Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
BENVENUTI NELL’ 800… A QUANDO I MATRIMONI COMBINATI E LA MOGLIE MASSAIA?
“Alla cortese attenzione del capofamiglia”. Inizia così la lettera inviata dalla Lega ai cittadini di Verona per invitarli a confermare con il voto, domenica 12 giugno, Federico Sboarina come primo cittadino. “Barra il Simbolo della Lega – Sboarina sindaco”, l’invito contenuto nella missiva. Ma a suscitare le polemiche è stata appunto l’intestazione della lettera. Quella del ‘capofamiglia’ è una figura che non esiste più dal 1975: la riforma del diritto di famiglia abroga tale termine.
Ma evidentemente il Carroccio e il suo candidato non lo sanno e preferiscono indirizzare le lettere al ‘capofamiglia’, appunto, che fino al 1975 era l’uomo, al quale venivano riconosciuti giuridicamente e socialmente autorità sugli altri membri.
Protesta contro la trovata del partito di Salvini aSimona Malpezzi, capogruppo dem in Senato. “Peccato che il Carroccio scriva ad un’Italia che non esiste più, nella società e nell’ordinamento giuridico, ma di cui loro sentono certamente la mancanza. Una lettera che parla della visione distorta e misogina che i sovranisti continuano ostinatamente ad avere’. Le donne, le elettrici, sanno benissimo cosa scegliere e non si fanno certo dettare la linea politica dagli uomini di casa”
(da agenzie)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
CHE FIGURA DI MERDA: NON CONOSCE NEANCHE I QUESITI CHE HA PROPOSTO
E’ l’ennesimo paradosso, stavolta gigantesco, del leghista improvvisamente scopertosi garantista per ragioni di mera propaganda.
A offrirlo è il solito Matteo Salvini, leader di un partito che è passato dallo sventolare il cappio in Parlamento e dall’alimentare la gogna quotidiana contro gli indagati (ancor meglio se extracomunitari) a promuovere un referendum “per una giustizia più giusta”.
Il leader della Lega si è indignato per la scarcerazione di Rosario Greco, colui che l’11 luglio 2019 a Vittoria, provincia di Ragusa, travolse con il suo suv i due cuginetti Alessio e Simone D’Antonio, di 11 e 12 anni.
Il primo morì sul colpo, il secondo spirò tre giorni dopo in ospedale, dove gli furono amputate le gambe, tranciate dall’auto, nel tentativo disperato di salvargli la vita. Subito dopo l’incidente, l’uomo – sotto effetto di alcool e droga – si allontanò a piedi con gli altri tre occupanti dell’auto, forse per paura di essere linciato. Venne arrestato poco dopo.
Il leader leghista agita la forca sulla vicenda dei due cuginetti uccisi nel 2019 a Vittoria e, senza accorgersene, sconfessa uno dei quesiti referendari sulla giustizia proposti proprio dalla Lega che saranno votati domenica prossima.
L’articolo 274 del codice di procedura penale tratta, in generale, le misure cautelari. Parliamo, ad esempio, della custodia in carcere o agli arresti domiciliari, oppure dell’obbligo di firma o di non lasciare il Paese.
Sono misure che privano l’indagato della libertà personale e possono essere utilizzate dal giudice solo in alcune specifiche situazioni, elencate proprio al comma uno dell’articolo 274. In sintesi: se c’è il rischio di inquinamento delle prove; se c’è il pericolo di fuga o se l’imputato si è già dato alla fuga; se esiste il rischio di reiterazione del reato o se si tratta di un reato grave. Il secondo quesito referendario va ad abrogare la parte del testo che riguarda questa terza possibilità: il pericolo di reiterazione del reato o reato grave. In sostanza si andrebbe verso l’utilizzo della custodia cautelare quasi esclusivamente per il rischio di fuga o inquinamento delle prove.
Salvini, oltre a dimostrare di non conoscere nemmeno il quesito referendario, da un lato vuole fare il garantista, salvo poi smentire se stesso invocando la custodia cautelare per solleticare i forcaioli.
(da il Foglio)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
I PATRIOTI UCRAINI PROVANO A FERMARE L’AVANZATA RUSSA: SABOTAGGI CON ORDIGNI RUDIMENTALI E SISTEMI IMPIEGATI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE, INFORMAZIONI AI SOLDATI SULLE POSIZIONI DEL NEMICO
Nella crisi in Ucraina c’è sempre qualcosa che torna dal passato. Raccontano che gli ucraini userebbero un vecchio sistema impiegato da un soldato sovietico contro i treni tedeschi nel secondo conflitto mondiale: un arnese in metallo, facile da trasportare e veloce da piazzare sui binari. Il «cuneo» è solo una delle armi dell’attività condotta nelle zone sotto il controllo degli invasori.
Operazioni attribuite ai «partigiani» ucraini, figure sfuggenti rimaste dietro le linee e pronte a eseguire missioni. La maggior parte su loro iniziativa, qualcuna probabilmente ispirata da lontano e magari con l’aiuto di mini-team di forze speciali. Iniziative contemplate da oltre un anno dal piano di resistenza nazionale, attuato dopo l’invasione.
I patrioti provano a interrompere la linea ferrata con mezzi rudimentali, a volte provocano piccoli guasti o li simulano costringendo i convogli ad uno stop.
Nelle cittadine diventano ombre, colpiscono collaborazionisti e amministratori filorussi, cercano di impedire al nemico di consolidare il controllo del territorio, in particolare nell’area meridionale di Kherson. Sparano, mettono ordigni sotto le auto oppure nei pressi di edifici particolari, soffiano sul fuoco della protesta, invitano alla disobbedienza chi è ostile al nuovo «padrone».
Gli attentati destabilizzano, incutono timore, provocano vittime: nel mirino ci sono i funzionari, ma anche i loro parenti.
Il fronte interno diventa uno strumento di propaganda. Gli uomini di Zelensky esaltano i sabotatori: un sito ne elenca le gesta, fornisce informazioni e suggerimenti su come procurare danni ricorrendo a mezzi disponibili, dal carburante a utensili qualsiasi.
L’obiettivo è ritardare il lavoro, innescare incendi, provocare guasti tecnici avendo però sempre in mente alcune misure di protezione. Un alibi da presentare, la riservatezza, la scelta di target compatibili con le proprie possibilità
Il messaggio rivolto ai «vendicatori invisibili» – così li definisce la loro pagina web – è coinvolgente: «Ognuno di noi può tenere testa al nemico e fare la sua parte per arrivare alla vittoria. Insieme trasformeremo le loro vite in un inferno». La popolarità degli incursori è cresciuta grazie anche all’avversario che spesso è costretto ad ammettere gli «incidenti», i fendenti ricevuti.
La lotta clandestina, in alcuni casi, ha sconfinato nei territori russo e bielorusso per incidere sulla rete logistica, sui depositi di carburante e munizioni. Episodi che Kiev non rivendica, ma attribuisce – con ironia – al «karma».
L’intreccio tra attacchi reali e quelli che non lo sono beneficia di un ulteriore attenzione, a livello internazionale. Giornali, centri studi, fonti ufficiali tornano spesso sul ruolo insurrezionale per tre ragioni: un riconoscimento aperto di fatti, l’osservazione di una dimensione diversa rispetto alle operazioni belliche, un modo per sottolineare le difficoltà dell’Armata. Gli eventi vanno annotati, seguiti, ma considerati con prudenza: non sempre è possibile determinare le circostanze.
(da il “Corriere della Sera”)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
“LO FANNO PER SOLDI, VANNO ELIMINATI SENZA PIETA’, SONO LA FECCIA DELLA TERRA”
Per i russi gli ucraini disposti a cooperare sono preziosi alleati, specie dopo avere scoperto a loro spese che anche nelle zone occupate gran parte della popolazione resta ostile. Sono loro a indicare gli obbiettivi sensibili da colpire con l’artiglieria e accompagnano i soldati alle case di politici, poliziotti e militari da arrestare per fermare sul nascere qualsiasi resistenza interna.
Ma per gli ucraini restano spie, delatori, insomma collaborazionisti pericolosi da mettere fuori gioco il prima possibile: la logica è quella del «colpirne uno per educarne cento», le punizioni esemplari servono da deterrente, specie in questi giorni incerti in cui il protrarsi dei combattimenti alimenta paure e fragilità collettive.
L’esercito ucraino ha bisogno di eliminare le quinte colonne interne. Non a caso, ieri mattina la polizia di Kramatorsk era ben contenta di diffondere sui social le immagini dei suoi agenti che avevano appena catturato un collaborazionista nella vicinissima Sloviansk, sulla strada utilizzata dalle truppe impegnate nella battaglia cruciale per Severodonetsk. «Pare fosse una spia, un pensionato che passava ai russi le posizioni della nostra artiglieria», dicono i soldati che fanno la spesa nel supermercato sulla piazza principale di Kramatorsk.
Il rombo continuo della battaglia, qui a pochi chilometri dalla periferia orientale, accresce l’urgenza. «Senza dubbio le spie nemiche si annidano tra le famiglie di filorussi, che nel Donbass sono più numerose che altrove. È una situazione nota sin dalla guerra del 2014, quando sapevamo bene che c’erano alcune aree sia rurali che urbane dove i favorevoli a Mosca potevano superare il 60 per cento degli abitanti», spiega Alexey Iakovlenko, medico 47enne e portavoce dell’ospedale militare locale. Il quale tiene però subito a chiarire: «Da allora le cose sono rapidamente mutate, stimiamo che i pro-Putin siano precipitati ormai sotto il 10 per cento anche nelle aree più marginali, senza dubbio la brutalità della guerra scatenata il 24 febbraio ha contribuito alla svolta».
A detta della procuratrice generale dello Stato, Irina Venediktova, sono oltre 700 i casi aperti dalle autorità giudiziarie per «alto tradimento», cui si aggiungono numeri simili per «collaborazionismo».
In tutto circa 1.500 persone che rischiano lunghe pene detentive. Uno dei primi casi fu quello Oleksandr Kharchenko, il 39enne sindaco della municipalità di Dymer, a nord di Kiev, che nei giorni iniziali dell’invasione invitò la popolazione a collaborare con le truppe russe e a non ascoltare le versioni «ostili» dei media nazionali.
Seguì quello di Gennady Matsegora, sindaco di Kupyansk, nella regione meridionale di Kherson, il quale si offrì non solo di cooperare con gli occupanti, ma consegnò loro anche cibo e carburante facilitando l’avanzata verso Odessa, bloccata poi dalla resistenza ucraina presso Mykolaiv. Ma il fenomeno del collaborazionismo è più infido e lacerante.
Ne avemmo la percezione netta ascoltando ai primi di maggio al centro sfollati di Zaporizhzhia il racconto di una trentenne residente in un villaggio preso dai russi a nord di Mariupol, che rischiò di essere fucilata sul posto quando una spia locale rivelò all’intelligence che lei è moglie di un alto ufficiale ucraino (dal quale peraltro divorziò due anni fa) ferito durante la battaglia per Kharkiv.
«Gli informatori sono criminali senza scrupoli, la feccia della Terra. Molti lo fanno per soldi, per impadronirsi dei beni delle loro vittime, o per ottenere privilegi da Mosca. Vanno eliminati senza pietà».
(da agenzie)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
SONDAGGIO IPSOS: IL 44% NON PRENDE POSIZIONE (PIÙ 6% RISPETTO ALLA RILEVAZIONE DEL 17 MARZO) E CALANO I FAVOREVOLI ALLE SANZIONI CONTRO MOSCA (-8%)… PAURA DI CONSEGUENZE ECONOMICHE ED EFFETTO DELLA CAMPAGNA DI “DISINFORMATIA” DEI PUTINIANI D’ITALIA
Più passano le settimane di guerra e più negli italiani scemano le simpatie (pur sempre rilevanti) nei confronti dell’Ucraina, mentre crescono leggermente quelle per la Russia.
Anche se si ingrossa sempre di più il «partito» di chi non sta con nessuna delle parti. Ed è questo il dato più rilevante del sondaggio realizzato dall’Istituto Ipsos diretto da Nando Pagnoncelli sul «sentiment dell’opinione pubblica» rispetto al conflitto.
I numeri dicono che se il 17 marzo i cittadini che dicevano di stare dalla parte ucraina erano il 57 per cento, due mesi e mezzo dopo sono scesi al 49 per cento. Per contro, i simpatizzanti per le ragioni della Russia nell’analogo periodo sono passati dal 5 al 7 per cento (uno scostamento che non modifica il largo consenso per la nazione guidata da Zelensky). Gli analisti osservano, invece, lo scostamento che si registra tra quanti non si schierano «da nessuna delle due parti»: qui si passa dal 38 al 44 per cento.
Piccola curiosità aggiuntiva: i maggiori sostenitori delle tesi russe si trovano tra gli elettori di Fratelli d’Italia (13 per cento, con i leghisti al 7), mentre un sostegno granitico all’Ucraina arriva da elettori del Pd (74 per cento, con i pentastellati al 57).
Il sentiment degli italiani sta cambiando anche su un altro fronte, quello più al centro del confronto acceso tra i partiti: le sanzioni alla Russia. Gli effetti diretti ed indiretti dei provvedimenti presi contro l’aggressore si stanno facendo sentire (costo del carburante, tensioni inflazionistiche) e così come, almeno in parte, è mutata l’opinione di alcuni leader politici così è venuta meno una fetta di cittadini favorevole alle misure punitive nei confronti della Russia. Il 17 marzo scorso le sanzioni trovavano «molto d’accordo» il 24 per cento degli intervistati e «abbastanza d’accordo» un altro 31 per cento (in totale, quindi, il 55 per cento).
L’1 giugno la somma è scesa al 47 per cento: composta da «molto d’accordo» per il 17 e «abbastanza d’accordo» per il 30. Gli italiani «per niente d’accordo», invece, sono cresciuti dal 15 al 18 per cento. Il trend non potrebbe essere più chiaro di così
Anche se il sondaggio di Ipsos mette in evidenza un dato paradossale, perché gli intervistati che si dichiarano molto o abbastanza preoccupati per quanto sta accadendo in Ucraina sono diminuiti. Il 17 marzo erano l’86 per cento, due mesi e mezzo dopo sono scesi all’80 (comunque un dato elevato).
Viste in un’ottica personale o familiare, quali sono le maggiori preoccupazioni degli italiani? Su tutti, nelle risposte spiccano i timori per le conseguenze economiche (per il 55 per cento), dall’aumento dei prezzi alle turbolenze sui mercati che possono mettere a repentaglio investimenti e risparmi. Il 24 per cento, invece, teme che l’Italia possa essere coinvolta direttamente nel conflitto, mentre un 12 per cento si dice preoccupato per il possibile arrivo di un numero di profughi tale da renderne difficile o faticosa l’accoglienza e, quindi, la gestione. C’è un focus anche sull’informazione. È «troppo sbilanciata a favore dell’Ucraina» per il 41 per cento e solo il 6 per cento «a favore della Russia». Per il 27 per cento degli intervistati è «neutrale ed oggettiva». Infine, c’è spazio anche per le previsioni sulla durata della guerra. La maggioranza relativa (il 42 per cento) pensa che durerà ancora diversi mesi, mentre un italiano su quattro crede che si prolungherà per almeno un anno. Solo l’8 per cento confida che terminerà fra poche settimane.
(da il Corriere della Sera)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
CROSETTO E’ DAL 2014 PRESIDENTE DELL’AIAD, LA FEDERAZIONE DELLE AZIENDE ITALIANE PER L’AEROSPAZIO, LA DIFESA E LA SICUREZZA, CHE RAGGRUPPA MOLTE DELLE IMPRESE NAZIONALI… CROSETTO DEVE DECIDERE COSA FARE DA GRANDE: O FA IL CONSULENTE POLITICO DI FRATELLI D’ITALIA O FA IL PRESIDENTE DELL’AIAD
Perseguire ala strada degli armamenti, è la tesi dell’ex premier Conte, equivarrebbe a fare gli interessi delle lobby delle armi «che già hanno i loro sponsor in Parlamento ». Conte chiama in causa in maniera esplicita Fratelli d’Italia. «Il partito della Meloni – sostiene mentre sorseggia un calice di bianco – non a caso si è attestato su posizioni molto belligeranti. Ha al suo interno persone legate a quel mondo».
Il riferimento neanche tanto velato è a Guido Crosetto, è così? «È una persona degnissima, legata a incarichi di rappresentanza di quegli interessi, quindi si può anche comprendere come una forza politica si orienti verso investimenti militari a tutta birra, ma l’interesse degli italiani è completamente diverso ed è quello di porre fine alla guerra».
Crosetto ha lasciato l’incarico di coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia, il movimento politico fondato con Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, ma chi lo conosce assicura che difficilmente romperà il legame con la politica, sua vecchia passione, dice l’agenzia Adn Kronos, che aggiunge: “L’ex sottosegretario alla Difesa è stato chiamato a svolgere questo ruolo di rappresentanza di un’ intero comparto industriale, su proposta di Finmeccanica, ma con il gradimento di tutte le aziende del settore aerospaziale e della difesa. D’ora in poi Crosetto collaborerà con il ministro della Difesa sul fronte del supporto internazionale alle imprese del settore”.
Crosetto, nato a Cuneo nel ’63, ha una grande conoscenza di questi temi, a cominciare dai principali programmi internazionali di difesa in cui l’Italia è coinvolta a livello industriale, F-35 compreso, la cui seconda linea mondiale di assemblaggio finale e manutenzione si trova a Cameri, in Piemonte. Pre requisito per essere eletto presidente di Aiad era quello di far parte del gruppo Finmeccanica.
Come già detto, l’AIAD è la Federazione, membro di Confindustria, in rappresentanza delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza. Accoglie nel proprio ambito la quasi totalità delle imprese nazionali, ad alta tecnologia, che esercitano attività di progettazione, produzione, ricerca e servizi nei comparti: aerospaziale civile e militare, comparto navale e terrestre militare e dei sistemi elettronici ad essi ricollegabili. L’AIAD, si legge sul sito, mantiene stretti e costanti rapporti con organi e istituzioni nazionali, internazionali o in ambito NATO al fine di promuovere, rappresentare e garantire gli interessi dell’industria che essa rappresenta. Significativa l’attività svolta a riguardo dal NIAG (NATO Industrial Advisory Group) garantita attraverso i propri esperti.
L’AIAD è inoltre membro, in rappresentanza dell’industria italiana, dell’equivalente Associazione Europea (ASD). In questo contesto è l’interfaccia di riferimento di tutte le Istituzioni nazionali ed estere per il coordinamento di ogni iniziativa in cui ci sia necessità di rappresentare gli interessi nazionali del comparto. Tra i suoi compiti, quello di redigere e presentare rapporti e posizioni industriali ai vari dicasteri governativi e ad ogni altra organizzazione istituzionale estera.
(da agenzie)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
LO STUDIO ENEA: “EFFETTO DI INQUINAMENTO E ALTE TEMPERATURE”…. “URGENTE NECESSITA’ DI POLITICHE RIGOROSE”
«Nel 2050 il rischio di mortalità nelle città di Roma e Milano sarà aumentato rispettivamente dell’8% e del 6%». Così lo studio di undici ricercatori Enea pubblicato su Science direct avverte sulle nuove conseguenze di inquinamento e cambiamento climatico. «L’aumento del rischio di mortalità è l’effetto di una combinazione di temperature crescenti», spiegano gli scienziati, «dovute al cambiamento climatico e alla concentrazione di inquinanti nell’aria, come l’ozono e il PM10». La ricerca ha selezionato le città di Roma e Milano per la popolosità e per le differenti condizioni climatiche, socioeconomiche e di inquinamento.
«Roma ha temperature più miti, un basso livello di umidità e alti livelli di ozono, mentre Milano, che si trova in una delle aree più inquinate d’Europa come la Pianura padana, è esposta a temperature più fredde, ha un tasso di umidità più alto e venti più moderati, insieme ad alti livelli di Pm10», spiega uno dei ricercatori Enea Maurizio Gualtieri. «Queste sono tutte condizioni che possono avere un impatto significativo sulla salute e sul rischio di mortalità. Infatti, il particolato atmosferico è riconosciuto come agente cancerogeno e rappresenta la prima causa ambientale di mortalità: secondo l’Oms il numero di decessi da inquinamento dell’aria è raddoppiato dal 1990 al 2019 raggiungendo i 4,5 milioni di morti, di cui il 92% a causa del particolato atmosferico e l’8% per l’ozono».
Secondo lo studio nei prossimi decenni la città di Roma potrebbe raggiungere «i 591 decessi l’anno durante i mesi estivi (l’8% in più rispetto ai decenni precedenti) a causa delle alte temperature e di una concentrazione di ozono troposferico (O3) al di sopra del valore limite per il danno alla salute umana». Anche per Milano le cose non andranno molto meglio.
«Nel capoluogo lombardo si stima che la mortalità sarà più alta durante l’inverno (1.787 decessi su 1.977 complessivi, pari al 90%) a causa del clima più rigido, delle maggiori concentrazioni di PM10 (oltre la soglia giornaliera di 50 μg/m3fissata dalla Direttiva Ue sulla qualità dell’aria) per effetto delle maggiori emissioni da combustione e di condizioni atmosferiche stagnanti dovute alla geomorfologia e alla localizzazione di Milano». Gli studiosi spiegano come le previsioni per il 2050 siano state ottenute ponendo come riferimenti due scenari che presuppongono entro il 2100 «un aumento della temperatura media globale che oscilla tra 0,4 e 0,8 °C nell’ipotesi più “sostenibile” e 3,3-4,9 °C in quella meno sostenibile».
Urgente necessità di politiche più rigorose
Alla luce dei risultati ottenuti gli scienziati ribadiscono «l’urgente necessità di adottare politiche più rigorose e integrate in materia di qualità dell’aria e contrasto al cambiamento climatico». Uno degli obiettivi fondamentali dovrà essere «il contenimento dell’aumento della temperatura media globale al di sotto di 1,5 °C entro il 2100», operazione che permetterebbe di «ridurre il numero di decessi di 8 volte a Roma e di 1,4 volte a Milano rispetto al periodo 2004-2015».
(da agenzie)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
I RAGAZZI NATI IN ITALIA DA GENITORI STRANIERI SONO SCHIACCIATI TRA DUE CULTURE, VIVONO UN CONFLITTO PERMANENTE: “AL PAESE D’ORIGINE DELLA FAMIGLIA NON VOGLIONO ANDARE PERCHÉ LÌ LI CHIAMANO STRANIERI”
Biciclette abbandonate all’imbocco delle scale. Nissa? «È lassù all’ultimo piano». La Torino di via Ghedini è un budello di strada senza neanche un balcone sulla facciata, e poche finestre. Tre portoni. Tre cortili. Una parete di cassette della posta con cognomi di mezzo mondo: quasi un’installazione. Forse un tempo le pareti di questa scala che sale per tre piani erano gialle. Oppure bianche, chissà. Oggi sono un mix che ricorda il colore del fango. Lo stesso non-colore delle ringhiere. Dei gradini e delle poche luci. Terzo piano. Nissa abita qui?
Eccolo qui il ragazzo accusato con altri trenta dell’assalto ai negozi dei marchi del lusso, in una notte di ottobre di due anni fa. Capelli biondo platino, ricci. Bermuda bianche. T-shirt. Dissero che faceva parte delle bande di quella notte in cui la periferia entrò di prepotenza nel centro. La notte dei ragazzi arrabbiati che andarono a prendersi quel che non potevano permettersi: borse di Gucci, vestiti di marca. Scarpe che costano 300 euro: una fortuna se non hai neanche un lavoro.
Perché Nissa? Perché era l’esempio di quella nuova generazione di torinesi, figli di famiglie arrivate da qualche sud del mondo. Ragazzi che non riescono a diventare torinesi.
Anzi, Italiani. E navigano in un mondo sospeso. Nissa oggi non parla più. E tanto meno di quelli come lui. Arrabbiati con tutto e con tutti. La generazione che ha costruito il suo mondo in una periferia in cui i palazzi cadono a pezzi. A trecento metri da qui comincia Barriera di Milano. Era un quartiere operaio. È diventata la casa dei nuovi torinesi. E dei ragazzi che sono lì a metà. Non più algerini, tunisini o senegalesi o chissà che altro. Ma non ancora parte vera della città.
I ragazzi di Barriera. Che vivono in strada. Che non hanno un lavoro e non studiano. La banlieue dice qualcuno. No, l’altra Torino. La chiamano seconda generazione. Ma Brahim Baya dice che chiamarla così è riduttivo: «Sono ragazzi nati qui e rimasti a metà del guado. Schiacciati tra due culture, vivono un conflitto permanente». Al Paese d’origine della famiglia non vogliono andare perché lì li chiamano stranieri. Qui sono sospesi. Brahim, 38 anni, ha messo su un centro con l’associazione islamica Alpi nel quale cerca di aiutare questa gente a trovare una strada. E non è uno slogan. Perché qualcuno riescono a strapparlo al nulla quotidiano. A invogliarlo a studiare. A inserirlo nel mondo del lavoro. Aspettando che arrivi finalmente la cittadinanza.
Chi non lo agganciano prende altre strade. La rabbia. «Spesso sono ragazzi che già avevano già qualche problema di devianza e sulla strada sbandano del tutto». Recuperarli? È più un’idea che una possibilità. Corso Vercelli, piena Barriera. La zona è quella dietro la chiesa Madonna della Pace. Ore 17,23. Nell’ordine accadono queste cose e tutto nello spazio di 20 metri e in tre minuti. All’angolo con piazza Foroni in sei fumano crack. Seduti per terra. Infischiandosene di chi passa e guarda. Un barista prende a schiaffoni sul marciapiede davanti al locale un ragazzo coi rasta che ha causato problemi nel bar.
Nello slargo davanti all’oratorio sette spacciatori fanno il loro mestiere. Al bar Tiffany un omone grande e grosso divora un piatto di carne mentre sul marciapiede passa una ragazza con il cane al guinzaglio. E quando arriva qui cambia lato della strada per non passare davanti a venti giovanotti seduti sugli scalini dei negozi. Voi dove vivete? «Che ti frega». Che cosa fate qui? «Che ti frega». La tipa che è passata la conoscete? Risata.
Ridare fiato e speranza un posto come questa periferia è un lavoro complicato. Parlare di «rigenerazione urbana» è uno slogan adoperato da tanti negli anni. Ora ci sono una trentina di milioni sul tavolo. Dicono che saranno usati per scuole e altri progetti. È un passo. Il primo. Nel bello cresce il bello. E forse migliora la vita. Basta?
Giardini Alimonda sono un esempio. Un manipolo di vecchietti ci ha creduto e adesso i ragazzi qui vengono a fare sport, si incontrano. Provano a scappare dal nulla delle periferie, di strade dove manca tutto. Dove i negozi sono quelli essenziali: money transfer, bar, ancora bar, kebabbari, altri kebabbari, qualche parrucchiere multietnico, mini market multietnici, negozi di telefonia. Il resto? Poco o nulla. «C’è stato un incontro sulle seconde generazioni qualche giorno fa qui a Torino. I ragazzi si sono confrontati. Servono due tipi di intervento: uno istituzionale che aiuti queste persone a diventare italiane. L’altro è personale. Che li guidi a capire chi sono, dar loro delle certezze» dice – in sintesi – Davide Balistreri dell’associazione Arteria.
Benissimo. Ma intanto qui succede di tutto. Il ragazzo col machete dell’altro giorno che inseguiva alcune persone è un esempio. E neanche il più importante. Il nulla delle giornate passate seduti davanti ai negozi è più grave. Il monopattino elettrico di proprietà è il punto di arrivo. Le ragazze italiane il desiderio. Il futuro? Boh. Se vivi in una casa come quella di Nissa, pensare di avere una vita migliore è un’impresa. La strada è più facile. Magari si rimedia anche una borsa di Gucci.
(da “la Stampa”)
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Giugno 8th, 2022 Riccardo Fucile
DIETRO LA SVOLTA DA GANASSA DI MEDVEDEV C’È IL DISAGIO PER ESSERE STATO ESPULSO DAL CERCHIO MAGICO PUTINIANO E IL TIMORE DI ESSERE RIMOSSO E SOSTITUITO CON LA FIGLIA DI “MAD VLAD”…I SOCIAL RUSSI FANNO ESPLICITE INSINUAZIONI SUL SUO ABUSO DI ALCOL
Dopo lunghi e intensi sforzi, Dmitry Medvedev è finalmente riuscito a riguadagnare, dopo un decennio, le prime pagine dei giornali internazionali. Il suo post su Telegram su quanto odia l’Occidente è stato ripreso e discusso da migliaia di commentatori in mezzo mondo.
Poche righe, affisse nel canale Telegram dell’ex presidente russo al mattino di martedì, che hanno raccolto milioni di visualizzazioni in poche ore, e messo in un certo imbarazzo il Cremlino, con il portavoce Dmitry Peskov costretto a rispondere alle domande dei giornalisti sull’esternazione dell’ex delfino di Vladimir Putin.
Perché nel lessico russo – quello utilizzato ai vertici della politica come nelle chiacchierate in cucina dei cittadini comuni – i non meglio precisati “loro” verso i quali Medvedev dichiara il proprio odio sono gli occidentali, gli europei e gli americani, gli altri, gli eterni nemici che da sessant’ anni, dall’epoca di Nikita Krusciov e dei suoi missili a Cuba, nessuno a Mosca dichiarava di voler «far sparire», almeno non pubblicamente.
Un cambiamento a 180 gradi, per l’uomo che, da presidente, era considerato il leader dei liberali del regime: twittava dal suo iPhone, mangiava hamburger con Obama, andava in pellegrinaggio da Steve Jobs e aveva osato dichiarare che «la libertà è meglio della non libertà», frase che nel lessico politico russo suonava quasi sovversiva.
Non rincorrendo al veto all’Onu, aveva permesso di fatto l’operazione in Libia, uno dei gesti di rottura che gli era costato il “licenziamento” da parte di Putin, che l’ha cacciato brutalmente dalla poltrona di presidente che gli aveva fatto occupare dal 2008 al 2012 (per poi licenziarlo anche dal governo). Epoca ormai lontana: erano mesi, in realtà, che l’ex presidente si stava distinguendo per dichiarazioni in un linguaggio estremamente violento.
Soltanto una settimana prima aveva minacciato, in un’intervista ad Al Jazeera, il ricorso della Russia alle bombe atomiche. Aveva promesso di lanciare missili sui palazzi del potere di Kyiv, e di Washington, e di piazzare Iskander con testate nucleari puntati su Finlandia e Svezia. Aveva dato del “salame” a Olaf Scholz e della “zia” a Ursula von der Leyen. Aveva chiamato gli europei “grassoni”, “imbecilli” ed “eredi dei nazisti”, governati da «nonni in preda alla demenza e nonne esaltate». Ha accusato i polacchi insieme ai tedeschi di «sognare la gloria di Hitler» e di voler invadere e conquistare l’Ucraina. Su questo sfondo le sue idee su Zelensky, “ladro” e “drogato”, una “marionetta americana” che governa “nazisti impazziti”, appaiono quasi nella media della propaganda russa.
Il problema è che Medvedev non è un conduttore televisivo: l’ex presidente ed ex premier è stato declassato nella gerarchia del regime, ma occupa pur sempre la carica di leader del partito di governo Russia Unita, e di vicesegretario del Consiglio di sicurezza, l’organismo dei massimi gerarchi con il quale Putin si consulta.
È vero che il peso reale di Medvedev anche all’interno del partito che ufficialmente guida è inferiore alle apparenze, e l’hashtag #penoso che gli si è appiccicato dopo che il licenziamento, ha messo una croce sopra le sue ambizioni molto più delle denunce di Alexey Navalny sulle sue splendide ville e vigneti toscani
Uno dei motivi per cui le esternazioni al limite dello scandalo di Medvedev non avevano guadagnato i titoli nemmeno dei media russi è che viene considerato ormai espulso dal cerchio magico putiniano: il politologo Stanislav Belkovsky, per esempio, ritiene che sia mosso dal “risentimento”, e il post sull’odio verso gli occidentali è apparso dopo che gli Usa hanno cancellato il visto lavorativo a suo figlio Ilya. E il politologo Abbas Galyamov scrive che il leader di Russia Unita, ormai conscio di essere fuori dal grande gioco politico, punta a occupare invece il ruolo mediatico del nazionalista folle che incanta il “popolo profondo”, lasciato vacante dalla morte di Vladimir Zhirinovsky.
Il clamore suscitato dal post di ieri però potrebbe essere un segnale non soltanto del disagio di un politico in declino, con i social russi che fanno esplicite insinuazioni sul suo abuso di alcol.
Secondo Aleksey Venediktov, l’informatissimo ex direttore della radio Eco di Mosca, l’escalation verbale di Medvedev punta a sfidare il capo della Duma Vyacheslav Volodin, prescelto come “delfino” di Putin dai “falchi”.
L’ex presidente sarebbe tornato il lizza tra i papabili anche secondo le fonti del solitamente ben informato sito Meduza, e in questo caso è possibile che cerchi di farsi perdonare il passato da “liberale” sorpassando i reazionari a destra con una retorica paranoica – «Ci odiano tutti! Le decisioni occidentali sono dettate dall’odio verso la Russia e i russi!», ha scritto pochi giorni fa – che potrebbe venire gradita da Putin.
Fonti moscovite dell’agenzia ucraina Unian ritengono invece che il turbonazionalismo dell’ex moderato sia dovuto al piano di Putin di liquidarlo definitivamente, dopo averlo accusato del collasso dell’economia, per consegnare la leadership di Russia Unita a sua figlia Katerina. Voci impossibili da verificare, che però vertono tutte intorno a un passaggio di potere al Cremlino, forse non tanto imminente quanto desiderato da molti.
(da Il Corriere della Sera)
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