Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
I SOVRANISTI HANNO BISOGNO DI UN’ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA PER NASCONDERE IL LORO NULLA
C’è una cosa su cui Giorgia Meloni ha sempre dimostrato di essere fra le migliori in assoluto: la creazione e gestione di una narrazione vittimista che sia funzionale alla costruzione del consenso.
La sua carriera politica offre diversi esempi, non da ultimo la conduzione durante i mesi di governo di Mario Draghi, con la retorica dell’emarginazione e del confinamento delle istanze di Fratelli d’Italia da parte dei fautori della grande ammucchiata.
Una strategia non solo comunicativa che Meloni sta adottando anche nella nuova veste di presidente del Consiglio, con qualche piccolo accorgimento che si rende necessario in virtù del cambiamento di contesto e rapporti di forza.
Nella posizione in cui si trova adesso, considerate le enormi difficoltà in cui si trova a operare e il carico di aspettativa dell’opinione pubblica, Meloni ha la necessità di individuare di volta in volta degli obiettivi, meglio se degli ostacoli. E quando non ci sono, di crearli.
Il meccanismo è tutto sommato abbastanza semplice, poiché prevede essenzialmente che, di fronte a un qualunque tipo di problematica, il primo passo da fare sia di procedere per contrasti, alterità, dualismi.
C’è sempre questo binomio di forze: da un lato quelli che vogliono intervenire e che sono sempre interpreti della volontà popolare, dall’altro chi o è causa del problema o è ostacolo alla sua risoluzione, per interesse o incompetenza.
Quello che non deve mai mancare, dicevamo, è il processo di creazione del nemico. Serve sempre un obiettivo polemico, meglio se un soggetto in grado di sussumere la responsabilità del problema e l’impossibilità di venirne a capo. Meglio ancora se si può attingere all’immaginario collettivo dei mostri, dei nemici storici, dei problemi che nessuno ha mai voluto risolvere.
Le prime settimane del governo Meloni sono specchio fedele di questa impostazione.
La leader di Fratelli d’Italia non è in una posizione semplice. Ha dovuto mediare e trattare per costruire la squadra di governo, non potendo mai fidarsi fino in fondo dei suoi principali alleati, con un risultato che non ha soddisfatto le grandi aspettative di cambiamento e discontinuità con le esperienze precedenti.
Si è trovata a fare i conti con una situazione economica molto difficile, con margini di manovra ridotti e la necessità di seguire pedissequamente o quasi le indicazioni del suo predecessore Mario Draghi.
Ha già bucato le prime promesse ed è stata quasi costretta ad adottare un approccio prudente, anche perché circondata da alleati che sembrano perseguire una propria agenda politica. È stato un inizio complicato anche in politica estera, malgrado l’Italia avesse la strada tracciata e zero possibilità di deragliare su questioni centrali come l’Ucraina.
Insomma, una condizione complessiva di estrema difficoltà, che non sembra dover cambiare nel breve volgere di qualche settimana. Se non puoi cambiare la realtà, puoi almeno provare a controllarne la narrazione. Ed è quello che Meloni e i suoi stanno cercando di fare fin dall’inizio, muovendosi nel solco di una strategia consolidata.
La polemica sul linguaggio da utilizzare per rivolgersi a Meloni è il primo trial balloon: portare l’opinione pubblica a discutere di una questione che essa percepisce come marginale (non lo è, peraltro), su un terreno congeniale alla retorica della destra, con la possibilità di creare i primi “nemici del fare” (i radical chic, le femministe e via discorrendo). Poi la vicenda dei rave, che permette di utilizzare un altro frame narrativo, quello della “pacchia finita”. Il nemico di turno è un bersaglio facilissimo: i giovani del “divertimento facile”, quelli che “non rispettano le regole”, che “fanno uso di droghe” e via discorrendo.
Un’emergenza inesistente, una questione più che marginale, diventa il centro della discussione per settimane, oltre che oggetto addirittura di un decreto da parte di un governo che avrebbe compiti ben più gravosi.
La costruzione a tavolino dei nemici procede senza sosta e si alimenta di qualunque episodio di cronaca: da una protesta ambientalista a una manifestazione studentesca, la tecnica è sempre la stessa, gli obiettivi quelli conosciuti, repressione del dissenso inclusa.
È particolarmente interessante notare come in queste narrazioni spesso ci si trovi di fronte a una totale inversione dei ruoli e dei rapporti di forza: contestazioni marginali diventano “mainstream”, singoli e condannabili episodi di violenza diventano rappresentativi di interi movimenti di contestazione, politici con trent’anni di carriera in Parlamento e onnipresenti in tv che parlano di censura.
In questo clima, sapevamo che non avremmo dovuto attendere molto prima che andasse in scena un grande classico della narrazione vittimista della destra: la guerra alle Ong che salvano la vita ai migranti nel Mediterraneo.
Un’occasione d’oro per il governo Meloni, perché stavolta c’è stato anche il caso diplomatico, uno vero, con la Francia (e pazienza se si tratta della nazione con cui meglio abbiamo lavorato in sede europea negli ultimi anni). Migranti, Ong, francesi ed Europa cattiva: la tempesta perfetta per la macchina della propaganda meloniana e salviniana.
Nemici funzionali allo scopo di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica intorno al frame narrativo dell’emergenza immigrazione come pericolo per la nazione, di fronte al quale l’Italia sarebbe lasciata da sola dagli altri stati europei che non rispettano gli impegni presi e si disinteressano delle regole comuni, finanche agevolando l’opera dei nuovi scafisti che lucrano sull’immigrazione clandestina.
Ma anche qui, tranquilli, perché “la pacchia è finita” e il nuovo governo “affermerà un principio” e si farà valere in Europa.
Poi, per carità, ci sarebbe la realtà dei fatti, che parla di numeri gestibili, di reiterate violazioni italiane del diritto internazionale e delle regole europee, di provvedimenti illegittimi e di gestione ridicola da parte del Viminale, di persone tormentate per giorni senza alcun motivo e di diritti sacrificati in nome della propaganda, di disinteresse italiano ed europeo per le azioni di ricerca e salvataggio in mare dei migranti e di accordi sulla pelle degli ultimi con i libici.
Ma figuriamoci se interessa a qualcuno…
(da Fanpage)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
SU UN TOTALE DI 1.369.779… IL 65% HA AVUTO UN CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO, IL 15,4% A TEMPO INDETERMINATO, IL 4,1% DI APPRENDISTATO
Il governo nemico del Reddito di cittadinanza ha bisogno di nutrirsi di una narrazione che demonizzi la misura e la presenti come fallimentare. La narrazione ha un punto decisivo a suo favore finora assunto passivamente: la misura non è capace di creare lavoro.
A sostegno di affermazioni come queste si prenda l’utilizzo che è stato fatto, in ultimo sul quotidiano Libero dell’11 novembre, di un rapporto della Corte dei Conti da cui si evincerebbe che nel corso del 2020 ci sarebbero stati solo 536 assunti “con il reddito del M5S”.
Perché 536. Contratti sono fuorvianti
Il rapporto, del 28 giugno 2022, in realtà non si occupa del RdC ma della gestione finanziaria dell’Inps ed è il frutto di una relazione del magistrato interno dedicato al controllo dell’Istituto di previdenza (con cui, a quanto si apprende, i rapporti non sono particolarmente positivi).
I 536 posti di lavoro indicati vengono poi ricavati dagli “esoneri contributivi” di cui beneficiano le imprese per l’assunzione di beneficiari del reddito e che rendono la misura “non significativa”.
Sembrerebbe una bocciatura netta che, però, non tiene conto che le aziende che si rivolgono ai Centri per l’impiego, condizione necessaria per ottenere l’esonero contributivo, sono davvero poche mentre la gran parte delle assunzioni avviene direttamente o comunque fuori dai vecchi uffici di collocamento.
In ogni caso, a chiarire lo stato della situazione c’è una deliberazione della Corte dei Conti, stavolta della “Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato”, datata settembre 2021 e ancora riferita all’anno 2020. In questo caso l’oggetto della delibera è proprio il “Funzionamento dei Centri per l’impiego nell’ottica dello sviluppo del mercato del lavoro”.
I dati: 352 mila non sono pochi
L’analisi qui è davvero ampia e articolata e soprattutto contiene, a pagina 155, una tabella in cui non solo si individuano “i beneficiari del RdC tenuti alla sottoscrizione di un Patto per il lavoro (i cosiddetti Work Ready)” che, dice la Corte, al 31 ottobre 2020 sono stati pari a 1.369.779, ma anche “coloro che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro successivo alla domanda di RdC pari a 352.068”.
I numeri sono ben differenti e la Corte dei Conti si spinge a dettagliarli nelle tipologie contrattuali.
In questo caso, il 65 per cento dei soggetti ha ottenuto un contratto a tempo determinato, il 15,4 per cento un contratto a tempo indeterminato e il 4,1 per cento un contratto di apprendistato.
Particolarmente importante anche la durata effettiva osservata da Anpal Servizi (la struttura pubblica incaricata di monitorare i risultati del RdC e i cui dati forniscono il rapporto della Corte) relativamente ai contratti a tempo determinato e di collaborazione di cui “il 69,8 per cento ha una durata inferiore ai 6 mesi mentre una quota del 9,3 per cento ha superato il termine annuale.
Il nodo del mercato del lavoro
Il problema del mancato inserimento dei beneficiari del RdC nel mercato del lavoro non risiede quindi nella misura, ma nel mercato stesso. Il quale è volubile, dipendente dai voleri e dai bisogni delle imprese, in grado di garantire contratti per lo più a tempo e per un tempo molto limitato e in condizioni fragili.
Basta guardare al tipo di professioni attribuite a questi lavoratori: il 15,6 per cento del totale – si legge ancora nella deliberazione della Corte – ha sottoscritto un contratto di lavoro nell’ambito delle professioni non qualificate nel commercio e nei servizi, il 13,7 per cento ha ottenuto il riconoscimento di una professione qualificata nelle attività ricettive e della ristorazione e solo il 2,6 per cento è stato apprezzato come artigiano, operaio metalmeccanico specializzato, installatore, manutentore etc.
Il problema principale è la composizione sociale della platea dei beneficiari.
Un’analisi sui primi tre anni di applicazione del RdC (a cura di Saverio Bombelli e Stefania Luccini per l’Inps), su quasi 2 milioni di soggetti beneficiari dimostra che il 41,8% non sono interessati alla ricerca di lavoro perché o minori, pensionati o disabili a vario titolo.
Resta quindi solo il 60% circa, circa 1,1 milione di persone, di cui per circa 291 mila, il 14,6% del totale “non risulta alcuna giornata di contribuzione dal 1° gennaio 1975 al 31 marzo 2019”.
Si tratta di persone che non hanno mai avuto un rapporto con il mondo del lavoro e che sono sempre stati inattivi. Il 70% sono donne.
“Poco meno di mezzo milione di soggetti (24,9% del totale beneficiari di Rdc)” hanno invece una posizione contributiva lontana nel tempo (nel 2017 o prima)
Una platea fatta di esuberi
Anche qui la prevalenza è di donne, poco più del 50%, e l’età media è di 46 anni, quindi espulsi dal mercato del lavoro per i quali, ad esempio, l’anzianità contributiva maturata ai fini del diritto alla pensione è in media di circa 6 anni.
“Si tratta di soggetti che all’atto della prima domanda di Rdc erano da almeno quindici mesi fuori dal mercato del lavoro attivo e senza neanche prestazioni a sostegno del reddito, congedo di maternità, malattia, eccetera”.
Ci sono infine circa 372 mila soggetti (18,7% del totale beneficiari di Rdc) che hanno una posizione contributiva contemporanea al Rdc o comunque ravvicinata.
“L’età media è di 40 anni, intermedia tra i due gruppi precedenti, rispetto ai quali è però l’unico gruppo in cui le donne sono minoranza, il 45%”. Sono questi i lavoratori veramente attivabili ma anche questi in buona parte sono stati espulsi dal mercato del lavoro per i quali il RdC serve a “integrare/proseguire la disoccupazione indennizzata oppure un part-time di modesta entità”.
I dati tornano anche nel rapporto annuale dell’Anpal riferito al 30 giugno scorso.
Circa il 72% dei beneficiari del Rdc, oltre 660 mila individui, è soggetto alla sottoscrizione del Patto per il lavoro.
Di questi, il 27,2% sono “vicini al mercato del lavoro”, ma solo “il 13% ha un’esperienza di lavoro relativamente recente conclusosi negli ultimi 12 mesi”.
La platea di coloro che invece non ha mai avuto un contratto di lavoro dipendente o in para-subordinazione nei 36 mesi precedenti il 30 giugno 2022 è composto da 481 mila individui pari a circa 73% dei beneficiari. “Si tratta – scrive l’Anpal – di individui che complessivamente esprimono alcune fragilità rispetto al bagaglio con cui si affacciano ai percorsi di accompagnamento al lavoro e che nel 70,8% dei casi hanno conseguito al massimo il titolo della scuola secondaria inferiore”.
Il problema più che a monte sta a valle. La maggior parte di questi soggetti, senza il RdC, non avrebbe un lavoro, ma probabilmente finirebbe sotto i ponti. Ed è difficile credere che il governo non lo sappia.
(da il Fatto Quotidiano)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
A MOSCA AVEVANO GIA’ APERTA LA FINESTRA PER FARLO VOLARE DI SOTTO? MEGLIO CAMBIARE IDEA IN TEMPO
Dugin contro Putin: una immediata marcia indietro chissà quanto spontanea chissà quanto sollecitata.
«L’Occidente ha iniziato a insinuare che dopo la resa a Kherson, io e i patrioti russi ci siamo rivoltati contro Putin e avremmo chiesto le sue dimissioni. Questa accusa è venuta fuori dal nulla. È ovvio che nessuno ci crederà. Ma giusto per essere sicuri: nessuno ha voltato le spalle a Putin, sia io che tutti gli altri patrioti russi lo supportiamo incondizionatamente. Il dolore per la perdita di Kherson è una cosa, l’atteggiamento verso il comandante in capo è un’altra».
Lo ha chiarito o è stato costretto a chiarire su Telegram l’estremista di destra ultra-nazionalista Alexander Dugin aggiungendo: «Siamo fedeli a Putin e sosteniamo l’operazione militare fino alla fine».
Dugin ha dovuto fare una precisazione perché in. precedenza aveva detto: “Diamo al sovrano pienezza assoluta dei poteri per salvarci tutti”, quindi “pieni poteri in caso di successo, ma anche totalità delle responsabilità in caso di fallimento”
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
“UN CONTO E’ UNA PIU’ EQUA RIDISTRIBUZIONE DEI RICHIEDENTI ASILO, ALTRA COSA VIOLARE LE LEGGI INTERNAZIONALI”
Dopo la Francia (e la Germania) anche la Spagna si schiera contro il governo reazionario guidato da Giorgia Meloni e le sue interpretazioni del diritto internazionale.
Madrid «non può sostenere proposte che premierebbero i Paesi che non rispettano i loro obblighi in termini di diritto marittimo internazionale e che andrebbero a discapito di quelli che, come la Spagna, rispettano i loro obblighi internazionali e salvano vite con risorse pubbliche»: lo dice un portavoce del ministero dell’Interno spagnolo, commentando la dichiarazione congiunta di Italia, Grecia, Malta e Cipro sui migranti rivolta all’Unione europea.
La Spagna, è la premessa, «condivide con i suoi partner mediterranei la necessità di istituire un meccanismo per un’equa distribuzione delle responsabilità tra i Paesi dell’Ue in materia di migrazioni, e lo ha sempre difeso sia all’interno della Med5 che nei Consigli dei ministri dell’Interno».
Ma «non può però sostenere proposte che premierebbero i Paesi che non rispettano i loro obblighi in termini di diritto marittimo internazionale e che andrebbero a discapito di quelli che, come la Spagna, rispettano i loro obblighi internazionali e salvano vite con risorse pubbliche».
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
321 PARLAMENTARI INGLESI HANNO OTTENUTO UN PASSAPORTO IRLANDESE CHE DA’ LORO DIRITTO DI USUFRUIRE DELLE TARIFFE COMUNITARIE
In altri tempi i mutamenti di nazionalità erano prevalentemente il risultato delle migrazioni. L’industrializzazione di un Paese attraeva mano d’opera da Paesi più o meno vicini e l’immigrato, dopo essersi installato nel Paese che sarebbe diventato la sua nuova patria, decideva di cambiare la sua nazionalità. Era un processo che richiedeva mediamente qualche anno. Oggi i tempi si sono accorciati soprattutto nella Unione Europea dove le diverse nazionalità sono unite da una relazione ormai quasi federale.
Secondo Denis MacShane, già ministro per gli Affari europei nel governo britannico all’epoca di Tony Blair, i parlamentari del Regno Unito (membri della Camera dei Comuni e della Camera dei Lord) che hanno anche un passaporto irlandese, erano 47 nel 2016, ma erano diventati 227 nel 2021 e sarebbero 321 nel 2022. Sono inglesi e non perderanno la loro nazionalità.
Ma la Gran Bretagna, dopo Brexit (l’uscita dall’Unione Europea il 24 giugno 2016 ) con il 51,89% dei votanti contro il 48,11%, non può più garantire ai suoi cittadini i diritti di cui godono i membri dell’Ue, fra i quali l’Irlanda.
Una persona che ha avuto l’occasione di frequentare molti Parlamenti, mi ha detto che con il passaporto irlandese i vantaggi sono considerevoli: «La protezione diplomatica di qualsiasi Paese europeo; I’ ingresso agevolato nell’Unione e l’apertura facilitata di un conto bancario in qualsiasi Paese dell’Ue; un contratto facilitato con una società telefonica per godere di tariffe più basse; facilitazioni al momento dell’eredità nel caso di proprietà immobiliari collocate in diversi Paesi membri; protezione sanitaria ed eventualmente pensionistica in un qualsiasi Paese membro; rette universitarie agevolate, partecipazione al programma Erasmus che permette di proseguire gli studi a carico della Ue in un altro Stato membro. Per la verità molte di queste facilitazioni dipendono più dalla residenza che dalla cittadinanza: ma la residenza nell’Unione è più facilmente concessa a chi ha già la cittadinanza di un Paese membro».
Grazie a tutte queste agevolazioni, l’Europa parlamentare è ormai una grande famiglia , una comoda casa in cui è lecito scegliere la camera più calda e accogliente.
Potremo quindi vivere in una grande democrazia dove ogni cittadino europeo può liberamente trasferirsi da un Paese all’altro. E le nostre piccole patrie diverranno le province di una più grande Provincia che sarà l’Europa.
Se questo è il nostro futuro, mi spiace soltanto che di questi vantaggi godranno anche quei cittadini britannici che il 23 giugno 2016, scegliendo la Brexit, avevano votato per il nazionalismo britannico contro l’unità dell’Europa.
(da il Corriere della Sera)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
I PAESI EUROPEI, POSTI DAVANTI AL DUELLO TRA FRANCIA E ITALIA, NON AVREBBERO ALCUN DUBBIO A PARTEGGIARE PER PARIGI… AL G20 DI BALÌ, DI TALE ISOLAMENTO POLITICO, SE NE ACCORGERÀ LA STESSA MELONI: IN AGENDA HA SOLO UN COLLOQUIO FACCIA A FACCIA CON BIDEN
L’errore madornale di Giorgia Meloni non è nel merito ma nella forma. E nella diplomazia (proseguimento della guerra con altri mezzi), la forma è sostanza.
La Meloni doveva sapere che metteva in difficoltà Macron, che nel suo parlamento non ha la maggioranza e si barcamena tra l’incudine di Marine Le Pen e il martello di Melanchon, sottoscrivendo le sborronate di Salvini: “La Francia apre il porto? Bene così, l’aria è cambiata”.
La risposta di Parigi, via ministro degli esteri Catherine Colonna, non poteva che essere secca come un cassetto chiuso con una ginocchiata: “L’Italia non rispetta il diritto internazionale e marittimo. Il comunicato in cui Meloni ha affermato, parlando a nome nostro, che spetta alla Francia accogliere migranti è in contraddizione con quel che ci eravamo detti. Inaccettabili. Se Roma persiste, ci saranno conseguenze”.
E tanta colossale cantonata (eufemismo) esplodeva dopo che Macron aveva fatto un passo avanti, criticatissimo in Francia sia da destra che da sinistra, verso la “leader del post-fascismo” incontrandola in maniera informale (non era per niente prevista) per un’ora in un albergo di Roma.
Dopodiché, a Sharm el-Sheikh, Egitto, fra i vari bilaterali alla Cop27, la Regina della Garbatella ha incontrato di nuovo, e sempre con il cappello in mano, Emmanuel Macron per chiedere un aiuto per la questione delle navi Ong. E la Ocean Viking, con il suo “carico residuale” (Piantedosi dixit), ha preso la rotta verso il porto di Marsiglia, poi dirottata al porto militare di Tolone.
A questo punto, c’era bisogno di un Salvini in modalità mojito al Papeete, e poi a seguire una Giorgia in delirio coatto: “Quando si parla di ritorsioni in un dinamica Ue qualcosa non funziona. Sono rimasta molto colpita dalla reazione aggressiva del governo francese, incomprensibile e ingiustificabile”?
Si sa: quando qualcosa può andar male, lo farà. E così, mentre un nervosissimo Mattarella prova a rimpannucciare la tela strappata – e domani potrebbe mettersi in contatto con Macron che ha già fatto sapere che non vuole incontrare “Io sono Giorgia” a G20 di Balì – il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ieri ha firmato una dichiarazione congiunta con Malta, Cipro e Grecia in cui punta il dito contro alleati europei e Ong che “non rispettano le leggi”.
Un asse fra Paesi del Sud, interpretato come una risposta al tentativo francese di isolare Roma, che si è risolto in un altro fallimento. Ricevuto il documento, la Spagna, che non è un paese del valore di Grecia, Cipro e Malta, non solo non l’ha firmato ma l’ha apertamente criticato: “Non possiamo sostenere proposte che premierebbero i Paesi che non rispettano i loro obblighi e che andrebbero a discapito di quelli che, come noi, li rispettano”.
Ora non ci vuole un Churchill per sapere in anticipo del no di Madrid, visto che il governo spagnolo soffre dell’opposizione durissima di Vox, partito lontanissimo dalla destra liberale ma vicinissimo al cuore della Meloni. Né tantomeno occorre un Kissinger per capire che i paesi europei, posti davanti al duello tra Francia e Italia, non avrebbero nessun dubbio a parteggiare per Parigi.
Davanti a tale catastrofe geopolitica, sorge spontanea la domanda: dove sono finiti i consiglieri diplomatici di Meloni, Tajani e Piantedosi? Sono finiti in un angolo, inascoltati, a lamentarsi della loro inutilità. Al G20 di Balì, di tale isolamento politico, se ne accorgerà la stessa Meloni: in agenda ha solo un colloquio faccia a faccia con Biden – incontro accettato dall’amministrazione americana solo per ciò che rappresenta con le sue basi Nato, il nostro paese.
E sono molti che si domandano perché, dopo una campagna elettorale da Draghetta, la Meloni, una volto seduta sul seggiolone di Palazzo Chigi, abbia sposato la “linea Salvini”, diretta verso il burrone.
“La leader di Fratelli d’Italia e il suo vicepresidente, nonché segretario della Lega, hanno ormai una linea unica, che passo dopo passo diventa sempre più radicale”, editorialeggia su “La Stampa Marcello Sorgi.
“È come se ognuno dei due scrutasse l’altro nello specchietto retrovisore, pronto a qualsiasi manovra, anche azzardata, pur di impedire il sorpasso all’alleato-avversario”.
Continua Sorgi: ‘’Si spiegano così tutti gli atti del governo appena insediato che hanno contraddetto l’impostazione conservatrice ma realista del discorso con cui Meloni aveva esordito da premier alla Camera: l’inutile provvedimento sui rave party, che ha subito mostrato le sue debolezze e dovrà sostanzialmente essere riscritto in Parlamento; la norma sull’ergastolo “ostativo” che ha messo in imbarazzo il ministro di giustizia Nordio che lo aveva definito incostituzionale.
Fino ad arrivare alla tragicommedia delle navi Ong, respinte, poi accettate su sollecitazione dell’Europa, ma non liberate del loro “carico residuo”, com’ è stato definito il gruppo di migranti lasciati a bordo perché considerati “non fragili”, e solo in un secondo momento fatti scendere.
E conclude, drastico, Sorgi: “Anche se è evidente un di più di propaganda a uso interno nella reazione francese dell’Eliseo, la presidente del Consiglio non può non sapere che per questa strada l’isolamento in Europa non le sarà imposto. Se lo sarà andato a cercare”.
Ed ecco, caldo caldo, il primo siluro rifilato all’Italia. Lo spara l’agenzia di rating Usa Moody’s: il governo Meloni segna il passo negli investimenti legati al Pnrr e non riuscirà a centrare gli obiettivi fiscali. Giudizio pesante “perché l’Italia è appena un gradino al di sopra del cosiddetto “non investment grade” (attualmente il nostro rating è Baa3), un livello che impedirebbe alla Bce di Christine Lagarde e a
Inoltre, avendoci affibbiato lo scorso agosto un “outlook negativo”, Moody’s mette implicitamente in conto un eventuale declassamento del giudizio di merito creditizio sull’Italia”
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
IL GOVERNO TEDESCO STANZIA NUOVI FONDI PER UNA ASSOCIAZIONE CHE SI OCCUPA DI SALVATAGGIO IN MARE
La crisi tra Roma e Parigi sui migranti non si arresta e anche la Germania fa sentire la sua voce sulla questione. Ieri, 12 novembre, la ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna, aveva accusato l’Italia «di mancanza di umanità – richiamando il governo – al suo dovere di umanità, sperando che comprenda il messaggio».
Oggi è la Germania, attraverso il suo ambasciatore a Roma, a schierarsi dalla parte delle Organizzazioni non governative: «Nel 2022 sono già oltre 1.300 le persone morte o disperse nel Mediterraneo. Un 12% dei sopravvissuti sono stati salvati dalle Ong. Loro salvano vite laddove l’aiuto da parte degli Stati manca. Il loro impegno umanitario merita la nostra riconoscenza e il nostro appoggio», ha dichiarato su Twitter il diplomatico Viktor Ebling.
Intanto, a Berlino, il Bundestag ha deciso di stanziare 2 milioni di euro all’anno, fino al 2026, a favore dell’associazione United4Rescue. «È un segnale politico forte e una spinta importante in tempi difficili», hanno commentato i responsabili dell’Ong fondata dalla Chiesa evangelica tedesca con lo scopo di salvare quanta più gente possibile in mare, per sopperire alla mancanza delle missioni di soccorso statali ed europee.
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
CONSULENZE DA 35.000 EURO L’ANNO
Non solo grillini ma anche leghisti. Chiusa – a inizio novembre – la partita per le nomine di governo, ora per i tanti esponenti dei partiti rimasti fuori dalla corsa agli incarichi o, semplicemente, non più ricandidati, c’è spazio per nuovi ruoli nelle istituzioni, nei gruppi parlamentari e nei ministeri.
Come già anticipato da Repubblica, spicca il caso dei due ex parlamentari del M5S, l’ex reggente Vito Crimi e la ex vicepresidente del Senato, Paola Taverna. Proprio lei, interpellatata, ha risposto: “Avrò 70 mila euro dal mio gruppo? “Ma io non ne so nulla, oggi è domenica, sono una cittadina normale che la domenica fa altro, e comunque non sono stati determinati i contratti…”.
Gli incarichi per chi è rimasto a bocca asciutta
E dunque, se nel M5S sono tanti a essere rimasti fuori dalle liste delle scorse elezioni per la regola dei due mandati, anche nella Lega si è corso ai ripari al fine di dare spazio ai tanti aspiranti parlamentari (o sottosegretari), che non sono stati candidati, con malumori che hanno creato non pochi scompigli a via Bellerio.
L’ex questore della Camera, Marzio Liuni, i senatori Enrico Montani e Cesare Pianasso dovrebbero prendere posto nelle segreterie di Commissione a guida leghista, tra Montecitorio e Palazzo Madama.
Flavio Di Muro, ex deputato della XVIII legislatura è in pole per fare da capo di gabinetto di Edoardo Rixi, al ministero per le infrastrutture, guidato da Matteo Salvini, di cui Rixi è vice.
A Via Arenula, al ministero dell’Istruzione guidato da Giuseppe Valditara, tecnico di area Lega, pare invece che prenderanno un incarico di consulenza l’ex senatrice Valeria Alessandrini e Paola Colmellere, la prima a lungo ‘candidata’ a fare da sottosegreteria, carica all’ultimo sfumata, e la seconda già deputata e membro della Commissione Cultura di Montecitorio.
Per loro le consulenze varrebbero circa 35 mila euro l’anno.
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
LA MAGGIORANZA DA’ UN GRANDE POTERE AL PRESIDENTE BIDEN
Con la vittoria di Catherine Cortez Masto in Nevada i democratici mantengono la maggioranza in Senato e, qualora tenessero il seggio in Georgia (ballottaggio il 6 dicembre), la rafforzerebbero ulteriormente.
Se lo dovessero perdere arrivando alla parità di seggi (oggi sono 50 democratici e 49 repubblicani), avranno sempre la maggioranza perché il voto decisivo spetterà alla vice-presidente Kamala Harris.
I compiti del Senato Usa
Il Senato ha tre compiti importanti e specifici. Può procedere all’impeachment nei confronti di alti funzionari federali (compreso il presidente in carica), ma serve una maggioranza di due terzi; può esercitare il potere di consiglio e consenso sui trattati internazionali; svolge un ruolo decisivo nella conferma (o nel rifiuto) di alcune nomine, tra cui quella degli ambasciatori e dei giudici dei tribunali federali
In quest’ultimo punto è compresa l’approvazione o meno dei giudici della Corte Suprema scelti dal presidente.
Se un seggio (i Supremi sono eletti a vita) si rendesse vacante a causa di un pensionamento inaspettato o alla morte di un giudice, oggi i repubblicani non sarebbero in grado di bloccare la scelta di Biden. Come riuscirono in vece a fare nel 2016, quando l’allora leader della maggioranza del Senato Mitch McConnell riuscì ad impedire al candidato scelto da Barack Obama di entrare alla Corte Suprema.
I “padri fondatori” originariamente avevano creato il Senato “per proteggere i diritti dei singoli Stati e salvaguardare le opinioni delle minoranze in un sistema di governo progettato per dare maggiore potere al governo nazionale”.
È quel balance of power che nel corso di due secoli ha finito però per dare un grande potere ai senatori di Stati poco popolosi (come Wyoming, Vermont, Alaska, North e South Dakota, Montana) a scapito di California, Texas, Florida, New York) finendo per favorire (quasi) sempre i repubblicani.
L’impeachment
Per l’articolo I, sezione 3, clausola 6 della Costituzione “il Senato ha il potere di giudicare tutti gli impeachment ma nessuna persona potrà essere condannata senza il consenso dei due terzi dei membri presenti”. Un funzionario federale è sottoposto a impeachment quando la Camera dei Rappresentanti vota per la procedura e quindi invia l’atto di accusa (gli articoli di impeachment) al Senato, che si costituisce in giuria. Se il funzionario accusato è al di sotto del livello del presidente, il vicepresidente presiede l’impeachment. Se invece l’imputato è il presidente, è il presidente della Corte Suprema a presiedere i lavori del Senato.
Ambasciatori e Giudici
L’articolo II, sezione 2, clausola 2 della Costituzione recita: “Il presidente nominerà, con il consiglio e il consenso del Senato, gli ambasciatori, gli altri ministri pubblici e i consoli, i giudici della Corte suprema e tutti gli altri funzionari degli Stati Uniti”. I senatori hanno questo ruolo unico in seguito ad un compromesso tra i legislatori (cera chi voleva che il presidente avesse l’unico potere di nomina e chi voleva lo avesse solo il Senato) basato sull’idea che “in quanto funzionari statali sarebbero i più qualificati ad identificare i candidati adatti” .
Trattati
L’articolo II, sezione 2, clausola 2, sostiene anche che il presidente “avrà il potere, con il consiglio e il consenso del Senato, di stipulare trattati, a condizione che i due terzi dei senatori presenti siano d’accordo”.
La leadership del Senato
Il Vicepresidente è designato come “Presidente d’ufficio del Senato”. Ha il “dovere costituzionale di presiedere il Senato”, anche se non può votare in Senato (tranne che in caso di parità di voti) o parlare formalmente al Senato senza il permesso dei senatori. F
u Alexander Hamilton, uno dei “padri fondatori”, a scrivere che “per garantire risoluzioni definitive, il presidente del Senato deve essere in grado di esprimere voti di spareggio, ma gli deve essere negato il voto in tutti gli altri momenti.
Pertanto, il presidente del Senato non deve essere un membro del Senato”. Da John Adams nel 1789 a Richard Nixon negli anni Cinquanta, presiedere il Senato era la funzione principale dei vicepresidenti, che avevano un ufficio in Campidoglio. Nel 1961, il vicepresidente Lyndon B. Johnson ruppe la tradizione spostando il suo ufficio principale dal Campidoglio alla Casa Bianca. Tutti i vicepresidenti dai tempi di Johnson hanno seguito il suo esempio.
Presidente ‘pro tempore’
Il “presidente pro tempore” presiede il Senato in assenza del vicepresidente ed è il terzo nella linea di successione alla presidenza, dopo il vicepresidente e il presidente della Camera.
(da agenzie)
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