Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
IL TWEET ESPLOSIVO SCRITTO DA LAUREN SANTO DOMINGO, EX COMPAGNA DI SCUOLA ED EX AMICA DELLA FIGLIA DI TRUMP… IVANKA NON HA MAI PARLATO DI AVER EFFETTUATO UN ABORTO: ANZI, HA DEFINITO LA SUA POSIZIONE “DECISAMENTE PRO LIFE”, QUANTA IPOCRISIA
«IvankaTrump, sei particolarmente silenziosa, oggi. Le tue amiche di scuola che ti portarono ad abortire, però, non lo sono». A scriverlo, su Twitter, è stata Lauren Santo Domingo, imprenditrice, ex compagna di scuola ed ex amica della figlia del presidente degli Stati Uniti.
Il tweet – postato nelle ore che hanno seguito la sentenza con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato Roe vs. Wade, la sentenza che garantiva a livello federale il diritto all’aborto — non ha ricevuto reazioni ufficiali da parte di Ivanka Trump.
Lauren Santo Domingo, che ha 46 anni ed è stata molto contestata per il tweet, ha poi deciso di cancellarlo. Alcuni utenti hanno segnalato all’ex amica di Trump come nemmeno l’indignazione per una decisione cui Trump, con le sue nomine di giudici conservatori alla Corte Suprema, ha fornito un contributo decisivo possa giustificare la diffusione di una informazione personale di questo tipo.
Ivanka Trump non ha mai parlato di aver effettuato un aborto: anzi, ha definito la sua posizione «decisamente pro life». «Rispetto tutte le posizioni, su un tema così personale e sensibile», aveva detto nel 2020 al sito RealClearPolitics, «ma sono anche madre di tre figli, e l’esserlo ha influito in modo profondo su di me e sulle mie posizioni in merito. Sono pro life», aveva detto, «e non penso di dovermi scusare per questo».
In una intervista risalente al 1999, Trump si era definito «pro choice», nonostante dicesse di «odiare l’idea di aborto. La odio. Odio tutto ciò che rappresenta. Ma credo nella libertà di scelta».
(da il Corriere della Sera)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
MOLTI OBBLIGAZIONISTI NON RICEVERANNO IL DENARO
Con il termine di oggi scade il mese di grazia di un mese relativo ai 100 milioni di interessi su due obbligazioni, una in dollari e una in euro, in scadenza nel 2026 e nel 2036, che erano attesi dagli investitori lo scorso 27 maggio.
Spiega Bloomberg che se i soldi non arriveranno, come pare sempre più probabile, non ci sarà una dichiarazione ufficiale – tanto che la Russia sta già da tempo contestando il default come una “farsa” – ma nei fatti lunedì mattina ci sarà un “evento di default”, secondo quanto spiegano i contratti obbligazionari stessi.
Si tratterebbe del primo default estero, da quando i bolscevichi ripudiarno i debiti dell’era zarista, nel 1918.
L’agenzia finanziaria americana spiega che si tratta di un passo pressoché simbolico, visto che già da tempo la Russia è tagliata fuori dai mercati internazionali e non si può finanziarie in dollari né in euro, a causa delle sanzioni scattate dopo l’invasione in Ucraina.
Mosca ha faticato a mantenere gli impegni di pagamento sui 40 miliardi di dollari di obbligazioni in circolazione, dallo scorso 24 febbraio. E anche in futuro è difficile ipotizzare quando possa avvenire la “riammissione” al club della finanza occidentale.
A sancire il default dovrebbero essere le agenzie di rating, ma anche in questo caso la loro attività sulla Russia è stata tagliata a causa delle sanzioni.
Bloomberg spiega che gli obbligazionisti potrebbero raggrupparsi per fare la propria dichiarazione, ma potrebbero d’altra parte preferire ed aspettare l’evoluzione della guerra e della reazione occidentale per cercare di capire che chances hanno di rimettere le mani sul denaro.
“Una dichiarazione di default è un evento simbolico”, ha affermato Takahide Kiuchi, economista del Nomura Research Institute di Tokyo. “Il governo russo ha già perso l’opportunità di emettere debito denominato in dollari. Già da ora, la Russia non può prendere in prestito dalla maggior parte dei paesi stranieri”. “Il ‘marchio’ probabilmente aumenterebbe i suoi costi di prestito in futuro”, si spiega. E comunque sarebbe un duro colpo al prestigio della nazione.
Per molti obbligazionisti, il mancato ricevimento in tempo del denaro dovuto sui propri conti costituisce un inadempimento. Non essendo stata specificata una scadenza precisa nel prospetto informativo, gli avvocati sostengono che la Russia potrebbe avere tempo fino alla fine del giorno lavorativo successivo per pagare gli obbligazionisti.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
LO SFRUTTAMENTO DEGLI STAGIONALI IN CALABRIA
Per quindici estati di fila Lidia (nome di fantasia) ha pulito le stanze nei villaggi turistici della provincia di Vibo Valentia. Dodici ore al giorno, sette giorni su sette. Il tutto per 31 euro a giornata.
“Ci trattavano come muli” racconta “Ero arrivata a perdere cinque chili in meno di un mese a causa del lavoro”. Ma l’anno scorso ha deciso di dire basta. “Mi avevano chiesto di pulire la piscina con l’acido muriatico puro senza darmi stivali né guanti”.
Dopo pochi minuti ha iniziato ad avvertire bruciori in gola e a respirare con sempre più fatica. Si è sentita male, ma non è andata in ospedale perché lavorava in nero, senza contratto.
“Lì ho capito che non potevo più andare avanti così”. Lidia ha cambiato lavoro e oggi fa assistenza agli anziani. Quando legge dei lamenti degli imprenditori, che non troverebbero stagionali “a causa del reddito di cittadinanza”, le viene da sorridere. “Chi piange fotte a chi ride“, sintetizza, “ma la verità è che chi può va a lavorare all’estero, e chi non può cerca di cambiare settore. Non siamo più disposti a farci sfruttare”.
La storia di Lidia non è isolata. Sono migliaia i lavoratori e le lavoratrici stagionali che ogni estate vengono impiegati nel settore del turismo in Calabria.
C’è Laura, che pulisce più di 24 stanze di hotel dalle 9 alle 17 per tre euro all’ora. C’è Andrea, che prepara paste e risotti di pesce per cinque ore di fila a più di quaranta gradi di temperatura, e per resistere deve prendere la creatina. C’è Lucia, che lavorava fino a 16 ore al giorno come lavapiatti per quaranta euro, mangiando le rimanenze dai piatti che tornavano in cucina.
Tutti fanno parte del gruppo Facebook “Mai più sfruttamento stagionale – Calabria”, che è nato sul web durante la pandemia per poi trasformarsi – grazie all’Usb calabrese – anche in un’aggregazione reale. “Sentiamo gli imprenditori lamentarsi che mancano gli stagionali a causa del reddito di cittadinanza: ma qui il problema non è il reddito, ma le condizioni e i salari che questi imprenditori offrono” dice Domenico Cortese, militante del sindacato di base.
Cortese ha promosso un sondaggio virtuale su un campione di circa un migliaio di lavoratori. Risultato? Soltanto il sei per cento dichiara di avere un contratto in regola mentre più di un terzo riporta di aver subito infortuni sul lavoro ignorati o nascosti dal titolare.
“Non riuscivo a stare in piedi, ma niente malattia”
Dietro ai numeri, però, ci sono le storie delle persone. “Nel mese di agosto queste cose non devono capitare”. È la risposta che si è sentita dare Laura (nome di fantasia), cameriera ai piani di un villaggio turistico calabrese, quando ha avuto le coliche renali durante la stagione estiva. “Non riuscivo a stare in piedi, ero andata dalla guardia medica che mi ha prescritto le punture e dieci giorni di malattia. Ma la mia superiore non ne ha voluto sapere” racconta
Così, per non perdere il posto, ha dovuto chiedere a sua sorella di sostituirla. “Ma alla fine della stagione non mi è stata pagata la malattia e sono stata lasciata a casa”. L
aura lavorava trenta giorni al mese, dieci ore al giorno. Il salario? Tre euro l’ora, trenta euro al giorno, novecento euro al mese. Ma sulla busta paga erano segnate soltanto quattro ore giornaliere, dalle 9 alle 13.
“La giornata iniziava alle sette del mattino quando preparavo il buffet per la colazione – racconta – poi iniziavamo a pulire le camere”. Anche 24 stanze in quattro ore, dieci minuti a stanza. E poi in giardino, in cucina o dove c’era bisogno: “Avevamo un contratto da addette alle pulizie, ma in pratica eravamo delle tuttofare”. Lavava gli stradoni con l’acido, bagnava le piante, lavava i piatti. “Ci dicevano che se ci fossimo rifiutate di farlo, ci avrebbero lasciate a casa e avrebbero trovato qualcun altro”. In caso di controlli era stata istruita su come rispondere: “Una volta ci hanno fatto nascondere i lavapiatti che lavoravano in nero nelle camere, per evitare che venissero notati”.
La creatina (o l’alcol) per reggere ai fornelli
“Immaginatevi di passare il 15 di agosto a pochi centimetri da una padella con dentro un risotto ai frutti di mare per venti persone. La temperatura supera i 42 gradi. Immaginate di passare cinque ore di fila così senza pause, due volte al giorno, sette giorni su sette”.
Da vent’anni Andrea (anche qui il nome è di fantasia) lavora come cuoco in Calabria. Oggi ha cinquant’anni e, come all’inizio di ogni estate, si augura di “riuscire a finire la stagione”.
Per questo nel corso degli anni ha iniziato ad assumere creatina per reggere quei ritmi. “In tanti bevono, anche durante il servizio, per riuscire ad arrivare a fine turno” spiega al fatto.it.
“Quando ho iniziato vent’anni fa ero senza esperienza ma prendevo più di adesso. Le condizioni degli stagionali sono peggiorate”, racconta in uno dei rari momenti di pausa. Ha iniziato nel 2002 con uno stipendio da 1800 euro e due giorni liberi a settimana. Poi il passaggio a una grande catena di fast food: 1200 euro al mese per quasi settanta ore a settimana come capo cucina.
“In tanti scappano, è semi-schiavitù”
Oggi Andrea lavora in un agriturismo, con il contratto da cuoco del settore agricolo: 1400 euro al mese per cinquanta ore a settimana. Trenta giorni di lavoro al mese, senza riposo. Ma sulla busta paga sono segnati soltanto 15 giorni per 900 euro: “Gli altri 500 me li danno in nero”.
Della tredicesima non c’è traccia, così come del Tfr: “A cinquant’anni non riesco manco a farmi fare un finanziamento per acquistare la macchina a rate”. E se dovessero esserci controlli? “Una volta è successo”, ricorda, “mi hanno fatto sedere allo stesso tavolo del titolare e hanno iniziato a farmi le domande con lui a fianco. Che cosa avrei dovuto rispondere?”.
E così ha continuato a lavorare nello stesso settore, in condizioni che non esita a definire di “semi-schiavitù”. Oggi però, nota, qualcosa sta cambiando. “Tanti stanno scappando dal settore della ristorazione e non sono più disposti a lavorare a quelle condizioni”. Anche grazie al reddito di cittadinanza, che “ha permesso alle persone di uscire dal ricatto ed essere inserite in un mercato lavorativo diverso da quello degli stagionali”.
Anche Lucia (nome di fantasia) lavora in un agriturismo che produce succhi di frutta biologici. Un’eccellenza nel campo della sostenibilità del prodotto, un po’ meno in quello delle condizioni di lavoro. Sul suo contratto sono segnate un centinaio di giornate lavorative all’anno, ma in realtà sono più del doppio. Così non riesce a ottenere i bonus fiscali e matura meno contributi rispetto a quelli che dovrebbe avere. Nella stagione estiva si occupa della gestione dell’agriturismo: pulire le stanze, preparare la colazione, lavare le lenzuola. Sette ore di lavoro al giorno per 35 euro. Ottocento euro al mese, 350 in busta paga. “E si lamentano pure che quest’anno non trovano personale per colpa del reddito di cittadinanza”.
Dopo la nascita sul web, la rete calabrese ha iniziato a organizzare iniziative anche in presenza. Volantinaggi nei luoghi del turismo e assistenza nelle vertenze dei lavoratori. Oggi il gruppo “Mai più sfruttamento – Calabria” raccoglie un migliaio di stagionali che nelle scorse settimane hanno risposto al sondaggio proposto dall’Usb, per provare a dare una visione d’insieme delle condizioni di lavoro nel settore. Il quadro che emerge è quello di uno sfruttamento diffuso. Un lavoratore su cinque dichiara di lavorare in nero, il 64,2% ha ammesso di fare più ore rispetto a quelle previste dal contratto e soltanto il 6,3% afferma di avere un contratto in regola. Alla domanda “Hai mai ricevuto ricatti relativi al lavoro?” solo il 37,5% dichiara di non averne subiti, mentre più di un lavoratore su tre ha dichiarato di essere stato costretto a far finta di niente dopo un infortunio. E quando si parla di retribuzione, più della metà dei lavoratori dichiara di essere pagato meno di cinque euro l’ora. La vera domanda che andrebbe fatta ai datori di lavoro, conclude Cortese, è questa: “Se il tuo dipendente di due anni fa fosse stato pagato in regola, non avrebbe avuto un Isee così basso da prendere il reddito di cittadinanza. Dunque, se pensi che quest’anno non è venuto a lavorare per colpa del reddito, significa che non lo pagavi abbastanza, o lo pagavi in nero”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
“ASPETTO DA 30 ANNI, HO TUTTI I DOVERI E NESSUN DIRITTO. COSI’ LA POLITICA MI UMILIA”
Omar aveva soltanto sei mesi quando si è trasferito con i genitori dalla Tunisia a Sutri, in provincia di Viterbo. “Un piccolo paesino, ma per me è un ‘pezzo de’ core’ “, racconta orgoglioso, in dialetto romanesco. Eppure, aspetta da 27 anni di essere riconosciuto dall’Italia.
Accanto a lui c’è Sonny, che non ha mai ricevuto una risposta alla sua domanda, ancora senza cittadinanza a 36 anni pur essendo nato e cresciuto a Roma, città dove ha studiato e lavora, come ballerino, scrittore e da alcuni ani attivista e volto della campagna per la cittadinanza.
Madhobi Tasaffa invece è arrivata da Dacca, la capitale dal Bangladesh, quando aveva appena un anno e mezzo. “Sei anni di attesa, senza ricevere alcuna comunicazione, poi all’improvviso una mazzata“, lo scorso anno, racconta. “La mia richiesta di cittadinanza è stata respinta“. Il motivo? Colpa di sei mesi di interruzione nel requisito della continuità di residenza. Forse un errore, in realtà, perché lei non si è mai spostata altrove in quel periodo. Ma tanto è bastato per sentirsi esclusa, ancora una volta. Respinta dal Paese che sente suo. E dove presto diventerà madre.
Sono soltanto alcune delle storie di tanti ragazzi e ragazze, figlie e figli di immigrati, giovani di seconda generazione.
Un milione di italiani, di fatto, ma senza diritti, che il nostro Paese fa ancora finta di non vedere. “Se si nasce in un Paese che non ti riconosce, si fa fatica, soprattutto se dalle istituzioni percepisci un sentimento di respingimento. Se non ti permettono di abbracciare il tricolore, qualcuno ti porterà ad abbracciare altri valori. E allora mi chiedo perché la politica non si sbriga a far sentire questi ragazzi italiani fin dalla nascita?”, attacca Sonny, che da anni porta avanti la battaglia degli ‘Italiani senza cittadinanza’.
Cinque anni fa c’era anche lui, tra le tribune di Palazzo Madama, quando veniva affossata la riforma dello Ius soli temperato. È da allora che attende un segnale di vita da un Parlamento rimasto immobile a quel fallimento, a un provvedimento prima approvato dalla Camera nel 2015, poi dimenticato, dai governi Renzi e Gentiloni.
Sacrificato sull’altare della governabilità e del timore di perdere consensi elettorali, tra referendum e Politiche in arrivo. Scomparso dal calendario dei lavori, fu esposto alla farsa dell’approdo a Palazzo Madama nell’ultima seduta della legislatura, per una discussione nemmeno iniziata per mancanza del numero legale. Ora, però, dopo anni di nulla, tra l’ostracismo di Lega, Fratelli d’Italia e destre e il silenzio di Pd e progressisti, qualcosa sembra muoversi. Perché a Montecitorio è atteso l’inizio della discussione del provvedimento sullo Ius Scholae, proposta di legge presentata dal presidente della Commissione Affari Costituzionali, il deputato M5s Giuseppe Brescia.
Permetterebbe a chi nasce in Italia da genitori stranieri, residenti regolari, o a chi arriva entro e non oltre i 12 anni di età, di poter acquisire la cittadinanza dopo aver frequentato un ciclo scolastico quinquennale. O su richiesta dai genitori, o dello stesso minore, entro due anni dal compimento del 18esimo anno di età. Un disegno di legge ora atteso nell’Aula di Montecitorio.
Almeno per ora, perché dopo le barricate annunciate da leghisti e meloniani, il provvedimento prima calendarizzato per il 24 giugno, è già slittato di una settimana quasi, al 29 giugno. Data nella quale dovrebbe partire finalmente la discussione generale, per un testo che in commissione ha avuto anche il sostegno di Forza Italia.
Domani in Aula, chissà. Perché la legislatura è di nuovo nel suo rettilineo finale, la campagna elettorale già iniziata. E nessuno, tra i partiti, propaganda a parte, sembra crederci davvero. Senza considerare come, tra pausa estiva e futura legge di bilancio da approvare, i tempi saranno ridotti.
Ci sperano lo stesso tanti ragazzi e ragazze, pur temendo di rivedere le stesse scene di cinque anni fa. “Già questo nuovo slittamento è un segnale di come manchi la volontà politica di andare davvero avanti, temo che finirà di nuovo con un nulla di fatto“, non si illude Madhobi Tasaffa.
Ma Omar Neffati, portavoce di Italiani senza cittadinanza insiste, questa volta non intende mollare: “Ci spieghino cosa toglie agli altri ampliare un diritto. A Salvini e Meloni dico che siamo come loro, siamo anche noi l’Italia. Ma nessuno faccia più propaganda sulla nostra pelle, da una o dall’altra parte. Servono fatti”, rivendica.
“Questa storia già la conosciamo, ma discutere e approvare questo provvedimento sarebbe il minimo. Rischio di un compromesso al ribasso? C’è il pericolo se il dibattito sulla cittadinanza si fermasse qui, invece lo Ius Scholae deve essere il primo passo, per un’alba di nuovi diritti”, concorda Sonny. Certo, precisa, dopo 30 anni di attesa dal ’92, anno di approvazione della legge sulla cittadinanza, “legare questo diritto soltanto a un ciclo scolastico è obiettivamente poco. Ma migliorerà comunque la vita di tanti minori e ragazzi”.
Rinviare ancora una volta sarebbe una beffa, anche perché i numeri del prossimo Parlamento rischiano di essere ancora peggiori per sperare in una riforma. Il percorso però, resta a dir poco complicato: tra centinaia di emendamenti, in gran parte provocazioni o semplici tentativi di rallentare l’iter (come già avvenuto in commissione), e la battaglia annunciata da Lega e FdI, ottenere il via libera dei due rami del Parlamento sembra un’utopia.
“Serve un passo in più, bisogna che la legge sia retroattiva. Chi come me ha già frequentato questi cicli scolastici in passato, è per ora in un limbo, in un eterno paradosso”, rilancia Omar. Altrimenti, per tante persone anche un’eventuale approvazione della legge non garantirebbe la possibilità di ottenere la cittadinanza. Proposte di modifica al quale già in commissione hanno lavorato Pd, LeU e Iv, per sanare le situazioni pregresse, allargare la platea, prevedere anche i corsi universitari nel ciclo di studi.
“Oggi sognare ci è impedito. Volevo entrare a far parte dei Carabinieri, ma senza cittadinanza non era possibile. Mi sono sentita umiliata. Ora non vorrei che mio figlio sia costretto a rivivere lo stesso trauma e dover attendere fino a 18 anni, burocrazia permettendo, per poter diventare italiano”, racconta Madhobi Tasaffa. Racconta i suoi diritti negati, ma continua a sorridere.
Omar invece ricorda quando, emozionato, portò gli amici fino alla porta del seggio per votare, dove si era dovuto fermare: “Avevo messo tutto me stesso in quella prima campagna elettorale, ma votare non mi era permesso. Ma come fai a essere libero se non puoi partecipare?”.
Eppure, si sforza di restare ottimista: “Penso a Ugo Foscolo e alla sua ‘A Zacinto’, quando parlava della sua terra che non poteva più toccare. Ecco, per me l’Italia è come Zacinto, non posso toccarla, solo sfiorarla. Quasi come se fosse un amore non corrisposto. Ma è solo questione di tempo, sono convinto che presto saremo italiani a tutti gli effetti“.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
“SIAMO ANDATI VIA ANCHE PER L’ECCESSO DI AUTORITARISMO E LA MANCANZA DI UN CONFRONTO INTERNO AUTENTICO. LUCIA AZZOLINA COME ME ED ALTRI, NON È STATA MESSA IN CONDIZIONE DI POTER DARE IL SUO CONTRIBUTO AD UN NUOVO CORSO MAI INIZIATO”
«Avremo modo di dimostrare che a tradire è chi è rimasto», ragiona Vincenzo Spadafora, ex sottosegretario grillino e appena nominato coordinatore politico di «Insieme per il Futuro», il gruppo parlamentare dimaiano staccatosi dall’M5S. «Ci siamo assunti la responsabilità di tenere più saldo e più fermo il governo», aggiunge.
Uno strappo impensabile sino a qualche giorno fa. Non solo per i modi ma anche per i numeri di chi ha aderito al vostro progetto politico.
«Ci sarebbe da fare un’analisi su cosa è accaduto nel Movimento nell’ultimo anno da portare 60 persone, ma sono convinto che nelle prossime ore aumenteranno, a lasciarlo. Noi stavamo vivendo una fase di maturità, da un anno a questa parte, dove senza rinnegare quello che ha rappresentato il Movimento per questo Paese, si potesse imparare dagli errori per presentarci in modo più credibile agli elettori»
Ma con chi interloquirete nelle prossime settimane? Si fanno i nomi, oltre che del sindaco Sala come ha detto lei, di Renzi, Toti o Brugnaro o dei moderati di Fi legati alla ministra Carfagna.
«Credo che si facciano troppi nomi: la nostra priorità oggi è costruire un progetto politico, trasformare un’operazione parlamentare in un progetto serio, concreto che parli il linguaggio della verità, proponendo ai cittadini non più slogan ma soluzioni complesse a problemi complessi».
Ma quest’ area Draghi, chiamiamola così, questo grande centro, non vede troppi aspiranti leader? Mi riferisco a Di Maio e a quelli che le ho citato prima. Riusciranno a interloquire superando vecchie divisioni? Calenda ha un profilo incompatibile per carattere con Renzi e Di Maio.
«Siamo andati via anche per l’eccesso di autoritarismo e la mancanza di un confronto interno autentico. Luigi Di Maio è un leader maturo a cui però non interessa costruire un partito personale ma un progetto collettivo che superi gli errori del passato».
Clemente Mastella parla di un centro che, in ipotesi, sarebbe capace di avere un peso del 20 per cento. Ma in politica non sempre si sommano i voti e le avventure al centro spesso si sono rivelate velleitarie. A proposito, lei che è campano: Mastella può essere un alleato in questa avventura?
«Oltre a non dover nascere nel Palazzo, le forze politiche non possono nascere nemmeno in laboratorio, anche perché la ricetta del centro la cercano in tanti da anni senza trovarla. Sono convinto che partendo dai sindaci, dai territori e soprattutto dai temi potremo dare vita ad una forza in grado di attrarre chi ne condivide i principi e i programmi, e la disponibilità al confronto ed al dialogo deve essere ampia».
Ma come vi regolerete in futuro con i vecchi amici dell’M5S? Conte ad esempio confermava l’alleanza del campo largo con il Pd per le prossime regionali nel Lazio, dove i consiglieri sono rimasti tutti grillini. Voi sareste in quest’ alleanza o ci sono preclusioni contro l’M5S?
«Vedremo come evolverà il quadro politico generale che, francamente, credo possa mutare ulteriormente. E poi dovremo verificare la tenuta dell’M5S da qui alle elezioni perché credo che la forza propulsiva del Movimento sia completamente finita e rischia non arrivarci neppure alle elezioni».
E in Campania? Da tempo c’è un rapporto tra Di Maio e De Luca: possiamo immaginare una vostra entrata nella maggioranza della Regione?
«Un passo alla volta, non è un tema all’ordine del giorno. Ma sicuramente dobbiamo lavorare in maniera costruttiva per dare risposte al nostro territorio».
Ora c’è un cambio di passo: De Luca è passato dagli insulti agli elogi verso il ministro degli Esteri. Eppure ci sono differenze enormi che vi dividono. L’ex sindaco di Salerno, ad esempio, nega l’esistenza della Terra dei Fuochi mentre voi siete nati con quella battaglia ambientale. Si cancella tutto?
«Non è che ora De Luca e Di Maio si sentono tutti giorni. Anche perché non c’è stato né il tempo, né l’occasione: è accaduto tutto molto velocemente. Possono aprirsi nuovi scenari, vedremo, ma a 48 ore dalla nostra nascita è prematuro parlarne. Ovviamente il cambio di passo su Luigi da parte di De Luca lo registriamo con grande piacere. Poi su alcune tematiche, le cose dette restano tali. Il futuro è tutto da vedere».
Rimarrà il nome Insieme per il futuro o è provvisorio?
«È il nome del nostro gruppo parlamentare. Il progetto politico che ne deriverà avrà senz’ altro un nuovo nome che decideremo insieme a chi farà il percorso con noi. Ma prima il progetto politico e poi il nome».
Come si sente dopo quest’ addio all’M5S? Quali sono i suoi sentimenti per l’abbandono di un partito dove ha militato per anni? E la feriscono gli attacchi, anche personali verso di voi, da parte dei vecchi compagni di squadra?
«Gli attacchi degli ex compagni erano prevedibili. Anche se poi in realtà molti di loro in privato manifestano comunque l’enorme insoddisfazione per l’incapacità di Conte di avviare un nuovo percorso e sono convinto che presto altri si uniranno al nostro progetto. Invece mi colpisce ovviamente la delusione di quanti pensano che abbiamo tradito un sogno. Avremo modo di dimostrare che a tradire è chi è rimasto».
Un paio di parlamentari ci hanno subito ripensato e sono tornati con Conte.
«Ma ci sono altri arrivi. Come Lucia Azzolina: sono molto felice della sua scelta. La stimo moltissimo come donna e come politica e so quanto lavoro ha fatto per il bene della scuola. Il paradosso è che quel lavoro gli viene riconosciuto proprio da gran parte di quel mondo ma lei, come me ed altri, non è stata messa in condizione di poter dare il suo contributo ad un nuovo corso mai iniziato».
Come vi regolerete nel vostro gruppo con il vincolo del doppio mandato che è stato un altro motivo di frizione all’interno dell’M5S alla vigilia della scissione?
«È stato creato questo gruppo da appena 48 ore e non c’è stato, ovviamente, il tempo di discutere di diverse cose. Ed è giusto così, altrimenti avrebbe ragione Conte convinto che ne parlassimo nell’ombra da diversi mesi…».
Non teme che la vostra possa apparire all’esterno come una mera operazione di ceto politico?
«Tutto è nato su un dibattito di politica estera. Ci saranno tempi e modi per tutto. Soprattutto per costruire e radicare il nostro progetto politico».
(da il Messaggero)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
CHI E’ NEL “CENTRO” VORREBBE UN UN “QUORUM” BASSISSIMO PER NON ESSERE TAGLIATI FUORI… ALTRI UNO SBARRAMENTO AL 5 PER CENTO… CONTRARI PD E FRATELLI D’ITALIA”
Come era prevedibile, le convulsioni di un sistema politico in affanno s’ incrociano con poche certezze e vari punti interrogativi sul prossimo futuro. La principale certezza riguarda il ruolo crescente del premier Draghi in Europa, favorito dal relativo indebolimento di Macron in Francia e dall’apparente carenza di “leadership” del tedesco Scholz.
Pur senza condividere i commenti più entusiasti, che arrivano a paragonare Draghi ad Angela Merkel, si deve riconoscere che l’Italia ha guadagnato una sua centralità negli affari europei: lo si vede rispetto all’Ucraina e al suo rapporto con l’Unione, e se ne ha conferma nelle discussioni sul prezzo del gas. Le tesi italiane trovano spesso ascolto e riscontro.
E questo senza avere un peso equivalente alla Germania durante la lunga era Merkel. Lungi dal sostenere che l’Italia sia diventata il perno degli equilibri europei, è vero che oggi essa rappresenta un fattore di stabilità, avendo trasformato il duopolio franco-tedesco in un triangolo che comprende Roma.
Era la norma in tempi lontani, con assetti politici meno incerti di ora. Cosa significa tutto questo? Che nel 2023 il tema della permanenza di Draghi alla guida dell’esecutivo si porrà inevitabilmente.
Conta, è ovvio, il risultato delle elezioni, ma conterà senza dubbio anche il voto dell’Europa, specie se la situazione internazionale resterà critica.
È un dato di realtà che qualcuno non vuole ammettere, ma tutti sanno che è così. Del resto, anche i tempi delle elezioni sono abbastanza definiti. L’ipotesi che si allunghi la legislatura per favorire la tornata di nomine pubbliche in scadenza ad aprile, risulta senza fondamento.
La legislatura finisce nell’ultima settimana di marzo e a quel punto il governo sarà in carica solo per l’ordinaria amministrazione, con la data del voto collocata intorno a metà-fine maggio.
Quanto ai punti interrogativi, ce ne sono diversi. Prendiamo l’argomento scabroso della legge elettorale. Dopo la scissione di Di Maio, c’è chi pensa che sia matura la riforma in senso proporzionale. Non è proprio così. E non solo perché l’area centrista – chiamata in modo non sempre appropriato “area Draghi” – è segnata da profonde rivalità personali. Ma per due buone ragioni.
La prima è che protagonisti o comprimari del “centro” vecchio e nuovo vorrebbero un proporzionale con un “quorum” bassissimo per non essere tagliati fuori.
Viceversa, l’ipotesi realistica, nella remota eventualità che si discuta la riforma, è una via alla tedesca: sbarramento al 5 per cento, così da non arrendersi alla polverizzazione ricattatoria.
La seconda ragione è la contrarietà dei due partiti maggiori. Letta non ha abbandonato l’idea del “nuovo Ulivo” e il proporzionale lo porterebbe in altri territori. Si troverebbe a dover trattare dopo il voto con una serie di alleati minori ma agguerriti. La stessa Giorgia Meloni, come è noto, è diffidente verso il proporzionale, a maggior ragione oggi che i sondaggi la vedono saldamente in testa.
Peraltro – ultimo interrogativo – la leader di FdI è di fronte a prove difficili che riguardano la gestione del centrodestra. E pesa ancora il fallimento di Roma, dove FdI presentò il bizzarro Michetti. Come dire che lo scollamento del sistema riguarda tutti.
(da La Repubblica)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
CIRCA LA METÀ DEL MILIONE E 81 MILA DIPENDENTI CHE HANNO RASSEGNATO LE DIMISSIONI NELL’ULTIMO ANNO, HA LASCIATO SENZA UN’OCCUPAZIONE “PARACADUTE” … C’È UN INCREMENTO TRA ADULTI, LAUREATI E TUTTI I LAVORI QUALIFICATI… IL MOTIVO PRINCIPALE? CONCILIARE MEGLIO VITA PRIVATA E LAVORO
La notizia più recente è quella arrivata ieri dal Friuli-Venezia Giulia dove tra gennaio e marzo di quest’ anno le interruzioni dei rapporti di lavoro sono aumentate di oltre il 50%. Passando così da 20.400 a ben 31.300 nella Regione, ma raggiungendo la quota monstre di 306.710 a livello Paese (+35% rispetto al 2021).
I numeri sono stati diffusi da Alessandro Russo, ricercatore dell’Ires Fvg, che ha rielaborato i dati Inps.
«Le dimissioni dei lavoratori son sempre più diffuse» si legge in una nota Ires, «e costituiscono la motivazione di gran lunga principale dell’interruzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato». E se nel 2014 le dimissioni davano conto di poco meno della metà di tutte le cessazioni, a partire dal 2021 la loro incidenza supera il 75% (nei primi tre mesi del 2022 è stata del 76,5%).
Le cessazioni di natura economica hanno un peso sempre minore, da quasi il 40% nel 2014 a valori prossimi al 10% nell’ultimo biennio, «anche per effetto del blocco dei licenziamenti introdotto dal governo». Insomma analizzando i numeri in oltre 70 casi su 100, in Friuli-Venezia Giulia, sono gli stessi dipendenti ad abbandonare il posto di lavoro, trattasi quindi di dimissioni puramente volontarie.
Un fenomeno – osservato non soltanto in Italia, ma anche in diversi altri Paesi come ad esempio gli Stati Uniti – particolarmente caldo in quest’ ultimo periodo e che, sicuramente, è stato influenzato sia dai due anni di pandemia che hanno completamente squassato il pianeta sia dalla possibilità di trovare un lavoro a distanza, da remoto.
Si è poi visto che nella maggior parte dei casi l’abbandono e la successiva ricerca di un nuovo impiego è legato alla voglia di aver un maggior bilanciamento tra vita privata e lavorativa che porti a un miglioramento dell’esistenza, dei rapporti familiari, ma anche la situazione psicofisica di ciascuno. Molti di quelli che hanno optato per questa scelta sono lavoratori dipendenti che hanno scelto di guadagnare persino meno e hanno deciso di aprire un’attività in proprio per gestirsi meglio il tempo.
Ma in questo grande piccolo esercito di dimissionari c’è persino – e sono parecchi – quelli che hanno detto addio al posto di lavoro senza aver alcun tipo di paracadute. Trovandosi così, magari anche a distanza di parecchi mesi, senza aver ancora in mano un nuovo contratto di lavoro.
È questo il dato che emerge da un recente studio realizzato da Fondazione Consulenti del Lavoro che ha preso in considerazione le dimissioni avvenute nei primi nove mesi del 2021.
Cessazioni che han riguardato ben un milione e 81 mila i dipendenti. È saltato fuori che quasi uno su due (circa 500mila) dopo aver rassegnato le dimissioni, non ha più un contratto attivo perché alla ricerca di un’altra occupazione.
Ma chi sono i lavoratori che si dimettono volontariamente alla ricerca di una vita migliore?
Dall’indagine “Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa e nuovo lavoro” di Fondazione Consulenti del Lavoro, basata sui dati delle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è venuto a galla che si tratta di un fenomeno trasversale da diversi punti di vista. I dimissionari non sono infatti soltanto giovani, con un basso livello di istruzione e residenti al Nord, ma che c’è un incremento tra i segmenti tradizionalmente meno interessati, in particolare adulti, laureati e tutti i lavori qualificati.
E il boom delle dimissioni volontarie ha riguardato in particolare gli States dove, solo nel mese di marzo di quest’ anno, sono stati ben 4,5 milioni gli americani che hanno lasciato o cambiato lavoro, dopo gli oltre 47 milioni di lavoratori che hanno scelto di abbandonare l’impiego nel 2021. Ma qui, anche in vista della probabile recessione economica, il fenomeno ora sembra smorzarsi parecchio.
(da Libero)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
“A VERONA IL FATTO CHE FEDERICO SBOARINA ABBIA DECISO DI NON APPARENTARSI CON LE LISTE DI FLAVIO TOSI È UNO SBAGLIO CLAMOROSO”
«Sono un po’ preoccupato per il dato dell’affluenza di domani (oggi, ndr). Siamo a fine giugno e non permettere agli italiani di votare anche di lunedì è stato un errore. Incrocio le dita per Monza e Sesto San Giovanni».
Sarà che dalla terrazza dell’hotel di Rapallo in cui ha appena trascorso la notte si vedono i turisti che vanno e vengono da Santa Margherita e da Portofino, sarà che Matteo Salvini sa benissimo che gli elettori di centrosinistra sono storicamente più «fedeli» alla causa e disposti a sacrificare una domenica al mare per votare, sta di fatto che il leader della Lega non nasconde un certo nervosismo in vista dei ballottaggi.
«Io punto sulla Toscana, Lucca e Carrara ci daranno delle soddisfazioni – il pronostico, mentre è in pausa caffè fra la sala stampa e i corridoi del convegno nazionale dei Giovani di Confindustria – .Per il resto so che i nostri hanno fatto tutto il possibile. E non penso solo al grande lavoro fatto da Riccardo Molinari ad Alessandria». Sì, «i nostri».
Il vero cruccio di Salvini in queste ore, riguarda infatti quello che hanno fatto «gli altri», ovvero gli alleati di Fratelli d’Italia.
«A Verona il fatto che Federico Sboarina abbia deciso di non apparentarsi con le liste di Flavio Tosi è uno sbaglio clamoroso. E lo dice uno che Tosi lo ha espulso dalla Lega e che di certo non è uno dei suoi migliori amici – ammette Salvini -. Non entro nelle dinamiche interne degli altri partiti ma da quello che mi risulta i vertici nazionali di Fratelli d’Italia hanno anche detto al sindaco di ripensarci, ma lui e i suoi hanno tirato dritto rinunciando a un accordo che avrebbe portato in dote il 23%. Vi sembra sensato rischiare di perdere per non rinunciare a qualche posto in consiglio comunale? Mah».
È chiaro che l’idea di consegnare Verona, che oltre che essere una realtà storicamente di centrodestra è anche la città del suo braccio destro Lorenzo Fontana, al centrosinistra, gli dà parecchio fastidio.
Come gli sembra impossibile che il centrodestra a Piacenza, dove la sfida è testa a testa, non sia riuscito a raggiungere un accordo con i liberali dell’avvocato Corrado Sforza Fogliani, un combattivo ottantaquattrenne che solo pochi anni fa aiutò l’attuale sindachessa di centrodestra, Patrizia Barbieri, a muovere i primi passi in politica, e che oggi avrebbe portato in dono un più che significativo 8%.
Per non parlare di Como, dove Fdi, guidata dal deputato Alessio Butti, ha posto il suo veto alla ricandidatura del sindaco uscente e ha scommesso su un altro nome, riuscendo nell’impresa di non accedere nemmeno al secondo turno.
Oggi la partita se la giocano Barbara Minghetti (centrosinistra) e il civico Alessandro Rapinese. «Non so davvero cosa augurare ai comaschi» lo sfogo di Salvini, che pure a Como è da sempre legato visto che lì risiede la sua ex compagna Giulia Martinelli, capo di gabinetto del governatore Attilio Fontana in Regione Lombardia.
Già, la Lombardia. A rovinargli il weekend ligure a base di scorpacciate di focaccia e di bagni nel mare di Recco, dove va in vacanza fin da quand’era ragazzo, c’è anche quello che sta succedendo nella «sua» Milano.
Venerdì, dopo settimane di indiscrezioni, la vicepresidente Letizia Moratti ha annunciato ufficialmente di essere pronta a candidarsi alle elezioni regionali del prossimo anno. Un bell’ostacolo sulla strada di chi vuole un bis del presidente leghista Fontana. «Letizia Moratti è un assessore di centrodestra di una giunta di centrodestra con un governatore di centrodestra. Non ho mai visto un vicesindaco che corre contro il suo sindaco».
Poi, però, passa la palla direttamente a Fontana, lasciando intendere in modo un po’ sibillino che toccherà a lui sbrogliare la matassa: «Se deciderà di ricandidarsi l’appoggio della Lega andrà al governatore». Quanto a un’eventuale candidatura da indipendente dell’ex prima cittadina di Milano, ipotizzata qualche settimana fa anche da un mezzo endorsement in suo favore di Carlo Calenda, l’unico commento è un laconico: «Speriamo di no». Arriva il suo turno di parlare.
Il segretario della Lega sistema il nodo della cravatta e la spilletta «identitaria» dell’Alberto da Giussano e si dirige verso il salone dove lo attendono i giovani confindustriali. Bastano pochi minuti e dal palco spiazza tutti: «La prima centrale nucleare italiana? Fatela a Milano, a casa mia, a Baggio». Un bel titolo sui siti web a costo zero. Tanto a Milano si voterà fra cinque anni e Sesto San Giovanni e Monza, dove oggi si sceglie il sindaco, sono dalla parte opposta del capoluogo rispetto al quartiere di Salvini.
(da la Stampa)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
UN ALTRO CRIMINALE DEGNO DEL SUO PAESE: IN PASSATO È STATO ANCHE ARRESTATO (MA POI GRAZIATO)
Accade spesso nelle guerre che, se le cose non vanno come previsto, chi le ha decise scarichi la colpa sui generali dell’esercito, i quali sono facili da rimuovere e sostituire. Il presidente russo Vladimir Putin ne ha già silurati più di qualunque altro autocrate guerriero della storia, ma l’ultima purga, decisa pochi giorni fa, sta causando molte preoccupazioni nelle intelligence occidentali.
Secondo il ministero della Difesa britannico, al comando delle operazioni in Ucraina ci sarà ora il colonnello-generale Sergei Surovikin, i cui modi sbrigativi sono già stati sperimentati in Siria con ampia soddisfazione del Cremlino. Secondo il rapporto dei servizi britannici, dall’inizio di giugno Putin ha rimosso dai ruoli di comando operativo in Ucraina alcuni altri ufficiali, tra i quali il generale Alexander Dvornikov, comandante dell’esercito meridionale, e il colonnello-generale Andrei Serdyukov, comandante delle forze aviotrasportate.
§Quando un capo di stato non si fida più dei suoi generali, deve mettere al comando qualcuno di più simile a lui, con il quale possa capirsi al volo. Sergei Surovikin, la cui carriera è costellata di brutalità e di accuse di corruzione, è stato dunque scelto secondo quanto riferisce il ministero della Difesa britannico per sostituire Dvornikov e guidare le attuali operazioni sulle coste del Mar Nero.
Se Putin vuole chiudere in fretta il conflitto, Surovikin sembra l’ufficiale più adatto. Nel 2017 in Siria aiutò le truppe di Assad a riprendere in pochi mesi il controllo del 50% del territorio del Paese e le sue campagne militari impressero una svolta alla guerra. Di certo, se si vuole fare in fretta, non bisogna andare tanto per il sottile. Nell’agosto del 1991, nel pieno del golpe contro Michail Gorbaciov, comandò un battaglione che doveva fermare i manifestanti in un tunnel di Mosca: i soldati spararono e ne uccisero tre. Arrestato dopo il fallimento del golpe, fu poi graziato dal nuovo presidente Boris Eltsin perché «stava solo eseguendo gli ordini».
Nel 1995 Surovikin fu condannato dal tribunale militare a un anno di libertà vigilata per vendita illegale di armi, condanna poi annullata perché si poté accertare che si trattava solo di una pistola prestata ad un amico. In molti altri casi è riuscito a evitare processi e condanne: nel 2004 un colonnello, Vktor Chibizov, lo accusò di averlo picchiato dopo una discussione politica, e nello stesso anno il colonnello Andrei Shtkal si sparò in sua presenza esasperato dalle continue critiche che riceveva.
In entrambi i casi, il procuratore militare non trovò addebiti da muovere a Surovikin.
Brillante anche nelle azioni militari in Cecenia, il nuovo comandante delle operazioni sul Mar Nero ha nel suo curriculum anche la creazione della polizia militare russa ed è stato nominato nel 2017 comandante delle forze aerospaziali, la nuova importante branca dell’esercito con la quale si combatteranno le guerre del futuro.
Alle parate sulla Piazza Rossa, la divisa di Surovikin è quella con più medaglie: è Eroe della Federazione Russa, ha ricevuto tre volte l’Ordine della Stella Rossa, l’Ordine del Merito Militare e l’Ordine del Coraggio. La nomina in Ucraina rafforza le voci secondo le quali sarà presto lui a prendere il posto del Capo di Stato Maggiore delle forze armate Valery Gerasimov, messo in naftalina da Putin insieme a tanti altri generali: Serhiy Kisel, sospeso per non aver preso Kharkiv, il viceammiraglio Igor Osipov, rimosso dopo la perdita dell’incrociatore Moskva, il comandante della Sesta armata, Vladislav Ershov, quello della Ventiduesima, Arkadij Marzoev, e il vice-ammiraglio Sergej Pinchuk, che figura ancora sotto inchiesta.
È sparito dalla circolazione anche Sergei Beseda, il capo dei servizi segreti colpevole di avere fatto credere che Kiev sarebbe caduta in poche ore. La mancanza di scrupoli di Surovikin potrebbe avere successo dove altri hanno fallito, ma anche lui sa che l’Ucraina non è la Siria, e dovrà stare in equilibrio su un filo dal quale è molto facile cadere.
(da agenzie)
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