Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
ALLA CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELLA FINANZIARIA NON ERA PRESENTE ALCUN RAPPRESENTANTE DI FORZA ITALIA (TAJANI ERA NEI BALCANI PER NON METTERE LA FACCIA SULLA LEGGE DI BILANCIO). E MULÈ AZZANNA: “È UNA TISANA”
La conferenza stampa di Giorgia Meloni sulla legge finanziaria ha fatto rumore soprattutto per le proteste dei puntuti e inesorabili giornalisti, che di colpo si sono scoperti cani da guardia del potere, a causa del poco tempo a disposizione per le domande.
Nessuno degli acutissimi cronisti ha però notato che alla conferenza stampa fosse presente, con ampio spazio di intervento, il viceministro dell’economia Maurizio Leo.
Scelta inusuale – anzi, mai vista – per un’occasione come questa, dove di solito è il solo ministro dell’Economia, in tandem con il presidente del Consiglio, a illustrare nel dettaglio la manovra.
Nessuna delle argutissime penne ha avuto il guizzo di chiedere: “La presenza del viceministro Leo, responsabile economico di Fratelli d’Italia, è forse un segno che il ministro Giorgetti è commissariato?”.
Il day after della presentazione della legge di bilancio fa registrare un profondo malcontento in zona Forza Italia. Leggere per credere le dichiarazioni del ronzulliano Giorgio Mulé, che in un’intervista a “Repubblica” ha paragonato la manovra a una “tisana”, parlandone come se il suo partito fosse estraneo alla maggioranza di governo. Magari la distanza emotiva si deve anche all’assenza davanti ai cronisti di un esponente di Forza Italia.
Il vicepremier Tajani, che guida la metà dei forzuti che non si riconoscono nel tandem Ronzulli-Fascina, avrebbe dovuto partecipare, ma era in missione nei Balcani. Questa almeno la versione ufficiale, visto che Giorgia Meloni gli aveva chiesto di rimanere a Roma e spedire in Serbia soltanto il ministro della difesa Crosetto. Tajani, invece, ha preferito partire, forse perché non voleva mettere la sua faccia sulla finanziaria che fa tanto storcere il naso all’altra metà del suo partito.
I più onesti osservatori fanno notare che questa manovra non avrebbe ricevuto mezza critica, se fosse stata licenziata dal governo Draghi. Non prevede misure spericolate, non ci sono fughe in avanti che possano essere giudicate irresponsabili anche dall’Europa, tanto che anche i mercati l’hanno accolta con favore.
Semmai quella commessa da Giorgia Meloni è un’ingenuità politica. Se avesse proposto pari pari la finanziaria scritta da Draghi e Franco, avrebbe tagliato le unghie a tutti i suoi critici – giornaloni in testa – che non aspettavano altro per “graffiarla”.
Avrebbe potuto farlo, rivendicando l’esiguo tempo a disposizione per preparare una legge così complessa. Del resto, si è insediata da un mese, e nel frattempo ci sono state le missioni in Egitto per la Cop27 e quella a Bali per il G20.
A maggior ragione perché le modifiche proposte dal suo governo, soprattutto quelle attinenti al reddito di cittadinanza, non comporteranno per lo Stato risparmi rilevanti (il Mef ha stimato 734 milioni di minor spesa per il 2023), mentre invece Draghi immaginava una revisione ancora più radicale del sussidio grillino.
Certo, Draghi non aveva previsto il nuovo tetto al contante, né la riformina delle pensioni varata come contentino per Salvini. Si tratta di ritocchini non strutturali, che non comportano consistenti risparmi o maggiori entrate per lo Stato.
La Meloni sta mostrando alla stampa e agli elettori una scorza dura, da leader tenace e caparbia, ma sotto sotto inizia a uscir fuori la sua fragilità, ad avvertire la pressione per il ruolo.
Il suo perfezionismo e l’ansia da prestazione la portano a voler monitorare ogni singolo provvedimento: un’ossessione del controllo accentuata dalla scarsa fiducia riposta in chi la circonda. Nessuno, tra i suoi, possiede la sua maniacalità.
E così lei finisce per accentrare il lavoro, addossandosi un sovraccarico di stress e tensione, che ogni tanto esplode, come si è visto ieri nel battibecco in romanesco con i giornalisti.
Donna Giorgia non si sente propriamente a suo agio all’interno delle mura di Palazzo Chigi, edificio che notoriamente ha molte orecchie. Non a caso, l’incontro con Elisabetta Belloni, capo del Dis, è avvenuto negli uffici di Fratelli d’Italia, al sesto piano di Montecitorio. Ufficialmente, il trasloco dall’immenso Palazzo Chigi è stato motivato per una ”ristrutturazione”. Ma i più smaliziati la chiamerebbero “bonifica”…
(da Dagospia)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SCHIFANI DOVRA’ ACCONTENTARSI DEL NOME “FORZA ITALIA ALL’ARS”
Forza Italia in Sicilia resta in mano a Gianfranco Micciché. Sarà il suo gruppo appena costituito all’Assemblea regionale e formalmente capitanato da Michele Mancuso a tenere il nome del partito fondato da Silvio Berlusconi.
L’altro gruppo dei fedelissimi del neogovernatore Renato Schifani, guidati da Stefano Pellegrino, che conta nove componenti, assume la denominazione di “Forza Italia all’Ars”.
Ad annunciarlo è stato il presidente dell’Assemblea Gaetano Galvagno che ha dato lettura dei componenti delle commissioni parlamentari, riunite in queste ore per eleggere i presidenti, in una partita complicatissima che si gioca sul filo del rasoio, proprio per via della spaccatura tra i berlusconiani.
La coalizione di centrodestra ha fatto in modo di poter contare su sette deputati su tredici in tutte le commissioni parlamentari in modo da neutralizzare “l’effetto Micciché”.
Ma oltre l’elezione dei presidenti, la partita si annuncia in salita in tutte le commissioni legislative, dove sarà sufficiente un’assenza o un imprevisto per mettere in minoranza la compagine di governo.
Lo scontro tra i due forzisti – che rispecchia quello nazionale tra l’area che fa capo ad Antonio Tajani e quella guidata da Licia Ronzulli – si inserisce in un contesto generale di frizioni dentro la maggioranza, dove non mancano i malpancisti sia tra i deputati di Fratelli d’Italia, ancora scossi per l’intervento romano sulla nomina degli assessori in giunta, sia tra gli autonomisti e tra i cuffariani.
In questo quadro non è escluso che in qualche commissione l’opposizione possa inserirsi nelle beghe nel centrodestra ribaltando l’esito del voto.
(da agenzie)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
PER LA GUIDA DELL’ENTE PER IL TURISMO LA MINISTRA SCEGLIE IVANA JELINIC, PROPRIETARIA DI UN’AGENZIA DI VIAGGI SENZA ALCUN DIPENDENTE…UN ADDETTO AILAVORI: “PENSAVO A UNO SCHERZO…”
“Quando l’ho letta pensavo fosse un fake…”. È il commento, tra il divertito e lo sconsolato, di un addetto ai lavori alla lettera inviata ai presidenti di Federturismo, Confturismo e Assoturismo il 16 novembre scorso dalla neo-ministra Daniela Santanchè.
Nella missiva si annunciava il cambio al vertice di Enit. “Desidero comunicarVi che è mio intendimento provvedere alla sostituzione dell’amministratore delegato di Enit, nominando la dottoressa Ivana Jelinic”.
Cinque righe desinate a ribaltare – per la terza volta in 18 mesi – l’ente deputato alla promozione del turismo italiano all’estero.
A giustificare lo sconforto dell’addetto ai lavori il cv dell’ad in pectore (il ministero, contattato dal Fatto, non ha voluto né confermare né smentire la nomina). Jelinic (che per il giornale di settore Guida Viaggi, dottoressa non è affatto) è presidente della Federazione Italiana Associazioni Imprese di Viaggi e Turismo (Fiavet), l’associazione delle agenzie di viaggio fisiche, che in un settore ormai votato al digitale, ai big data, rappresentano un passato “analogico” in via di estinzione. Nell’autopresentazione della 38enne Ivana si legge: “Dalla sua agenzia di viaggi ha disegnato le prospettive di un settore partendo da un’ottica microeconomica per pianificazioni nazionali e internazionali mai così vicine alle imprese”.
L’agenzia da dove “disegna le prospettive del settore”, è la Igei di frazione Tavernelle (Pg), impresa individuale con zero dipendenti, che ha un sito internet irraggiungibile e una pagina Facebook aggiornata al 31 dicembre 2021.
Però Jelinic vanta una solida amicizia con Santanchè, tanto che è stata tra le prime a congratularsi con lei una volta divenuta ministro: “Come presidente di Fiavet, faccio le mie più vive congratulazioni alla ministra del Turismo, Daniela Santanchè. Sono molto contenta di potermi confrontare con una donna battagliera, in un governo dove per la prima volta abbiamo un premier donna, Giorgia Meloni. (…) Sono certa che Santanchè eleverà questo ruolo con la sua concretezza e grande capacità di programmazione”, aveva dichiarato.
Ma la nomina di Jelinic all’Enit pone un problema. Dovrà infatti prendere il posto dell’attuale ad, Roberta Garibaldi, nominata nell’ottobre 2021 dall’ex ministro del Turismo Massimo Garavaglia.
A sua volta, Garibaldi aveva “sostituito” Giuseppe Albeggiani, nominato dallo stesso Garavaglia il 17 giugno 2021.
In quei tre mesi e 21 giorni, Albeggiani aveva promosso una due diligence sui conti e sui costi delle sedi estere; riorganizzato budget; rivisto impegni di spesa. Un lavoro di riordino del “carrozzone” che non aveva soddisfatto Garavaglia, il quale l’8 ottobre 2021 lo aveva rimosso, motivando la decisione con la necessità per Enit di avere una guida esperta in “enogastronomia”.
Albeggiani aveva impugnato il decreto di licenziamento per carenza di motivazione, ottenendo prima una sospensiva dal Consiglio di Stato, poi, a fronte di un secondo decreto del ministero, aveva fatto ricorso al Tar. Ad agosto 2022 il Tar ha dichiarato valido il secondo decreto, ma ha anche stabilito per Albeggiani un risarcimento, il cui ammontare non è stato ancora quantificato. Ma, tra danno d’immagine e mancati guadagni, la cifra non sarà trascurabile.
L’iter, a distanza di un anno, potrebbe ripetersi uguale, con Garibaldi questa volta nelle vesti della rimossa. Ciò che è sicuro è che il nuovo ad di Enit avrà le mani libere in termini di spesa, anche perché dal giugno scorso l’ente – che può vantare su un finanziamento statale annuale di oltre 30 milioni e che oggi conta sostanziosi avanzi di cassa, grazie ai risparmi fatti nel biennio Covid – è privo di un presidente.
Una delle principali voci di spesa di Enit sono le sponsorizzazioni, come sa Santanchè, che fino a novembre 2021 si occupava di raccolta pubblicitaria con la sua Visibilia, ora gestita dal compagno Dimitri.
E lo sa bene anche Rcs Communication di Urbano Cairo, che nel 2021 ha ricevuto 1.086.410 milioni per il Giro d’Italia e 427.000 euro per la Volleyball Nations League.
Enit ha già anche messo a bilancio ulteriori 4.000.380 per il Giro d’Italia 2022. Tutti soldi che fino a oggi sono andati a Rcs, ma che un domani potrebbero cambiare destinazione.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
ANDREBBE PROPOSTO PER UN RUOLO APICALE AL MUSEO DELLA RIMEMBRANZA
Se davvero, dopo “Genny” Sangiuliano, ministro della Cultura, anche Alessandro Giuli è in orbita per una poltrona di pregio (si parla del Museo Maxxi), non si vede perché tra le penne al seguito del governo Meloni non si debba premiare colui che, a nostro modesto avviso, lo meriterebbe più di altri: Italo Bocchino.
Come un prezioso reperto di San Casciano, riemerso dal passato in uno stato di conservazione eccellente, Bocchino è assai assiduo nei talk televisivi alla ricerca di opinioni di destra da declinare con un certo bon ton, e senza per forza indossare la maglietta della Decima Mas. Nelle sue prime uscite, dopo l’Avvento di lui colpiva l’abbigliamento risalente al tardo berlusconismo, quello dei cravattoni a tinte forti, preferibilmente rosa shocking, su camicia azzurrina e completo blu o grigio (sulle Church ai piedi non sapremmo dire mentre ai Ray-Ban è approdato dopo un ventennio il candidato alla segreteria del Partito democratico, Stefano Bonaccini).
Del resto, a quei tempi, più che per il suo essere finiano, la fama di cui godeva nel Popolo delle libertà era quella del raffinatone, per cui si narra che Silvio Berlusconi lo interpellasse quando si trattava di dare una sistemata al vestiario di qualche famiglio un po’ troppo trasandato per i suoi gusti (“Portalo da quel tuo sarto napoletano”).
Oltre che per l’invidiabile capigliatura d’incontaminata tonalità, Italo Bocchino ci ha riportati a quegli anni ruggenti, esibendo come nuovo il tormentone tv “non m’interrompa, io non l’ho interrotta”, che per noi imbiancati è stato come un tuffo nella nostalgia di Emilio Fede e Colpo grosso.
Ultimamente, forse perché piccato dal sentirsi interpellare come voce di sicura osservanza meloniana, ha fatto outing esibendo una più sobria cravatta adornata però da un piccolo tricolore, marchio identitario di Palazzo Chigi.
L’altra sera, mentre veniva imballato e riposto in attesa di essere mostrato alle scolaresche, abbiamo pensato che anche nel suo generoso prodigarsi Bocchino appare superato dai tempi.
Per questo motivo, lo proponiamo per un ruolo apicale al Museo della Rimembranza.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
LA MANOVRA INTRODUCE UNA FLAT TAX INCREMENTALE SOLO PER LE PARTITE IVA
Nel testo della legge di Bilancio licenziata dal Consiglio dei ministri trova posta anche l’annunciato, piccolo, ampliamento della flat tax. Ossia la tassa piatta con un’aliquota unica, in questo caso del 15%, che si applica indipendentemente dal reddito del contribuente azzerando la progressività del prelievo.
In particolare sale da 65mila a 85mila euro la soglia dei ricavi o dei compensi entro cui le partite Iva possono ricorrere a questo regime.
In termini di platea non cambia molto, agli attuali 2,1 milioni titolari di partite Iva beneficiari della tassa piatta se ne aggiungono 100mila ma il costo della misura è di 600 milioni di euro.
La riforma introduce trattamenti fiscali fortemente differenziati tra lavoratori dipendenti e autonomi con redditi paragonabili.
Come ha sottolineato su Twitter l’economista Lavoro Maria Cecilia Guerra, un dipendente o un pensionato finirebbero con il versare fino a quasi 10mila euro di tasse in più rispetto a una partita Iva.
Il calcolo richiede alcune spiegazioni che la professoressa Guerra ha fornito a Ilfattoquotidiano.it.
Un titolare di partita Iva (ad esempio un avvocato) è sottoposto ad un regime di costi forfettari del 22% (indipendentemente da quelli effettivi) che devono sottratti ai ricavi. A cui vanno poi tolti anche i contributi. Fatti i dovuti calcoli rimangono appunto 53.703 euro e a questa cifra si applica la flat tax del 15% per un prelievi che ammonta a 8.055 euro.
Un dipendente con lo stesso reddito è invece sottoposto non solo alle ordinarie aliquote Irpef (nella parte sopra i 50 mila euro del 43%) ma anche alle addizionali Irpef comunali e regionali che in città come Roma o Milano incidono in misura non indifferente. Il risultato finale è che un dipendente che abita nella capitale si trova a pagare imposte per 18.019 euro, quasi 10mila euro in più rispetto al lavoratore autonomo, ad esempio un avvocato.
La manovra introduce anche una flat tax incrementale, sempre del 15% e sempre per le sole partite Iva. In sostanza il prelievo “piatto” si applica agli incrementi di reddito rispetto al triennio precedente fino a 40mila euro. Qualora si dovessero superare i 100mila euro di incassi annui si torna però in automatico al regime di tassazione ordinario e progressivo.
Nella manovra ci sono “tre tasse piatte”, tra cui quella “sui redditi incrementali alle partite Iva che hanno una tassa piatta del 15% sul maggiore utile conseguito rispetto al triennio precedente con soglia massima 40 mila euro, il che dimostra che si tratta di una misura rivolta al ceto medio, che non favorisce i ricchi e riconosce i sacrifici di chi lavora”, ha spiegato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni stamane in conferenza stampa. Meloni ha ricordato poi l’aumento della flat tax a 85mila euro e “l’introduzione della tassa piatta al 5% sui premi di produttività fino a 3mila euro contro il 10% previsto attualmente e fa il paio con estensione fringe benefit”.
“Sulla flat tax ordinaria siamo intervenuti elevando il tetto da 65mila a 85mila euro, nel rispetto delle regole comunitarie. Quello che abbiamo fatto è anche una misura di contrasto all’elusione e a pratiche non certo ortodosse: prima il soggetto con i presupposti per la flat tax che nell’anno precedente aveva un ammontare inferiore a 65mila euro, nell’anno successivo poteva dichiarare anche un milione e pagare comunque il 15%: oggi non è più possibile, se superi la soglia già da quell’anno tu mi devi pagare tutte le imposte”, ha precisato il viceministro dell’economia Maurizio Leo. Oltre a questo, “in alternativa c’è la flat tax incrementale, che è uno aspetti più importanti nel programma centrodestra e ha una duplice finalità: contrastare l’evasione fiscale, e di stimolo alla crescita economica”.
In realtà non si capisce bene per quale ragione l’innalzamento della soglia massima dovrebbe scongiurare l’evasione fiscale. Non si fa altro che spostare su una cifra più elevate il punto che sollecita comportamenti di occultamento dei redditi al fisco. La recente, e a lungo attesa, Relazione sull’economia non osservata redatta dal ministero dell’Economia ha messo in luce “un incremento della propensione al gap (la differenza tra gettito presunto ed effettivamente registrato, ndr) dovuta al fatto che alla riduzione degli importi dichiarati, determinata dall’estensione del regime forfettario, non risulta associata un’altrettanto marcata riduzione del gap d’imposta”. In termini più semplici la flat tax ha accresciuto e non diminuito la propensione all’evasione fiscale. Le misure arrivano peraltro in una fase di elevata inflazione (11,9%) che verosimilmente si tradurranno, almeno in parte, in un incremento dei ricavi nominali delle partite Iva in grado di scaricare sui clienti i maggiori costi. L’effetto reale del nuovo regime fiscale rischia quindi di essere in concreto molto ridimensionato.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
404.000 FAMIGLIE IN MISERIA DA AGOSTO 2023
L’obiettivo, va detto, era inseguito da tempo. Da quando il Reddito di cittadinanza è entrato in vigore nel marzo del 2019, aiutato dalla grancassa mediatica che ha amplificato le truffe, dalla narrazione – smentita dai dati – dei “divanisti” cara alla destra, al rassemblement centrista che ha la sua sponda in pezzi del centrosinistra ed è stata sposata perfino dai 5Stelle (“La misura non può andare a chi sta sul divano”, copyright Luigi Di Maio).
Alla fine, com’era prevedibile, dopo il lavoro sporco, l’ultimo miglio lo percorre il governo di Giorgia Meloni: l’Italia è il primo tra i grandi Paesi europei (ma pure tra i più avanzati Ocse) a fare marcia indietro su una misura di sostegno alle persone in povertà. Assieme alla Grecia è stata l’ultima a introdurla, oggi è la prima a volerla abolire.
L’annuncio l’ha dato ieri la premier in conferenza stampa presentando la manovra. La misura prevede lo stop già dal 2023 per gli “occupabili”, cioè chi ha firmato un “patto per il lavoro” con i centri per l’impiego, e dal 2024 finirà per tutti, anche se, spiega Meloni, “si continua a tutelare chi non può lavorare e aggiungiamo le donne in gravidanza”. Bontà sua.
La norma Colpiti in 400 mila E il favore al turismo
Le bozze della norma prevedono già nel 2023 il taglio dell’assegno a 8 mensilità per chi, tra i 18 e i 59 anni, può lavorare: sarà obbligato a seguire corsi di formazione per l’inserimento lavorativo (peraltro già previsti dalla norma). Quanti sono? In teoria, 830 mila, un terzo dei quali già lavora e si vede integrare un salario misero dal Rdc.
La relazione tecnica parla di una platea interessata di 404 mila nuclei familiari, se si escludono quelli che hanno minori, disabili o anziani over 60 a carico (esentati dal taglio). Queste famiglie percepiscono un beneficio medio di 543 euro mensili per nucleo.
Di norma i nuclei hanno 2,5 membri, e quindi parliamo di un milione di persone. Quelli con percettori occupabili sono meno numerosi e quindi il numero può oscillare tra le 500 e le 600 mila persone.
Gente che, al più tardi da agosto, non avrà più il sussidio pubblico. Chi sono, è noto: il 70% ha al massimo la licenza media, il 73% non ha avuto esperienze lavorative negli ultimi tre anni; soprattutto disoccupati di lungo corso ai margini del mondo del lavoro che sopravvivono come possono.
La norma prevede lo stop all’assegno già alla prima offerta di lavoro rifiutata (prima era due) e impone che tutti i beneficiari (occupabili e non) residenti nel Comune debbano essere impiegati in progetti utili alla collettività (oggi solo un terzo del totale).
Meloni non si è fatta mancare nemmeno un regalino, per così dire, di settore: solo i lavoratori stagionali potranno lavorare e conservare il Rdc, fino a un limite di 3.000 euro (la stima è di 70 mila occupati per un costo di 43 milioni).
Parliamo di una misura che gli esperti di lotta alla povertà, racchiusi nella commissione ministeriale istituita dall’ex ministro Andrea Orlando, avevano chiesto per tutti i lavoratori, visto che oggi il Rdc viene decurtato dell’80% per ogni euro incassato via salario.
Meloni, invece, accontenta solo le imprese del turismo, che si dolgono sui giornali della concorrenza del sussidio, narrazione che fa a pugni con le assunzioni stagionali da record (820 mila fino ad agosto, nel 2022 si supererà il milione) ma si inserisce a pieno nell’opera di livellare al ribasso i salari, costringendo i lavoratori ad accettare paghe da fame.
Non a caso, il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, ha spiegato che “basterebbe migliorare le condizioni retributive e lavorative di questi lavoratori per quasi dimezzare l’attuale numero dei percettori”. Nulla di tutto questo compare in manovra che – oltre ai 730 milioni di risparmi – fissa la spada di Damocle dello stop totale dal 2024 a favore di una “riforma delle misure di sostegno alla povertà”.
In Ue ultimi E Berlino fa tutto il contrario
Come detto, la decisione italiana va in controtendenza. Tutti i Paesi Ue, seppur in maniera diversa, hanno introdotto uno schema di reddito minimo garantito: l’Italia è arrivata ben ultima con la Grecia.
Secondo i dati ripresi da Openpolis, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Svezia, Slovacchia e, dal 2020, Spagna hanno una efficace gestione centralizzata, altri hanno schemi stratificati o gestiti a livello locale (Austria o Slovacchia). In Italia il Rdc corrisponde a un terzo del reddito mediano: è il settimo Paese Ue più generoso, dopo Paesi Bassi, Lussemburgo, Danimarca, Belgio, Irlanda e Malta. Tra gli ultimi troviamogli Stati dell’Europa Orientale, soprattutto Lettonia, Slovacchia e Romania, dove il reddito minimo garantito è l’8% di quello mediano.
Secondo i dati dell’osservatorio Cdpi, in 10 Paesi è obbligatorio accettare qualsiasi offerta di lavoro pena la perdita del beneficio, in 11 qualsiasi offerta appropriata, e in Francia si può rifiutare soltanto una offerta. Altri impongono l’obbligo di svolgere lavori socialmente utili (Lussemburgo e Romania). Allargando lo sguardo in sede Ocse, si vede che tutti i sistemi di protezione sociale, benché molto diversi fra loro, prevedono trasferimenti di natura non contributiva simili al Reddito di cittadinanza. Secondo uno studio dell’economista Ocse Daniele Pacifico, nel 2018 il 43% di tutti i sussidi erogati alla popolazione italiana in età lavorativa è andato al 20% più ricco, solo l’8% è stato ricevuto dal 20% più povero, questo perché gran parte degli aiuti era di tipo contributivo non means tested, cioè senza verifica del reddito e senza effetto redistributivo. Cosa che l’Rdc fa e infatti la quota di aiuti di tipo non contributivo è passato dal 20 al 38% (in Danimarca è all’82%, in Irlanda al 71%, in Germania al 60% e in Francia al 51%).
Si vedrà se la ministra del Lavoro, Marina Calderone, che è riuscita a rimandare al 2024 lo stop totale al Rdc, riuscirà a salvare il grosso della misura. Nel frattempo però, l’Ue ha chiesto di fare il contrario, cioè rinforzare gli schemi di reddito minimo garantito. La Germania, per dire, sta facendo il contrario dell’Italia, trasformando i suoi sussidi “Harz IV” in una sorta di reddito di cittadinanza per ridurre la pressione sui disoccupati negli uffici di collocamento. L’idea è promuovere l’apprendimento, anziché dare priorità all’inserimento lavorativo: ci si potrà aggiornarsi e cercare un lavoro duraturo, senza accontentarsi di un’occupazione temporanea. La riforma voluta dal governo Scholz è ora bloccata dal Consiglio federale guidato dalla Cdu. La destra è destra, anche a Berlino.
(da il Fatto Quotidiano)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
EDIMBURGO INVOCAVA IL DIRITTO DI CONVOCARLO SENZA L’OK DI WESTMINSTER… LA PREMIER NON VUOLE FORZARE LA MANO, MA ANNUNCIA: “LE PROSSIME ELEZIONI SARANNO UN REFERENDUM DI FATTO”
La Corte Suprema britannica ha risposto picche alla richiesta presentata dal governo locale scozzese guidato da Nicola Sturgeon, leader degli indipendentisti dell’Snp, di poter convocare unilateralmente un secondo referendum sulla secessione della Scozia dal Regno Unito dopo quello perduto nel 2014.
Come previsto da numerosi giuristi, i supremi giudici hanno infatti respinto all’unanimità l’istanza in base alla quale s’invocava il riconoscimento del diritto a promuovere una consultazione bis (dopo la Brexit) con il solo voto favorevole del Parlamento locale di Edimburgo e senza il tradizionale placet vincolante di Londra.
Il dispositivo è stato illustrato dal presidente della Corte, lord Robert Reed, e rigetta su tutta la linea le argomentazioni giuridiche degli indipendentisti scozzesi: ribadendo che – in base allo Scotland Act – la materia della convocazione di una referendum sulla secessione, destinato inevitabilmente ad avere conseguenze sull’intero Regno Unito, resta soggetta alla parola finale del governo britannico e del Parlamento di Westminster come potere esclusivo.
E che quindi la richiesta di promuoverla attraverso la sola approvazione di una legge nazionale scozzese da parte dell’assemblea parlamentare di Edimburgo non è legalmente fondata.
Sulla carta l’Snp avrebbe potuto contare su una solida maggioranza in seno al parlamento scozzese in favore di un referendum bis, per il cui svolgimento Nicola Sturgeon ha indicato a suo tempo l’orizzonte ravvicinato del 2023.
Mentre vari sondaggi recenti continuano a mostrare una spaccatura quasi a metà della popolazione scozzese sulla questione, contro il risultato del 2014 in cui i no prevalsero sui sì con il 55,3% rispetto al 44,7.
Per i ricorrenti il verdetto odierno conferma in ogni modo che le istituzioni del Regno rappresentano “una gabbia” e un ostacolo al riconoscimento dell’asserita “volontà democratica” degli scozzesi.
Tanto più che il governo centrale Tory di Londra insiste a escludere in questo momento storico la benché minima prospettiva di via libera a una rivincita referendaria in Scozia: sostenendo che non questo sia il momento per tornare a discuterne ad appena 8 anni da un verdetto, quello del 2014, che entrambe le parti s’erano impegnate all’epoca ad accettare come responso valido per “una generazione”.
La Sturgeon peraltro aveva fatto sapere fin da prima della pronuncia giudiziaria di oggi di voler evitare anche in caso di sconfitta legale forzature costituzionali di sorta. Per puntare semmai a proseguire la battaglia per un nuovo referendum sul terreno politico, facendo di tale obiettivo il tema dominante della campagna elettorale dell’Snp (Scottish National Party) in vista del prossimo voto politico britannico.
“Il verdetto di oggi blocca una strada affinché la Scozia possa fare sentire democraticamente la sua voce sull’indipendenza, ma la democrazia non può e non sarà tacitata” per sempre, conclude Sturgeon, anticipando via Twitter i contenuti di una dichiarazione formale al Parlamento di Edimburgo.
Le prossime elezioni del Regno Unito saranno un “referendum de facto” sull’indipendenza della Scozia. Lo ha dichiarato in una conferenza stampa la first minister del governo locale scozzese e leader degli indipendentisti dell’Snp, Nicola Sturgeon
(da agenzie)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
TROVATI 100MILA DOLLARI IN CONTANTI E DIVERSE MIGLIAIA DI RUBLI, DOCUMENTI DI PROPAGANDA FILORUSSA E PASSAPORTI CONTRAFFATTI
I Servizi di sicurezza e gli agenti dell’intelligence (Sbu) di Kiev hanno completato le perquisizioni cominciate ieri nei siti religiosi legati alla Chiesa ortodossa russa sul territorio ucraino: tra le altre cose sono stati trovati 100mila dollari in contanti e diverse migliaia di rubli, documenti di propaganda filorussa, passaporti e altri documenti contraffatti.
Oltre al Monastero delle Grotte di Kiev, sono stati perquisiti il Monastero della Santissima Trinità di Koretsky e i locali della Diocesi Sarnensko-Polyska nella regione di Rivne. Una nota dell’Sbu dichiara che sono stati controllati più di 350 edifici ecclesiastici e 850 persone, sia cittadini ucraini che russi: “Alcuni di loro, durante il controllo dei documenti, hanno fornito passaporti e documenti militari dell’Urss, non avevano documenti originali, ma solo copie, oppure avevano passaporti di cittadini ucraini con segni di contraffazione o danneggiamento”, afferma il comunicato dell’intelligence, come riporta Unian.
Messe da parte per ora le speranze di una soluzione negoziata, in Ucraina bisogna prepararsi a “una escalation”. L’allarme è stato lanciato dal cancelliere tedesco Olaf Scholz nel giorno in cui il conflitto investe anche il terreno della religione, in uno dei luoghi più sacri di Kiev: lo storico Monastero delle Grotte che agenti dell’intelligence e dei servizi di sicurezza hanno perquisito alla ricerca di presunte spie o elementi sovversivi. Un vero “atto di guerra” contro la Chiesa ortodossa russa, lamenta il Cremlino.
Secondo Scholz, la temuta escalation potrebbe essere il risultato di una reazione di Mosca di fronte “ai visibili e crescenti fallimenti” sul campo. Mentre nelle regioni orientali del Donbass il fronte sembra quasi immobilizzato, gli ucraini segnalano pesanti scontri a sud di Mykolaiv, ad ovest della penisola di Crimea, dove le truppe di Kiev stanno cercando di riconquistare tre cittadine per estromettere completamente le forze russe dalla regione.
(da Ansa)
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Novembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
LA FOTO DI GRUPPO DELLA SQUADRA TEDESCA CONTRO LA CENSURA DELLA FIFA CHE HA VIETATO DI PARLARE DI DIRITTI UMANI VIOLATI
La Germania sfida la Fifa e il Qatar. All’ingresso in campo per la sfida contro il Giappone, il capitano tedesco, il portiere Manuel Neuer, indossava la fascia ufficiale Fifa. Ma leggermente coperta da un’altra maglia: quindi ha scelto di non indossare la fascia arcobaleno della campagna “One Love”, per cui la Fifa aveva minacciato di ammonire i giocatori che l’avessero indossata perché contraria al regolamento sull’attrezzatura ufficiale da vestire.
Incredibilmente, visto che la fascia era coperta, il guardalinee Zeegelaar, del Suriname, è andato a verificare se si trattasse di una fascia “proibita”. Una scena letteralmente surreale. Mentre la tv non inquadra mai da vicino Neuer, nemmeno in occasione dei replay: chissà di cosa deve aver paura.
E allora, tutti con la mano davanti alla bocca, come a mimare il bavaglio. Dopo gli inni, al momento di scattare la foto di gruppo, i calciatori della Germania hanno messo in atto una sorta di flash mob. Che sembra mimare il “bavaglio”: un messaggio chiaro, contro la Fifa e il Qatar che hanno vietato la fascia da capitano arcobaleno della campagna “One Love”.
Giusto un istante, raccolto però dai fotografi e visibilissimo dallo stadio. Ma oscurato dalla regia internazionale, che non ha trasmesso le immagini di quella protesta. Sugli spalti la fascia arcobaleno l’ha indossata Nancy Faeser, ministro dell’interno tedesco. Al suo fianco c’era il presidente della Fifa, Gianni Infantino.
La Federcalcio tedesca ha poi spiegato il gesto, se mai ce ne fosse stato bisogno, con una nota: “Con la fascia da capitano volevamo dare l’esempio dei valori che abbiamo nella nazionale tedesca: diversità e rispetto reciproco. Non si tratta di un messaggio politico: i diritti umani non sono negoziabili. Questo dovrebbe essere ovvio. Purtroppo non lo è ancora. Ecco perché questo messaggio è così importante per noi. Insieme ad altre nazioni, volevamo che la nostra voce fosse ascoltata. Negarci l’utilizzo la fascia è come spegnere le nostre bocche. Sosteniamo la nostra posizione”.
(da agenzie)
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