Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
MOLTI DEI VOLONTARI SONO A MALAPENA MAGGIORENNI (ANCHE SE ARRIVANO ANCHE SESSANTENNI) E PROVENGONO DA OGNI PARTE DEL PAESE: STUDENTI, PROFESSORI, PROFESSIONISTI E DISOCCUPATI – C’È CHI SI FA ANCHE TRE GIORNI DI FILA PER ARRUOLARSI: “QUESTO È IL MIO PAESE, DOVE VIVE LA MIA FAMIGLIA E DOVE C’È TUTTO QUELLO CHE HO COSTRUITO”
«Solo il pazzo, non ha paura di morire. Ma questo fucile mi rassicura. Senza, sarei stato in pericolo». Vasilie ha le mani sudate, se le tocca e trema. Ha la barba lunga, non toglie mai l’elmetto dalla testa, anche al chiuso, come se quell’equipaggiamento mimetico che indossa per la prima volta fosse la sua nuova corazza per proteggersi dal male. Ha 26 anni, faccia da accademico, voce impastata. Si è sposato da poco, a settembre nascerà il primo figlio.
Per lui è pronto a combattere. E dire che fino a tre mesi fa era un insegnante di Fisica e Astronomia, con un Master all’Università di Kiev e un progetto di diffusione della cultura scientifica via radio. Oggi è uno dei soldati volontari per l’Ucraina. Riservista pronto ad andare al fronte a sacrificare se stesso, e la vita, per la libertà del suo Paese.
Non c’è retorica nelle frasi di chi sta per partire per la guerra e sa che potrebbe non tornare mai più.
L’esercito di Zelensky perde 100, 200 uomini al giorno, con una resistenza ostinata, nelle ultime ore soprattutto nella regione di Kherson. Servono nuove forze in prima linea, per questo sono stati allertati i civili come Vasilie, che hanno lasciato tutto e si sono candidati per addestrarsi.
Lui, come gli altri 70 compagni che il comandante del Battaglione passa in rassegna in un vecchio complesso fuori da Kiev, si allena da febbraio. Ancora non sa quando sarà il suo turno, né in quale città lo manderanno. Ma ha già ricevuto la benedizione della sua compagna: «Vai, ti capisco. Mi ha detto».
Nella grande stanza dove i riservisti vengono convocati per l’appello, in pochi secondi si formano due file di uomini sull’attenti. Hanno tra i 18 e i 61 anni. La divisa è fornita dall’esercito, così come le armi, a seconda della specializzazione scelta: lanciagranate, fuciliere, tiratore scelto, posizionatore di mine anticarro.
Le scarpe, invece, tradiscono la storia dei singoli uomini. C’è chi arriva con le Nike o le New Balance, chi ha calzature usurate, da buttare, come un anziano signore dal volto scavato, che in testa ha un elmetto storto, penzolante a sinistra.
Moltissimi i giovani, pronti a tutto «per la vittoria». Sotto la mimetica, si nascondono ingegneri programmatori come «Tigre», questo il soprannome di battaglia, che ha sempre avuto la passione per le armi. E sistemisti della Apple, laureati al Politecnico della capitale, come «il Cigno», Iuri, capelli rasati e ciuffo, che non ha mai sparato e ammette: «Morire per qualcosa o qualcuno è sempre stupido. Ma morire in Donbass vale la pena, perché dentro di me sento che sto facendo la cosa giusta».
Ecco le facce, le voci, le emozioni del conflitto ucraino in carne ed ossa. Storie sospese tra la vita e chissà. Se sopravviverà, Iuri non vuole continuare a fare il soldato, e crede che il suo Paese alla fine prevarrà: «Finito il mio compito, tornerò civile – dice -. Mi piace la vita normale, amo fare colazione in questo modo qui. Mi piace la libertà». Ci mostra una foto sul cellulare di una tavola imbandita con uova, bacon, avocado e dolci che ha preparato per se stesso in una domenica di relax. È il momento della conta. Ciascuno viene chiamato per nome e risponde «ci sono!».
Abbigliamento e armi vengono controllate nei minimi dettagli. L’immancabile «Slava Ukraini», gloria all’ucraina è preceduto da un momento di silenzio per le vittime della guerra. Poi, inizia il training teorico. Quello che un altro Battaglione ha già superato da settimane, per passare all’addestramento sul campo. Ci spostiamo, dunque, in un terreno attrezzato con materassi che fungono da trincee. Iuri, un altro, 24 anni, designer d’interni prima del 24 febbraio, si allena a sparare secondo la tecnica Nato: uno corre, l’altro copre, l’altro carica l’arma.
«È la prima volta in tutta la mia vita che sento di avere uno scopo, di darle un senso. Prima avevo tanti dubbi sul lavoro e sulle scelte», spiega laconico. Ha un piccolo tatuaggio sulla guancia sinistra, tre note musicali: «Suono la chitarra classica, mi mancherà, ma non la porterò al fronte». Nella guerra che strappa via tutto, anche le certezze si ridefiniscono, diventano minime, fondamentali per arrivare a domani. L’addestramento al campo prevede tattica e medicina.
Capacità di spostamento sul terreno e esperienza nel riconoscere ed usare i missili. «Questi uomini possono partire da un momento all’altro», spiega il comandante, un militare che ha combattuto nel 2014 ed è rimasto ferito alla spalla. La portavoce della 241° divisione della Difesa territoriale, Oksana Ponomariova, ex filologa e anche lei volontaria per l’esercito, rivela in disparte che il figlio dell’uomo è in battaglia e di lui non sa più nulla da molto tempo.
Sul suo volto, si intravede una lacrima, mentre il comandante con lo sguardo basso torna tra i soldati, dopo la breve pausa. «Tra i riservisti ho trovato compagni di scuola che non vedevo da vent’ anni», dice Viktor, proprietario di un internet-caffè. Ha fatto tre giorni di coda per arruolarsi. E non vuole fare l’eroe: «Questo è il mio Paese, dove vive la mia famiglia e dove c’è tutto quello che ho costruito. I russi non me lo porteranno via»
(da La Stampa)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
LA RUSSIA E’ STATO UN IMPERO PER SETTECENTO ANNI… QUELLO CHE STA FACENDO PUTIN IN UCRAINA E’ L’UNICO MODO CHE LA RUSSIA CONOSCE PER RAPPORTARSI AL MONDO
Ringraziamo Pietro il Grande, lo zar che nel 1703 fondò San Pietroburgo (in origine Sankt Peterburg, in olandese, Paese e popolo che lo zar ammirava) e che aveva avuto il buon gusto di nascere giusto 350 anni fa. Con la scusa dell’anniversario, e delle grandi feste correlate (vuoi mettere l’esaltazione di un padre fondatore proprio mentre la Russia combatte?), Vladimir Putin ha ricordato le guerre combattute da Pietro e le ha paragonate alle sue.
Le une e le altre, dice lui, guerre di riconquista e non di conquista. In questo modo, però, ha messo fine alle povere chiacchiere sulla volontà di ricostruire l’Urss che ci tormentavano da anni e ha portato l’attenzione su un tema assai più serio e interessante: la Russia si sente un impero? Di conseguenza, ha una politica imperialista? L’invasione dell’Ucraina rientra in questa politica?
Sull’Urss, Putin disse tutto quel che, dal suo punto di vista, c’era da dire con la frase “Un russo che non ha nostalgia dell’Urss è senza cuore, ma un russo che pensa di farla rinascere è senza cervello”. Poche e sentite parole per chiudere la questione. Ma con l’impero è tutta un’altra storia. Per una lunga serie di ragioni.
prima è che la Russia moderna è nata nella forma dell’impero, annettendo via le piccole città-Stato e i principati che incontrava sulla strada della sua espansione.
E la cosa prese un respiro ancora più ampio a partire dal 1380, cioè dalla battaglia di Kulikovo, quando per la prima volta i russi inflissero una pesante sconfitta all’Orda d’Oro, la potenza tatara che si era insediata nelle terre russe come erede dell’impero (appunto) mongolo. La Russia cominciava a diventare un impero multirazziale e multiconfessionale. Sviluppo che divenne conclamato nel Cinquecento, cioè proprio quando nell’Europa del Rinascimento si affermavano i primi embrioni, di quelli che sarebbero infine diventati Stati nazionali.
Da allora la Russia è stata sempre un impero. Con gli zar e le zarine, da Pietro il Grande (il primo a fregiarsi del titolo di imperatore) a Caterina II (che combattè a Nord. Ovest e Sud, allargando i territori portando la Russia nel novero delle potenze europee) ad Alessandro II (che comprò la Manciuria dalla Cina e vendette l’Alaska agli Stati Uniti). E, ovviamente, anche con il potere sovietico: che cosa fu Stalin se non uno zar, capace di conquistare spazi, organizzare Stati vassalli e valvassori e spostare popoli qua e là secondo il proprio volere?
A ben vedere, quindi, la Russia cessa di essere un impero solo nella notte del 31 dicembre 1991, quando l’Urss venne ufficialmente sciolta.
Cessa di esserlo ma non di sentirsi tale. D’altra parte, come definire uno Stato come la Russia che è vasto poco meno del doppio del Canada e della Cina (i Paesi che la seguono per dimensione) e più del doppio degli Usa? Una terra che tocca tre continenti? Un Paese dove il 20% della popolazione è tuttora formato da non russi? Dove la seconda religione più praticata è l’islam (la prima, ovviamente, il cristianesimo ortodosso) e la terza il buddismo? Dove ci sono 30 lingue dotate di uno status ufficiale? E poi come eliminare quel Dna imperiale che si è tramandato nei secoli e ha attraversato i più diversi regimi.
La storiografia ufficiale, in questo periodo impegnata a supportare le decisioni politiche del Cremlino, pone molto l’accento sul fatto che tutte le invasioni della Russia sono arrivate da Occidente: gli svedesi nel Medio Evo (e Aleksandr Nevskij, principe di Novgorod, che li sconfisse sul fiume Neva è stato fatto anche santo dalla Chiesa ortodossa), i polacchi nel 1610, Napoleone Bonaparte nel 1812, l’impero austro-ungarico nel 1915, Hitler nel 1941. E anche, nella narrazione putiniana, la Nato che si espande verso Est usando l’Ucraina.
L’impero e la sua “profondità”, e quindi anche un’eventuale conquista di tutta o parte dell’Ucraina, servirebbero a proteggere la Russia nella direzione sempre usata dai suoi tradizionali nemici.
Ma Putin e i suoi non sono così primitivi da non sapere che tutta quella “profondità” (la lunga marcia che stroncò le armate di Napoleone e Hitler, arrivati a Mosca e poi costretti a ritirarsi) è oggi resa inutile da qualunque missile balistico, capace di portare una bomba atomica per migliaia di chilometri.
E allora perché questa guerra così crudele e in apparenza inutile? Può servire, per provare a rispondere, un lungo passo indietro, fino alle origini del potere di Vladimir Putin.
Il 24 marzo del 1999 l’allora primo ministro Evgeny Primakov sta volando verso Washington. Deve incontrare il presidente Bill Clinton per trattare sulla Jugoslavia, le politiche del leader serbo Slobodan Milosevic, gli equilibrii nei Balcani. A metà del volo gli arriva una notizia: gli Usa hanno cominciato a bombardare la Serbia senza nemmeno avvisare la Russia. Uno smacco, un’umiliazione senza pari. Primakov ordina al pilota di invertire la rotta e torna a Mosca con la coda tra le gambe.
Ma la cosa non finisce lì. Tre mesi dopo, il presidente russo Boris Eltsin licenzia Primakov e mette al suo posto il semi-sconosciuto Vladimir Putin. Quattro mesi dopo è lo stesso Eltsin a dimettersi. Passano altri tre mesi e il giovane premier Putin diventa a sua volta Presidente.
Quello è il clima in cui Putin raggiunge il vertice del potere. E la sua carriera matura nella convinzione tra che tra le potenze, tra i grandi Paesi, la postura imperiale e la pratica dell’imperialismo siano la norma.
La guerra americana nei Balcani per la Russia, e forse non solo per lei, è una guerra imperiale, quella con cui l’impero americano smonta e rimonta una regione del mondo cruciale e dove la Russia aveva legami importanti vecchi di secoli.
E Putin, che già come dottorando all’Università di San Pietroburgo aveva prodotto una tesi sul ruolo dello Stato e sull’importanza delle materie prima come arma del confronto internazionale, non ha bisogno di altre conferme. La sua prima decisione di peso, da primo ministro, è stroncare la ribellione cecena con una guerra feroce.
Una questione interna alla Russia, ma non solo: molti, al Cremlino, sono convinti che dietro l’indipendentismo ceceno ci sia la lunga mano degli Usa, che lo fomentano e lo finanziano attraverso i Paesi alleati del Golfo Persico, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in primo luogo.
Quello che noi chiamiamo imperialismo, quindi, per molti russi è il modo naturale di essere delle grandi potenze rivali. E da allora, per un colpo battuto dagli Usa ce n’è uno battuto dalla Russia. La Georgia fa oleodotti e alleanza con gli Usa? Nel 2008 arrivano i carri armati russi. L’Ucraina ispirata e finanziata dagli Usa si ribella al patronato di Mosca? Nel 2014 la Russia si riprende la Crimea e fa sollevare il Donbass. Gli Usa vogliono abbattere Bashar al-Assad in Siria? Nel 2015 intervengono i russi. E così via.
Naturalmente c’è un punto debole nell’atteggiamento russo e nella strategia putiniana. Imperialisti sì, ma non solo: gli Usa basano il loro potere non solo sulla forza militare ma anche sullo sviluppo tecnologico, sulla costruzione del benessere, sul mix interculturale, sull’industria culturale, insomma sulla capacità di costruire un modello attraente di vita e di costume. Il cosiddetto soft power.
La Russia, almeno finora, non ne è stata capace. L’economia, basata sull’esportazione di materie prime, soprattutto gas e petrolio, è controllata dallo Stato e ben poco inclusiva.
Le tecnologie sono avanzate nel settore militare ma il resto è tutto di produzione occidentale o cinese. Il nazionalismo spinto fa a pugni con l’attrazione del diverso. Roma faceva le guerre ma il suo impero raggiunse l’apogeo offrendo l’ambita cittadinanza ai “barbari”, non prendendoli a cannonate. E Putin, che affronta spesso temi storici, dovrebbe saperlo.
(da Fanpage)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
IL DEPUTATO DI FORZA ITALIA: “APPOGGIARE SBOARINA VORREBBE DIRE PRENDERE IN GIRO I NOSTRI ELETTORI”
Onorevole Vito, perché ha chiesto le dimissioni del coordinatore del suo partito Antonio Tajani?
Perché credo che, dopo il risultato deludente di Forza Italia alle elezioni amministrative di domenica, sia necessario un momento di riflessione e di assunzione di responsabilità, a partire dal coordinatore nazionale del partito. Alle elezioni amministrative di cinque anni fa Forza Italia aveva ottenuto nei Comuni capoluogo più dell’otto per cento dei voti ed era il primo partito della coalizione di centrodestra. A queste elezioni si è fermata al cinque per cento ed è il partito più piccolo. Tajani dice che siamo comunque determinanti. Io penso, invece, che con questa percentuale di voti siamo del tutto ininfluenti. Si rivendicano le vittorie di Roberto Lagalla a Palermo e di Marco Bucci a Genova, ma nessuno di questi due sindaci è di Forza Italia. A Verona si è fatta un’operazione centrista, a mio giudizio condivisibile, intorno alla candidatura di Flavio Tosi. Ora che Tosi è fuori dai giochi, bisognerebbe avere il coraggio di andare sino in fondo e annunciare il nostro appoggio al candidato del centrosinistra Damiano Tommasi, che è una persona cattolica e moderata. Non comprenderei il senso di un eventuale sostegno al sindaco uscente Federico Sboarina, in evidente contrasto con la nostra sacrosanta scelta di puntare su Tosi. Sarebbe una decisione, che oltretutto non comprenderebbero i nostri elettori, considerata la grande rivalità esistente fra Tosi e Sboarina. Tajani ha annunciato l’ingresso di Tosi in Forza Italia. Mi complimento, ma mi auguro non sia un’operazione elettorale e trasformista. Sarebbe un errore se tutto l’esperimento centrista di Verona si concludesse con l’appoggio a Sboarina. Sarebbe una presa in giro per gli elettori e gli stessi sostenitori di Tosi. Occorre, invece, andare oltre e appoggiare Tommasi. Un cattolico. Un moderato. Una persona stimabile.
Perché Forza esce sconfitta da questa tornata amministrativa?
Forza Italia ha perso perché ha smarrito la sua anima liberale, europeista, atlantista, attenta alle riforme e ai diritti civili, per inseguire la Lega di Salvini. Purtroppo Berlusconi continua a dire che Salvini è l’unico leader in circolazione e difende Salvini anche dopo lo sciagurato viaggio programmato per Mosca, con l’assistenza dell’ambasciata russa. Non è vero che siamo stati penalizzati dalla nostra presenza nel Governo Draghi. Siamo stati, semmai, penalizzati dalla nostra ambiguità e dalla scelta di non sostenere le riforme proposte dal Presidente del Consiglio. Abbiamo contrastato la riforma fiscale e quella sulle liberalizzazioni. Due provvedimenti, che avrebbero dovuto vedere Forza Italia in prima linea nel sostenerli.
C’è anche un problema di democrazia interna?
Diciamo che mancano le occasioni di dibattito. Io ho criticato le modalità con cui sono state organizzate le ultime convention di Forza Italia. Ho partecipato in prima persona a quella di Napoli, che è stata una passerella dei dirigenti e non un’occasione di confronto. Il testimonial di questa passerella non poteva che essere Ronn Moss, il protagonista della soap opera Beautiful. Un tempo Forza Italia era abituata a ben altri testimonial, come Lucio Colletti, Marcello Pera e Giulio Tremonti.
(da agenzie)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
“PER GUARDARE AL SUD SIAMO CROLLATI AL NORD”
Un atto d’accusa dalla vecchia guardia leghista, quella anti-meridionale e tutta nordista. «Anche con Bossi abbiamo cercato di guardare al Sud: magari da quelle parti arrivavamo al 3 per cento, ma non tradendo le origini. Oggi abbiamo snaturato un partito per conquistare un non esaltante 6 per cento. Mentre al Nord siamo crollati».
Lo afferma l’ex ministro della Giustizia ed esponente della Lega, Roberto Castelli, commentando l’esito delle amministrative in un’intervista a Repubblica.
A colpire Castelli è il fatto che «oggi l’attuale classe dirigente canti vittoria, perché la Lega ha conquistato qualche Comune in più. Per carità, in coalizione siamo andati bene, ci sono stati diversi successi, ma dietro Fratelli d’Italia – prosegue – Ora, a me Giorgia Meloni sta simpatica, ma pensare che la leader romana di un partito centralista venga a prendere voti a casa mia, mi fa venire un po’ l’orticaria».
Sulla possibilità che Matteo Salvini possa lasciare la guida del partito Castelli aggiunge: «Non credo che lo farà prima delle Politiche. Ma se continua così rischia di fare la fine di Renzi. Che, per inciso, fu travolto da un referendum». Nel partito «esiste un mugugno critico, mettiamola così. Io vivo la pancia della vecchia Lega: il malcontento, che era forte prima, ora è fortissimo».
Se la Lega vuole continuare a essere partito nazionale, prospettiva che non mi interessa, difficilmente può restare nel cono d’ombra del governo Draghi – conclude – Quindi, o si esce dal governo o vi si resta per portare avanti la mai risolta questione settentrionale».
(da agenzie)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
MA QUELLI CONTINUANO AD ASPETTARE. L’OBIETTIVO È FAR CUOCERE IL SEGRETARIO A FUOCO LENTO E ATTENDERE LA TRANVATA FINALE: SONO CONVINTI CHE SI FARÀ FUORI DA SOLO A SUON DI GAFFE. MA COSÌ FACENDO RISCHIANO DI PORTARE IL CARROCCIO ALLA DISINTEGRAZIONE FINALE, E LASCIARE SOLO MACERIE IN MANO AL NUOVO LEADER (FEDRIGA)
Tutti borbottano, mettono in fila gli errori del leader, in Veneto, roccaforte espugnata dalla Meloni, accusano apertamente «le scelte sbagliate fatte negli ultimi tempi dal segretario Matteo Salvini».
Ma nessuno nella Lega, almeno per ora, muove un passo per cambiare la situazione.
Lo stallo. E Giancarlo che fa? E Zaia? Giorgetti mugugna, si lamenta delle frequentazioni di Salvini (l’ultimo personaggio misterioso che circonda il segretario è Antonio Capuano, quello del viaggio a Mosca), si è ormai rassegnato al fatto di non essere più ascoltato dal Capitano.
Con i suoi nelle ultime settimane si è sfogato: «Ma come si fa a non mettere al centro l’attività di governatori e ministri»?, rilanciando cioè l’azione della Lega di governo (nazionale e regionale). Non esclude persino di mollare la politica («Tanto personalmente non devo dimostrare niente o arrivare», la carriera l’ha fatta e pure lunga).
Un disagio noto a tutti, e presente da tempo. La domanda che si fanno i leghisti è un’altra: a parte questi lamenti, cosa vuole fare «il Giancarlo», in concreto? La Lega è una pentola a pressione, basterebbe un niente per far esplodere il malcontento che ribolle.
Il prossimo test è il 21 giugno, quando in Parlamento arriverà Draghi per le «comunicazioni» su economia e guerra in Ucraina in vista del Consiglio Ue, un passaggio definito «rischioso» dall’atlantista Giorgetti, se Salvini darà seguito alle sue parole contro le armi a Kiev. «Se lui o Zaia danno un cenno, tantissimi parlamentari li seguirebbero», commenta un deputato leghista.
Ma il segnale, da Giorgetti per ora non arriva. E nemmeno dall’altro colonnello guardato come possibile leader della Lega, Luca Zaia, prudentemente asserragliato nel suo Veneto.
Ad una domanda del Foglio sul suo ruolo nel dopo Salvini, l’altro giorno, il «Doge» ha risposto alla solita maniera democristiana: «Sto bene in Veneto, natura non facit saltus». Da quelle parti si rincorrono i rumors su di lui, tutti si aspettano una mossa da Zaia, come da Giorgetti. Come pure da Massimiliano Fedriga, l’altro governatore governista indiziato per un prossimo Salvini-cidio.
In campagna elettorale si è girato il Friuli-Venezia Giulia a braccetto con la Meloni. Prove tecniche di una nuova alleanza tra leader, si è subito detto. Anche Fedriga vive male la linea ondivaga del segretario. Anche lui si lamenta che il lavoro di ministri e governatori venga «mortificato» dalle avventure geopolitiche di Salvini, tra Polonia e Russia, al seguito di oscuri mediatori. Fedriga, anche per l’età, è quello considerato più papabile per prendere il posto di Salvini.
Ma anche lui non sta manovrando per far fuori il Capitano, gli deve troppo, come molti altri nella Lega. Dunque si aspetta, tra la rassegnazione e il timore di una tranvata alle politiche 2023. Il congresso federale? Non se ne parla.
Quello che però viene chiesto è un chiarimento, quello sì. Lo dice dal profondo Veneto l’assessore leghista Roberto Marcato: «Non mi iscrivo al partito dei voltagabbana, quelli che quando la Lega macina voti Salvini è un genio e quando perde consenso non capisce nulla – dice il leghista ad Affaritaliani -. Però ci sono elementi di criticità che sarebbe utile affrontare. Un congresso federale per la leadership non mi interessa, ma un’assemblea generale per affrontare a muso duro i problemi è doverosa».
(da il Giornale)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
“SUL TATAMI TI INSEGNANO IL MIGLIOR IMPIEGO DELLE ENERGIE E POI LA PAZIENZA, DIMOSTRA CHE SI PUÒ CADERE E NON BISOGNA PRENDERSELA CON L’AVVERSARIO, E INFINE IL FATTO CHE NON SI VINCE MAI CON L’IMPETO, MA CON LA FORZA E CON LA TESTA” (GIOVANE MA PIÙ SAGGIO DI TANTI TROMBONI)
«Tra poco ricadrò nell’oblio». Non sia pessimista. «Tutt’altro. Devo fare il sindaco, e di un sindaco che svolge bene il suo compito si parla poco».
Inizierà oggi, con il «passaggio di consegne». Il Comune di Lodi lo conosce già: è stato consigliere comunale dal 2017. «In quell’assemblea ero il più giovane». Anche il più votato tra gli eletti, a vent’anni. È presto per dire che incarnerà l’anima nuova dei dem lombardi.
Di certo dalla provincia più nota al mondo all’inizio della pandemia, dal «feudo» che fu dell’attuale ministro Lorenzo Guerini (sindaco di Lodi per due mandati tra 2005 e 2012), emerge oggi lo sguardo deciso e pulito con cui il 25enne Andrea Furegato ha battuto la sindaca uscente (Lega).
È lui per primo a sfuggire al simbolismo da titoli del «volto nuovo del Pd»: «Non voglio certo darmi un ruolo più importante di quel che ho. Certo, auspico di essere parte di una generazione che ha voglia di mettersi in gioco e impegnarsi nelle istituzioni».
Liceo classico, animatore all’oratorio, militante nei Giovani democratici, laureato in Finanza all’università Cattolica di Milano, oggi dipendente di
una grande banca. La politica è tradizione di famiglia.
La madre Roberta Vallacchi è segretaria provinciale del Pd; il padre Enrico, scomparso a 52 anni nel 2012, era stato architetto, molto conosciuto nel gruppo Eni nel quale aveva lavorato per anni, assessore in un Comune della provincia.
«La mia famiglia – racconta il neo sindaco – ha sempre avuto attenzione alla vita politica e un forte impegno sociale. È stato un humus favorevole per la mia passione e il mio percorso».
Sua mamma, sorridendo, ha detto che tra poco andrà a vivere da solo. Lui commenta con gentilezza e riservatezza: «In questo momento affronto un percorso di vita come tutte le persone della mia età, ma prima di tutto mi sto occupando di essere operativo come sindaco, poi si penserà con calma alla casa. La mia vita privata ora non è una mia priorità».
La vita privata è stata anche sport, e lo sport di Andrea Furegato è il judo, fino alla cintura nera, particolare che a pochi minuti dall’elezione ha acceso la fantasia giornalistica sul «sindaco judoka». «Ah sì, la storia del judo di cui si parla molto…», sorride lui.
A parte lo slogan, c’è qualcosa di più profondo? «I principi che valgono sul tatami cerchiamo di farli valere nella vita quotidiana, hanno un valore formativo. Il judo insegna prima di tutto due aspetti: da una parte, il miglior impiego delle energie; dall’altra, che si progredisce insieme. E poi il judo insegna la pazienza, dimostra che si può cadere e non bisogna prendersela con l’avversario, e infine il fatto che non si vince mai con l’impeto, ma con la forza e con la testa».
e dallo sport discende una sorta di programma morale, e dagli studi deriva il modo di guardare la realtà («Ho sempre avuto interesse nell’economia perché è una lente fondamentale per leggere cambiamenti e dinamiche delle società»), la politica è percorso familiare e insieme di partito.
A chi guarda oggi un giovane dem che voglia «dire qualcosa di sinistra»? Blair, Obama? «Come molti ho seguito con interesse e profonda ammirazione la storia politica di Barack Obama, ma io mi sento un democratico, figlio del Pd, e di una stagione che ha voluto dare un senso di rinnovamento delle dinamiche politiche, e vuole andare oltre certe linee di demarcazione che erano schematiche decenni fa. Certo, prima di tutto sarò per Lodi un uomo delle istituzioni».
Da programma, la Lodi del sindaco Furegato dovrà essere più «solidale e inclusiva, sostenibile, efficiente e innovativa». Qual è il giorno in cui s’è convinto di imbarcarsi nella corsa elettorale? «Non c’è stato un momento decisivo, ma un percorso di confronto, elaborazione, riflessione». Poco impeto. Molta pazienza. Come sul tatami.
(da il Corriere della Sera)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
A NOVEMBRE HA SCRITTO ALLA SEGRETERIA DI CARLO MESSINA PRESENTANDOSI COME “CONSULENTE DI SALVINI”. MA I DIRIGENTI DELLA BANCA SI SONO SUBITO INSOSPETTITI E IL COLLOQUIO CON L’AD NON SI È MAI TENUTO
Alla fine è riuscito a staccarsi da sé stesso. Con una sorta di scissione individuale. Al centro, isolato, Matteo Salvini. Attorno, delusa, la Lega. È parecchio suggestivo riscontrare che ciò sia accaduto per mano di Antonio Capuano, avvocato casertano di Frattaminore, già deputato campano di Forza Italia, di professione mediatore legale, consulente di un numero imprecisato di ambasciate, abiti di sartoria, voce sottile, buon affabulatore.
Per un anno e mezzo circa, più o meno dal varo del governo di Mario Draghi che per un attimo ha ripulito e, ovvio, ingrigito il profilo guascone di Salvini, l’avvocato Capuano ha imperversato da forestiero, non troppo visibile, forse sottovalutato, nelle faccende quotidiane dei leghisti.
L’Espresso racconta tre fatti inediti che riguardano la Cina, Banca Intesa e Giancarlo Giorgetti. Capuano è il sintomo di un Salvini che diffida di chiunque e si affida a chiunque piuttosto che a un collega, dirigente, compagno di partito. Capuano è palazzo Barberini, è Livorno, è Rimini, è Fiuggi: è una rottura insanabile nella Lega. Questo è l’unico dato chiaro in un orizzonte brumoso.
Con una caterva di interviste e di dichiarazioni, Capuano si è affacciato per un paio di settimane sul proscenio mediatico per poi ritirarsi stordito nelle quinte. A gran fatica gli speleologi del fotografico l’hanno ripescato negli archivi col viso glabro e paffuto di un giovane trentenne al debutto alla Camera. Oggi che indossa la barba, e ha mutato carriera, s’ è saputo che più volte durante la guerra in Ucraina ha accompagnato il segretario Salvini dall’ambasciatore russo Sergey Razov per redigere un piano di pace, organizzare una trasferta a Mosca, convincere Vladimir Putin a fermare i cannoni e altre cose simili che sfiorano l’edificazione di quartieri residenziali su Marte.
Vista da fuori: è il solito pastrocchio diplomatico di Salvini, non proprio alfabetizzato in materia, che per ricavare un punto di sondaggi ne ha causati dieci, di sutura, al suo prestigio politico.
Vista da dentro: è una scelta inconcepibile, che non si perdona. Qualche governo fa Salvini ha calpestato il decoro istituzionale consegnandosi da ministro alle avventure geopolitiche di Gianluca Savoini, che trattò presunti finanziamenti al Metropol e di Claudio D’Amico, che validò per l’Osce il referendum per l’autonomia della Crimea. Però gli amici Gianluca e Claudio erano iscritti al Carroccio dal ’91 e invece Capuano non ha né tessere né contratti.
Dopo le sbandate con Mosca e nel governo gialloverde di Giuseppe Conte, Salvini ha rimesso il suo mappamondo al posto giusto e ha delegato gli Esteri prima a Giancarlo Giorgetti, finché Draghi non l’ha nominato ministro per lo Sviluppo economico, e poi al conservatore Lorenzo Fontana.
Nel disperato tentativo, una illusione, di riabilitarsi presso gli americani, Salvini si è esercitato in una goffa propaganda contro la Cina: ha invocato un processo di Norimberga per la pandemia, una totale estromissione dallo sviluppo della tecnologia 5G, una robusta difesa nazionale dai cinesi aggressivi.
E pure la Russia non era più la sua destinazione favorita, luogo del cuore per un accrescimento culturale e democratico. Questa condotta è durata una manciata di mesi. Poi un giorno, lo scorso anno, l’avvocato Capuano ha chiesto un appuntamento al deputato Paolo Formentini, di evidente formazione filoamericana, vicepresidente della commissione Esteri.
Il leghista di Lumezzane da anni in Parlamento denuncia le persecuzioni cinesi contro la minoranza etnica e religiosa degli Uiguri e una dozzina di mesi fa depositò anche una severa risoluzione in commissione per sancirne il «genocidio» (definizione poi rimossa nel dibattito). Con l’autorità conferitagli da Salvini di «consulente geopolitico», Capuano propose a Formentini di smussare la posizione leghista e di firmare un documento da consegnare all’ambasciatore cinese a Roma.
Formentini verificò con Salvini che Capuano non potesse influenzare la linea del partito e lo congedò in fretta. (Il deputato leghista si limita a non confermare ufficialmente la ricostruzione e ripete che la verticale del comando è Salvini-Fontana). Comunque Formentini ha ignorato Capuano. Salvini no. Anzi a settembre, dopo insulti a mezzo stampa, s’ è messo in posa a braccia conserte accanto al diplomatico Li Junhua nella sede cinese di Roma.
Altro colpo di Capuano, che non l’ha abbandonato nemmeno dagli americani in un giro del mondo restando nella capitale d’Italia. Questo episodio, già la scorsa estate, ha lanciato la leggenda Capuano.
In novembre diversi parlamentari che sono nell’organigramma del Carroccio sono stati contattati da Banca Intesa Sanpaolo: «Per cortesia, mi spieghi che ruolo ha Capuano?». Qualcosa di stravagante era appena successo.
L’avv. Capuano aveva scritto alla segreteria di Carlo Messina, l’amministratore delegato del primo istituto italiano, per chiedere un incontro con argomentazioni abbastanza vaghe e motivazioni personali. Siccome l’indirizzo di posta elettronica rimandava alla dicitura di «deputato» e quindi si trattava di una personalità politica, la richiesta fu girata all’ufficio affari istituzionali.
Alle prime verifiche telefoniche, Capuano si è presentato come un importante «consulente di Salvini». Non convinti dalle rassicurazioni dell’avvocato e però attenti a non provocare equivoci o frizioni con la Lega, i dirigenti romani di Banca Intesa – sentiti da L’Espresso, non commentano – hanno proseguito le ricerche e hanno appurato che Capuano non avesse alcun rapporto formale con la Lega.
Così il colloquio con Messina non s’ è tenuto. Non è servito dire «mi manda Salvini». In quali altre occasioni Capuano, che afferma di «assistere diverse ambasciate», cioè di lavorare da libero professionista per governi stranieri, ha utilizzato la relazione con Salvini per i suoi interessi?
I leghisti temono in svariate circostanze, con i russi come si è scoperto, con i cinesi, con Intesa e via elencando. Questa vicenda può diventare davvero pericolosa per Salvini. Non soltanto una barzelletta geopolitica.
Peggio, molto peggio. Il livello di allarme è aumentato nelle settimane successive. A gennaio. Alla viglia del voto per il presidente della Repubblica. Quando uno stretto collaboratore di Salvini si precipitò da Giorgetti per confrontarsi sul fenomeno Capuano che aveva piegato qualsiasi gerarchia nel partito. Giorgetti non era molto informato sulla questione, il dialogo con Salvini era intermittente, e dunque si prese un giorno per reperire riscontri più affidabili.
L’indomani sentenziò: stare alla larga da Capuano. Giorgetti fu il primo ad avvisare Salvini, e l’ha rivendicato, di non esagerare con le frequentazioni di Savoini e D’Amico, troppo disinvolti con i russi. Per il ministro, insomma, Capuano era un personaggio estraneo alla Lega, un avvocato che dopo la legislatura in Parlamento si era occupato di affari con governi stranieri (il Kuwait, per esempio) e che di certo non era passato inosservato.
Formentini, Banca Intesa, Giorgetti e infine le riunioni con Razov, lo sconcerto di Palazzo Chigi, le crepe profonde nel Carroccio, le battute del presidente veneto Luca Zaia.
Niente ha dissuaso Salvini dal rinunciare all’avv. Capuano che ieri si chiamava Savoini e domani avrà un altro nome. Non ci sono ragioni sensate per giustificare l’intervento di Capuano per consentire al segretario di una grande forza di maggioranza di governo di accedere alle ambasciate cinesi o russe.
Se non una: Salvini ha un suo partito nel partito. E Capuano è stato un protagonista di un partito parallelo in aperta competizione con l’originale. Il Carroccio e Salvini non si riconoscono più. Si convive male per necessità.
Si attende ugualmente armati di acredine l’ordalia delle liste per le politiche del prossimo anno. Era scontato che fosse l’ultima esecuzione del potere di Matteo prima di un congresso o di liturgie somiglianti per liquidarlo neanche cinquantenne. Oggi non più. Un capo che si è autoescluso dal consesso istituzionale, senza ipocrisia, non avrà mai incarichi pubblici di rilievo dopo la doppietta Savoini-Capuano, è un capo che non serve più. §
Un tempo portava elettori. Oggi Capuano.
(da L’Espresso”)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
GLI ISTITUTI DI CURA SONO DIMINUITI DA 1.165 A 1.054 E SI È PROSCIUGATA LA PLATEA DEI DIPENDENTI DI OLTRE 42.300 UNITÀ CON IL DEFINANZIAMENTO CHE HA RAGGIUNTO I 37 MILIARDI
È bersaglio di acerrime critiche il servizio sanitario nazionale. Il Forum delle società scientifiche di clinici ospedalieri e universitari lo rimette sotto accusa con una sfilza di numeri negativi.
In 10 anni (dal 2010 al 2019) persi 25.000 posti letto di ricoveri ordinari, diminuiti gli istituti di cura da 1.165 a 1.054, prosciugata la platea dei dipendenti di oltre 42.300 unità. Ha raggiunto i 37 miliardi di euro il definanziamento della sanità: prima a soffrirne la rete degli ospedali. Oggi il fondo è risalito a 124 miliardi, 10 in più rispetto al 2019, con un incremento annuale che, non perde occasione di ricordare il ministro della Salute, Roberto Speranza, è superiore alle aggiunte precedenti.
Nel 2019 si partiva con 10 miliardi in meno.
«Gli ospedali già erano al limite dei loro mezzi, fiaccati da anni di politiche miopi
Dopo la pandemia rischiano il collasso», enumera i disastri l’oncologo Francesco Cognetti, coordinatore di Forum.
Una delle conseguenze più visibili è la crisi cronica dei pronto soccorso a corto di personale, coi medici che fuggono verso reparti meno penalizzanti. Il territorio resta povero di servizi di prossimità, vicini ai pazienti che, se ne potessero usufruire, non sarebbero costretti a cercarli altrove, nei luoghi deputati a trattare i casi gravi, le emergenze. Varie leggi sono intervenute per metterci le pezze, senza mai determinare una vera sterzata.
Una svolta potrebbe essere l’applicazione della riforma dell’assistenza territoriale, da realizzarsi con i fondi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), contenuta nel decreto ministeriale approvato lo scorso 20 maggio dal Consiglio di Stato che lo ha definito «in grado di fornire risposte efficaci» e valide alternative all’ospedale.
Previste, tra l’altro la creazione di Case di comunità, il potenziamento delle cure domiciliari, l’integrazione tra assistenza sanitaria e sociale, servizi digitalizzati, coinvolgimento di «tutti gli attori della sanità», farmacie comprese.
Le Case di comunità sono i luoghi «fisici e di facile individuazione per i cittadini» dove lavorano in modalità integrata e multidisciplinare tutti i professionisti. Le più grandi devono servire 40-50mila abitanti.
Siamo vicini? È davvero una panacea? No, secondo Cognetti il piano «è insufficiente. Noi chiediamo più risorse, riuniamoci attorno a un tavolo per affrontare i gravi problemi. Il modello va rivisto e deve assicurare il collegamento fondamentale tra i luoghi di cura». La proposta di Forum è «ripensare i parametri in base ai quali definire il numero di letti ospedalieri». Devono crescere a 350 ogni 100.000 assistiti, fino a raggiungere la media europea di 500. Per quanto riguarda le terapie intensive, lo scenario migliore sarebbe il superamento di 14 letti ogni 100.000 abitanti.
All’inizio della pandemia erano la metà, dotazione che ci metteva in condizione di inferiorità rispetto ai Paesi europei più evoluti. Il decreto rilancio del 2020 ha stabilito il raddoppio. E adesso a che punto siamo? Quanti letti sono stati mantenuti, quanti ancora da realizzare? I dati mancano, oppure sono frammentati tra Regioni. Il ministero non è in grado di fornire il quadro nazionale aggiornato.
(da il “Corriere della Sera”)
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Giugno 15th, 2022 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE UCRAINO AVEVA CHIESTO A WASHINGTON DI FORNIRGLI DEI CACCIA MIG-29 D’ORIGINE POLACCA, MA IL PIANO SI È ARENATO PER IL NO DELLA CASA BIANCA PER NON ACCRESCERE TENSIONI CON IL CREMLINO: COSÌ KIEV SI È DOVUTA ACCONTENTARE DI PEZZI DI RICAMBIO
Una foto dal settore di Severodonetsk: mostra un sistema anti-aereo S300, usato per contrastare velivoli ad alte quote. Gli ucraini non ne hanno molti e il fatto di mandarlo vicino al fronte testimonia indirettamente la necessità di parare una minaccia crescente.
Anche i racconti dei reduci della battaglia confermano come l’aviazione russa abbia intensificato la sua azione. Quando è scattata l’invasione ha avuto un ruolo limitato, ha perso dei caccia, ora però avrebbe aumentato le sortite concentrandosi nel Donbass: negli ultimi giorni, il ministero della Difesa di Mosca ha rivendicato attacchi contro strutture, depositi e mezzi militari, diffondendo anche un video dei Su-25 marchiati con la «Z» della guerra di Putin mentre effettuano missioni volando a bassa quota.
L’incremento è legato alla protezione garantita – in parte – dallo scudo messo in campo dall’Armata: missili a corto e lungo raggio che devono contrastare gli eventuali raid dell’aeronautica di Kiev, piccola ma determinata.
Anche se inferiore in numeri e qualità di mezzi, l’arma aerea dei difensori ha dato il proprio contributo. Questo a dispetto degli annunci russi sul fatto che fosse stata «annientata». I Sukhoi e i Mig ucraini hanno evitato di essere spazzati via, ma hanno versato il suo tributo.
Il 25 febbraio è stato abbattuto un pilota famoso, il colonnello Oleksandr Oksanchenko, detto «Grey Wolf»: aveva lasciato la tuta di volo, ma l’ha indossata di nuovo per proteggere la nazione. Un simbolo diventato il nome di un team speciale americano, il lupo grigio, creato nella base di Ramstein, in Germania.
Qui una pattuglia di 15 militari – tra piloti, addetti alle armi e alla logistica – assiste da remoto l’aviazione dell’Ucraina. Raccolgono dati, consigliano, fanno da tramite grazie alla presenza di un ufficiale di collegamento per trovare soluzioni rapide.
Come hanno spiegato al sito Coffee or Die, esistono dei dossi da superare: gli equipaggi hanno minore autonomia rispetto ai colleghi statunitensi, gli equipaggiamenti non sono compatibili con i velivoli in dotazione, non tutto può essere condiviso per ragioni di sicurezza. Il pragmatismo, però, aiuta.
I «cacciatori» ucraini hanno mostrato coraggio e competenza. La difesa ha probabilmente disperso i mezzi in scali minori per sottrarli agli strike missilistici dell’invasore: i jet di Putin si avventurano poco ad Ovest.
Chissà che non usino qualche strada come pista, con i jet mimetizzati in un capannone agricolo e un nucleo di supporto limitato al necessario, tecnica sviluppata da decenni nei Paesi occidentali.
Poi si affidano a missioni a bassa quota, per cercare di contenere i rischi e magari seguono le coordinate giuste dei target grazie alle ricognizioni dei droni e dell’intelligence Usa. Le operazioni richiedono sempre un’integrazione stretta, anche per evitare fuoco amico. Servirebbe un arsenale consistente.
Il presidente Zelensky, nella sua richiesta incessante, aveva sollecitato Washington a fornirgli dei caccia Mig-29 d’origine polacca, ma il piano si è arenato per il no della Casa Bianca per non accrescere tensioni con il Cremlino.
Kiev si è dovuta accontentare di pezzi di ricambio – questa la versione ufficiale – e di alcuni Sukhoi arrivati smontati dalla Bulgaria. Il Pentagono ha bilanciato con l’assistenza esterna, impegnando la squadra «Grey Wolf» e non ostacolando iniziative «private». Uno dei piloti statunitensi, Drew Armey, e la moglie ucraina Anastasia hanno lanciato una raccolta fondi per acquistare materiale di supporto, da piccole trasmittenti a kit di soccorso.
(da il “Corriere della Sera”)
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