Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
“LE PROVA TUTTE E FA UNA MINCHIATA DIETRO L’ALTRA. CIRCONDATO DA GENTE STRANA, CASI UMANI O PERSONAGGI DA COMMEDIA ALL’ITALIANA”
La battuta è fulminante, un epitaffio. “Povero Salvini ormai ha perso tutto, anche la testa. Se la faccia prestare dalla Meloni”. Cattivissimo, Vittorio Feltri. Esagerato. “Mi limito a descrivere un fatto oggettivo”. Quindi da oggi Giorgia Meloni è la leader del centrodestra? “Mi pare evidente”.
E Salvini? “Voi che direste di uno che parla ogni minuto e non riesce a farne una dritta?”. Dunque ha perso tutto. “Soprattutto la testa, ripeto. Non da oggi. Mi dispiace, persino. Mica ce l’ho con lui personalmente”. Lui non sarà contento. “Non mi saluta più. Ma quello che dico io lo vedono tutti. Lo dicono tutti. Bisognerebbe dirlo anche a lui. Datti una calmata. Ragiona. Fermati. Farglielo capire non è un atto di inimicizia, è quasi un gesto di affetto”.
A Roma si dice: scànsate, lèvate. Fatti da parte. Glielo dicono quelli della Lega? “Chi gli vuole bene dovrebbe consigliarglielo. Ma quelli della Lega non sono amici suoi, fanno politica. Quindi più che altro immagino siano tentati di chiuderlo in una botte e gettarlo nel Tevere come Cola di Rienzo. Ma poi si guardano in faccia l’uno con l’altro e capiscono che non possono farlo”.
Giorgetti, Zaia, Fedriga. Perché non può esserci il 25 luglio nella Lega? “Perché non c’è nessuno pronto che possa sostituire Salvini. Quindi se lo devono tenere ancora per un po’”. Si è riavvicinato a Berlusconi. “E non mi pare un segno di forza”.
Ieri pomeriggio, mentre i risultati delle amministrative e del referendum andavano componendo la débâcle della Lega e il sorpasso di Fratelli d’Italia, Salvini attaccava l’Europa e la Bce. “Tentava di portare il discorso da un’altra parte. Parlava di Castrocaro terme e di Ponza. Ma come pensi di poterlo fare? Nascondi un elefante sotto un guscio di noce? E poi… S’è messo a parlare di economia, di Bce. Mah”.
Mah? “Tutte cose che lui orecchia, di cui non sa nulla, di cui probabilmente nemmeno gliene frega nulla e che tira fuori così, un po’ a caso, perché pensa che gli possa essere utile dirle. Solo che è sempre fuori tempo o contro-tempo. La gente se ne accorge. Anzi, peggio: se n’è già accorta. E rimane perplessa. O addirittura ride, che è persino peggio. E il guaio, guardate, è che Salvini va avanti così da quasi tre anni. Fedele a un copione ripetitivo”. Per esempio? “Un giorno descrive Medvedev come un uomo di pace, e quello due giorni dopo minaccia l’atomica contro l’Europa”.
Sfortuna. “No, è una cosa da pirla. Devi sapere di che cosa stai parlando”. E’ incontinente. “Lui è riuscito a portare la Lega dal 4 al 34 per cento. E quando uno produce un miracolo così, pensa di essere San Francesco. Ovviamente non è vero. Però lui non lo sa. Quindi pensa: come sono arrivato al 34 per cento una volta posso farlo di nuovo.
Di conseguenza le prova tutte. E fa una minchiata dietro l’altra”. Afflitto dall’ansia di risalire la china. “Dalla mattina alla sera. Ventiquattrore su ventiquattro. Ininterrottamente. Circondato poi da gente strana, casi umani o personaggi da commedia all’italiana”. Tipo? “Nella Lega c’è gente che s’intende sul serio di politica estera. Gente che per fare quelle cose ha studiato o s’è impegnata nelle istituzioni con ruoli rilevanti che peraltro era stato Salvini a dargli. Ma lui chi va a cercare?”. Capuano. “Ecco appunto. Dimmi chi ti accompagna e ti dirò chi sei”.
(da Il Foglio)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
PECCATO CHE IL NUMERO DI VOTI DA RICONTEGGIARE SIA MINORE DELLA DIFFERENZA TRA I DUE CANDIDATI: SE STAVANO ZITTI FACEVANO MIGLIORE FIGURA
La coalizione di centrodestra di Como ricorre al Tar per chiedere la sospensione del ballottaggio e che vengano riconteggiati da capo i voti del primo turno.
La ragione è l’alto numero di schede contestate dai rappresentanti di lista. Se il ricorso verrà accolto, il riconteggio potrebbe influire sull’accesso al ballottaggio di Giordano Molteni, candidato sindaco sostenuto da Lega, FdI e FI, che al momento ne resterebbe escluso per 74 voti.
Molteni ha dichiarato: «Prendiamo atto che, sia pure di poco, non siamo riusciti ad arrivare al ballottaggio per la carica di sindaco. Ma aggiungiamo pure che le numerose contestazioni ai seggi ci hanno portato a decidere di presentare ricorso al Tar».
Per la destra, storicamente forte a Como, è una sorpresa non arrivare al secondo turno, dove invece si dovrebbero sfidare la candidata di centrosinistra Barbara Minghetti, con il 39,26 per cento dei consensi e Alessandro Rapinese (27,42 per cento), sostenuto dalla lista civica Rapinese Sindaco.
Quando sono state scrutinate 72 sezioni su 74, la differenza tra Molteni e Rapinese è di appena lo 0,36 per cento a favore di quest’ultimo: 8.059 voti contro 8.133.
Il riconteggio in corso conferma il vantaggio
Le rimanenti due sezioni sono quelle oggetto delle contestazioni, e il loro riconteggio sta avvenendo in queste ore. Il motivo della contestazione delle schede da parte dei rappresentanti di lista è l’interpretazione del voto disgiunto. Pare, comunque, che il risultato finale non subirà variazioni, anche al netto delle schede contestate, dato che il numero di voti che rimane da conteggiare è minore della differenza tra i due candidati al testa a testa.
Si prospetta, quindi una clamorosa sconfitta nella città del lago per il centrodestra.
(da agenzie)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
LE CRITICHE DEI MILITANTI, IL TESSERAMENTO CHE NON VA, I CONGRESSI CHE NON SI FANNO
Più dei lunghi coltelli, i larghi tendoni. La vera grana con cui il segretario della Lega Matteo Salvini dovrà fare presto i conti non si trova tra i corridoi di via Bellerio ma nelle centinaia di piazze italiane affollate da più di un anno da gazebo e banchetti di militanti leghisti.
Passino le trame interne e i malumori dei colonnelli. Ci sono, erano già più che palpabili al Consiglio federale convocato all’indomani delle amministrative e continueranno ad esserci nei prossimi mesi. Difficile che bastino nel breve periodo a preparare il dopo-Salvini in un partito che – con buona pace di tanti retroscena veri, presunti o sperati –nonostante tutto vive di obbedienza al commander-in-chief che lo ha raccolto al 4% otto anni fa.
A togliere il sonno al leader è semmai un altro popolo, più silenzioso, più decisivo e più arrabbiato dei dirigenti per la doccia fredda dei sei referendum sulla Giustizia e la debacle astensionista, con il dato record in negativo di una partecipazione al 20,9%.
È il popolo delle migliaia di militanti che per più di un anno, ogni week end, con la pioggia e con il sole, si è riversato in piazza a sventolare depliant, raccogliere firme e sostenere in ogni modo la causa referendaria.
Tutto è iniziato il primo luglio, quando assieme ai radicali la marea di attivisti del Carroccio ha montato i banchetti sulla scia di una solenne promessa del “Capitano”: “Altro che 500mila firme, ne raccoglieremo 5 milioni”. Le firme sono state meno, anche se è impossibile fare stime esatte.
Sì perché, dopo sei mesi di militanza sotto i gazebo, la partita referendaria di Salvini è inceppata in un primo, grande imbarazzo.
Il comitato promotore ha giurato di averne raccolte quattro milioni – 4 milioni e 275mila per l’esattezza – ma la Lega non ha mai depositato le sottoscrizioni popolari: sfruttando una scorciatoia prevista dalla Costituzione (art. 75), Salvini ha preferito far approvare i referendum da nove consigli regionali del centrodestra.
Vicenda chiusa con un rigo al fondo di un comunicato uscito da via Bellerio: “Dopo il via libera della Cassazione, non è più necessario il deposito delle firme previsto per domani”. La mossa ha reso di fatto inutile la lunga ed estenuante campagna di raccolta firme finite al macero.
Suscitando la rabbia non solo del Partito radicale – pronto a depositare le sue firme raccolte al Palazzaccio – ma soprattutto quella del “popolo dei banchetti” che si è chiesto il senso di quella corrida dall’estate all’inverno.
Una delusione che si è riversata sulla seconda fase della campagna quando, da gennaio a giugno, gli stessi iscritti sono stati chiamati a riprendere la battaglia dei referendum per invitare la gente a votare cinque sì.
Non è un caso, confida un parlamentare leghista, se nell’ultimo mese “si è vista nelle piazze meno della metà delle persone presenti l’anno scorso”. Complice lo sconforto per una causa forse “nobile”, come rivendica uno sconsolato Roberto Calderoli, ma certo poco comprensibile all’elettorato del Nord che di questioni “tecniche” come la riforma della Giustizia preferirebbe si occupi il Parlamento.
L’effetto tsunami sul morale dei militanti leghisti – la vera ossatura del partito, quella che lo ha tenuto in piedi anche nei momenti di alta marea – rischia ora di allargarsi alla campagna dei tesseramenti per il 2022. Lanciata a fine febbraio, sta andando a rilento.
Colpa di un ritardo nella roadmap dei congressi locali: ad aprile sono partiti quelli comunali e sovracomunali, in autunno sarà il turno dei congressi provinciali e dunque regionali. Del Congresso nazionale – dove inevitabilmente si andrà alla conta sul segretario – Salvini non vuol sentire parlare prima delle elezioni politiche del 2023.
Per arrivare forte alle urne nazionali e al Congresso il leader dovrà allora recuperare la fiducia della militanza leghista amareggiata dal capitombolo referendario. Anzitutto mettendo un punto fermo sui rapporti nel centrodestra.
Più delle manovre di corridoio,, Salvini ha ben altro di cui preoccuparsi.
(da Formiche.it)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
BORGHEZIO: “ORMAI LA LEGA È SALTATA, E A FARLA SALTARE, ROMPENDO IL RAPPORTO TRA IL PARTITO E LA BASE, TRA IL CERCHIO MAGICO DEL SEGRETARIO E GLI ORGANI TERRITORIALI, È STATO SALVINI. IL LEADER SOSTITUTIVO SI TROVA, DIPENDE SOLO DA QUANDO LO SI VUOLE TROVARE”
Silurare Salvini? La sola ipotesi era ritenuta, fino a prima del voto disastroso della Lega in queste Comunali, non solo blasfema ma impronunciabile, assurda, fuori luogo e fuori tempo. Si è finora detto infatti: il Carroccio è un partito leninista e il capo non si discute mai.
Ecco, adesso Salvini – indebolito e stremato dai suoi errori che sono quelli del viaggio a Mosca, del referendum gestito malissimo e del rapporto indeciso, incerto, altalenante e più di lotta che di governo rispetto all’esecutivo Draghi: e da tutto ciò deriva il tonfo elettorale – si può discutere ma non si può ancora silurare.
È la Lega del leninismo, tipo quella in cui non esiste dirigente che non dica, ma riservatamente: “Matteo non ne azzecca più una”.
Ed è una sconfessione pubblica del leader l’assenza di Giorgetti ieri al vertice in via Bellerio. Così come gli atteggiamenti di Zaia e di Fedriga che vogliono bene a Matteo ma sembrano distanti, nelle loro mezze parole e soprattutto nei loro silenzi, dal segretario.
Che di fatto ormai si muove in una foresta di dubbi, quelli degli altri nei suoi confronti, di recriminazioni (chi come i giorgetti si sostengono che bisogna essere più governativi e chi come il vicesegretario Fontana lascerebbe subito Draghi al suo destino e Salvini indeciso e sbandante dice a tutti: “Accetto consigli” di freddezza e di solitudine. “
Ma se lui si rivolge a tipi improbabili, sconosciuti e pericolosi come Capuano, quello del viaggio in Russia, abbandonando il rapporto con il partito, la colpa di chi è se non sua?”: questo si sente dire in queste ore tra parlamentari lumbard e tra quelli della Lega veneta che sono particolarmente preoccupati della china che sta prendendo il partito salviniano, ovvero della sua tendenza alla sconfitta continua.
Salvini inizia a capire l’antifona. E ripete a tutti: “Non sono certo attaccato alla poltrona, se volete un altro leader basta dirlo”. Ma nessuno gli dice di andarsene, anche perché al momento non c’è nessuno che lo voglia sostituire. E allora nessun siluramento di Matteo? Semmai, un siluramento per gradi.
Uno che se ne intende, Mario Borghezio, leghista doc da sempre, assicura: “Ormai la Lega è saltata e a farla saltare, rompendo il rapporto tra il partito e la base, tra il cerchio magico del segretario e gli organi territoriali, è stato Salvini. Il leader sostitutivo si trova, dipende solo da qua di lo si vuole trovare”. Fedriga? Sarebbe secondo tutti il più attrezzato. La via crucis di Matteo comunque è già cominciata.
Verrà tenuto in piedi fino alle elezioni del 2023, a meno che qualche vicenda legata alla Russia o altri incidenti di percorso non arrivino come tegole sul segretario, ma i maggiorenti del partito, ministri e governatori, non gli faranno fare le liste elettorali solo a lui.
Anzi lo condizioneranno pesantemente nella scelta degli eletti, che saranno pochi con questi chiari di luna e ognuno vuole assicurarsi i propri fedelissimi in una battaglia sui nomi che sarà durissima, perché ognuno vuole attrezzarsi in vista del dopo Salvini. Che in seguito a questo periodo da anatra zoppa potrà essere silurato all’indomani del voto 2023 se dovesse andare male.
E al momento, nessuno si aspetta miracoli di resurrezione nelle urne dell’anno prossimo.
(da agenzie)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
ANCHE AL 60% DEGLI ELETTORI FDI E AL 70% DEI FORZISTI NON FREGAVA NULLA
La maggioranza degli elettori della Lega, nonostante il partito fosse parte del comitato promotore, ha scelto di non votare ai referendum sulla giustizia del 12 giugno, conclusi con l’affluenza più scarsa di sempre (sotto il 21%).
A dirlo è un sondaggio realizzato da Swg su un campione di tremila elettori, da cui risulta che la maggioranza assoluta di chi vota Lega non si è espressa su tre quesiti su cinque: limitazione delle misure cautelari (59%), abrogazione del decreto Severino (57%) e voto degli avvocati nei consigli giudiziari (50%). Negli altri due casi la maggioranza di astenuti è relativa: sia al quesito sulle firme per candidarsi al Csm sia a quello sulla separzione delle funzioni non ha votato il 49% degli elettori del Carroccio (nel primo caso il 42% ha votato sì e il 9% ha votato no, nel secondo il 43% ha votato sì e l’8% no).
Per quanto riguarda gli elettorati degli altri partiti, chi ha votato di meno sono gli elettori 5 Stelle e Pd, che si sono astenuti in percentuali variabili tra il 73% e l’80% a seconda dei quesiti.
Ma è altissima anche la percentuale di diserzione delle urne tra chi vota Forza Italia (un partito che pure si dichiarava favorevole ai referendum): 68% al quesito sulla Severino, 70% a quello sul voto degli avvocati, 71% a quello sulle misure cautelari, 73% a quello sulla separazione delle funzioni, 74% a quello sulle firme per il Csm.
Gli elettori di Fratelli d’Italia (che si era dichiarata contraria ai quesiti su cautelari e Severino, favorevole agli altri tre) si sono invece astenuti tra il 60% e il 62% a seconda dei quesiti.
(da agenzie)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
IL COSTITUZIONALISTA AZZARITI DOPO IL FLOP DEI QUESITI SULLA GIUSTIZIA: “IN PASSATO NON HANNO AVUTO PROBLEMI DI QUORUM I REFERENDUM SU DIVORZIO, ABORTO, NUCLEARE, ACQUA PUBBLICA. TEMI SENTITI, COME SAREBBERO STATI QUELLI DEL SUICIDIO ASSISTITO O DELLA CANNABIS”
Che il referendum sulla giustizia non si sia neppure avvicinato al quorum (l’affluenza al 20,9% è il minimo storico) non sorprende il costituzionalista Gaetano Azzariti: «Una débâcle totale, ampiamente annunciata». Tuttavia lo interroga su cosa fare per salvaguardare questo strumento.
«Abbiamo un istituto di democrazia diretta al quale il popolo non partecipa. È un segnale grave, un problema per la democrazia. Ma la soluzione non può essere solo abbassare il quorum: nessuno troverebbe ragionevole farlo scendere sotto la soglia del 20 per cento».
Professor Azzariti, lei quindi esclude che possa essere utile intervenire sulla soglia di validità per i referendum abrogativi?
«No. Non lo escludo, ma ritengo che l’eccessiva attenzione a questo solo ostacolo abbia distolto dai più logoranti profili che stanno affossando uno strumento decisivo della nostra democrazia. Non di solo quorum vive (o muore) il referendum».
Negli ultimi quindici anni, però, sono fallite otto consultazioni referendarie su nove. In un quadro generale in cui l’affluenza cala in tutte le chiamate al voto.
«Al di là delle statistiche, se domenica l’80 per cento degli aventi diritto ha deciso di non accedere ai seggi, il vero problema è sicuramente il “tipo” di quesito che è stato proposto. Sia in passato sia più di recente, non hanno avuto problemi di quorum referendum su divorzio, aborto, nucleare, acqua pubblica. Temi sentiti, come sarebbero stati quelli del suicidio assistito o della legalizzazione della cannabis, se fossero stati ammessi. Inoltre, dal 2011 i referendum abrogativi falliscono. È vero. Ma a quelli costituzionali, che pur notoriamente non richiedono un quorum, la maggioranza degli italiani ha partecipato. Il referendum è una domanda alla quale si risponde con un sì o con un no. Deve quindi essere univoco, di portata politica e culturale chiara, coinvolgente».
Eppure anche i referendum costituzionali, partecipati dagli elettori, come ricordava, non trattavano temi semplici
«Toccavano la Costituzione, di cui lasciavano percepire al comune elettore uno stravolgimento tale da provocare una reazione, in un senso o nell’altro. Il problema vero è tornare allo spirito principale del referendum».
I cinque quesiti di domenica scorsa non erano sentiti?
«Almeno quattro di quei cinque quesiti riguardano questioni interne alla magistratura e rapporti tra magistratura e altri poteri o soggetti. Solo uno, quello sul carcere preventivo, riguarda direttamente i cittadini.
Non entro nel merito dei quesiti, dico che non sono materie adatte a un referendum. Nessuno di essi si occupa dei problemi fondamentali che ogni elettore percepisce come critici: durata del processo e formazione dei magistrati».
Lei quindi non ritiene che, per non far fallire il prossimo referendum, si possa rivederne il meccanismo?
«In parte. Prima di tutto credo si debba evitare di usare il referendum in termini troppo disinvolti. Quindi penso che un cambiamento debba riguardare più i promotori, compresi i partiti, che le istituzioni».
In che modo?
«Deve cessare l’uso politico del referendum: è stato piuttosto evidente in quest’ultimo caso se si pensa che è stato proposto da nove Consigli regionali benché la competenza sulla giustizia non sia delle Regioni. Una strategia strumentale, utilizzata perché non si erano raccolte le firme sufficienti».
Altri interventi possibili?
«La giurisprudenza sui referendum è piuttosto ondivaga. I quattro criteri fissati dalla sentenza 16 del 1978, redatta dal compianto Livio Paladin, si sono in questi anni moltiplicati e frantumati. Sarebbe auspicabile che la Corte costituzionale definisse una giurisprudenza consolidata sull’ammissibilità. Il Parlamento, poi, dovrebbe rivedere la legge 372 del 1970 che regola lo svolgimento dei referendum. Anche alla luce della normativa che consente di raccogliere le firme per via telematica. La soglia delle 500 mila firme a sostegno dei quesiti sarà molto più facile da raggiungere. La previsione conseguente è che aumenteranno le richieste. Un fatto positivo, ma per evitare l’eterogenesi dei fini si dovrebbero regolare in modo più serrato le condizioni. E poi c’è un altro intervento che può rivitalizzare lo strumento dei referendum».
Quale?
«Sarebbe opportuno assicurare un seguito parlamentare a quelli che ottengono un esito positivo, per evitare che la volontà popolare legittimamente espressa cada nel vuoto, com’ è avvenuto in molte occasioni: dal finanziamento pubblico dei partiti all’acqua bene comune».
(da il Corriere della Sera)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
IL PORTAVOCE: “NON SAPPIAMO DOVE SI TROVI ORA”
L’attivista russo Alexei Navalny, in carcere dal gennaio 2021, sarebbe stato trasferito dalla colonia penale dove era detenuto e ora la sua posizione sarebbe sconosciuta ad avvocati e familiari.
A denunciare il fatto è la sua portavoce, Kira Yarmysh, con una serie di tweet: «Navalny è stato trasferito dalla colonia penale No. 2. Il suo avvocato, che era andato a visitarlo, è stato trattenuto al checkpoint fino alle 14.00 per poi sentirsi dire “Non c’è questo detenuto qui”. Non sappiamo dove si trovi ora e in quale colonia lo stiano portando», ha scritto Yarmysh.
«Ovviamente né i suoi parenti né i suoi avvocati sono stati avvisati in anticipo del trasferimento. C’erano voci che sarebbe stato spostato nella colonia penale di massima sicurezza IK-6 “Melekhovo”, ma è impossibile sapere quando (e se) ci è davvero arrivato», ha continuato nei commenti, raccogliendo la solidarietà dei suoi sostenitori.
Ora, la maggiore preoccupazione del suo entourage è individuarlo il prima possibile, «perché finché non sappiamo dov’è, rimane faccia a faccia con un sistema che ha già cercato di ucciderlo», ha aggiunto la portavoce.
(da agenzie)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
NEI COMUNI OLTRE 15.000 ABITANTI PD 15,7%, FDI 9,4%, LEGA 5,5%, FORZA ITALIA 4,4%
Nel voto di lista emerge un testa a testa tra centrodestra e centrosinistra. Secondo gli ultimi dati elaborati da YouTrend, nel totale dei comuni con oltre 15mila abitanti, la lista più votata è il Pd (15,7%), davanti a Fratelli d’Italia (9,4%), Lega (5,5%) e Forza Italia (4,3%).
La parte del leone, scrive il portale, la fanno però le liste civiche: quelle di centrodestra (che raccolgono ben il 21,8%) ma anche quelle di centrosinistra (20,9%). Nel complesso, le liste di centrodestra ottengono il 41% dei voti validi, contro il 42,1% ottenuto dalle liste della coalizione “giallo-rossa”, in cui però spicca in negativo il dato del M5S, che raccoglie solo il 2,2%.
E sempre guardando i risultati nazionali per lista e area politica nei Comuni sopra i 15mila abitanti il centro ottiene lo 0,6%.
I dati, precisa YouTrend, sono calcolati sul totale dei voti validi nei comuni superiori italiani (esclusi quelli in Sicilia e Friuli Venezia Giulia), e che molti partiti hanno presentato le proprie liste solo in una parte – talvolta una minoranza – dei comuni al voto.
Analoga a quella appena descritta poi è la situazione, sempre elaborata da YouTrend, relativa ai soli comuni capoluogo: qui le coalizioni di centrodestra ottengono il 43% e quelle di centrosinistra il 43,7% e si conferma il forte peso avuto dalla liste civiche sia dell’una che dell’altra coalizione (22,1% e 19,8% rispettivamente).
“Si sta materializzando lo scenario peggiore per la Lega: dietro a Fdi anche al Nord”, sintetizza Lorenzo Pregliasco, fondatore di Youtrend, postando un tweet del suo istituto di ricerca dove si dice che “secondo le proiezione e gli exit poll pervenuti finora, la lista di Fratelli d’Italia sarebbe sopra la Lega nella maggior parte delle città principali, anche nel Nord”.
(da agenzie)
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Giugno 14th, 2022 Riccardo Fucile
CONTE: “NON NASCONDO L’INSODDISFAZIONE”
Molto più di una sconfitta: il crollo generale, anche dove si sperava che “l’effetto Conte” avrebbe limitato le perdite.
Il Movimento 5 stelle esce dalle elezioni amministrative con le ossa rotte quasi ovunque e con la consapevolezza che ora la strada si fa per davvero in salita.
Il dato più eclatante è quello di Palermo: qui non solo il candidato dell’alleanza giallorossa perde al primo turno, ma la lista M5s si ferma al 7,6%. E se la Sicilia avrebbe dovuto essere la roccaforte di voti, la situazione è ancora più drammatica nelle altre città che sono andate al voto.
L’analisi dei dati delle città più popolose è impietosa: il Movimento ottiene il 4,4% a Genova; il 4,3% a Taranto; il 4,2% a Messina; il 2% a La Spezia; l’1,56% a Catanzaro; l’1,2% a Padova; l’1,8% a Pistoia; l’1,22% a Lodi; lo 0,71% a L’Aquila; il 2% a Piacenza.
A Rieti c’è stato un esperimento di lista Conte: si è bloccata allo 0,86%. Tra le pochissime eccezioni: Nola, dove il M5s prende il 12%. In generale risultati che lasciano poche speranze, tanto che oggi sembra credibile anche la profezia del nemico giurato Matteo Renzi sull’addio al simbolo “prima delle Politiche”.
Presto per dirlo, ma per sopravvivere allo choc sarà necessaria una vera e propria scossa dall’alto.
Intanto i vertici 5 stelle ripetono quello che per tanti anni è stato il ritornello: “Alle amministrative siamo sempre andati male” e di “funerali prima del tempo” “ce ne hanno fatti tanti”. Vero. Ma per superare la batosta, questa volta, ci vorrà molto più del Maalox evocato in passato da Beppe Grillo: dopo nove anni in Parlamento, la scusa dello scarso radicamento sui territori non può più bastare. Da Conte è arrivata una prima (debole) ammissione: “I dati non ci soddisfano”, ha detto il leader, “non possiamo accettare giustificazioni di comodo”. E poi cosa farà? I “big” M5s si trincerano dietro il silenzio, ma off the record commentano: “È un bagno di sangue”.
La botta di Palermo e il crollo generale da Genova a Taranto
Il risultato siciliano è quello che fa più male di tutti: l’Isola è stata laboratorio del Movimento 5 stelle per anni e l’impressione, confermata dai sondaggi, è sempre stata che lì ci fosse uno zoccolo duro di sostenitori da cui Giuseppe Conte avrebbe potuto ripartire. Non a caso il leader M5s è stato in prima linea nella campagna elettorale del candidato giallorosso Franco Miceli: l’ex premier è il padre del reddito di cittadinanza e in Sicilia, la Regione fra quelle che più ne beneficia, è stato accolto con grande calore.
Ma niente di tutto questo si è tradotto nelle urne: il 7,6% della lista, se i primi dati saranno confermati, è un risultato peggiore di qualsiasi aspettativa e sotto anche ad Azione di Calenda che prende l’8%.
Cinque anni fa il M5s alle Comunali presentò un suo candidato e la lista prese il 13 per cento delle preferenze. Un paragone improprio, ma da tenere in considerazione, è con le politiche del 2018: il Movimento a Palermo prese quasi tutto con oltre il 44% dei consensi. Un bacino di consensi che oggi sembra completamente prosciugato.
Ma le cose non vanno meglio in altre zone d’Italia. Prendiamo Genova, città del fondatore M5s Beppe Grillo: qui il Movimento oggi si ferma al 4,4%, superato leggermente anche dalla lista Europa Verde-Sansa (5%) e con gli ex M5s di Alternativa (rappresentanti dal senatore Mattia Crucioli) che prendono il 3,5%. Nel 2017, scorsa tornata amministrative, i 5 stelle presero il 18%. In Liguria i 5 stelle vanno malissimo anche a La Spezia (2%), superati pure da Sinistra italiana-Europa Verde (7%).
A Padova, dove il centrosinistra vince al primo turno con un sindaco civico, i grillini si fermano alla soglia dell’1,2 per cento. A Catanzaro, altra terra di accordo con i dem, il M5s fa l’1,56 ed è superato da vari gruppi di civiche.
Molto preoccupante anche il risultato di Taranto: prende il 4,3%, mentre il Pd quasi il 20.
Senza dimenticare che nelle due città dove il centrosinistra sta rivendicando un buon risultato o almeno il vantaggio (Parma e Verona), i 5 stelle neanche si sono presentati con una propria lista e sono di fatto inesistenti.
Infine, osservata speciale è la Campania dove tradizionalmente il M5s (e Luigi Di Maio) va forte. C’è il buon risultato di Nola, ma anche quello che “imbarazza” alcuni di Somma Vesuviana (Napoli): qui il M5s sosteneva il sindaco uscente con altre 6 liste tra cui “Somma al Centro per i giovani”, nata dal partito “Noi Di Centro” fondato dall’ex ministro della Giustizia e leader Udeur Clemente Mastella. Nello schieramento opposto, il Pd.
Conte: “Non mi nascondo”. E annuncia (un’altra) riorganizzazione
Il quadro è desolante per un Movimento che è prima forza in Parlamento e si prepara alla corsa delle politiche. In mattinata il vicepresidente M5s Riccardo Ricciardi ha tentato di addolcire la realtà: “Ho sentito tantissimi funerali dopo le amministrative”, ha detto, “e poi alle politiche succedeva quello che è successo. Siamo sereni, il percorso di rinnovamento messo in atto dal presidente Conte darà i suoi risultati nel prossimo futuro”. Ma nel pomeriggio è stato lo stesso Conte a presentarsi davanti ai giornalisti per ammettere che qualcosa non ha funzionato: “I dati che emergono dalle amministrative non ci soddisfano”, ha detto. “Non possiamo cercare giustificazioni di comodo. Ma c’è dato che mi fa male ed è quello dell’astensionismo”. E ancora: “Le amministrative sono state sempre state un tabù per M5s, a parte qualche tornata come a Torino e Roma. Però non sono qui per nascondermi dietro questa costante storica per il Movimento”. Per cercare di salvare il salvabile, Conte ha annunciato che lancerà un “percorso di completamento dell’azione politica e di organizzazione interna anche per quanto riguarda le articolazioni territoriali”. Perché, ha aggiunto, il risultato delle amministrative dipende anche dai ritardi su questa organizzazione sui territori, “un rallentamento dovuto anche a vicende esogene e a resistenze interne. Anche per le elezioni del Quirinale che oggettivamente ci hanno rallentato nel percorso”.
(da il Fatto Quotidiano)
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