grillina, che sarà oggetto di un referendum tra gli iscritti in estate, obbligherà quelle figure del Movimento intenzionate a non lasciare la politica attiva a trovare nuove case e nuove liste per ripresentarsi al giudizio degli elettori. Il ministro degli Esteri sarebbe una figura chiave per allargare il mercato elettorale di questo soggetto, «popolare, liberal democratico, ambientalista e sociale», per dirla con gli aggettivi usati da Sala.
Per il primo cittadino della città più europea d’Italia i pericoli all’orizzonte sono evidenti e l’obiettivo è aprire porte e finestre della politica. Ha scritto qualche giorno fa in un post, e ribadisce a proposito del “campo largo” del segretario dem Enrico Letta: «Il campo largo è senza attrezzature e si rischia di non riuscire a coltivare nulla. Una coalizione è più dei singoli partiti. Dovrebbe servire a eliminare le asperità interne e conquistare così anche la fiducia delle persone che si stanno sentendo lontane dalla politica».
Ancora più direttamente poi, ai cosiddetti centristi Sala ricorda: «A me non piace l’idea di un posizionamento di centro, penso debba esserci una formazione sociale, liberal democratica, popolare e ambientalista. Uno spazio progressista esiste, lo sappiamo tutti che c’è, ma sembra così difficile metterlo assieme». Con una avvertenza, che però è il vero discrimine: niente ambiguità e ammiccamenti a destra, perché «l’area a cui guardare non può essere che il centrosinistra».
Il “polo” di Sala ha ambizione di pescare più largo e più a fondo. Ci sono blocchi di partiti in piena disgregazione, a cominciare appunto dal M5S che, è l’analisi di Sala, «la barriera del 10%, a scendere, l’ha sfondata e in questo momento non ha identità: se Conte prova a intestarsi la battaglia ambientalista, fa sorridere».
(da la Repubblica)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
“I PAESI CHE HANNO COLPITO LA RUSSIA CON LE SANZIONI RAPPRESENTANO IL 56% DELLE SUE ESPORTAZIONI E IL 51% DELLE SUE IMPORTAZIONI” – “LA MAGGIOR PARTE DELL’ECONOMIA RUSSA E’ SOTTO TIRO”
Sberbank è la principale banca russa, non propriamente una voce marginale al Cremlino e dintorni. E proprio l’amministratore delegato di Sberbank, Herman Gref, si è sentito in dovere di avvertire che occorreranno dieci anni prima che l’economia di Mosca possa tornare sui livelli precedenti alle sanzioni introdotte dall’Occidente.
Una smentita in diretta di quanto affermato da Vladimir Putin, sicuro che l’«embargo» sta avendo effetti molto limitati sull’economia del Paese, perché Gref ha parlato dalla medesima tribuna di San Pietroburgo dove lo «zar» si era poco prima lanciato in un discorso incendiario contro Europa e Usa.
Il ceo di Sberbank – citato dall’agenzia Reuters – ha chiarito che i Paesi che hanno colpito la Russia con le sanzioni rappresentano «il 56% delle sue esportazioni e il 51% delle sue importazioni». «La maggior parte dell’economia russa è sotto tiro» ha proseguito. «Di conseguenza e se non facciamo nulla potrebbe essere necessario circa un decennio per riportare l’economia ai livelli del 2021» ha affermato Gref, chiedendo una riforma strutturale dell’economia russa. Stessi concetti che il 18 aprile scorso aveva già tracciato Elvira Nabiullina, a capo della Banca centrale russa, secondo la quale le restrizioni stanno colpendo duramente le imprese e le famiglie russe.
Secondo Gref, le spedizioni di merci sono diminuite di sei volte mentre anche il trasporto via mare e per via aerea è stato ostacolato poiché le sanzioni hanno impedito alle compagnie aeree russe di volare in direzione ovest e alle navi battenti bandiera russa è stato vietato l’ingresso nei porti dell’Ue.
Le sanzioni alle banche russe hanno in gran parte frenato le transazioni finanziarie con controparti estere, mentre alla Russia è anche impedito di ricevere apparecchiature e parti essenziali per le sue industrie automobilistiche, energetiche e aeree.
Sberbank nel 2020 ha avuto un fatturato superiore ai 47 miliardi di dollari. In quanto maggiore soggetto finanziario non è stato risparmiato dalle sanzioni e nel marzo scorso è stata distaccata dal sistema di scambi internazionali Swift. In pratica le aziende russe non possono più appoggiarsi a Sberbank per le loro transazioni internazionali. Il peso finanziario del gruppo rende ancor più significative le parole pronunciate dal suo numero uno alla presenza di Vladimir Putin.
Le parole di Herman Gref trovano conferma anche nelle previsioni formulate pochi giorni fa dalla Banca Mondiale nel suo ultimo «Global economic prospect», in pratica il report in cui vengono messe a punto le previsioni di sviluppo per ogni Paese o area economica del pianeta. La Banca mondiale assegna agli Stati Uniti una crescita a fine 2022 del 2,6, all’area Euro e al Giappone del 2,5 ma un calo dell’8,6 per il pil della Russia. Il dato peggiore dell’intera economia mondiale.
(da agenzie)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
IL CREMLINO RICORRE ALLE FAMIGERATE MILIZIE WAGNER
Sono bastati sei uomini armati fino ai denti, cinque mercenari russi e un francese, per scatenare il panico il 27 settembre del 2018 nella miniera d’oro di Ndassima, in Repubblica Centrafricana. Sono sbucati dalla giungla su due jeep a noleggio e nel giro di mezz’ora si sono impadroniti della miniera.
Di come siano andate le cose si sa poco e nulla perché da quel quadrante di Africa non esce mai niente ma qualche voce è arrivata fino a Bangui, al giornalista Joseph Akouissonne de Kitiki che, in uno dei suoi ultimi report prima della sua scomparsa, racconta che la mezza dozzina di uomini si è messa a sparare raffiche per aria per prendere il controllo di quel buco argilloso e che mentre i pochi dirigenti scappavano a gambe levate le centinaia di uomini che si spaccavano le mani nude nella roccia nel cercare pepite si sono a malapena accorti che stava cambiando qualcosa. §
Da quel giorno gli uomini di Mosca controllano una miniera che, stando a dati vecchi di un decennio, produce oltre 20 chili d’oro al mese, ovvero più di un milione di euro. Nel mondo della finanza si parla spesso di “hostile takeover”, ma in questo caso ostile è davvero un eufemismo.
La società canadese Axmin, che da 20 anni era proprietaria dei diritti estrattivi si rivolge infatti alle autorità che però non fanno nulla, anzi, nel giro di un anno gli levano la concessione e la passano a “Midas Resources”, «una società con chiari rapporti con i russi», spiegherà alla stampa Crepin Mboli, avvocato della Axmin.
hi controlla precisamente la Midas però non è chiaro, fondata in Madagascar, ma con sede a Bangui, la Midas è pressoché inesistente ma per le autorità locali non ci sono dubbi: è una società controllata da Wagner, il gruppo di mercenari russo che fa capo al fedelissimo di Putin, Yevgeny Prigozhin.
Celebri per la loro versatilità, gli uomini della compagnia militare privata russa hanno accumulato negli anni un expertise particolare nel reprimere le rivolte civili, terrorizzare la popolazioni locali e innestarsi nei traffici illeciti, e anche in Repubblica Centrafricana non hanno tradito le aspettative, reprimendo nel sangue una rivolta di minatori nella regione di Andaha e riportando la zona limitrofa alla miniera sotto il controllo delle forze governative il 10 febbraio del 2021.
Da un oceano all’altro
Lo stesso copione sembra essere in corso in Mali dove il gruppo Wagner si sarebbe infiltrato nel dicembre 2021 in seguito alla richiesta delle autorità locali di supporto militare privato per la sicurezza delle più alte cariche dello Stato.
Il Paese dell’Africa occidentale è infatti un altro importante produttore d’oro che esporta verso gli Emirati Arabi Uniti fino a 2,9 miliardi di dollari all’anno e altri 1,5 verso la Svizzera. Secondo il Center for Strategic and International Studies, accodati agli uomini della Wagner, a Bamako sono arrivate anche squadre di geologi russi, a testimonianza che un altro scambio tra sicurezza e diritti di estrazione mineraria potrebbe verificarsi molto presto.
Come spiega a TPI l’esperto di Medio Oriente e Africa subsahariana, Wassim Nasr, la presenza dei russi in Mali è «certificata dal tracciamento di velivoli dell’esercito russo che volano da Bamako alle basi russe in Libia o Siria», ma la loro presenza rimane avvolta nell’ambiguità. «L’ambiguità è una delle armi più importanti per gli uomini della Wagner – prosegue Nasr – non solo per non dover rendere conto delle loro azioni ma ha anche il vantaggio di eliminare il rischio di dover intervenire con più truppe in caso di sconfitta». Insomma se le cose vanno male, gli uomini di Prigozhin fanno sparire i morti e negano di esserci mai stati.
Cambia Paese ma lo schema è nuovamente lo stesso, in Sudan una recente inchiesta del New York Times, ha messo in evidenza i rapporti tra Mosca e la Meroe Gold, impresa tecnicamente sudanese che dal nulla ha preso il controllo della miniera d’oro di al-Ibediyya.
Dietro alla Meroe Gold, secondo il Tesoro statunitense, ci sarebbero ancora una volta Prigozhin e gli uomini di Wagner, i cui legami con il leader sudanese Omar al-Bashir si sono rinsaldati grazie alla manovalanza dei mercenari russi nelle repressioni delle proteste contro il suo regime. Un servizio che ha garantito la permanenza al potere del leader sudanese che, come pagamento, ha concesso i diritti esclusivi sull’estrazione dell’oro a imprese controllate da Mosca in diversi siti del suo Paese
Anche nel caso del Sudan le informazioni a disposizione sono pochissime ma se le statistiche ufficiali suggeriscono che il Paese africano non esporta oro verso la Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al quotidiano britannico The Telegraph – protetto da anonimato – che Mosca «importa regolarmente oro sudanese e molto di esso viene contrabbandato in piccoli aerei che dagli aeroporti militari sparsi per il Paese, con diversi scali raggiungono la Russia». Come ha spiegato il dirigente al giornale britannico, «circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate in Russia ogni anno dal Sudan», ovvero più di un miliardo e mezzo di euro: due volte il valore dell’incrociatore Moskva affondato il 13 aprile scorso davanti a Odessa.
Protagonista delle relazioni con Mosca il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemeti, che poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina si è recato in visita proprio a Mosca. Al suo ritorno ha organizzato un incontro con i sindacati dei minatori delle miniere d’oro, due cose che, ha fatto sapere attraverso i canali ufficiali, «non erano affatto collegate».
Al centro dei suoi incontri, oltre all’espansione e al rafforzamento della cooperazione tra la Russia e il Sudan, anche l’apertura di una base navale a Port Sudan, che per la Russia sarebbe la prima in Africa dal crollo dell’Urss.
L’appetito del Cremlino
Ma perché Mosca ha tanta fame d’oro? Stando a uno studio della Global Initiative against Transnational Organized Crime, la febbre dell’oro del Cremlino ha origini ben precise, ovvero inizia quando Stati Uniti ed Europa votano le prime sanzioni in risposta all’annessione russa della Crimea nel 2014. Da allora Mosca lavora per rendere la sua economia sempre più resiliente alle sanzioni occidentali portando avanti un lavoro di stoccaggio di riserve auree e valuta estera.
Stando allo studio infatti, dal 2014 la Russia ha raddoppiato le sue riserve d’oro portandole a un valore stimato in 130 miliardi di dollari, grazie al metallo estratto all’interno dei suoi confini e a quello trafficato dalle miniere controllate dai suoi paramilitari in Africa.
La scelta di Mosca di affidarsi all’oro è dovuta anche al fatto che, spiegano gli analisti, l’oro è il bene rifugio per eccellenza su cui convergono i capitali degli investitori nei periodi di maggiore volatilità sui mercati, come quello attuale a causa delle sanzioni occidentali. Insomma, più a Bruxelles stringono le maglie delle sanzioni, più il caveau aureo di Mosca prende valore.
Oltre a rinforzare il Cremlino, le scorribande degli uomini della Wagner destabilizzano Bruxelles e la presenza europea nella regione.
Come spiega a TPI l’eurodeputata socialista belga Maria Arena, presidente della Commissione per i diritti umani del Parlamento europeo, «l’utilizzo dei mercenari in Africa è una vera e proprio strategia russa di destabilizzazione del vicinato europeo». «Non è un caso – continua l’europarlamentare – che se guardiamo la mappa delle operazioni della Wagner vediamo che si tratta di una costellazione attorno ai confini europei e sempre vicino al controllo di asset cruciali come i metalli in Sudan o le rotte migratorie in Libia».
Per fermare il traffico di metalli preziosi, l’Europa si è già dotata di una normativa «che andrebbe applicata con più severità».
«Si tratta – sottolinea Arena a TPI – della direttiva sull’Approvvigionamento responsabile di minerali originari di zone di conflitto o ad alto rischio». «Imporre sanzioni politiche ai Paesi in cui accadono in traffici ci si può ritorcere contro», continua l’eurodeputata che rimarca come la rottura dei rapporti tra l’Ue e alcuni regimi africani che hanno invitato gli uomini di Mosca «è stato un errore strategico di Bruxelles e delle capitali europee, in quanto i russi si insediano laddove la diplomazia europea fallisce». «Le sanzioni al Sudan per esempio – ha concluso – hanno spinto il Paese nelle mani di Mosca».
La pista araba
L’oro africano però non finisce tutto nei caveau della Banca centrale moscovita, anzi spesso deve trasformarsi in denaro liquido per l’acquisto di materiale bellico per sostenere la guerra in Ucraina e per farlo, visto che i mercati europei sono inaccessibili ai russi, servono degli intermediari.
E qui, stando al Global Initiative against Transnational Organized Crime, entra in gioco Dubai. Gli Emirati Arabi Uniti sarebbero infatti «un attore dominante nel commercio globale d’oro» e un intermediario che, nonostante le sanzioni, «collega la Russia al resto del mondo finanziario». Oltre a ospitare capitali in uscita dalla Russia, come le fortune degli oligarchi, a Dubai accade infatti il miracolo della moltiplicazione del metallo luccicante: secondo i dati commerciali delle Nazioni Unite per il 2020 «c’è infatti una discrepanza di almeno 4 miliardi di dollari tra le importazioni di oro dichiarate dagli Emirati Arabi Uniti dall’Africa e ciò che i Paesi africani affermano di aver esportato negli Emirati Arabi Uniti».
I conti non tornano dunque, e quei 4 miliardi di dollari dovrebbero essere proprio quelli che arrivano dalle miniere nascoste nel cuore dell’Africa, dove mercenari ceceni arrivano in volo dalla Siria per guardare le spalle ai potenti locali ed a riempire jet privati di lingotti destinati e mettere al sicuro le casse del Cremlino dai tentativi occidentali di farle vacillare.
(da TPI)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
INCHIESTA DI FANPAGE: I BIGLIETTI SONO NELLE MANI DEI BAGARINI CHE LI RIVENDONO CON UN AUMENTO DEL 40%… NON CI SONO BAGNI E RETE INTERNET
Il cratere del Vesuvio è il secondo sito turistico più visitato della Campania, nel 2019 prima della pandemia ha fatto registrare 750 mila visitatori in un anno.
E’ il simbolo di Napoli conosciuto in tutto il mondo, eppure l’accoglienza riservata ai turisti che vogliono visitare la sommità del vulcano non è degna di un patrimonio dell’umanità.
L’area è gestita dall’Ente Parco Nazionale del Vesuvio che dovrebbe garantire l’accesso all’area del cratere e i servizi per i turisti.
Fanpage.it qualche anno fa raccolse le numerose segnalazioni degli utenti. E oggi siamo andati con delle telecamere nascoste per documentare cosa trovano i turisti una volta arrivati in prossimità del cratere. Uno scenario da “terra di nessuno”.
Dallo scoppio della pandemia la biglietteria del cratere del Vesuvio è stata chiusa, complice il contigentamento delle presenze turistiche. Il servizio di vendita degli biglietti viene fatto solo online con la piattaforma “Viva Ticket Vesuvio”.
Quando arriviamo in cima al vulcano l’unica persona che ci spiega come funziona è il barista dell’unico ristoro che si trova nell’area. “Da quando c’è il covid la biglietteria l’hanno proprio abolita – ci spiega – adesso i biglietti si fanno online ma qui non c’è rete e quindi è terribile”.
Ed infatti l’assenza di rete per gli smartphone rende sostanzialmente impossibile fare i biglietti online sulla piattaforma “Viva Ticket Vesuvio”. Ma notiamo che tutte le bancarelle dei souvenir sul piazzale antistante all’accesso all’ultimo tratto della salita verso il cratere, espongono tutti lo stesso cartello: “WiFi here”. Ci avviciniamo ad una bancarella e chiediamo cosa significa il cartello. Le nostre telecamere nascoste riprendono la scena. “Qui non c’è rete, quindi io posso darti il WiFi mio e tu puoi collegarti alla piattaforma per fare il biglietto” ci spiega la venditrice. Ma avverte: “Però oggi è sold out”. E domani? “Anche”. E dopodomani? “Pure”.
La vendita online facilita chi vuole fare speculazione accaparrandosi tutti i biglietti mandando sold out il botteghino. Tanto il turista che arriva fin quassù non ha alcun modo per fare il biglietto online e di certo non ha nessuna voglia di tornarsene a casa senza aver visto il cratere.
Quindi dapprima gli viene fornito il WiFi per la rete, e subito dopo, capito che la biglietteria è in sold out gli viene fatta la proposta che viene fatta anche a noi. “Si può chiedere a qualche agenzie se volete il biglietto, ma ve lo vendono a prezzo maggiorato” ci dice la venditrice. Quando chiediamo a chi possiamo rivolgerci da dietro la bancarella spunta un uomo sulla cinquantina in canottiera e pantaloncini. “A me, a me” ci dice.
La trattativa con il bagarino è rapida e diretta: “Io posso trovarvi un ingresso per le 12:30, online il biglietto costa 12 euro, io ve lo vendo a 20 euro a persona. Che dovete fare? Vi dovete “menare”?”.
Chiaramente per chi arriva fin lassù e non trova una biglietteria aperta non è che c’è molta scelta se non quella di acquistare il biglietto dal bagarino con un rincaro del 40%.
Mentre decidiamo se acquistare il biglietto lo stesso ci fa una proposta: “Possiamo fare che mi faccio regalare due biglietti e invece di darmi 40 euro, mi date 20 euro di mazzetta a me ed entrate subito con i biglietti regolari” ci dice.
A quel punto inizia ad avvicinarsi a tutti gli autobus che arrivano sul piazzale stracolmi di turisti parlando riservatamente con gli autisti e le guide. Non trova nessuno che gli regala i biglietti ma in compenso trova turisti stranieri da spennare. “Twenty euro” chiede ad una coppia straniera, e quando i due protestano indicando che il costo del biglietto è di 12 euro, risponde in inglese: “Normal price is twelve, online is finish, agency different price”. Un “different price” quello del bagarino che frutta centinaia e centinaia di euro al giorno in maniera completamente illegale.
Stanchi dell’attesa compriamo i biglietti dal bagarino. Se li fa inviare sul suo telefono e ce li gira su whatsapp grazie al WiFi garantito dalle bancarelle di souvenir. Un sistema che sta spennando i turisti che arrivano da tutto il mondo per visitare il Vesuvio.
Bagni e infopoint chiusi, non ci sono servizi
Ma l’odissea per i turisti che giungono sul cratere del Vesuvio non si limita ai costi maggiorati per i biglietti venduti in maniera praticamente esclusiva dai bagarini.
L’infopoint è chiuso, eppure tra i servizi che dovrebbe fornire ai turisti che arrivano fin lassù ci sono i servizi igienici e anche la rete WiFi gratuita. Proprio la chiusura dell’infopoint determina l’assenza totale di rete per gli smartphone sulla cima del vulcano.
Di conseguenza ricorrere è indispensabile ricorrere alla linea fornita dai gestori delle bancarelle ed è proprio lì che i turisti vengono avvicinati dai bagarini. L’assenza di servizi igienici invece è assolutamente scandalosa. Ci sono dei cartelli, accanto all’infopoint chiuso, che annunciano la chiusura dei servizi igienici per le norme Covid. Ma dopo oltre due anni di pandemia in qualsiasi sito turistico al mondo i servizi igienici sono stati riaperti, magari in forma contigentata, con una continua igienizzazione, ma è difficile trovare in Europa un sito che accoglie fino a 750 mila turisti all’anno che non ha i bagni.
L’unico bagno disponibile è quello del bar. Assistiamo ad una scena davvero poco edificante, con due turiste straniere, accompagnate da una guida, che chiedono al gestore del bar di poter usare il bagno. “Ora butto un poco di candeggina” dice il gestore del bar alla guida. E’ facile immaginarsi le condizioni igieniche dell’unico bagno disponibile nell’area, nonostante la disponibilità del gestore. Disservizi che si potrebbero facilmente evitare se almeno l’infopoint gestito dal Parco Nazionale del Vesuvio fosse aperto.
Le associazioni di categoria sono sul piede di guerra ed hanno più volte sollecitato il presidente dell’Ente Parco del Vesuvio, Agostino Casillo, ad intervenire. “Non ci ascolta” commenta a Fanpage.it, Cesare Foà presidente di ADV unite – Aidit. “Noi lavoriamo una vera schifezza, per non usare altri termini – ci spiega – c’è una situazione di bagarinaggio a livello stratosferico, che avete documentato. Ma poi ci sono problemi sui parcheggi, sui bagni, e non capiamo come mai non sia possibile installare una biglietteria elettronica, come esiste in tutti i siti turistici al mondo. Solo qui è impossibile installarla”.
Anche Assoturismo e Confesercenti contestano pesantemente quello che sta avvenendo sul cratere del Vesuvio: “C’è una biglietteria solo online che presta il fianco al bagarinaggio – spiega Gennaro Lametta, coordinatore regionale di Assoturismo e Confesercenti – chi riesce ad accaparrarsi i biglietti li rivende a prezzi maggiorati, qui è terra di nessuno, siamo messi male”.
Nell’area del cratere non ci sono controlli, non ci sono forze dell’ordine, non c’è polizia municipale, quindi i bagarini agiscono indisturbati nella loro opera di raggiro ai turisti, presentandosi addirittura come “un’agenzia”.
Il danno d’immagine, come fanno notare le associazioni di categoria, è inestimabile: “Noi ci abbiamo messo tanto tempo per liberarci dell’idea che a Napoli siamo tutti mafiosi, camorristi e delinquenti, poi un turista arriva qui e trova tutto questo, così si distrugge il nostro lavoro e l’immagine del territorio – sottolinea Cesare Foà – come agenzie stiamo seriamente pensando di abbandonare il Vesuvio ad una morte naturale”. Un colpo di spugna che ci auguriamo non avvenga e che invece le istituzioni e l’Ente Parco sappiamo ripristinare la legalità e i servizi minimi per i turisti.
(da Fanpage)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
LA RICERCA DELLA FONDAZIONE STUDI CONSULENTI DEL LAVORO
Più di un italiano su due desidera cambiare lavoro. È il quadro che emerge dall’indagine “Italiani e lavoro nell’anno della transizione” della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.
E nella maggior parte dei casi (il 55% dei lavoratori) si desidera un nuovo impiego perché insoddisfatti di quello attuale. Il 15% del campione si è attivato per cercare un altro lavoro.
A pesare sulla decisione di voler cambiare c’è l’insoddisfazione (38,7%), la voglia di novità (35,4%), la necessità dovuta alla scadenza del contratto (9,8%) o alla paura di perdere il lavoro (11,8%). Salari bassi (31,9%) e scarse opportunità di carriera (40,9%) sono alla base dell’insoddisfazione. Dall’indagine emerge però che non è solo il miglioramento retributivo e professionale a spingere le persone a voler cambiare. Il 49% degli italiani, ad esempio, indica tra i requisiti irrinunciabili della nuova occupazione un maggiore equilibrio personale, livelli minori di stress e più tempo da dedicare a se stessi.
Probabilmente complice quanto abbiamo imparato dalla pandemia, a cercare il benessere ancor più del miglioramento economico sono soprattutto gli under 35 e 35-44enni.
Anche lo smart working ha giocato un ruolo decisivo in tal senso. Se nel 2021 gli stessi lavoratori da casa fornivano un giudizio ambivalente, evidenziando le criticità connesse al lavoro da remoto, nel 2022 l’84,2% dei lavoratori agili promuove a pieni voti questo modello. Il 31,8% degli italiani non accetterebbe di tornare a lavorare in presenza, il 16,9% cambierebbe lavoro e il 9,3% potrebbe arrivare a licenziarsi.
Dopo gli stipendi troppo bassi (56,7%) e la tassazione elevata (43,9%), è la scarsa meritocrazia del sistema (33%) un’altra criticità. E anche l’agognato posto fisso non ha più l’appeal che aveva un tempo, visto che soltanto il 25% degli intervistati gli riconosce delle caratteristiche “irrinunciabili”.
(da Fanpage)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
NEL DISCORSO A SAN PIETROBURGO HA FATTO CAPIRE CHE LE SUE AMBIZIONI DI RICONQUISTA NON SI FERMANO ALL’UCRAINA… LA DOCCIA GELATA QUANDO IL PRESIDENTE DEL KAZAKHSTAN TOKAEV HA DICHIARATO CHE IL SUO PAESE SI RIFIUTA DI RICONOSCERE I SEPARATISTI FILO RUSSI DEL DONBASS
L’Occidente è in crisi, l’Unione Europea ha perso la propria sovranità, la Russia sta resistendo alle sanzioni e vincerà e l’Ucraina è uno Stato che non esiste: in quasi quattro ore di discorso, Vladimir Putin ha dipinto davanti ai visitatori del Forum economico internazionale di Pietroburgo il suo quadro geopolitico.
Ormai ogni apparizione in pubblico del leader russo sembra finalizzata al alzare il livello di minaccia, e questo intervento non ha deluso le aspettative. Sono state menzionate le atomiche – «non stiamo minacciando nessuno, ma tutti devono sapere che le abbiamo e le useremo in caso di pericolo per la nostra sovranità» – e le pretese territoriali: «L’Unione Sovietica era la Russia storica», ha sostenuto Putin, facendo capire nemmeno troppo velatamente che le sue ambizioni di riconquista non si fermano all’Ucraina.
Contesto nel quale le piccole aperture – come la dichiarazione di «grande rispetto» verso il popolo americano, o la concessione a Kyiv del permesso di entrare nell’Ue «anche se non gli conviene» – appaiono irrilevanti, così come la promessa di «non trasformare in Stalingrado» le città ucraine sotto attacco delle truppe di Mosca, anche se «i combattimenti sono sempre una tragedia».
Un appuntamento atteso, quello del forum di Pietroburgo, non solo perché pochi giorni prima il Cremlino aveva cancellato la tradizionale diretta con il presidente che risponde alle domande dei russi. L’evento, concepito anni fa come vetrina per il grande business internazionale, una sorta di Davos russa, quest’ anno si è tenuto in un formato inevitabilmente ridotto, con le grandi società occidentali che si sono ritirate dalla Russia e i Vip globali che hanno snobbato l’evento.
Mentre i fotografi davano la caccia all’emissario del taleban, invitato per la prima volta dal governo russo, dai vari panel dei ministri russi uscivano notizie sconsolanti: il vicepremier Yuri Borisov ha promesso che l’attuale parco di aerei civili (composto da Boeing e Airbus) potrà durare ben cinque anni, prima di dover iniziare a smontare i velivoli più vecchi per procurarsi i pezzi di ricambio mancanti, e il responsabile dell’Industria Denis Manturov ha promesso che la Russia «imparerà a produrre gli airbag».
Perfino la conduttrice dell’evento che ha visto al centro Putin, la capa della propaganda Margarita Simonyan – una delle più feroci sostenitrici della guerra in Ucraina, che ha più volte esplicitamente invocato l’uso della bomba atomica – ha osato mostrare un cartone di succo senza più etichette colorate, per la scomparsa del packaging di produzione europea. Chi però sperava che fosse il momento in cui il capo del Cremlino prendesse atto della realtà è rimasto deluso: la risposta di Putin è stata «per noi è più importante avere e l’indipendenza e la sovranità che il packaging», e che l’Occidente da sempre nega alla Russia le tecnologie sofisticate. «Fosse per loro, produrremmo soltanto petrolio, gas, corda e selleria», ha commentato.
Un problema storico, quello dell’arretratezza tecnologica russa, che Putin, al contrario del suo modello Pietro il Grande, vuole risolvere con autarchia. L’impatto delle sanzioni, «folli e inutili», secondo Putin, è stato «molto esagerato», mentre per l’Occidente il prezzo sarà di 400 miliardi di dollari. Il presidente russo è tornato a vantarsi della «inflazione putiniana», come secondo lui viene chiamata in Europa, attribuendone la colpa agli europei che «hanno stampato moneta durante il coronavirus, e ora scaricano la colpa su di noi», anche per l’eventuale crisi alimentare «che resterà sulla coscienza degli Usa e della euroburocrazia». Nessun ripensamento nemmeno sulla catastrofica gestione della pandemia, dunque, per non parlare della guerra.
E nessun segnale che la Russia vorrebbe fermarsi al Donbass: «L’Ucraina ha portato nell’impero russo solo tre regioni, Kyiv, Zhitomir e Chernihiv», ha stabilito Putin, sostenendo che l’Est è stato «conquistato dalla Turchia», mentre l’ovest «preso da Stalin a Polonia e Ungheria». Una visione «storica» che Putin ha accompagnato a una nuova dose di insulti verso gli ucraini: mentre l’Occidente avrebbe ormai «spogliato l’Ucraina di tutto, con i Carpazi disboscati», la scelta europea di Kyiv è un trucco per «nascondere nelle banche occidentali il denaro rubato».
Ma la doccia fredda a queso sfogo di propaganda è arrivata subito nientemeno che dall’ospite d’onore che condivideva con Putin il palco del Forum: il presidente del Kazakhstan Kassym-Zhoma Tokaev (del quale il leader russo ha sbagliato per l’ennesima volta la pronuncia del nome) ha dichiarato che il suo Paese si rifiuta di riconoscere i separatisti filo russi del Donbass, in nome dei quali, a sentire il Cremlino, bisognava lanciare la guerra.
(da la Stampa)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
“IMMAGINO CHE VOTERO’ SBOARINA, MA PRIMA NE PARLERO’ CON FORZA ITALIA”
Il 26 giugno non starà a casa, nonostante la mancanza di un accordo politico con il candidato di Fratelli d’Italia, sostenuto anche dalla Lega, Federico Sboarina.
Flavio Tosi, ex sindaco che ha corso a Verona per la rielezione, appoggiato da Forza Italia, si schiera (forse) in vista di domenica prossima: «Non andrò a votare per Tommasi, non per la persona ma perché non ha la capacità amministrativa che serve. Immagino che andrò a votare Sboarina ma prima mi confronterò con Forza Italia per decidere quale linea tenere e cosa dire al nostro elettorato», ha detto a Rainews24. Nei giorni scorsi, Sboarina ha detto di non volersi apparentare formalmente con Tosi, nonostante la sua adesione a Forza Italia.
Il simbolo del partito di Berlusconi non apparirà sulla scheda del sindaco uscente, che punta alla rielezione e a battere il candidato della sinistra, Damiano Tommasi che al primo turno ha ottenuto il 39,8% dei consensi.
(da agenzie)
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Giugno 18th, 2022 Riccardo Fucile
LA RABBIA DEI VISITATORI: “BASTEREBBE PAGARLI BENE”
Il parco divertimenti più grande d’Italia, Gardaland, è in difficoltà per la mancanza di lavoratori stagionali. La direzione ha scelto così di chiudere 13 attrazioni alle ore 19 anziché alle 23 da domani, 19 giugno.
Decisione che non è piaciuta ai visitatori, in particolar modo a coloro che avevano acquistato la soluzione che permette l’accesso a tutte le attrazioni del parco divertimenti senza limiti di orario e che ora si trovano a non poterne usufruire.
La rabbia degli utenti si è manifestata nei commenti su Facebook alla pagina di Gardaland, soprattutto sotto il post che pubblicizzava l’evento della Notte Bianca di stasera. «Ho pagato l’abbonamento per usufruire delle attrazioni sempre e loro le chiudono», scrive Giada M.
I gestori dell’account Gardaland le rispondono scusandosi e chiarendo che si tratta di una situazione temporanea: «Purtroppo siamo costretti a ridurre gli orari di apertura di alcune nostre attività a causa di eventi esterni e indipendenti dalla nostra volontà, quali la forte carenza di lavoratori stagionali che sta sperimentando il settore turistico»
In molti ipotizzano che la mancanza di personale sia dovuta alle paghe e ai trattamenti previsti non adeguati, situazione frequente tra i lavoratori stagionali. «Basterebbe pagarli il giusto e non sempre andare al ribasso», commenta Fabrizio A. sotto il post di Gardaland. «Oltre a pagarli, anche come li trattano…», risponde un altro utente.
Molti utenti hanno manifestato contrarietà e si sono sfogati sui social perché hanno pagato biglietti a prezzo intero, senza ricevere alcun avviso in anticipo o un’eventuale riduzione del pagamento di ingresso.
(da agenzie)
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