Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
A BERGAMO, NEL PRIMO CONGRESSO PROVINCIALE, A VINCERE È FABRIZIO SALA CON 342 VOTI: È UN ESPONENTE CRITICO NEI CONFRONTI DEL “CAPITONE” E ADERISCE AL “COMITATO NORD”, LA CORRENTE DI UMBERTO BOSSI (DIFFIDATA DA SALVINI SOLO POCHE SETTIMANE FA)
Ora si capisce perché non voleva fare i congressi della Lega, li perde. A Bergamo inizia il dopo Matteo Salvini. Nel primo congresso provinciale, il più atteso, la prima vera conta tra militanti, a vincere è Fabrizio Sala con 342 voti.
E’ sindaco di Telgate, al suo secondo mandato, ma è soprattutto un esponente che aderisce alla riscossa lanciata dal Comitato Nord, la corrente di Umberto Bossi corrente che era stata diffidata da Salvini solo poche settimane fa. a Bergamo non solo Salvini perde. Salvini non c’è.
Non è riuscito a esprimere un candidato segretario della sua area malgrado ci abbia provato fino alla fine.
Lo sfidante di Sala era infatti Mauro Brambilla, sindaco di Fontanella. Anche Brambilla è un leghista critico verso la gestione del partito
Salvini, due giorni fa, a Venezia aveva dichiarato che non può più occuparsi delle beghe di partito.
Sono molti i leghisti ex parlamentari che presi in giro da Salvini (“nessuno verrà lasciato indietro”) stanno abbandonando la politica attiva, la militanza.
(da il Foglio)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
E SULLE PENSIONI E’ SCONTRO TRA LEGA E FORZA ITALIA
Ultimo provvedimento “bandiera” del governo Meloni a sparire dalla prossima legge di Bilancio è stato quello sull’azzeramento dell’Iva per i beni di prima necessità, dal pane alla pasta fino al latte.
Prima di questo era stata la volta dello scudo fiscale per il rientro dei capitali dall’estero, frenato dal ministero dell’Economie e Finanze di Giancarlo Giorgetti, al quale tocca l’ingrato ruolo di frenare le pressioni interne per provare a tutelare i conti.
Come riporta Fabio Fubini sul Corriere della Sera, sono almeno quattro gli scogli che rischiano di far incagliare la nave della maggioranza alle prese con la prima manovra finanziaria.
A cominciare proprio dall’Iva per pane e latte, che già oggi gode di un’agevolazione al 4%. Nonostante le spinte da Forza Italia, con Giorgio Mulé che fino a ieri 19 novembre dava per certo l’azzeramento dell’Iva nella manovra, al Mef dove si sta materialmente scrivendo la legge di Bilancio non risulta alcuna variazione sui beni di prima necessità. La misura costerebbe alle casse dello Stato quasi mezzo miliardo di euro, per portare però un risparmio molto contenuto sulla spesa delle famiglie. Se mai dovesse arrivare l’ok da Bruxelles per l’azzeramento dell’imposta, Giorgetti avverte che altre misure a sostegno dei nuclei familiari dovrebbero venire meno.
C’è poi il nodo delle pensioni, con Forza Italia che spingerebbe per aumentare le minime, mentre la Lega punterebbe al sistema delle quote che aprirebbe una finestra per il ritiro dal lavoro a 62 anni con 41 anni di contributi. Considerando l’aumento costante del costo delle pensioni salito a 58 miliardi al 2025, il Mef chiarisce che dovrà essere scelta solo una delle due strade. Nel percorso a ostacoli della Finanziaria c’è poi lo scontro tutto interno al Mef sul piano per lo scudo fiscale sui capitali dall’estero.
Un’idea che, ricostruisce il Corriere, sarebbe nata dall’attivismo del viceministro di FdI Maurizio Leo, in una serie di riunioni organizzate mentre Giorgetti e Giorgia Meloni si trovavano a Bali per il G20. Al rientro della premier, il piano sarebbe stato fermato. Così come pare sparita l’idea della «flat tax incrementale», che prima della partenza per Bali la premier aveva presentato ai sindacati come il motivo per cui non fosse possibile un immediato taglio al cuneo fiscale. E proprio sulla riduzione della tassazione in busta paga, l’ultima ipotesi prevede un taglio del 3%, almeno per i redditi sotto i 20mila euro. Idea ancora tutta da concretizzare in attesa di individuare i fondi con cui coprire la «coperta sempre più corta» ripetuta ancora ieri da Matteo Salvini.
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
I DANNI DELL’USCITA DAL MERCATO COMUNE UNICO SONO SEMPRE PIU’ EVIDENTI E IL GOVERNO STA PENSANDO A UN CLAMOROSO DIETROFRONT
“La settimana in cui è morta la Brexit”, scrive il grande giornalista e commentatore inglese Andrew Neil. Nel frattempo, alcuni euroscettici a Londra sono imbufaliti, inquieti.
Già, perché sulla Brexit è iniziata la silenziosa, clamorosa retromarcia del Regno Unito. Ufficialmente, non leggerete niente in questi termini dal governo britannico, anche perché il nuovo primo ministro Rishi Sunak è un brexiter della prima ora e deve tenersi buona la sostanziosa frangia di euroscettici nel suo partito conservatore.
Ma a Downing Street e nei palazzi di Whitehall è sicuramente iniziata una nuova fase: che punta a un rapporto più funzionale e aperto con la Ue, dopo averla abbandonata neanche due anni fa dopo il referendum del 23 giugno 2016. E ci sono tanti indizi.
Il primo sono le parole. la settimana scorsa del nuovo cancelliere dello Scacchiere, ovvero il ministro delle Finanze britannico Jeremy Hunt, arrivato per rimediare ai disastri finanziari del suo predecessore “Kami-Kwasi” Kwarteng e dell’ex prima ministra Liz Truss: i quali, con i loro folli tagli alle tasse ai ricchi in un momento di congiuntura economica estremamente negativa e inflazionaria, hanno lasciato un buco in bilancio da oltre 50 miliardi di sterline.
Hunt: “Abbiamo bisogno di migranti e più rapporti con l’Ue”
Hunt (che nel 2016 votò contro la Brexit) nei giorni scorsi si è azzardato a dire esplicitamente due cose. Uno: “Per la nostra economia”, al momento disastrata, “abbiamo bisogno di più immigrazione”, ha candidamente ammesso, dopo che proprio la lotta all’immigrazione è stata il pilastro della Brexit e oggi ci sono 1,5 milioni di posti di lavoro che il Regno Unito, senza migranti Ue, non riesce più a colmare. Secondo: “Dobbiamo cercare di avere relazioni commerciali con l’Ue più fluide, e con meno frizioni”, ha aggiunto Hunt, che la settimana scorsa ha presentato al Parlamento la sua manovra lacrime e sangue da 25 miliardi di aumento di tasse e altri 30 miliardi di tagli al welfare, per ridare credibilità finanziaria a Londra dopo la catastrofe Truss.
Non è un caso che oggi il Sunday Times apra il giornale con una prima pagina che sta già infuriando i brexiter. “Il Regno Unito sta pensando di avere con l’Ue un accordo simile a quello tra Europa e Svizzera”, titola il settimanale britannico, che cita fonti del governo britannico.
L’obiettivo è quello esposto da Hunt: avere relazioni commerciali più fluide con l’Ue (l’attuale accordo di libero scambio Uk-Ue ha molte più frizioni della vecchia appartenenza di Londra al mercato unico europeo) ma senza ritornare nel mercato unico europeo, che tra le altre cose prevede la temuta “libera circolazione dei cittadini”, motivo capitale della Brexit.
Ma la stessa Brexit, con la fine della pandemia, si sta rivelando un fardello, che sta azzoppando sensibilmente la crescita di Londra: l’altro giorno l’organismo governativo Obr (Office for Budget Responsability) ha candidamente ammesso che la Brexit ha conseguenze negative sul commercio britannico e aveva già puntualizzato nelle settimane precedenti che i danni saranno pari ad almeno il 4 per cento di Pil in meno entro il 2026.
La tentazione del modello svizzero
ll problema, per questa retromarcia di Londra, è trovare l’incastro con l’Ue. Secondo Bruxelles, il Regno Unito non può godere dei benefici del mercato unico europeo dopo aver detto addio all’Europa. La tentazione del modello svizzero che ora circolerebbe a Whitehall ha tutti gli elementi per far scatenare la rivolta dei brexiter del partito conservatore: Berna ha accesso al mercato unico tramite singoli accordi bilaterali, ma in cambio deve accettare un’immigrazione dall’Ue più sostenuta, contribuire al bilancio Ue e subire i verdetti della Corte di Giustizia europea. Tutte cose che fanno venire i brividi agli euroscettici. “Sarebbe una cosa inaccettabile”, dichiara Lord David Frost, uno dei brexiter più ideologici ed ex caponegoziatore di Londra a Bruxelles.
Vedremo che cosa accadrà nei prossimi giorni. Di certo, il nuovo primo ministro Rishi Sunak è un brexiter ma anche un pragmatico, come abbiamo avuto già modo di vedere sulla Cina. Per Londra, riallinearsi con il mercato unico europeo avrebbe tra l’altro anche un altro vantaggio: limitare le frizioni commerciali pure in Irlanda del Nord e quindi trovare più facilmente un accordo per risolvere il preoccupante stallo emerso a Belfast dopo la Brexit e dopo le elezioni vinte lo scorso maggio da Sinn Féin, l’ex braccio politico dell’Ira, che hanno scatenato il boicottaggio degli unionisti che si sentono abbandonati dalla Gran Bretagna.
La deregulation impossibile
Ciò molto probabilmente porterà all’addio di un altro sogno post Brexit di Londra: la “deregulation”, ossia divergere il più possibile dalle norme Ue per liberalizzare mercato e commercio con il resto del mondo. L’asse Sunak-Hunt sembra aver imbroccato la strada contraria. Anche per questo, Andrew Neil, uno dei più grandi e ascoltati giornalisti britannici contemporanei, ha scritto sul Daily Mail che la “Brexit è morta”: “Con la durissima manovra della settimana scorsa, ogni possibile beneficio della Brexit (che sinora sono stati eccezionalmente pochi) è stato soppresso dalla nuova rettitudine finanziaria decisa dal governo. Ci avevano detto che avrebbero fatto del Regno Unito post Brexit un Paese con bassa tassazione, deregulation, un’economia senza limiti che avrebbe attratto investimenti stranieri e fatto prosperare le aziende locali britanniche. Niente di tutto questo accadrà”
Di certo, la Brexit non sta funzionando: lo avevamo già evidenziato sottolineando come quella britannica sia l’economia del G7 che va peggio di tutte dopo il Covid e lo stesso nel G20, escludendo la sanzionatissima Russia, mentre l’export è stato severamente danneggiato dall’uscita dall’Ue. Ma l’Obr giovedì scorso ha pubblicato altri dati inquietanti: nel 2023 Londra, appena entrata in una recessione che durerà probabilmente due anni, “avrà il declino del Pil più accentuato di tutta Europa” (-1,4% contro il +3,2% dell’Irlanda e +0,3% dell’Italia, per esempio); “l’inflazione (arrivata all’11 %) ridurrà gli standard di vita del 7% nel 2023 e 2024”; “solo nel 2027-28 le entrate dei cittadini britannici torneranno ai livelli del 2021-22 ma resteranno ancora sotto i livelli pre-pandemici”. Insomma, solo macerie. Per questo ora Londra sta pensando alla retromarcia. Sarebbe un evento clamoroso, a soli due anni dalla concretizzazione della Brexit.
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
SOLOMIIA BOBROVSKA: “SIAMO PRONTI A VIVERE CON LE CANDELE, I RUSSI NON CI PIEGHERANNO MAI”
Guerra in Ucraina, non sarà facile uscirne. «Non siamo pronti per nessun negoziato» con Mosca, «siamo pronti invece ad affrontare il rigido inverno senza niente», senza acqua, luce e riscaldamento, purché non ci siano i russi sul nostro territorio.
Lo ha detto la deputata ucraina Solomiia Bobrovska, del partito Holos, vice capo della delegazione ucraina presso la Nato, parlando della situazione attuale sul campo.
«Abbiamo più del 40% della popolazione senza elettricità, più della metà delle centrali elettriche non funzionano, molte famiglie, come la mia, hanno 4-5, o alcune volte 8 ore di elettricità al giorno», racconta Bobrovska, affermando che Mosca continuerà a distruggere le infrastrutture strategiche per «provocare un black-out completo per tutti gli ucraini, e dopo dire: è tempo di negoziare».
Ma «non prestano attenzione allo spirito e all’opinione della gente, se vedi le strade principali a Odessa, o Mykolaiv, o Kharkiv, la popolazione è pronta a vivere con le candele e a cercare di riscaldarsi» in qualche modo, sapendo che sul fronte la situazione è ancora più difficile. «Non abbiamo l’opzione di dire siamo stanchi, perché ci costerebbe la presenza del nostro Stato sulla cartina geografica», ha affermato la deputata, che è stata a Kherson dopo la liberazione dall’occupazione russa.
«Ho visto le persone piangere, ringraziare le forze armate, stringergli le mani dicendo: `vi abbiamo aspettato per nove mesi, sapevamo che gli ucraini sarebbero tornati´», afferma Bobrovska, raccontando di quanti hanno protetto la bandiera ucraina, l’hanno nascosta aspettando di poterla esporre finalmente fuori dalle proprie case. Nonostante le sofferenze dicevano «meglio vivere senza elettricità, riscaldamento, acqua, ma senza russi», «questo è il loro principale messaggio», ha detto la deputata.
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
L’ITALIA NON HA INTERLOCUTORI E CONTINUA A FINANZIARE DEI CRIMINALI
Chi comanda in Libia? Uno e centomila, dunque nessuno. La Libia è un rompicapo che si fa più complicato ogni giorno che passa. Un caotico teatro dell’assurdo, dove nuovi attori si aggiungono ai vecchi – il generale Haftar, il poliziotto-trafficante Bija – che sembravano finiti e invece non se ne sono mai andati.
Ci sono due governi e sono entrambi deboli: quello di Tripoli del premier Dbeibah è scaduto a giugno 2021 e non riesce a indire nuove elezioni; quello di Tobruk, affidato a Bashanga, non è riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le vittime sono sempre loro, i migranti, che fame, conflitti e cambiamenti climatici trascinano in Libia per cercare chi un lavoro, chi un passaggio verso l’Europa, chi una possibilità.
All’inizio dell’anno erano 621 mila, adesso la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è stata ritoccata al rialzo, 668 mila, a cui aggiungere i 43 mila richiedenti asilo.
Le partenze per l’Italia crescono a un tasso che nel 2023 ci riporterà indietro nel tempo alla stagione 2015-2016.
La guardia costiera libica, accusata di violare i diritti umani eppure finanziata coi soldi dello Stato italiano in nome di un contestato memorandum che il governo Meloni ha tacitamente rinnovato per altri tre anni il 2 novembre scorso, continua a intercettare i profughi in mare (centomila dal 2017 ad oggi) e a riportarli in un Paese che ormai neppure il più convinto sovranista può definire “sicuro”.
In questo scenario, l’Italia si è autorelegata in un angolo: non ha più voce in capitolo nel Paese che fu di Gheddafi, né interlocutori affidabili, né uno straccio di piano strategico per il governo dei flussi.
Prova ne è il rinnovo del memorandum, senza dibattito in Parlamento e senza idee. “L’instabilità politica della Libia non consente nemmeno di negoziare sull’assistenza umanitaria, che si scontra con enormi difficoltà di accesso al Paese e limiti nelle attività”, osserva Giorgia Linardi, responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere-Libia. “Rinnovare il memorandum, che drena fondi destinati allo sviluppo di questa terra per trattenervi i migranti a ogni costo, è un errore”.
In Cirenaica, controllata dalle milizie di Bashanga ma di fatto sotto l’influenza dell’Egitto e della Russia, presente con almeno duemila mercenari della Brigata Wagner, i trafficanti stanno mettendo in mare barconi con 500-600 persone sopra. In Tripolitania dal 2019 non si muove foglia che Ankara non voglia, non foss’altro per la flotta di droni kamikaze di fabbricazione turca che permette a Dbeibah di respingere gli assalti armati alla capitale. La Turchia di Erdogan ha anche preso in gestione per 99 anni il porto di Misurata e ha firmato un ricco accordo energetico col governo.
Nei cinque centri di detenzione ufficiali a Tripoli, gli unici cui hanno accesso le agenzie Onu e le ong come Msf, sono rinchiuse 2.700 persone. Il Direttorato per il contrasto all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno li chiama centri di accoglienza, ma sono prigioni, dove tengono la gente in condizioni pietose. Iperaffollati, sporchi, con poca acqua e poco da mangiare.
Li gestisce un signore di nome Mohamad al-Khoja, leader di una milizia, indagato da tre agenzie governative libiche per aver fatto sparire 570 milioni di dinari dal fondo destinato alle forniture di cibo per i migranti.
I migranti dei centri di Tajoura e Tarik al Sikka lo accusano di torture, abusi, pestaggi e anche sfruttamento, perché li usa come muratori nel cantiere del centro commerciale del fratello e come camerieri nella propria villa. “Controlla tutto al-Khoja”, racconta chi ha lavorato con lui. “Occupa i cortili dei dormitori per addestrare i combattenti della sua milizia”.
E questi sono i centri ufficiali, il nodo visibile di una vasta ragnatela occulta di campi illegali di cui niente si sa. Si va dalle prigioni inaccessibili dell’Ovest nei pressi di Zuwarah, Sabrata e Zawiya, gestite dal gruppo paramilitare Ssa (Stability support apparatus) con l’aiuto del trafficante Bija, il comandante della guardia costiera di Zawiya scarcerato nel 2021, ai centri dell’Est in mano al generale Haftar, tornato protagonista sia in Cirenaica sia nel Fezzan.
Nonostante la Commissione internazionale d’inchiesta abbia documentato violazioni inquadrabili come crimini di guerra, dal 2023 la cornice d’intervento dell’Onu cambierà e la Libia verrà trattata non più come contesto umanitario ma “di sviluppo”. “Nei documenti sulla nuova cornice le esigenze umanitarie sono definite come “residuali””, spiega Linardi di Msf. “I tempi non sono maturi per questo passaggio: temiamo una pericolosa restrizione dello spazio umanitario”.
Al governo italiano non basterà legarsi a un ipotetico e miliardario “piano Marshall per l’Africa”, troppe volte evocato a Bruxelles e mai realizzato, per tornare a contare qualcosa in Libia. Serve piuttosto una visione, un disegno generale e strategico per l’intero Nord-Africa che oltre al Viminale coinvolga direttamente la presidenza del Consiglio. Anche solo trovare un interlocutore affidabile e credibile sull’altra sponda del Mediterraneo sarà un’impresa, perché il problema della Libia non è il vuoto di potere, semmai il contrario: ci sono troppi poteri. E nessuno porta a Roma.
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
LA STORIA DI MARTINA, UNA GIOVANE MAMMA DE L’AQUILA: “NON ARRIVO ALLA FINE DEL MESE, TEMO PER IL FUTURO DI MIA FIGLIA E DI TUTTI I BAMBINI”
Una laurea in tasca, una figlia di appena tre anni da crescere e decine di porte sbattute in faccia ogni volta che ha cercato un lavoro.
È la storia di Martina, una giovane mamma de L’Aquila che – come molte persone – vive sulla sua pelle le ingiustizie di un modello economico che lascia indietro milioni di persone: permette che studino e si formino, poi offre loro 3 euro all’ora e lavori in nero.
Pubblichiamo la sua storia, comune a quella di tante altre persone in Italia.
Sono una mamma neolaureata e temo il futuro di mia figlia. Sono una mamma giovane, molto giovane, ho concepito mia figlia che avevo appena compiuto vent’anni, oggi ne ho ventitré e sono a un passo dalla tesi; mia figlia ne ha quasi tre.
Quando ho compiuto diciotto anni, l’idea era quella di lavorare, di fare un corso che mi aprissi accesso al lavoro, l’università per me era inutile. Una spreco di tempo e denaro. Alla nascita della mia piccola, ho dovuto rivalutare tutto, il lavoro scarseggiava, stipendio da 3 euro l’ora. Così ho preso scienze della comunicazione e ora a un passo dalla tesi, mi sono già immatricolata a psicologia.
Soldi, tanti soldi. Lavoro per pagare l’università, e non arrivo mai a fine mese con le spese. Ho lavorato al bar, al centro scommesse, come operaia, come donna delle pulizie, soprattutto in nero, senza contratto.
E quando faccio le domande per le aziende mi chiedono se ho esperienza, non importa a niente se hai la laurea. “Ce l’hai l’esperienza come social media manager? Come web developer? Puoi tornare a casa”.
La cosa frustrante è che a volte devo mentire su mia figlia, perché molti datori richiedono ragazzi giovani senza figli e addirittura ammettere di frequentare l’università diventa un problema. Come fai a lavorare se studi? Una volta feci la domanda al Globo, dissi che mi stavo laureando fiera. Mi hanno risposto: Otto ore di lavoro qui dentro non potrai affiancarle allo studio, cercati un part-time”. Sono demotivata, sono preoccupata, temo il futuro di mia figlia e di tutti i bambini.
(da Fanpage)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
TRA I PARTITI FDI 28,8%, PD 17%, M5S 16,6%, AZIONE 8,4%, LEGA 8,2%, FORZA ITALIA 6,6%, VERDI-SINISTRA 3,5%, + EUROPA 2,7%
Il consenso su cui può contare la premier e leader di Fdi si attesta intorno al 44,7%, il dissenso è superiore e sale al 54,2%.
Di fatto la maggioranza degli italiani è quindi contraria al governo sovranista.
Per quanto riguarda le intenzioni di voi, Fratelli d’Italia è ancora il primo partito, ora al 28,8%. Il Partito Democratico, che ha stabilito la data delle primarie per la scelta del segretario, che si terranno in anticipo rispetto alla tabella di marcia, e cioè il prossimo 19 febbraio, cala al 17%.
Il M5S rappresenta un’insidia per i dem: è sempre più vicino, al 16,6%. Stabile all’8,4% Azione/Italia Viva, che ormai ha sorpassato la Lega (all’8,2%).
Forza Italia di Silvio Berlusconi è al 6,6%, Sinistra Italiana/Verdi al 3,5%, +Europa al 2,7%, Italexit al 2,1%, Unione Popolare all’1,7% e Italia Sovrana all’1,5%.
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
MA IL SENSO DEL RIDICOLO, MAI? DITELO ALLA MELONI, SALVINI E BERLUSCONI… SAREBBE PURE INCOSTITUZIONALE PERCHE’ DISCRIMINA CHI SI SPOSA IN COMUNE … IL COSTO? 716 MILIONI DI EURO
Un bonus matrimonio fino a 20mila euro. Ma solo se ti sposi in chiesa. Chi opta per il Comune, zero. La proposta è della Lega.
Il ddl è appena stato presentato alla Camera dei deputati. E restringe ulteriormente il perimetro della famiglia plus immaginata dalla destra: non solo dev’essere formata da un uomo e una donna (per incarnare in futuro il binomio madre/padre, da contrapporre alla formula lasca genitore 1/genitore 2) ma l’unione si deve anche celebrare davanti al sacerdote. Almeno se punta a incassare il contributo dello Stato.
La proposta di legge è firmata da una sfilza di deputati: in testa il vice-capogruppo a Montecitorio, Domenico Furgiuele, poi il presidente della commissione Attività Produttive e Turismo, Alberto Gusmeroli, i parlamentari Simone Billi, Ingrid Bisa e Umberto Pretto.
L’obiettivo dichiarato dell’operazione sarebbe quello di riequilibrare il gap tra i matrimoni civili e religiosi. Secondo l’Istat, si legge nella parte introduttiva del provvedimento, le unioni con rito civile sono cresciute rispetto ai livelli pre-pandemia (+0,7 per cento nel 2021 sul 2019), mentre quelli con rito ecclesiastico continuano a calare.
A sentire i deputati del Carroccio, le ragioni “che allontanano le giovani coppie dall’altare e che le portano a prendere in considerazione solo ed esclusivamente il matrimonio civile” sarebbero principalmente di natura economica. Ma avrebbero un peso anche le lungaggini procedurali delle parrocchie: “Molte coppie sono dubbiose sui corsi prematrimoniali, i quali hanno una finalità ben precisa e spesso sottovalutata: cercare di far capire alla coppia se si è realmente pronti nel prendere la decisione di sposarsi”.
Ecco allora l’idea: un incentivo di Stato, solo per chi sceglie dei pronunciare il sì all’altare. La formula prescelta è quella della detrazione del 20 per cento delle spese per il “matrimonio religioso”, modificando la legge 90 del 3 agosto 2013. E alla voce “spese” si può indicare di tutto. Dagli ornamenti in chiesa come i fiori, la passatoia, i libretti, fino agli abiti per gli sposi, il servizio di ristorazione, le bomboniere. Perfino il coiffeur e il make-up della sposa. O l’ingaggio del “wedding reporter”, insomma il fotografo.
La detrazione d’imposta, secondo la proposta della Lega, potrebbe coprire fino al 20 per cento delle spese, fino a un tetto massimo di 20mila euro, che gli sposi potrebbero ottenere in cinque quote annuali. Non basta però sposarsi in chiesa.
Qualche paletto c’è: i beneficiari devono avere la cittadinanza da almeno 10 anni (è il vecchio mantra “prima gli italiani”) e avere un reddito non superiore a 23mila euro o comunque non superiore a 11.500 euro a persona.
Passasse il bonus matrimoni, per le casse dello Stato non sarebbe indolore: la misura costerebbe in tutto 716 milioni di euro, cioè 143,2 milioni per le cinque quote annuali. Un “sì” carissimo per i contribuenti, credenti e non.
La proposta è stata definita da Fabrizio Marrazzo, portavoce Partito Gay LGBT+, «anticostituzionale, visto che la Carta prevede che l’Italia sia uno stato Laico, e questo lo ricordiamo sia a Salvini che al Governo».
Stesso pensiero di Alessandra Moretti, europarlamentare del Pd, che in un tweet parla di «cialtroneria rara e assoluta distanza dai problemi reali del paese».
(da La Repubblica)
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Novembre 20th, 2022 Riccardo Fucile
DA QUANDO LE ONG NON OPERANO SONO ARRIVATI 15.000 MIGRANTI IN TRE SETTIMANE, CROLLANO LE PALLE DEL GOVERNO SOVRANISTA
C’è un numero, 15.374, quello degli sbarchi nelle ultime tre settimane in assoluta assenza di Ong nel Mediterraneo, due su tre con grandi pescherecci partiti dalla Libia orientale, che imbarazza il governo perché rischia di demolire il senso della crociata contro la flotta umanitaria.
E ce n’è un altro, 50.000, quello degli arrivi complessivi dalla Libia, che preoccupa perché è la cartina di tornasole di quanto, a fronte degli appena rinnovati accordi e finanziamenti al governo di Tripoli, l’Italia non abbia più da tempo interlocutori affidabili dall’altra parte del Mediterraneo.
Un terzo numero, 19.113, quello degli egiziani approdati in Italia (che superano i tunisini da anni in testa alle nazionalità di chi riesce ad arrivare), conferma i timori che ormai si fanno strada da mesi: è dalla Cirenaica, dalle spiagge al confine tra Libia ed Egitto, che i trafficanti di uomini fanno partire a ritmo sempre più intenso grandi barconi con 5-600 persone a volta che riescono ad arrivare fino alla zona Sar italiana assicurandosi poi il soccorso della guardia costiera italiana e lo sbarco nei porti siciliani o calabresi.
Perché questa pressione crescente sull’Italia? Ad ottobre gli sbarchi sono stati praticamente il doppio del 2021, a novembre nonostante il maltempo non c’è stato un solo giorno senza arrivi.
Scenari e numeri a fronte dei quali l’ambizione del governo Meloni di “governare e non subire i flussi”, come dice il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, non è supportata da alcuna strategia se non quella di bloccare le Ong. Che – vale ricordarlo – nel 2022 hanno portato in Italia solo 10.276 persone delle 93.629 sbarcate.
Nord Africa fuori controllo?
Prima di mettere nero su bianco le proposte che venerdì Piantedosi porterà ai ministri dell’Interno europei convocati dalla Commissione in seduta straordinaria, è ai responsabili dei Servizi che la Meloni ha chiesto una previsione concreta di quello che l’Italia deve attendersi per i prossimi mesi. La prospettiva di chiudere l’anno superando quota 100.000 sbarchi ( come non avveniva dal 2017) sembra ormai certa.
E del tutto evidente è che non basta sventolare il vessillo del ritorno della politica dei porti chiusi alle Ong per frenare i flussi. Che, a dispetto del fantomatico rapporto di Frontex che nessuno ha mai visto, non risentono della presenza in mare delle navi umanitarie e sono invece decisamente mossi dalle sempre più difficili condizioni di vita nei Paesi di origine dei migranti e dall’instabilità dei governi di un Nord Africa che appare sempre più fuori controllo.
Dalla Libia, alla Tunisia, all’Egitto, l’Italia fa evidentemente fatica a trovare interlocutori affidabili a cui chiedere di fermare le partenze ormai sempre più spostate verso la Cirenaica.
L’idea del governo di un Piano Mattei per l’Africa è al momento niente di più che una nebulosa. Difficile dunque presentarsi in Europa pretendendo rigore contro le Ong e responsabilità degli Stati di bandiera in assenza di qualsiasi strategia immediata per affrontare il vero nocciolo della questione.
La rotta balcanica in crescita
Il 25 novembre a Bruxelles, per altro, il Piano che verrà proposto dalla Commissione europea non potrà prescindere da un altro numero: 128.438, quello degli ingressi in Europa dalla rotta balcanica, poco meno della metà dei 275.500 ingressi illegali alle frontiere Ue segnalati da Frontex (+ 73 % sul 2021, il numero più alto dal 2016), decisamente di più dei 93.000 arrivi via mare in Italia. Migranti che puntano nella stragrande maggioranza ad arrivare nei Paesi del centro nord Europa, come confermato dal numero molto più alto di richieste d’asilo che Germania e Francia ricevono rispetto all’Italia. E dunque, nel valutare pesi e oneri di un’accoglienza condivisa come chiede con forza l’Italia, la Commissione europea non potrà non tenere conto del fatto che la porta d’ingresso in Europa più battuta è quella della rotta balcanica e non quella del Mediterraneo.
I nuovi arrivi dall’Ucraina
E poi c’è l’inverno ormai arrivato in Ucraina e il timore che la prospettiva di una guerra ancora lunga in condizioni di vita sempre più proibitive possano muovere un’altra ondata di profughi verso quei Paesi che già adesso sostengono il peso maggiore dell’accoglienza, Polonia e Germania su tutti ma anche l’Italia che ha già superato la quota di 150.000 rifugiati prevista dal governo Draghi. Movimenti di decine di migliaia di persone sullo scacchiere europeo che rischiano di condurre la trattativa tra i 27 Stati Ue al solito impasse. Soprattutto se i numeri dimostrano che l’Italia non è alle prese con nessuna emergenza immigrazione.
(da La Repubblica
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