Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
“CONVINSE UN CONSIGLIERE A DIMETTERSI IN CAMBIO DI UN POSTO PER IL FIGLIO”
L’eurodeputato (autosospeso) di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza e l’ex consigliere comunale di Brescia Giovanni Acri (anche lui di FdI) sono indagati per corruzione dalla Procura di Milano.
Il fascicolo è nato da un esposto sulle dimissioni di Acri, che secondo l’accusa sono state presentate per far posto in Consiglio comunale a Giangiacomo Calovini, appartenente alla corrente politica di Fidanza. In cambio, nell’ipotesi dei pm Giovanni Polizzi e Cristina Roveda, Acri ha ottenuto “l’utilità rappresentata dall’assunzione del proprio figlio quale assistente parlamentare” nella segreteria politica dell’eurodeputato.
Mercoledì – si legge nel comunicato firmato dal procuratore di Milano Marcello Viola – i militari del nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza hanno eseguito perquisizioni nei confronti di Acri e del figlio e hanno consegnato a Fidanza l’avviso di garanzia.
Il capodelegazione di FdI a Bruxelles, coinvolto nell’inchiesta “lobby nera” di Fanpage sui presunti finanziamenti illeciti alla campagna elettorale di Fratelli d’Italia a Milano (nonché sui flirt con l’estrema destra neofascista) lo scorso ottobre aveva annunciato di voler rinunciare temporaneamente a “ogni ruolo e attività di partito”.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
LETIZIA MORATTI PRONTA SCENDERE IN CAMPO, CON GRANDE SCONCERTO DELLA TRABALLANTE COALIZIONE DI FORZA ITALIA, LEGA E FRATELLI D’ITALIA… IL PD SENTE PUZZA DI BRUCIATO E PENSA AL RIBALTONE CON SALA O COTTARELLI
Grande è la confusione sotto il cielo di Lombardia. E non è detto che – per rimanere nella metafora maoista – la situazione sia poi così eccellente. Soprattutto per il centrodestra che all’ultimo miglio della ricandidatura dell’Attilio, inteso come Fontana, attuale presidente della Regione, scopre che la Signora del Pirellone, la vicepresidente e assessore alla Salute, Letizia Moratti, è pronta scendere in campo a sua volta.
Con grande sconcerto della traballante alleanza tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia che per oltre 20 anni ha considerato cosa propria il grattacielo della Regione dove, all’ultimo piano regna il governatore leghista sostenuto da Salvini.
Quasi una sfida d’altri tempi: arroccati nelle loro modernissime torri di vetro e cemento, i due contendenti per ora si studiano a distanza dalle rispettive finestre e lanciano proclami.
«Io non mi sento messa da parte dai miei concittadini, e per me questa è la bussola, la stella polare», ha detto ieri mattina Letizia Moratti, che poco più di due settimane fa era stata rilanciata da Carlo Calenda addirittura come possibile candidata del Centro (un po’ meno sinistra) che verrà. «Credo di poter essere anche scomoda ma rispondo a coloro che devo servire», ha aggiunto lei.
Il che non è male per una politica che si trova a fare il vicepresidente della Regione senza aver mai preso nemmeno un voto, chiamata in giunta per rimediare ai disastri dell’ex assessore e compagno di partito (Fi) Gallera.
Se Donna Letizia giura di aver dato «semplicemente la mia disponibilità alla coalizione di centrodestra», il coordinatore nazionale di Fi, Antonio Tajani, provvede a ridimensionarne le aspirazioni dichiarando, non senza imbarazzo a “Un giorno da pecora”, che della candidatura della Moratti «non se n’è ancora parlato: se rimane Fontana lo sosterremo».
E il governatore, che sembrava tentennante all’ipotesi di ritornare in sella fino a un mese fa, ora sembra aver ritrovato vigore: «Ho riconfermato la mia disponibilità a continuare il mio lavoro per la grande comunità lombarda».
Soprattutto dopo il preoccupato incontro dell’altro ieri a palazzo Lombardia con il leader Matteo Salvini e il dioscuro governativo Giancarlo Giorgetti. Ma che le cose non fileranno così lisce, lo dimostra la dichiarazione del capogruppo lombardo di Fi Gianluca Comazzi, che ieri ha parlato di «mediazione» tra i due concorrenti e i litigiosi leader del centrodestra.
Mentre Daniela Santanché, coordinatrice di FdI in Lombardia si è mostrata possibilista su Fontana. Il che esclude implicitamente un appoggio alla Moratti.
Come sempre, tra i due litiganti c’è un terzo che gode e sta iniziando a vedere un cielo di Lombardia di manzoniana memoria: decisamente bello, quasi “splendido”. È il Pd che con l’ultima performance elettorale regala al centrosinistra la maggioranza quasi assoluta delle 12 provincie lombarde, lasciando al centro destra solo Sondrio e Pavia: un fatto senza precedenti che preoccupa non poco la stessa Lega, finora egemone in un territorio che sembra non riuscire più a controllare e che invece sta rispondendo a giovani sindaci come il lodigiano Andrea Furegato, 25 anni, o ad antichi iscritti molto legati però alla propria città, come il monzese Paolo Pilotto, sessantaduenne appassionato di jazz.
È il famoso laboratorio lombardo della politica italiana che si sta rimettendo in moto. «Sono figure lontane dall’ideologia e vicine al territorio, pragmatiche e capaci, proprio come piace ai lombardi», spiega Fabio Pizzul, capogruppo in regione del Pd. «Il che dimostra che il Pd non è solo un’etichetta e non è così romanocentrico come finora veniva vissuto».
Ma cosa significa essere vicini al territorio? «Ascoltare gli imprenditori, essere vicini alle partite iva, parlare con gli agricoltori», spiega Pizzul. E sul candidato glissa: «Decideremo dopo l’estate. Si è parlato di una personalità come Carlo Cottarelli, vedremo le sue capacità empatiche».
Ma non si esclude nemmeno un sindaco come Beppe Sala, che ha decisamente un peso nazionale. «E che è uno che sa parlare la lingua degli imprenditori ma anche delle periferie». Per ora si lavora sulla larghezza della coalizione e i temi su cui puntare per aggregare più forze possibili, spezzoni di M5S compresi.
Senza dimenticare, come spiega l’avvocato Carlo Cerami, uno dei grandi “riformisti” milanesi, “fratello maggiore” di tanti politici piddini milanesi, «che le elezioni regionali lombarde coincideranno con quelle nazionali» facendo diventare la partita in Lombardia rilevantissima più di altre volte.
Secondo Cerami, il segretario del Pd Enrico Letta, «investirà molto del patrimonio politico guadagnato in questi mesi di sostegno leale al governo Draghi». Il Pd ha saputo svecchiare i suoi quadri (a Milano, per dire, gli assessori dei Municipi, totalmente in mano al centrosinistra, sono quasi tutti sotto i 30 anni) mentre Salvini ha trasformato un partito dall’animo territoriale in un partito autoreferenziale «e se cade lui – continua Cerami – il partito perde. La storia degli ultimi tempi ha segnato un avanzamento del centrosinistra in quanto cardine di politiche riformatrici e europeiste che sono la caratteristica prevalente dei ceti economici e professionali delle aree urbane lombarde mentre del populismo diffidano ormai anche le fasce più popolari».
(da La Stampa)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
TRA LORO ANCHE PIETROSTEFANI…. IL MOTIVO LEGALE VA RICERCATO NEGLI ART 6 E 8 DELLA CONVENZIONE EUROPEA SUI DIRITTI DELL’UOMO
La Francia conferma la “dottrina Mitterrand” e nega l’estradizione, richiesta dall’Italia, dei 10 terroristi rossi presenti sul territorio francese. La decisione è stata presa dalla Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello di Parigi. I 10 italiani condannati e fuggiti in Francia, tra cui l’ex militante di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani, erano stati arrestati nell’aprile dei 2021 (e poco dopo scarcerati) nell’ambito dell’operazione “Ombre rosse“.
La decisione della Chambre de l’Instruction si è basata sul rispetto della vita privata e familiare e sul rispetto del giudizio di contumacia, previsto dagli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a sostegno della sua decisione, ha spiegato il presidente.
“Rispetto le decisioni della magistratura francese, che agisce in piena indipendenza”, ha commentato la ministra della giustizia Marta Cartabia: “Aspetto di conoscere le motivazioni di una sentenza che nega indistintamente tutte le estradizioni. Si tratta – ha aggiunto – di una sentenza a lungo attesa dalle vittime e dall’intero Paese, che riguarda una pagina drammatica e tuttora dolorosa della nostra storia”.
Adesso l’Italia non potrà impugnare la decisione della Chambre de l’Instruction: l’unico che può farlo è infatti il procuratore generale della Corte d’Appello di Parigi, che può decidere se presentare o meno ricorso. Allo stesso tempo, però, la procura generale di Milano sta valutando l’esistenza nell’ordinamento francese di una impugnazione come quella prevista dall’art. 706 cpp.
Per Irène Terrel, storica legale dei terroristi rossi italiani rifugiati in Francia, nella sentenza “sono stati applicati i principi superiori del diritto”, con riferimento al rispetto della vita personale, privata e della salute degli imputati e alle controverse norme del processo in contumacia.
Per l’ex brigatista Francesco Piccioni la sentenza è “in linea con quello che ci si deve aspettare da uno Stato serio. La Francia è uno Stato di diritto dove la legge viene presa sul serio e non si fa carne di porco come in Italia”, ha dichiarato all’Adnkronos. “Sarebbe bene che anche l’Italia si ponesse il problema di chi si trova ancora oggi in galera per fatti commessi in un periodo di storia ben preciso quale è stato il ventennio ’60 e ’70 del Novecento in larga parte del mondo e che altrove hanno saputo far diventare storia e non perenne cronaca giudiziaria”, ha dichiarato Davide Steccanella, avvocato difensore dell’ex membro dei Pac Cesare Battisti.
Niente estradizione pertanto per Pietrostefani, unico non presente in aula durante la lettura della sentenza: 78 anni e da tempo malato, è stato uno dei fondatori di Lotta Continua, condannato in Italia a 22 di anni di carcere per essere stato uno dei mandanti dell’omicidio del commissario Calabresi. Decisione che riguarda anche altri nove terroristi rossi: Enzo Calvitti, 67 anni, ex psicoterapeuta oggi in pensione ed ex Br condannato in contumacia a 18 anni di carcere per associazione a scopi terroristici e banda armata. Narciso Manenti, 64 anni, 40 dei quali trascorsi in Francia, arredatore e gestore di una società di comunicazione. Ex membro dei Nuclei armati per il contropotere territoriale, fu condannato nel 1983 all’ergastolo per l’omicidio dell’appuntato Giuseppe Gurrieri. Giovanni Alimonti, 66 anni, faceva invece parte delle Brigate rosse ed è stato condannato nel 1992 a 19 anni di carcere per il tentato omicidio di un poliziotto nel 1982, Nicola Simone. Roberta Cappelli, 66 anni, è stata condannata all’ergastolo di isolamento per tre omicidi avvenuti a Roma: quello del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, dell’agente di polizia Michele Granato e del vice questore Sebastiano Vinci. Marina Petrella, 67 anni, ex Br come la Cappelli, condannata come lei per l’omicidio del generale Galvaligi, del sequestro del giudice Giovanni D’Urso e dell’assessore regionale della Democrazia Cristiana Ciro Cirillo, nel quale furono uccisi due membri della scorta, per l’attentato al vice questore Nicola Simone (insieme a Cappelli e Alimonti).
L’ex brigatista Sergio Tornaghi, 63 anni, anche lui condannato all’ergastolo anche per l’omicidio di Renato Briano, direttore generale della “Ercole Marelli”. Maurizio Di Marzio, 60 anni, sfuggito alla retata dell’aprile 2021 e arrestato in seguito, è al centro di una diatriba sulla prescrizione.
Dovrebbe scontare in Italia un residuo di pena a 5 anni e 9 mesi di carcere per banda armata, associazione sovversiva, sequestro di persona e rapina. Raffaele Ventura, 70 anni, ex Formazioni Comuniste Combattenti, dovrebbe scontare 20 anni di carcere in Italia dopo essere stato condannato per concorso morale nell’omicidio del vicebrigadiere Antonio Custra durante una manifestazione della sinistra extraparlamentare a Milano. Luigi Bergamin, 72 anni, ex militante dei Pac (Proletari Armati per il Comunismo), è anche lui al centro di una battaglia legale per la prescrizione. Deve scontare una pena a 16 anni e 11 mesi di reclusione come ideatore dell’omicidio del maresciallo Antonio Santoro, capo degli agenti di polizia penitenziaria ucciso a Udine il 6 giugno 1978 da Cesare Battisti.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
IL SOSPETTO DELLA MELONI E’ CHE LEGA E FORZA ITALIA PREFERISCANO IL GOVERNO ALLA COALIZIONE
La sconfitta nelle città ha lasciato il segno e il centrodestra si avvita sui propri guai. Si litiga e quindi si perdono le amministrative, si litiga e quindi serve un chiarimento, «vediamoci subito», dice Giorgia Meloni, «anche domani, il prima possibile», insiste Matteo Salvini.ù
C’è un appuntamento fissato? «Non è in calendario», ammette la presidente di Fratelli d’Italia. Sembra facile, insomma, ma se questo benedetto vertice non ha ancora una data è perché stavolta prima di incontrarsi i leader vogliono porre delle basi.
Adesso è troppa la rabbia, troppi gli stracci che volano con accuse reciproche per le città perse in maniera con punte di autolesionismo, prime fra tutte Catanzaro e Verona. Salvini ancora non si dà pace per quei tracolli: «Troppi Comuni persi per divisioni poco spiegabili» Quindi vedersi per dirsi cosa? È la domanda che fa Silvio Berlusconi, che infatti frena ed evita che si stabilisca subito una data concreta.
«Credo che ci voglia un po’ di tempo, le cose vanno fatte per bene, vanno preparate», dice il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani. L’idea del Cavaliere è quella di lasciar decantare i risentimenti reciproci per poi andare al fondo delle questioni e non solo ai problemi contingenti, come le Regionali in Sicilia. Non un semplice vertice, quindi, ma una sorta di conclave del centrodestra. Il ruolo che il fondatore di Forza Italia ritiene di dover ricoprire è quello del mediatore tra i due “ragazzi” che bisticciano. Salvini ascolta volentieri i consigli, come dimostra la telefonata con il Cavaliere di lunedì. La questione però è che Meloni non accetta più questa impostazione. Anzi, da Fratelli d’Italia potrebbe arrivare presto un suggerimento: basta vertici ad Arcore. Come dire, Berlusconi, che da mesi ha ritrovato un rapporto molto solido con Salvini, non è più il federatore e nemmeno, simbolicamente, il padrone di casa («tutti possiamo essere federatori», ricorda l’ex ministro della Gioventù).
E se lunedì la polemica più dura era stata con la Lega, ieri Meloni ha rivolto le attenzioni su Forza Italia, senza tenerezze.
L’occasione sono state le dichiarazioni di Flavio Tosi che, in un’intervista a Repubblica, aveva detto «la Lega dovrebbe smarcarsi da FdI e allearsi con Forza Italia». L’ex sindaco di Verona nel frattempo è entrato nel partito di Berlusconi e quindi la polemica non è personale, ma di coalizione: «Un esponente di Forza Italia dice che il centrodestra dovrebbe liberarsi di FdI, vorrei sapere se questa è la linea del partito», dice Meloni per poi aggiungere «Tosi sembra essere fiero di aver fatto vincere la sinistra, e mi sembra che lo voglia fare anche a livello nazionale».
Meloni insiste: «Al vertice chiederò se i nostri alleati vogliono stare nel centrodestra, perché noi non abbiamo altri piani». Il sospetto della leader di Fratelli d’Italia resta lo stesso da tempo: Lega e Forza Italia preferiscono il governo alla coalizione, cosa che, è il timore, potrebbe continuare anche dopo le elezioni, specie in caso di un risultato non così schiacciante a favore del centrodestra. Nel frattempo Meloni rafforza la sua rete internazionale.
Ieri in questo senso è stato un giorno importante, la leader di FdI ha inaugurato la tre giorni romana di Ecr, il partito conservatore europeo di cui è presidente. Una vetrina significativa ma che non vuole essere fatta passare come una sorta di legittimazione, «In Italia sento ancora che si danno delle patenti, si parla di legittimazione di Meloni. Mi sembra una discussione provinciale e strumentale – dice Raffaele Fitto, co-presidente del gruppo Ecr – Quella dei conservatori europei è una delle famiglie più potenti in Europa».
In platea tra gli stucchi dell’hotel Excelsior di via Veneto a Roma, ci sono i rappresentanti di tutti i partiti di Ecr, compresi gli spagnoli di Vox.
A differenza di quanto successo nella trasferta spagnola, Meloni non tocca i temi più scivolosi come l’aborto o la famiglia “naturale” e rivendica la scelta di aver impedito la fusione con il gruppo Identità e democrazia di cui fa parte la Lega: «Siamo fieri della scelta che abbiamo fatto, di difendere la nostra specificità, di non rischiare di annacquare la nostra identità». Con Salvini nemmeno in Europa.
(da La Stampa)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
I BUONI RAPPORTI CON MARA CARFAGNA, IL DIALOGO CON RENZI E LE APERTURE DI DE LUCA… LA RETE DI LUIGINO: DA SCARONI A DESCALZI, DA LEONARDO A ELISABETTA BELLONI FINO AL PROSSIMO INCARICATO D’AFFARI DEGLI USA IN ITALIA, SHAWN CROWLEY
L’obiettivo è un prossimo governo che somigli a quello attuale. Lo strumento è Insieme per il futuro […] come partito dei sindaci, o meglio come contenitore territoriale aperto […] L’appuntamento sarà dopo l’estate, e prima che entri nel vivo la preparazione della legge di bilancio, con una chiamata a raccolta – una sorta di Costituente dei territori – di tutti i soggetti aggregabili […]
Il piano di Di Maio, che comincia pian piano a delinearsi, avrà come uno dei suoi focus la coppia Pnrr-territori. […] dopo i primi abboccamenti continuano le interlocuzioni con il sindaco milanese Sala, con l’ex sindaco Pizzarotti […] con tanti amministratori locali e consiglieri comunali e regionali, con le cento città e con l’infinita provincia italiana […] Basti pensare al rapporto che s’ è stabilito e viene cucito pazientemente, grazie al figlio Piero, deputato dem, amico di «Giggino» e politico capace, con il presidente regionale campano De Luca.
Sta seguendo con estremo interesse il travaglio in casa Lega e in Forza Italia. Nel primo caso, Giorgetti è il suo grande interlocutore, e amico, e potrà essere una sponda […] Quanto agli azzurri, il rapporto con la Carfagna è consolidato […] E sulla direttrice europea dovrebbe portare all’ingresso di Insieme per il futuro nel gruppo Renew Europe. quello dei liberali in cui già convivono (qui serenamente) Italia Viva e Azione.
Di Maio è anche quello che ha tessuto in questi anni relazioni che contano: da Gianni Letta a Scaroni, da Confalonieri a Descalzi, dalla Belloni (proverbiale lo scontro con Conte per lo sgangherato tentativo di Giuseppe di portarla al Colle) alla Confindustria (con la vice-presidente Barbara Beltrame) ad altri. Passando dagli Stati Uniti: dove Di Maio conosce bene il prossimo incaricato d’affari degli Usa in Italia, Shawn Crowley, mentre dato il suo ruolo ministeriale c’è un rapporto diretto con il Dipartimento di Stato e con Blinken. Il legame di stima con Mariangela Zappia, ambasciatrice italiana a Washington, è – insieme a quello con l’ambasciatore in Germania, Varricchio, e con Sequi, segretario generale della Farnesina – un altro pezzo di questo puzzle.
(da il Messaggero)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
SE DALLE URNE DOVESSE USCIRE UN QUADRO INCERTO, CHI MEGLIO DI UN DRAGHI-BIS PER METTERE IN SICUREZZA IL PAESE?
C’è chi lo racconta come lo scenario più temuto e chi, invece, lo auspica come la migliore delle soluzioni possibili.
Di certo, c’è che l’inatteso esito elettorale di una tornata amministrativa che sulla carta avrebbe dovuto dire poco, ci consegna un panorama politico di instabilità e confusione. Scricchiolano le coalizioni, da una e dall’altra parte. Con il centrodestra alle prese con una resa dei conti che ormai da anni viene costantemente rinviata a data da destinarsi e il centrosinistra che vede compromesso quel «campo largo» sul quale Enrico Letta avrebbe voluto costruire l’imminente campagna elettorale.
Da una parte domina il conflitto – ormai più umano che politico – tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Dall’altra si fanno i conti con la variabile impazzita di Giuseppe Conte, che un giorno minaccia il suo personale Papeete (ma senza avere il coraggio di andare fino in fondo) e quello dopo viene richiamato all’ordine da un Beppe Grillo che quasi sembra commissariarlo.
Un quadro, insomma, di grande incertezza. Tra e dentro gli schieramenti. Al punto che lo scenario di un Draghi dopo Draghi inizia ormai a farsi strada come una delle soluzioni probabili. Alle elezioni politiche, ci mancherebbe, mancano almeno nove mesi e tutto può ancora succedere.
Ma è evidente che se dalle urne non uscirà un vincitore è su quello schema che si tornerà a ragionare. Soprattutto se lo scenario geopolitico resta quello che è ora, con una guerra ai confini dell’Europa e una crisi economica che il prossimo anno si farà sentire ben più di adesso. La bussola, insomma, non potrà che essere quella della stabilità. E – ovviamente al netto di quello che vorrà poi fare Mario Draghi – ha un senso che possa essere proprio l’ex numero uno della Bce a continuare a guidare un processo simile.
Soprattutto se nei prossimi mesi continuerà a ritagliarsi quel ruolo di leadership internazionale che ormai da qualche tempo sembrano riconoscergli anche i suoi omologhi europei. Certo, Emmanuel Macron e Olaf Scholz sono alle prese con complicate questioni interne e sembrano muoversi sullo scenario internazionale con qualche titubanza.
Ma è indubbio che Draghi sia riuscito a riagganciare l’Italia allo storico tandem franco-tedesco (la visita a Kiev ne è stata la conferma plastica) finendo anche per imporre la linea su dossier centrali nella politica europea (dal pressing sullo status di candidato all’ingresso in Ue dell’Ucraina fino alla questione del price cap sul gas su cui ha spinto ancora al G7 che si è chiuso ieri in Baviera).
Ed è proprio in questo scenario che, pur essendo la legislatura in scadenza a marzo, si potrebbe finire per andare al voto con un certa calma, magari a metà maggio (l’articolo 61 della Costituzione dice che le «elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti»). Il che significa che Draghi resterebbe in carica fino a giugno-luglio (nel 2018 dopo il voto ci vollero tre mesi per fare il governo) e, di fatto, sarebbe lui a scrivere la Nadef, la Nota di aggiornamento del Def che va presentata alle Camere entro il 27 settembre di ogni anno.
Se il risultato delle urne, come è possibile, non dovesse individuare un vincitore, è evidente che molti – a partire dal Quirinale – guarderebbero a Draghi. Che dovrebbe semplicemente continuare il lavoro iniziato e perfino già programmato con le previsioni economiche e finanziarie della Nadef 2023. Uno scenario, si diceva, che preoccupa – per ragioni diverse – sia Giorgia Meloni che le due leadership che in questi anni hanno cavalcato l’onda sovranista (Salvini) e quella populista (Conte).
La prima perché ha la legittima ambizione di far diventare FdI il primo partito del centrodestra, vincere le elezioni e poi sedere a Palazzo Chigi. Il leader della Lega e l’ex autoproclamato avvocato del popolo, invece, perché sono consapevoli del fatto che se Draghi dovesse restare premier avrebbero margini di manovra davvero stretti (Conte in particolare, che con l’ex Bce ha sempre avuto un rapporto conflittuale).
Tifa per il Draghi dopo Draghi, invece, il mondo di centro che proprio in questi giorni sta cercando di riorganizzarsi.
In prima linea il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che se ha deciso di arrivare allo strappo in maniera così netta e durante un passaggio parlamentare tanto delicato come quello sull’invio di armi in Ucraina difficilmente lo ha fatto senza confrontarsi con i suoi interlocutori di riferimento. Ma per il bis di Draghi a Palazzo Chigi sono schierati anche pezzi di Pd e di Forza Italia.
Che lo vedono come garanzia di stabilità in un quadro politico sempre più caotico e che uscirà dalle urne delle prossime politiche più sfilacciato che mai. Uno scenario complesso e incerto, che potrebbe spingere il vento di chi invoca una riforma delle legge elettorale in senso proporzionale. Pubblicamente nel centrodestra sono tutti contrari, ma la conflittualità di queste settimane sta dando il là a riflessioni fino a ieri inattese. Perfino dentro Fratelli d’Italia.
(da il Giornale)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
“BISOGNA CONTENERLO CON LA FORZA. LE TRATTATIVE NON HANNO SENSO” – “NON È UN POLITICO, È UN CRIMINALE. SI FERMERÀ SOLO SE SI RENDERÀ CONTO DI AVERE DAVANTI QUALCUNO PIÙ FORTE. SOLO UNA SCONFITTA MILITARE PUÒ DEFENESTRARLO”
Michail Khodorkovskij pensa il peggio possibile di Vladimir Putin ed è facile capire perché. Nel 2003 era l’uomo più ricco di Russia e Putin, già allora presidente, lo distrusse con una serie di condanne per truffa, evasione fiscale, riciclaggio. Khodorkovskij finì dieci anni in prigione e poi in esilio.
Schiacciando lui, Putin ha dato l’esempio a tutti gli altri ricchi postsovietici: chi alza la testa, la perde. A Londra dal 2015 l’ex oligarca resta l’oppositore russo più influente, i suoi contatti e la sua conoscenza dei meccanismi interni al Cremlino lo rendono tra gli analisti più lucidi del putinismo.
Khodorkovskij, quando finirà questa guerra?
«Quando Putin avrà raggiunto il massimo risultato che la sua forza gli permette oppure quando comincerà a perdere terreno per la forza che gli viene opposta».
E se, grazie alle armi occidentali, l’Ucraina respingesse l’invasione?
«Putin convincerà il suo pubblico di aver comunque vinto».
Possibile?
«L’opinione pubblica russa, come tante altre, ha la memoria corta. L’obbiettivo dichiarato dal Cremlino, all’inizio, era il cambio di regime a Kiev. Ora è diventato il Donbass. E tutti in Russia ci credono. Cambiare ancora versione non sarebbe un problema».
Propaganda o no, comunque arriverà la pace?
«Finché Putin vive, no. La frontiera di 2500 chilometri sarà sempre calda, com’ era il muro di Berlino. Se Putin accettasse una tregua, scatenerebbe una nuova guerra appena possibile. I Paesi Baltici e la Polonia sono i suoi prossimi obbiettivi. Per questo bisogna contenerlo con la forza. Le trattative non hanno senso».
Una corrente di pensiero impersonata da Kissinger non è d’accordo.
«Kissinger e la sua gente non capiscono con chi hanno a che fare: Putin non è un politico, è un criminale che ha fuso il suo destino con quello dello Stato».
Quindi?
«Dal suo passato nel Kgb, il servizio segreto, Putin ha mantenuto il disprezzo per la vita umana. Per lui i cittadini sono solo strumenti dello Stato. Dalla sua psicologia criminale, invece, deriva che si fermerà solo se si renderà conto di avere davanti qualcuno di più forte».
Ragionando così, però, si arriva al confronto nucleare.
«L’atomica sarebbe più un problema che un vantaggio per Putin. I generali russi non vogliono essere processati come criminali di guerra, la Nato potrebbe rispondere mirando proprio a Putin e, soprattutto, nessun “utile idiota” al mondo lo difenderebbe più. Putin ha paura a dichiarare la mobilitazione generale per non trovarsi il popolo contro. Figurarsi se vuole usare l’atomica».
Ha informazioni sulla malattia dello zar?
«Voci. E se anche fosse, non mi consola. So che andrà combattuto a lungo. Solo una sconfitta militare può defenestrarlo. È sempre stato così nella storia russa».
Si aspettava tanta difficoltà a prevalere in Ucraina da parte del «seconda potenza militare al mondo» ?
«Arsenale nucleare a parte, la Russia non è così forte. E lo sta dimostrando. Stati Uniti e Cina prendono nota con serenità. Le riserve sono ancora enormi, può vincere sull’Ucraina, ma ha mostrato che il “putinismo” non funziona. La sua cerchia gli mostra solo quel che vuole vedere e nel frattempo ruba il rubabile. Come lui d’altra parte. È ingenuo aspettarsi efficienza da queste persone».
Lei voleva vendere petrolio alla Cina. Ora lo fa il Cremlino per sfuggire alle sanzioni occidentali.
«In quel momento, la tecnologia russa era più avanzata della cinese. Per Mosca sarebbe stato un vantaggio strategico. Oggi non è più così, Putin parla a Pechino con il cappello in mano. E andrà sempre peggio. Per il momento, le sanzioni occidentali hanno limitato l’influenza degli agenti di Putin sulla politica occidentale, ma non hanno ancora ferito l’economia russa. Nel medio termine, invece, impediranno la crescita tecnologica e azzopperanno le prospettive del Paese».
Il blocco delle merci imposto dalla Lituania sull’enclave di Kaliningrad, potrebbe spingere Putin ad allargare la guerra?
«Non lo vedo cominciare un’altra invasione, ma penso che metterà alla prova la Nato. Se la Nato non reagisse sarà l’inizio della fine per l’Alleanza. Senza garanzia di risposta, la Nato non ha senso».
Come mai tutti gli oligarchi ucraini sono rimasti fedeli a Zelensky?
«È una scelta sia sentimentale sia pragmatica. Essere ricco e cosmopolita non significa non avere attaccamento al proprio Paese. Poi, gli uomini d’affari ucraini hanno paura che, indipendentemente da ciò che Putin promette loro oggi, in ogni momento potrebbero sottrargli le aziende, com’ è successo a me. Hanno più probabilità di continuare a fare affari in un’Ucraina indipendente»
(da Corriere della Sera)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
E SOPRATTUTTO CONDIVIDERE CON LORO LE RESPONSABILITÀ DELLA PROBABILE DISFATTA ELETTORALE ALLE POLITICHE DEL 2023
Nella Lega parlano di una «normale riunione», niente più di quanto già fatto nei mesi scorsi. Ma è chiaro che dopo le sconfitte alle Amministrative (soprattutto al Nord, in particolare in Veneto) e le tensioni degli ultimi mesi l’incontro in programma lunedì a Milano assume significati ulteriori.
Specie se ad essere convocati sono Giancarlo Giorgetti, punto di riferimento dei «malpancisti» della Lega, e poi i tre governatori Zaia, Fedriga e Fontana. Non si tratta di una convocazione speciale, con un ordine del giorno apposito. Ma certamente si parlerà anche della situazione del partito.
Dal quartier generale spiegano che nella riunione si farà semplicemente «il punto della situazione» e si preparerà il lavoro dei prossimi mesi: c’è Pontida a settembre, entro fine anno si decide su quota 102, poi c’è il tema sbarchi e altri fronti aperti nella maggioranza. «Salvini vorrà condividere la responsabilità delle scelte e l’onere di sostenerle pubblicamente», spiegano dalla Lega.
Quello che proprio non vogliono sentir dire è che si tratti di un «commissariamento» di Salvini da parte dell’ala governista.
La versione più plausibile è una via di mezzo. Il leader della Lega ha capito che molti big della Lega gli imputano l’errore di decidere troppo da solo, o – peggio ancora – su input del suo «cerchio magico» o di improvvisati consiglieri che con la Lega non hanno nulla a che fare (l’ultimo di questi personaggi è Antonio Capuano, l’organizzatore del viaggio mai fatto a Mosca, costato in compenso a Salvini un mare di problemi e di polemiche).
Pertanto il leader ha concordato la creazione di una sorta di segreteria politica ristretta, con i governatori e con Giorgetti, per definire insieme la linea della Lega nei prossimi mesi, quelli cruciali, verso la campagna elettorale delle prossime elezioni politiche. Per evitare che il partito si muova in modo coordinato e che il Capitano non prenda decisioni in solitaria, come è accaduto – con effetti a volte boomerang, vedi la questione russa e prima ancora la linea ambigua sui vaccini e green pass – nei mesi scorsi.
Anche perché il partito ribolle, in particolare in Veneto, dove le batoste di Padova e Verona pesano tonnellate (e l’anno prossimo si vota a Treviso e Vicenza).
Che la direzione della Lega vada ricalibrata più sul nord che sulla Russia lo dice apertamente Luca Zaia: «Credo che un partito debba essere identitario, costruire la propria fisionomia con gli anni e con le scelte. Credo che quando passerà l’autonomia sarà un fatto che cambierà la storia» dice al Corriere, ricordando un tema – l’autonomia – molto sentito dall’elettorato leghista al nord, ma messo in secondo piano dalla Lega di Salvini.
Lunedì prossimo il commissario regionale della Lega Alberto Stefani potrebbe convocare il direttivo veneto, mentre una voce molto ascoltata come quella dell’assessore veneto Roberto Marcato gira il coltello nella piaga: «Dobbiamo condividere un ragionamento che ci consenta di non rifare gli stessi errori, rimettere in corsa la Lega e il centrodestra». Serve un’assemblea generale, chiedono i leghisti veneti. Ce n’è da parlare lunedì in via Bellerio.
(da Il Giornale)
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Giugno 29th, 2022 Riccardo Fucile
L’ASSE TRA SALA E LUIGINO CONVINTO DI RIUSCIRE A DIALOGARE ANCHE CON DARIO NARDELLA E ANTONIO DECARO… MASTELLA GONGOLA: “OH, M’HANNO CERCATO PURE QUELLI DI PIZZAROTTI”
«Nei prossimi giorni, tra le altre cose, devo risentire al telefono il sindaco Sala», diceva in privato Luigi Di Maio giovedì scorso, all’atto di fornire agli ultimi arrivati di Insieme per il futuro qualche delucidazione aggiuntiva sui suoi piani futuri.
Più o meno nelle stesse ore, nella saletta ospiti di Porta a porta , il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro scaldava l’ugola nell’attesa di sottoporsi alle domande di Bruno Vespa, declamando di fronte ai presenti, ad alta voce, che «io per mia natura parlo sempre con tutti, figuriamoci se non parlo anche con Di Maio…».
Come il terrore del vecchio thriller hollywoodiano con Burt Lancaster – quello in cui una donna, a causa di un contatto telefonico, intercettava il piano omicida di due sconosciuti – all’alba dell’ultima estate della legislatura «il grande centro corre sul filo».
Dismesse le antiche liturgie che un tempo accompagnavano progetti analoghi («cosa bianca», «rosa bianca», «terzo polo»), scartato il ricorso alla convegnistica de visu che prevedeva soggiorni estivi in luoghi con prezzi da bassa stagione (da Fiuggi a Chianciano, passando per Assisi), la grande opzione centrista stavolta prende forma a suon di telefonate.
Basta mettere fuori il naso dal campo largo di Enrico Letta, stando ben attenti a non superare il confine del centrodestra, ed eccolo là, il grande groviglio telefonico di tutti che parlano con tutti, rigorosamente al telefono, alla ricerca di un’interlocuzione suggestiva, un’ambizione comune, un dialogo nuovo, un confronto, un terreno, un piano per vivere e sopravvivere.
«Oh, m’ hanno cercato pure quelli di Pizzarotti», confessava qualche giorno fa agli amici Clemente Mastella, tessitore politico e telefonico di una tela centrista che i suoi tanti amici definiscono, parafrasando Guccini, «fra la via neodemocristiana e il West».
L’ex ministro della Giustizia ha parlato con Di Maio e sente abbastanza di frequente anche Matteo Renzi, che però con Di Maio non parla.
Lo stesso Renzi che, nella serata finale dell’ultimo Festival di Sanremo, aveva inaugurato la via telefonica al centro chiamando al cellulare Giovanni Toti e scoprendo che anche il presidente della Liguria si trovava al Teatro Ariston («Vabbe’ – avevano convenuto – a questo punto incontriamoci fuori subito dopo la premiazione di Mahmood e Blanco»).
Il progetto dei due di dar vita a una federazione centrista con gruppi unici alla Camera e al Senato, cementato durante la settimana di votazioni per il Quirinale, si era fermato con lo scoppio della guerra in Ucraina, che aveva scombussolato le priorità del dibattito politico.
Anche se ancora oggi, a mesi di distanza, l’ex ministro Gaetano Quagliariello – partner politico di Toti – parla di continuo con Matteo Richetti (calendiano) ed Ettore Rosato (renziano).
Li incontra di persona, al Senato; ma visto che il telefono garantisce una maggiore privacy, nel momento della legislatura in cui tutti a Palazzo Madama fanno caso a chi parla con chi, molto spesso si sentono tramite cellulari. A volte, il giro di telefonate si trasforma in una catena di Sant’ Antonio.
Di Maio, parlando col sindaco di Milano Sala, è convinto di riuscire a estendere la sua tela a interlocuzioni con altri sindaci di centrosinistra, dal primo cittadino di Firenze Dario Nardella al barese Antonio Decaro. Mastella è sicuro di riuscire a chiudere il cerchio parlando invece con Renzi.
Né Renzi né Mastella parlano al telefono con Carlo Calenda, che all’epoca del tentativo di far nascere un governo Conte bis rivelò pubblicamente di aver ricevuto una telefonata del sindaco di Benevento, con una proposta «tipo tu appoggi Conte e il Pd appoggia te a Roma» («Che squallido!», reagì Mastella).
Di Maio ha confessato che lui, col leader di Azione, ci parlerebbe pure. È l’altro, però, che non vuole parlare con lui. «Sì, ma se lui ti telefona?», hanno chiesto l’altro giorno a Calenda. Risposta: «A Di Maio non prenderei neppure la telefonata»
(da il Corriere della Sera)
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