Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
MEDICI SENZA FRONTIERE MOSTRA I DOCUMENTI: “ECCO LE NOSTRE COMUNICAZIONI, IL MINISTRO IN AULA HA DETTO IL FALSO”
Nessuna attività “in autonomia”, nessuna comunicazione “solo a operazioni avvenute” come ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi nella sua informativa al Parlamento sui flussi di migranti e sull’attività delle ong nel Mediterraneo.
“Di fronte al Parlamento il ministro ha detto cose false“, ha dichiarato a ilfattoquotidiano.it Juan Matias Gil, capomissione di Medici Senza Frontiere, assicurando che la nave Geo Barents ha comunicato tutto fin dalle prime fasi di ogni singolo soccorso e che è tutto documentato.
A pochi giorni di distanza da quella intervista ecco le mail della nave ai Centri di coordinamento di soccorso marittimo di Malta, Italia e Norvegia, paese di bandiera dell’imbarcazione, che confermano quanto sempre sostenuto dalle ong.
Ma soprattutto che il governo ha detto il falso, negando di aver ricevuto informazioni che aveva fin dal momento in cui è arrivato l’allarme di imbarcazione in pericolo. La ricostruzione di Piantedosi è funzionale alle accuse mosse dall’esecutivo alle organizzazioni umanitarie e alla richiesta all’Unione europea di un codice di condotta per le loro operazioni di soccorso, che per il Viminale non rispetterebbero le regole. A non rispettare le regole sembra invece essere il governo. Dalla violazione dell’obbligo imposto dalla normativa internazionale a quello di dire la verità di fronte al Parlamento italiano.
“Abbiamo ricevuto un allarme da un’imbarcazione in mare”, scrive Alarm Phone alle 16:25 di giovedì 27 ottobre al centro di coordinamento per il soccorso marittimo (MRCC) di Malta, Stato competente per la zona di mare SAR (search and rescue) in cui è localizzata l’imbarcazione in pericolo, e al centro per il soccorso dell’Italia (itmrcc@mit.gov.it). In copia l’Unhcr e una serie di ong, tra cui Medici Senza Frontiere la cui nave Geo Barents si trova in acque SAR maltesi. Seguono le informazioni ricevute da Alarm Phone sul numero di persone, la posizione e le condizioni dell’imbarcazione. Trovandosi nell’area, il comandante della Geo Barents invia una prima mail agli Stati costieri per segnalare la disponibilità e la capacità a intervenire, insieme alla richiesta di essere coordinati. La mail è indirizzata al centro di Malta, mentre in copia ci sono Italia e Norvegia, Stato di bandiera della nave, sempre messo in copia per conoscenza. “Possiamo prestare assistenza, se richiesto”, scrive la Geo Barents a Malta e Italia. Nessuna autonomia, come sostiene Piantedosi. Piuttosto, richieste che rimarranno senza risposta
Secondo la Convenzione internazionale SAR sono gli Stati a dover coordinare ricerca e soccorso, perché unici ad avere strumenti e autorità per guidare le operazioni e assicurare che si concludano nel minor tempo possibile e in un porto sicuro. “Ma nel 99 per cento dei casi non risponde nessuno“, spiega il capomissione di Msf. Così è anche per il salvataggio ricostruito dalle mail, rese pubbliche dalla ong “sperando di contribuire alla corretta ricostruzione dei fatti”. E in un breve comunicato aggiunge: “Questo soccorso è stato scelto come esempio per rappresentare tutti gli altri salvataggi per i quali sono state applicate le stesse procedure. Come potrete vedere, le autorità italiane, maltesi e dello stato di bandiera sono sempre informate sulle attività a bordo”.
E’ bene sapere che il silenzio di Malta non solleva gli altri Stati dall’obbligo di cooperare e, nel caso, coordinare i soccorsi e condurli al porto raggiungibile “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”, dicono le norme ribadite ormai da molte sentenze. “Ma sapendo che i maltesi stanno zitti, anche l’Italia rimane in silenzio”, ha spiegato Gil di Msf. Un silenzio che può mettere a repentaglio i soccorsi perché potrebbe esserci una nave più vicina, ad esempio. Ma senza le autorità costiere nessun coordinamento è possibile.
Al comandante della Geo Barents non resta che proseguire verso il luogo indicato dall’allarme. E continuare a inviare a tutti le informazioni in suo possesso sperando di ricevere indicazioni. Arrivata sul posto, la nave invia una nuova mail, con una prima valutazione della scena e annunciando di essere pronta a mettere in mare le lance.
Di seguito si cita la normativa che impone di prestare soccorso e assistenza e si conferma la capacità della nave a portare a termine l’operazione, a prestare assistenza sanitaria e a condurre le persone in un luogo sicuro (place of safety, POS).
Infine chiede ai destinatari di confermare di aver ricevuto il messaggio. Ma inutilmente. Segue altra comunicazione, che riporta quanto verificato dalle lance, compresa la presenza di bambini piccoli e di una persona malata su una imbarcazione in vetro resina sovraffollata. “Non abbiamo ricevuto alcuna istruzione da Malta”, si legge. “Attendiamo vostre istruzioni“. Ancora silenzio. A questo punto le persone vengono soccorse. I dettagli e un report saranno il contenuto di un’ulteriore mail inviata ai soliti destinatari.
Al termine di ogni salvataggio “viene inviata la richiesta di un porto sicuro, finché dopo l’ennesimo salvataggio non abbiamo più posto e allora la richiesta del place of safety resta l’unica comunicazione che continuiamo a inviare a tutti”. Compreso, per conoscenza, lo Stato di bandiera che in questo caso è la Norvegia.
Alla quale, riporta Piantedosi in Parlamento, si rivolge anche il nostro ministero degli Esteri per chiedere proprio quelle informazioni che le navi assicurano di aver inviato e il Viminale nega di ricevere. Non solo, alla Norvegia l’Italia chiederà anche di avanzare la richiesta del porto sicuro: “La richiesta di un POS in territorio italiano avrebbe dovuto essere inviata alle autorità italiane dallo Stato di bandiera delle navi ONG, e non da queste ultime, come è invece avvenuto”, sostiene Piantedosi. Ma dalla Norvegia, come dalla Germania per la Humanity 1 arriva solo un secco no e il monito di rispettare il diritto del mare.
Diritto che l’Italia non ha rispettato, sottraendosi all’obbligo di cooperare perché i soccorsi in mare vadano a buon fine.
Eppure il governo continua a ripetere di muoversi nel rispetto delle regole. Anzi, sarebbero le ong e le loro navi a non rispettarle, tanto da agire “senza ricevere indicazioni dalle autorità statali responsabili delle predette aree (SAR), informate, al pari dell’Italia, solo a operazioni avvenute“.
Parole pronunciate il 16 novembre di fronte al Senato e alla Camera dal ministro dell’Interno, che i documenti forniti dalle ong provano non essere vere. Sicuramente utili all’obiettivo di operare una stretta sulle operazioni di soccorso in mare, questione che Piantedosi porterà al Consiglio Ue dei ministri dell’Interno il prossimo 25 novembre. Ma adesso sarà più difficile ribattere a chi, come hanno fatto Francia, Germania e Spagna, oltre alla Commissione Ue, chiede all’Italia di rispettare le regole. Cosa che non fa nemmeno quando, dopo una settimana di mancate risposte alle mail che il ministro nega di aver ricevuto, la Geo Barents chiede un porto sicuro.
“Fino al 29 ottobre abbiamo chiesto un porto a Malta”. Che romperà il silenzio solo per negare ogni responsabilità e scaricare la richiesta di porto sicuro alla Norvegia, tanto lontana che a Sud è bagnata dal Mare del Nord. Una strategia che adotta anche l’Italia, come si è visto. Al suo Stato di bandiera, come dimostrano le mail pubblicate, la nave chiederà di mediare con gli altri Paesi. “Respinti da Malta, il 31 ottobre ci spostiamo in zona SAR italiana e inviamo la prima richiesta di POS all’Italia, che risponde con un semplice “la sua richiesta è stata inoltrata all’autorità competente”, riferisce il capomissione.
“La risposta sarà la stessa per le successive otto richieste”. Poi, sabato 5 novembre la Geo Barents chiede all’Italia il permesso di riparare a causa del cattivo tempo. “E domenica ci hanno mandato il decreto ministeriale che ci permetteva il solo sbarco selettivo delle persone più vulnerabili e di fermarci lo stretto tempo necessario”, racconta Msf al Fatto.
Decreto già al vaglio della magistratura amministrativa, debole dal punto di vista giuridico, ma soprattutto motivato con il mancato rispetto delle regole da parte della ong, secondo la ricostruzione di Piantedosi. Una ricostruzione falsa.
(da il Fatto Quotidiano)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
REDDITO DI CITTADINANZA, LA PAURA DI CHI NON TROVA UN LAVORO E ORA TEME DI PERDERE IL SUSSIDIO
La Campania non solo è la regione con il più alto numero di beneficiari del Reddito di Cittadinanza, ma detiene anche il primato per numero di percettori ‘occupabili’, cioè idonei al lavoro.
Per questo non sono pochi coloro che temono le prossime mosse del Governo. Nulla è ancora stato stabilito ma tra le ipotesi più accreditate c’è quella di sostituire il sussidio con misure di inclusione sociale e di politiche attive per coloro in grado di lavorare.
Si tratta di una platea di oltre 600mila persone under 60, di cui circa 170 mila in Campania. “Io sono un percettore e sono d’accordo che il Reddito non possa essere la soluzione, ma fin qui le politiche e le misure di reinserimento nel mondo del lavoro non hanno portato a nulla – ci spiega Ciro, 55 anni, decine di lavori e corsi di formazione alle spalle – prima del reddito di cittadinanza chi come me si trovava a perdere il lavoro entrava nel limbo della disoccupazione, ed è un limbo fatto di paghe da fame da 500 euro al mese per 12 ore al giorno, oggi sul fronte occupazionale non è cambiato nulla, soprattutto per chi è troppo vecchio per essere assunto e troppo giovane per la pensione, quindi – conclude – modificare così il Reddito significa tornare indietro, significa esporre decine di migliaia di lavoratori al ricatto di accettare qualsiasi retribuzione perché non c’è più alternativa”.
Che per gli esodati del Reddito il reinserimento lavorativo sia un miraggio lo conferma anche Michele. Percepisce 600 euro ma non ha mai smesso di cercare lavoro. “Il problema resta l’occupazione che non c’è, soprattutto al sud. Solo quest’anno avrò inoltrato oltre 100 domande – ci racconta – e non ho mai avuto risposta, eppure parlo due lingue, ho alle spalle diversi lavori e diverse competenza acquisite in questi anni, quando poi scoprono che sono pure laureato quasi si spaventano pensando a quanto dovrebbe percepire di stipendio un laureato e che di certo non corrisponde alle paghe che in questi anni ho ricevuto, anche in nero. Io a 61 anni mi sento ancora in forze ma all’orizzonte non vedo possibilità lavorative per i giovani, figuratevi per me. E se pure non dovessi rientrare nella platea dei percettori a cui viene tolta la misura, la mia prospettiva è quella di essere parcheggiato in attesa di raggiungere l’età pensionabile – conclude Michele – comunque non mi si darà mai la possibilità di migliorare la mia condizione versando più contributi e con la pensione che mi aspetta, che sarà più bassa del RDC, rischio di finire lo stesso in mezzo a una strada”
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
54% DEI FABBRICATI E’ SENZA CERTIFICATO DI AGIBILITA’ STATICA, IL 59% DI QUELLO DI PREVENZIONE INCENDI E IL 39% NON E’ STATO COLLAUDATO
«Dopo la forte pioggia è crollato gran parte del tetto dell’edificio, il secondo piano si è allagato. Per due settimane siamo rimasti a casa. Ore di completa assenza»: Andrea ha 18 anni e frequenta l’ultimo anno di liceo linguistico all’Istituto Gentileschi di Napoli.
Era il 25 settembre quando il solaio della scuola, in fase di riparazione, ha ceduto a causa delle infiltrazioni, e a circa 900 studenti è stato comunicato di restare a casa, dove hanno trascorso i successivi 15 giorni. Uno scenario a cui ormai erano abituati dopo due anni di pandemia, in cui le lezioni in presenza sono diventate un miraggio, e al banco di scuola si è sostituita la cameretta. Ma questa volta gli alunni non hanno seguito le lezioni da casa, perché le regole introdotte per l’anno scolastico in corso non prevedono la didattica a distanza.«Mio figlio all’inizio era felice di restare a casa per qualche giorno. Ma dopo un po’ ha iniziato a scocciarsi», racconta la madre di un altro studente, che insieme ad altri genitori, nei giorni di chiusura dell’Istituto, ha protestato affinché si trovassero soluzioni alternative.
Eppure i plessi interpellati dalla città metropolitana per dare ospitalità agli alunni rimasti orfani di un piano non hanno risposto all’appello. Le lezioni sono riprese il 17 ottobre, ma una parte della scuola è ancora inagibile e gli studenti del triennio vanno a scuola quattro giorni a settimana per sette ore, di cui una volta di pomeriggio. «C’è stata una ripresa rapida, ma se la situazione dovesse protrarsi per altri due mesi ci potremmo trovare, alla fine del quadrimestre, a dover sostenere cinque o sei verifiche al giorno», aggiunge Andrea.
TROPPI CROLLI
Il crollo al Gentileschi di Napoli è solo uno degli 11 che si sono verificati all’interno di una scuola o di un’università dall’inizio del biennio 2022/2023, a conferma di una tendenza in crescita: secondo il report di Cittadinanza Attiva sulla sicurezza a scuola, pubblicato il 22 settembre scorso, tra settembre 2020 e agosto 2021 ci sono stati 35 episodi di crolli a scuola, circa tre al mese. Tra settembre 2021 e agosto 2022 gli incidenti sono stati 45: un crollo ogni quattro giorni di lezione.
Il giorno dopo il caso riportato al Gentileschi di Napoli, il 26 settembre al liceo Cavour di Roma una guaina di ferro è caduta sulle spalle di un ragazzo che si trovava in bagno. «Era di minute dimensioni, ma se lo avesse preso in testa sicuramente avrebbe causato molti problemi», racconta Emanuele, rappresentante d’Istituto del liceo scientifico, che insieme al collettivo “Tommy Smith” ha organizzato uno sciopero per denunciare le difficoltà che gli studenti affrontano a causa dei problemi di edilizia scolastica. «Il giorno prima della caduta della guaina c’era stata un’infiltrazione in un soffitto e una classe è stata spostata. Per fortuna la dirigenza si è resa disponibile e ha attivato i controlli, ma questi due esempi rappresentano quello che succede in tantissime scuole italiane dove eventi anche più disastrosi mettono l’incolumità di studentesse e studenti a rischio», continua Emanuele.
Il 3 ottobre sono stati gli studenti della scuola superiore Fermi Da Vinci di Empoli a essere mandati a casa, dopo che alcune porzioni di intonaco si sono staccate dal soffitto del secondo piano, quando la scuola era ancora chiusa. Per loro i giorni di pausa sono stati tre. Il 18 ottobre è stata la volta di un’aula magna dell’Università di Cagliari, dove è crollata un’intera palazzina, all’interno del complesso “Sa Duchessa”, che ospita le facoltà umanistiche. Anche in questo caso l’incidente è avvenuto quando l’edificio era vuoto e non ci sono stati feriti, ma fino a poche ore prima le lezioni si stavano svolgendo regolarmente. Le cause sono ancora da accertare, e la procura di Cagliari sta indagando per crollo colposo di edificio
MANUTENZIONE NON PERVENUTA
Secondo Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale scuola di Cittadinanza Attiva, un’organizzazione che promuove l’attivismo dei cittadini per la tutela dei diritti e la cura dei beni comuni, la causa principale di molti incidenti è l’assenza di manutenzione: anche se la scoperta del fenomeno è recente, i processi che hanno portato ai crolli risalgono ad almeno trent’anni fa.
«Gli incidenti riguardano perlopiù scuole poco manutenute o costruite tra gli anni Quaranta e Settanta, quindi è chiaro che se non si interviene per decenni si arriva al capolinea e gli incidenti si verificano tutti insieme, come sta accadendo in questi anni».Il monitoraggio condotto dall’organizzazione riporta che più della metà degli istituti scolastici, il 54 per cento, è privo del certificato di agibilità statica, il 59 per cento di quello di prevenzione incendi, il 39 per cento risulta senza collaudo statico. Ma gli interventi per prevenire gli incidenti sono stati avviati solo a partire dal 2017, a seguito delle prime indagini condotte anche da Cittadinanza Attiva. Fino a quel momento non esisteva una mappatura completa di tutti gli edifici. «Se non hai l’esatta fotografia dello stato dell’arte è difficile stabilire la priorità delle azioni da compiere o la loro entità», continua Bizzarri.
I fondi del Pnrr, di cui 19,44 miliardi sono destinati al “potenziamento dei servizi per l’istruzione” rappresentano un’opportunità, ma potranno arginare il problema solo in parte, perché i 3,9 miliardi disponibili per la messa in sicurezza delle scuole saranno investiti nell’adeguamento dei plessi (attraverso la ristrutturazione e la riqualificazione energetica), ma non nella manutenzione. Inoltre, non tutti i progetti presentati potranno essere finanziati. «Saranno costruite 216 nuove scuole a fronte di oltre 500 progetti presentati. Le palestre finanziate saranno 400 a fronte di tremila domande», spiega ancora Bizzari.
Sarà necessario dunque che lo Stato impieghi fondi specifici a sostegno delle amministrazioni, che anche a causa della scarsità di personale negli uffici tecnici non riescono a compiere tutti gli interventi di manutenzione necessari o ad agire tempestivamente dopo le prime avvisaglie, come l’avvistamento di crepe o i primi scricchiolii.
E GLI STUDENTI PAGANO
Le conseguenze, per il momento, ricadono sugli studenti. «Banalmente dover scioperare la prima ora perché i bagni non funzionano comunque fa perdere un’ora di lezione», racconta una studentessa del Liceo Pilo Albertelli di Roma, il primo della capitale ad aver organizzato un’occupazione nel biennio appena iniziato, anche a causa dei problemi di edilizia. Tra i disagi denunciati dagli studenti c’è anche quello delle classi sovraffollate, che hanno l’impatto maggiore sulla qualità dell’insegnamento, perché nelle aule che contano fino a trenta alunni il docente ha più difficoltà a dare attenzione a chi ha bisogno di essere seguito da vicino per migliorare il suo rendimento. Cittadinanza Attiva riporta che in Italia sono 460mila le alunne e gli alunni che studiano in aule con più di 25 persone, per un totale di 17mila “classi pollaio”. Un problema che in parte si risolve da solo, perché in alcuni casi gli studenti abbandonano gli studi, anche a causa delle difficoltà nel percorso di apprendimento: secondo i dati di Eurostat, tra il 2020 e il 2021 il 12,7 per cento dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha lasciato precocemente la scuola, a fronte di una media europea del 9 per cento. «In classe mia abbiamo iniziato in 27 – racconta Emanuele del liceo Cavour -, ora siamo in 17».
(da TPI)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
10 EURO ANNUI PER IL PANE, 5,4 EURO PER LA PASTA 6,9 EURO PER IL LATTE
Il taglio dell’Iva su pane, pasta e latte che il governo valuta di inserire in manovra è un “bluff” secondo le associazioni dei consumatori.
I conti sono presto fatti: stando ai dati aggiornati dell’Istat la spesa annua per una famiglia media è pari a 261,72 euro per il pane, 142,08 per il latte fresco e conservato e 140,40 per la pasta, ricorda il presidente dell’Unione Nazionale Consumatori Massimiliano Dona.
Quindi il risparmio teorico sarebbe di appena 10 euro per il pane, 5,4 per la pasta, 6,9 per il latte, per un totale di 21 euro e 56 centesimi in un anno.
“Non solo sarebbe un’elemosina – commenta Dona – ma sarebbe una farsa, visto che questa cifra irrisoria andrebbe nelle tasche dei consumatori solo nella fantasiosa ipotesi che i commercianti trasferissero matematicamente il taglio dell’Iva sul prezzo finale e non lo incassassero invece loro. Insomma, nella realtà sarebbe solo una mancetta a beneficio dei panettieri, visto che mai più ridurrebbero il prezzo per un ritocco matematico di appena lo 3,846%. Ecco perché sarebbe decisamente meglio tagliare l’Iva sul gas e sulla luce, che invece sarebbe applicato sicuramente dai fornitori di energia, costretti a farlo per legge”.
Il presidente di Assoutenti, Furio Truzzi, parla di “bluff del governo, un provvedimento spot che non produrrà reali vantaggi economici per le famiglie, mentre la tassa sulle consegne a domicilio (che in teoria dovrebbe colpire Amazon, ndr) sarà senza dubbio scaricata sui consumatori attraverso un rialzo dei costi del servizio”.
“Il taglio dell’Iva è un provvedimento utile solo se esteso ai prodotti più frequentemente acquistati dalle famiglie, come alimentari e generi di prima necessità – spiega Truzzi – Limitare l’azzeramento dell’imposta solo al pane e latte determina risparmi irrisori per i consumatori e non è di alcuna utilità in questo momento di grande emergenza”.
“Appare poi addirittura dannosa la tassa sulle consegne a domicilio: siamo totalmente favorevoli a misure di sostegno per i piccoli negozi schiacciati dai giganti dell’e-commerce, ma il rischio concreto è che una simile tassa sia interamente scaricata sui consumatori finali attraverso un incremento dei prezzi dei generi consegnati o dei costi del servizio”.
“Intervenire solo sull’Iva su pane e latte è una misura mediatica che non produce reali vantaggi per i consumatori”, si unisce al coro il presidente del Codacons Carlo Rienzi.
“Se davvero si vuole sostenere la spesa delle famiglie e combattere gli effetti negativi dell’inflazione, l’Iva va tagliata su tutti i generi alimentari e sui beni di prima necessità, intervento che produrrebbe un risparmio medio annuo che varia dai 180 euro per una coppia senza figli agli oltre 300 euro per un nucleo di 5 persone”.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
“UNA RIFORMA AFFRETTATA, PROPAGANDISTICA E PERICOLOSA”
Nell’intervista di Conchita Sannino al presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca pubblicata su La Repubblica, De Luca ha criticato il disegno di legge sull’Autonomia differenziata definendola «una riforma affrettata, propagandistica e pericolosa».
La bozza di riforma è stata presentata dal ministro per gli affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli e prevede che le Regioni potranno trasferire le funzioni agli enti amministrativi più vicini ai cittadini: Comuni, Città metropolitane e Province.
Secondo De Luca, la proposta di Calderoli «spacca l’Italia nei servizi per la salute e per la scuola» e che il rischio è quello di provocare una «rottura dell’unità nazionale». Secondo De Luca una delle emergenze del Paese è il calo demografico e la migrazione dalle regioni del sud verso quelle del nord che riguarda soprattutto i giovani. Il regionalismo non risolverebbe questi problemi. De Luca infatti riconosce le inefficienze delle regioni del sud, sostenendo per esempio che «tanti fondi europei sono stati sprecati» ma dice anche che «il sud ha ricevuto ben poco» e che «il meccanismo della spesa storica lo ha messo in ginocchio».
Per quanto riguarda la sanità, De Luca dice che ci sono state «gestioni clientelari e spartitorie, con l’accumulo di debiti e inefficienze» ma anche che nonostante la Campania abbia ricevuto la quota più bassa d’Italia nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale la Regione è riuscita ad affrontare «in modo eccellente la sfida del Covid». De Luca riconosce anche le mancanze del Partito Democratico, che non ha avuto «il coraggio di proporre un Piano per il lavoro per i giovani del sud» e non è stato in grado di proporre e adottare una misura straordinaria di fiscalizzazione totale di oneri sociali per chi investe nelle regioni del sud.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
I DUE SI SONO VISTI A CENA E HANNO FATTO A GARA A CRITICARE LA PREMIER DAVANTI AI COMMENSALI. VOGLIONO IMPEDIRLE DI FARE L’OPA SUL CENTRODESTRA
«Mi voglio togliere qualche sassolino dalle scarpe», confidò Salvini a un alleato alla vigilia dell’insediamento del governo. I sassolini devono essere parecchi, se è vero che in neppure un mese non ha mai smesso di fare il controcanto a Meloni.
E come il capo della Lega anche Berlusconi si è messo a svuotare le sue scarpe. I due una settimana fa si sono visti a cena e hanno fatto a gara a criticare la premier davanti ai commensali. Marciano divisi per colpire uniti. Ad accomunarli è l’estremo tentativo di arginare l’alleata: agiscono sui temi programmatici per impedirle di avanzare nella coalizione e di realizzare l’Opa sul centrodestra.
Questioni politiche ma anche aspetti psicologici alimentano il braccio di ferro quotidiano. Salvini – dopo che le urne hanno ridimensionato il suo disegno di costruire una forza nazionale – ha bisogno di recuperare consensi al Nord per non veder compromessa la sua leadership nella Lega.
Berlusconi – sostiene un fedelissimo – «non sopporta nessuno sopra di lui». E non accetta l’idea, suggeritagli dai figli e dagli amici di una vita, di assumere il profilo di «padre nobile», svolgendo il ruolo che spetterebbe al fondatore del centrodestra. Ma il Cavaliere considera questa formula una deminutio, come fosse «la parte del nonno ai giardinetti».
Così è tornato a parlare coi suoi parlamentari di un «patto federativo» con la Lega, per impedire a Meloni di fagocitare Forza Italia e giocare d’anticipo rispetto al progetto della premier, che tutti danno per scontato dopo le Europee del 2024: cioè la nascita di un Pdl 2.0, preceduto da un «predellino» per chiamare a raccolta le varie anime dell’alleanza.
Il processo è in atto, «c’è un esercito di eletti e non eletti in attesa del segnale», sussurra uno dei dirigenti della coalizione. Già si notano i primi movimenti: oltre al posizionamento dei centristi, è sintomatica la spaccatura azzurra in Sicilia tra Schifani e Miccichè, ma anche la scelta del Nuovo Psi di rompere il patto con Berlusconi che reggeva dal 1994. «Seguiremo con interesse le proposte della premier», dice il socialista Caldoro: «A partire dalla riforma sul presidenzialismo».
Proprio ciò che serve a Meloni per realizzare il piano. È da vedere se Berlusconi passerà dalle parole ai fatti, perché già in passato aveva annunciato l’unione politica con Salvini.
È certo che sfrutterà la manovra per trattare con l’inquilina di Palazzo Chigi, così da vendicarsi anche per le «umiliazioni» subite alla formazione del governo, che gli è parsa la riedizione di quanto successe ai tempi del gabinetto Draghi, quando non ebbe voce in capitolo per la scelta dei ministri di Forza Italia.
E mentre parla dell’eventuale intesa con Salvini, da consumato situazionista chiede ai suoi parlamentari se preferirebbero un partito unico con Meloni. Lo fa per sentirsi dire «no» e per ascoltare dalla loro voce le critiche verso Tajani, accusato di essere diventato «un collaborazionista» della premier.
Lei, lui, l’altro. Meloni aveva messo in conto il difficile triangolo politico. E fin dal primo sassolino ha compreso l’andazzo: «L’ho già visto questo gioco». Ma non ha reso pubbliche le sue reazioni private. Anzi, come racconta un rappresentante dell’esecutivo, «finora in Consiglio dei ministri si è comportata in modo democristiano, attenuando gli spigoli nel merito delle questioni».
Ha lasciato che fossero altri a lanciare dei segnali. È successo nella riunione che ha preceduto il suo viaggio a Bali, quando ha avviato un giro di tavolo politico tra i titolari dei dicasteri. E in quell’occasione Fitto, intervenendo sul nodo delle Ong e sulle tensioni con la Francia, ha sfruttato il suo Dna scudocrociato per farsi capire senza farsi scoprire: «Sono totalmente d’accordo sul merito del provvedimento. Ma vorrei ricordarvi che a Bruxelles non abbiamo solo il dossier sull’immigrazione. Serve perciò un approccio dialogante».
A tutti è sembrato un altolà alle fughe in avanti di Salvini e della Lega. Come sul tema dell’Autonomia. Con una postura «democristiana», Meloni ieri avrebbe ottenuto una sorta di allineamento con il Carroccio. «Anche perché – secondo uno dei partecipanti al vertice – in termini comunicativi stiamo offrendo il fianco alle sparate ideologiche di Conte e De Luca sul Sud». In un’intervista a Qn Crosetto ha dato per scontato che il governo durerà cinque anni, perché «Salvini e Berlusconi non sono mica matti». Ma non hanno finito di svuotare le loro scarpe…
Francesco Verderami
(da il “Corriere della Sera”)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
IL REPORT DELL’ISS: AUMENTANO I CASI IN ETA’ SCOLARE E LE REINFEZIONI
Gli over 80 non vaccinati hanno un tasso di mortalità di 6 volte superiore a quello dei loro coetanei vaccinati con booster.
Mentre per gli anziani No vax della stessa fascia d’età il tasso di mortalità è 9 volte più alto o 5 rispetto ai vaccinati con quarta dose da meno di 120 giorni e da oltre 120.
È il quadro che emerge nell’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità che ha riportato i dati relativi al periodo 23 settembre-23 ottobre di quest’anno. Per quanto riguarda invece le terapie intensive, l’Iss – dopo aver considerato il periodo che va dal 30 settembre al 30 ottobre – ha sottolineato come i ricoveri siano 6 volte più alti per i non vaccinati rispetto a chi ha ricevuto la dose addizionale/booster e 10 e 5 volte superiori rispetto ai vaccinati con seconda dose booster da meno o oltre 120 giorni.
L’efficacia del vaccino, ribadisce l’Istituto, nel prevenire i casi severi di Covid nel periodo di prevalenza della variante Omicron – che rappresenta ormai la versione dominante tra i casi in Italia – nella popolazione complessiva è pari al 69% nei vaccinati con ciclo incompleto e 82% invece nelle persone che hanno ricevuto la dose aggiuntiva/booster. Mentre per gli over 80 l’efficacia è pari all’81% nei vaccinati con ciclo incompleto e all’88% per tutti coloro che hanno la dose aggiuntiva/booster.
Aumentano i casi in età scolare: da 8,4% a 9,2% in 7 giorni
L’Iss nel suo ultimo rapporto ha inoltre evidenziato l’aumento percentuale dei casi di Coronavirus in età scolare rispetto alla scorsa settimana. Si è passati infatti da 8.4% al 9.2% in sette giorni. In particolare nell’ultima settimana, il 14% dei casi in età scolare è stato diagnosticato nei bambini sotto i 5 anni, il 31% nella fascia d’età 5-11 anni, il 55% nella fascia 12-19 anni.
Reinfezioni in crescita: superano il 20%
Anche per quanto riguarda le reinfezioni c’è una tendenza al rialzo, ovvero nell’ultima settimana la percentuale risulta in aumento rispetto a quella precedente superando così quota 20,2% contro il 17,7%. L’Iss precisa comunque che il dato ha tempi di consolidamento maggiori rispetto ad altre informazioni.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
L’INCONTRO CON BOSSI GLI HA CAMBIATO LA VITA
La sera del 7 marzo 1979 al palazzetto dello sport di Varese i tifosi di casa diedero il peggio di sé. Mentre sul parquet si giocava la gara di Coppa Campioni di basket fra Emerson Varese e Maccabi Tel Aviv, sugli spalti le braccia si protesero in saluti romani, furono esposti dei crocifissi in legno e striscioni inneggianti alla Shoah («10, 100, 1.000 Mauthausen») e fu intonato un coro ignominioso: «Adolf Hitler ce l’ha insegnato, uccidere gli ebrei non è reato».
Varese in quegli anni era una delle città più “nere” d’Italia e il tifo organizzato della squadra di basket cittadina pullulava di esponenti del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano. All’epoca Giancarlo Giorgetti – tutt’oggi appassionato della Pallacanestro Varese – era poco più che un bambino, ma qualche anno più tardi anche lui iniziò a frequentare i giovani dell’estrema destra varesotta
Da ragazzo, il nostro neo-ministro dell’Economia bazzicava (sebbene senza averne la tessera) in ambienti vicini a Fare Fronte, il gruppo studentesco del Fronte della Gioventù.
Nel 1989, quando aveva 23 anni e studiava Economia alla Bocconi (seguendo le lezioni del professor Mario Monti), dava ripetizioni gratuite di matematica nei locali di Comunità Giovanile, uno dei primi esperimenti di centro sociale di destra, a Busto Arsizio.
L’animatore di quel centro era uno dei suoi più cari amici, Giovanni Blini, suo compagno d’università e militante dei giovani missini. Blini morì tragicamente a soli 24 anni in un incidente stradale a Potenza, proprio mentre rientrava dalla Festa nazionale del Fronte della Gioventù: su quell’auto c’era anche il suo futuro cognato, Francesco Lattuada, oggi coordinatore di Fratelli d’Italia a Busto.
«Comunità Giovanile – racconta Lattuada – nacque su input dei dirigenti del Fronte, in particolare Fabio Rampelli (oggi vicepresidente della Camera, ndr). L’idea era quella di superare il neofascismo e i suoi simboli per aprirsi definitivamente al mondo giovanile, il nostro modello era la “nouvelle droite” francese. Giorgetti? Me lo ricordo bene, partecipò alla fondazione di Comunità Giovanile: era una persona seria e pacata, si vedeva già allora che era un cavallo di razza».
C’è anche una foto di quegli anni, svelata un paio d’anni fa dal programma tv Report, che mostra il futuro dirigente della Lega in posa insieme a un gruppo di ragazzi, uno dei quali con una mano tiene una bandiera dell’Italia e con l’altra fa il saluto romano.
Quel giovane oggi è uno dei più conosciuti avvocati civilisti della Lombardia, nonché coordinatore della commissione Arte e Cultura di Fondazione Cariplo ed ex membro del consiglio d’amministrazione di Italgas: si chiama Andrea Mascetti ed è ancora oggi un caro amico di Giorgetti, come riconosciuto dallo stesso ministro e come documentano diversi scatti anche recenti che li ritraggono insieme.
Ex militante del Fronte della Gioventù, Mascetti ha poi fatto parte del consiglio direttivo della Lega Nord, ma soprattutto ha fondato un’associazione culturale, Terra Insubre, che rappresenta un punto di riferimento per l’ala più destrorsa della Lega padana.
L’associazione, come si legge sul suo sito, «svolge attività di ricerca» sui popoli celtici, germanici e alpini che hanno influenzato la storia della Lombardia, ma non è mai stata vista di buon occhio da Umberto Bossi, che anni fa arrivò a bollarla come «un covo di fascisti» in seno al partito.
Il Senatùr è stato il vero mentore politico di Giancarlo Giorgetti. Dopo le frequentazioni missine, il bocconiano varesotto fu conquistato dal “celodurismo” leghista che sulle macerie della prima repubblica gridava contro «Roma ladrona».
Sotto l’effige di Alberto da Giussano, nel 1995 fu eletto giovane sindaco del suo paesino, Cazzago Brabbia. L’anno seguente fu Bossi in persona a volerlo fortemente candidare e a farlo entrare per la prima volta in parlamento. Ventisei anni dopo, l’allievo è vicesegretario della Lega (che nel frattempo ha perso la desinenza “Nord”) ed è arrivato a guidare il ministero dell’Economia. Niente male, per uno che al raduno di Pontida del 2014 dichiarava ai giornalisti: «Ci vantiamo di essere stati gli unici ad avere votato contro l’ingresso nell’euro».
«Giorgetti non ha mai messo in discussione l’adozione della moneta unica, anzi è un processo che ha sostenuto e difeso», precisano dall’ufficio stampa del ministro. Eppure, ancora nel 2017 il dirigente del Carroccio La7 andava su a sottolineare: «Chi è pensionato o lavoratore dipendente si è accorto subito che, una volta entrati nell’euro, la propria pensione o il proprio stipendio permettevano di comprare esattamente la metà di prima. Già questo, senza bisogno di slide, tabelle o scienziati economisti, basta a spiegare perché l’euro non va bene».
Parole da leghista duro e puro, toni lontani da quelli del fedele e moderato sostenitore di Mario Draghi. Come quando nel 2008, alla vigilia delle elezioni politiche, si presentò ai microfoni di TelePadania a proclamare fiero: «Tutti i popoli della Padania testimoniano per la battaglia comune contro Roma e il federalismo romano. Chi si candida nella Lega deve essere pronto alla battaglia e si lega a un vincolo per la vita. I parlamentari della Lega prima giurano a Pontida. La Costituzione italiana? Vediamo di cambiarla e di dare la possibilità a tutti i popoli del Nord di essere autonomi e liberi per quanto possibile».
Emilio Magni, sindaco di Cazzago Brabbia, iscritto al Pd ma eletto con una lista civica, osserva con grande autoironia: «Se oggi si tenessero delle elezioni comunali e i candidati fossimo io e Giorgetti, vincerebbe di sicuro lui».
Nel minuscolo comune adagiato sulla sponda sud del Lago di Varese – appena 800 abitanti – alle recenti politiche la Lega è stata il partito più votato, raccogliendo il 23% delle preferenze (Fratelli d’Italia si è fermato a 21).
Qui Giorgetti, primo cittadino per nove anni, dal 1995 al 2004, è conosciuto semplicemente come “il Giancarlo”: «È stato un bravo sindaco, apprezzato da tutti», riconosce Magni. «Io sono più vecchio di lui, me lo ricordo quando era un ragazzo: giocava da portiere nella squadra di un paese vicino, la Ternatese. Conoscevo bene suo padre Natale: votava repubblicano, era un ammiratore di La Malfa».
Se i Giorgetti sono forse la famiglia più nota di Cazzago Brabbia, il merito non è solo della brillante carriera politica “del Giancarlo”, ma anche dell’acume imprenditoriale di suo nonno e dei suoi fratelli. Fino a un secolo fa i Giorgetti erano umili pescatori fittavoli che lavoravano per il conte Ettore Ponti, proprietario del Lago di Varese; nel 1922 la loro vita, e quella dei loro discendenti, cambiò quando acquistarono il diritto di pesca e si misero in proprio fondando la Cooperativa Pescatori: grazie a quell’operazione divennero ricchi.
La cooperativa ha recentemente festeggiato il centenario alla presenza del ministro: Natale Giorgetti, scomparso alcuni anni fa, ne è stato uno storico presidente e aveva tramandato la carica al figlio Giancarlo, che però si è dovuto dimettere nel 2018 quando è stato nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, per incompatibilità fra i due ruoli.
Il leghista è il secondo di tre fratelli: il maggiore, Giuseppe, lavora come impiegato in un’azienda di trasporti; il minore, Francesco, è un manager di Leonardo. Con quest’ultimo, più giovane di lui di quindici anni, il ministro condivide la singolare passione – accesasi giocando a Subbuteo – per il Southampton, squadra di calcio inglese che storicamente annaspa in zona retrocessione: i due sono accaniti tifosi per davvero, al punto che più di una volta sono volati oltremanica per assistere alle partite allo stadio e hanno anche fondato un club italiano di supporter, “Italian Saints”.
È nella sua Cazzago Brabbia che Giorgetti ha conosciuto da adolescente la futura moglie, Laura Ferrari, figlia di un agricoltore, amante dei cavalli.
Nel 2008 la donna ha patteggiato una pena di 2 mesi e 10 giorni per truffa ai danni della Regione Lombardia: per ottenere un finanziamento da 400mila euro, aveva gonfiato il numero dei partecipanti ai corsi di equitazione che organizzava. I due hanno una figlia, Marta, che studia all’università.
Il vicesegretario della Lega è poi cugino del banchiere Massimo Ponzellini, allievo di Romano Prodi, poi avvicinatosi a Giulio Tremonti, già amministratore delegato della Zecca dello Stato e presidente della Banca Popolare di Milano e della Impregilo Costruzioni.
«Il Giancarlo lo si vede spesso a Cazzago», riprende il sindaco Magni. «Domenica scorsa (due domeniche fa per chi legge, ndr) era a messa, abbiamo chiacchierato». «La sua famiglia vive ancora qui in paese, sia la moglie sia la madre, a cui è legatissimo. Ogni tanto capita di vederlo andare in barca a pescare nel lago o addirittura a farsi il bagno lontano dalla riva, dove l’acqua è più pulita». «È un uomo molto legato alle sue origini, modesto, riservato. Anche in politica è così: lavora molto, soprattutto dietro le quinte. Non è mai andato alla battaglia in prima linea nel suo partito, neanche adesso che è ai ferri corti con Salvini».
Le tensioni striscianti con “il Capitano” ce le conferma anche un parlamentare leghista vicino al segretario, che per ovvie ragioni ci chiede di restare anonimo: «I rapporti con Matteo – dice – si sono ormai deteriorati. Basti pensare che, sia con il Governo Draghi sia con il Governo Meloni, Giorgetti è stato fatto ministro all’insaputa di Salvini».
Se nella sua terra frequenta solo lumbard purosangue ed è rimasto fedele alle due P leghiste (Padania e Pontida), quando è a Roma il numero due del Carroccio è uomo di mondo: non disdegna la compagnia di avversari politici – dalle famigerate pizzate con Luigi Di Maio all’endorsement per Carlo Calenda al Campidoglio, seguito dalla sua partecipazione come ospite al congresso di Azione – ed è ben accreditato presso figure di potere assai lontane dal mondo Lega.
Non è un mistero la sua vicinanza a Draghi, risalente al periodo in cui Giorgetti era presidente della Commissione Bilancio della Camera e Super Mario direttore generale del Tesoro. Ed è nota pure la vicinanza con ambienti del Vaticano: ad esempio monsignor Liberio Andreatta, ex responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi, che gli avrebbe persino trovato un appartamento in pieno centro in un palazzo della Santa Sede.
Poi ci sono le cene con gli imprenditori romani, come quella nel marzo 2018 – mentre correvano le trattative per formare una nuova maggioranza di governo – con il costruttore Luca Parnasi, attualmente a processo per finanziamento illecito (per una vicenda in cui Giorgetti è totalmente estraneo).
«Giancarlo ha rapporti di amicizia con diversi personaggi del sistema di potere italiano, da Draghi a Ugo Zampetti (segretario generale del Quirinale, ndr)», racconta il parlamentare salviniano anonimo. «Al punto che certe volte ho avuto dei dubbi su quale partita stesse effettivamente giocando. Un esempio? Nell’estate del 2019, quando Salvini stava per rompere con il Movimento 5 Stelle, Giancarlo disse: “Tranquilli, ho parlato con Mattarella, se cade il governo si va alle elezioni anticipate”. Poi sappiamo com’è andata… Da lì è iniziato il suo declino nel partito: fino a quel momento era lui a gestire le nomine per conto della Lega, ora se ne occupa l’onorevole Bagnai. Poi Giorgetti è tornato in auge con Draghi e ora con la Meloni».
Ma, a ennesima conferma della spaccatura con Salvini, alle ultime politiche alcuni dei fedelissimi del vicesegretario non sono stati ricandidati o sono rimasti esclusi dagli eletti, come il deputato uscente Matteo Bianchi, ex sindaco di Morazzone, in provincia di Varese.
Peraltro, Giorgetti nella Lega non era solo l’uomo delle nomine: per anni ha gestito anche i conti del partito.
A raccontarlo a TPI è Daniela Cantamessa, storica ex segretaria di Bossi: «Nel 2012 Maroni, appena eletto segretario, incaricò Giorgetti di studiare una spending review per il partito. Una mattina, chiacchierando nell’attesa che Bossi arrivasse in ufficio, Giancarlo mi disse: “Bisognerà pensare di mettere da parte un milione di euro per incentivare i dipendenti a dimettersi”. La cosa mi colpì – ricorda l’ex segretaria del Senatùr – perché avevamo in cassa circa 30 milioni di euro e nella Lega mai avremmo pensato di fare la fine che abbiamo fatto». Ossia il licenziamento di tutti i dipendenti del partito.
«L’idea che mi sono fatta a posteriori – prosegue Cantamessa – è che ci fosse la volontà di svuotare il partito. Di lì a poco Maroni iniziò a non utilizzare più la struttura della Lega e a ingaggiare delle società esterne, pagandole l’ira di Dio. E Giorgetti? Si è allineato, come sempre. È stato prima bossiano, poi maroniano, poi salviniano e adesso è draghiano… È un bravo politico, ma come persona mi ha deluso».
Agli inizi degli anni Duemila, Giorgetti era stato nominato da Bossi nel consiglio d’amministrazione di Credieuronord, la «banca padana e dei padani», pensata per custodire i risparmi e finanziare le attività dei militanti leghisti. Fu un disastro: la raccolta del capitale andò malissimo e l’istituto palesò presto pesanti incapacità gestionali.
Il presidente della banca era Francesco Arcucci, all’epoca nel consiglio di Banca Intesa, mentre come vicepresidente fu designato il leghista Gianmaria Galimberti: «Come tutte le operazioni bancarie – dice Galimberti a TPI – Credieuronord avrebbe avuto bisogno di partire con una grande base di risparmio. E invece la maggior parte dei leghisti non aderì: lasciò i soldi nella banca in cui già li aveva. Del resto, avevamo poche sedi sul territorio e non potevamo pretendere, ad esempio, che un triestino venisse ogni volta a Milano per versare o prelevare». Inoltre furono concessi finanziamenti senza le adeguate garanzie, il più noto dei quali all’ex calciatore del Milan Franco Baresi.
Nel giro di quattro anni Credieuronord era praticamente fallita. A salvarla fu la Banca Popolare di Lodi guidata da Gianpiero Fiorani, poi passato alle cronache come uno dei «furbetti del quartierino», che, per altre vicende, sarà condannato per falso in bilancio e patteggerà per aggiotaggio, truffa e associazione a delinquere.
Nel 2006, interrogato dai magistrati di Milano, Fiorani rivelò che due anni prima, un giorno d’estate, si era presentato nell’ufficio di Giorgetti a Montecitorio con 100mila euro in contanti inseriti all’interno di una copia piegata del quotidiano La Repubblica: i soldi erano un modo per ringraziare la Lega di aver smussato le ostilità rispetto alla conferma a Bankitalia del governatore Antonio Fazio (vicino allo stesso Fiorani). Quel giorno, tuttavia, Giorgetti non era in ufficio.
Fiorani lasciò la busta con il denaro sulla sua scrivania e se ne andò. Qualche ora più tardi ricevette una telefonata: era Giorgetti. «Disse – parola di Fiorani – che non voleva assolutamente ricevere denaro perché lui era contrario, volendo moralizzare le prassi del partito». E lo restituì. Sempre secondo Fiorani, il leghista aggiunse che, volendo, c’era la squadra di calcio Varese che aveva bisogno di soldi. Ma, ritenendo che non ce ne fossero gli estremi, non denunciò l’episodio: comportamento considerato peraltro irrilevante dal punto di vista penale dai magistrati.
Nel 2011 il nome di Giorgetti saltò fuori in uno dei 251mila cablogrammi segreti pubblicati da Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange. Nel documento – un rapporto del Consolato statunitense di Milano diretto a Washington, datato agosto 2009 – il leghista veniva indicato come successore naturale di Bossi alla guida del Carroccio: «Laureato alla Bocconi, proveniente dalla provincia chiave di Varese, l’unico che conosce sia la macchina del partito che gli apparati romani. In pubblico dice di non ambire alla successione, ma in privato tende a non negarlo», scrivevano gli americani.
Quattro mesi prima, Giorgetti, insieme all’allora ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, era stato a pranzo con Daniel Weygandt, console Usa a Milano: «Berlusconi – confidò al diplomatico statunitense – sta cercando di creare attriti per spingere la Lega verso posizioni estremistiche e aumentare così il sostegno al Pdl. Ma non ci cadremo». Tre anni dopo quella conversazione, Bossi fu travolto dallo “scandalo Belsito” sui rimborsi elettorali e la guida del partito passò prima a Maroni, poi a Salvini.
Da leghista ben introdotto nelle stanze del potere, nel marzo 2013 Giorgetti fu nominato dal presidente della Repubblica Napolitano nel gruppo dei “dieci saggi”, team di esperti del mondo politico e accademico incaricati di elaborare un programma di riforme istituzionali ed economico attorno a cui imperniare una nuova maggioranza parlamentare (dalle elezioni di poche settimane prima non era emerso alcun vincitore).
Giorgetti fece parte del gruppo di lavoro impegnato sulle riforme istituzionali: fra le proposte di riforma che ne uscirono, l’eliminazione del bicameralismo perfetto. Poco dopo si formò una maggioranza di larghe intese che diede vita al governo di Enrico Letta, ma la Lega si schierò all’opposizione.
Nel corso della sua carriera parlamentare, Giorgetti è stato autore di alcune controverse leggi, come la numero 40 del 2004, che ha posto una serie di limiti alla procreazione medicalmente assistita: norma che è stata oggetto di un referendum abrogativo (non si raggiunse il quorum) e di diverse pronunce di incostituzionalità da parte delle Consulta. Oppure la legge – sollecitata dalla Commissione europea – che nel 2012, sotto il Governo Monti, diede attuazione al principio del pareggio di bilancio in Costituzione (la Lega votò favorevole alla Camera e si astenne al Senato).
«Il principio del pareggio di bilancio – disse Giorgetti, anni dopo, davanti ai militanti del Carroccio – è un principio che applichiamo in tutte le famiglie, almeno quelle della Padania, e funziona». «Il problema – aggiunse puntando il dito contro l’euro – è che, se c’è la globalizzazione, e quindi la difficoltà di competere sui mercati, e tu ti dai una moneta forte, è inevitabile che condanni la tua economia al suicidio».
Questo è Giorgetti: tribuno del popolo nella sua Varese, uomo del “deep state” nella Roma che ha saputo pazientemente conquistare. Leghista, ma anche un bel po’ democristiano. Più amico di certi avversari che di certi compagni di partito. Più nemico di certi alleati che di certi avversari.
Il ministro che nei prossimi mesi e anni dovrà fare i salti mortali per far quadrare i conti dello Stato, tra annunciate sforbiciate fiscali e riforma delle pensioni, è una figura complessa: figlio di un pescatore e laurea alla Bocconi, le frequentazioni nell’estrema destra nazionalista e la mitologia della Padania, le contestazioni alla moneta unica e l’asse di ferro con Mario Draghi. Tutto sintetizzato in un paio di frasi pronunciate alcune settimane fa, all’ultimo raduno del Carroccio: «La sovranità del popolo noi la concepiamo come la sovranità del popolo di Pontida. Governare è un atto di equilibrio fra quello che si vorrebbe e quello che si può. Equilibrio è un atto di coraggio e ci vuole coraggio per avere equilibrio». La Lega di Bossi non c’è più, ma “il Giancarlo” è sempre lì.
(da TPI)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
LA DIFFAMAZIONE CONTRO LE ONG: “LA NOSTRA COLPA PER QUALCUNO E’ CHE SALVIAMO VITE UMANE”
Da Sottile, il posto più a sud di Lampedusa e d’Europa, il Mar Mediterraneo sembra una sequenza interminabile di azzurro che si interseca con il cielo, fino a non farti distinguere neppure l’orizzonte. A guardarsi intorno da questa striscia di terra rocciosa stretta e lunga, nei giorni di tramontana Tripoli sembra così vicina da poterne riconoscere il profilo. Pare quasi, concentrandosi, di riuscire a intravedere il celebre Arco di Marco Aurelio e l’Assai al-Hamra, il Castello Rosso, ma anche le interminabili coste da cui si dipana una delle più frequentate rotte di migranti, che punta ai territori siciliani quali ingresso al Vecchio continente.
«Partono spesso di notte, con la speranza di venire soccorsi lungo la traversata. Negli ultimi vent’anni ho salvato decine di migranti, mettendo a rischio la mia stessa vita. Sono stato molto criticato per quello che ho fatto, ormai non riesco più a uscire in mare con serenità, sono perfino finito in terapia per elaborare la sofferenza per le vite che non sono riuscito a salvare, ma non mi pento di niente», racconta Domenico con gli occhi lucidi.
La sua storia si è intersecata a più riprese con il destino dei migliaia di migranti che da quest’isola di appena venti chilometri quadrati sono passati.
Uomini e donne, spesso bambini, con negli occhi e nel cuore il sogno di un futuro migliore. Persone che scandiscono la vita di Lampedusa, meta di vip come Giorgio Armani e Claudio Baglioni durante l’estate, e purgatorio di anime appena il mare diventa calmo e la temperatura mite. La routine della migrazione non conosce alterazioni, ed è così che piccole imbarcazioni approdano sulle coste lampedusane a ogni ora del giorno. Si tratta di barchette sulle quali sono stipate dieci, venti, trenta persone – che arrivano da Tunisia, Gambia, Guinea, Costa d’Avorio, Siria e Iran – che verranno poi trasportate nell’hotspot isolano, dove convivono oltre mille persone in condizioni disperate.
Vite che in rari casi – si parla di meno del 10 per cento – sono messe in salvo dalle Ong, mentre più frequentemente arrivano in autonomia sulle coste italiane o vengono soccorse dalla Guardia Costiera, dalla Guardia di Finanza, da Frontex o da navi mercantili. «Eppure nei nostri confronti – riflette Riccardo Gatti, responsabile operazioni ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere a bordo della Geo Barents – da anni è in corso una campagna non solo denigratoria, ma criminale. Lo spettacolo brutale andato in scena a Catania, dimostra come non esista più empatia, comprensione, umanità».
E attesta anche quanto sia semplice accentrare, e manipolare, l’attenzione mediatica. Mentre i 527 migranti a bordo della Geo Barents – salvati in sette distinte operazioni in acque internazionali – erano al centro di un braccio di ferro a reti unificate, 500 persone soccorse dalla Guardia costiera al largo della Sicilia sbarcavano senza alcun problema nei porti di Augusta e Pozzallo.
«Da anni si cerca di cambiare gli equilibri del Mediterraneo, provando ad annullare il soccorso in mare. Dal 2017 non esiste più alcun coordinamento, ma la situazione non è mai stata così preoccupante. Ormai ci si comporta alla luce del sole in completa violazione delle leggi internazionali», prosegue Gatti.
«Noi come Medici Senza Frontiere non ci fermeremo. Adesso siamo nel porto di Augusta perché ci stiamo preparando a una nuova missione con simulazioni di salvataggi ed emergenze mediche, in attesa di riprendere il largo». Gatti ribadisce che il primo porto sicuro per Msf resta l’Italia, racconta dei momenti di tensione a bordo, di come ormai sia «imperante il disprezzo della vita umana. Quasi non esistesse più un bisogno etico, morale e anche legislativo di aiutare chi rischia di morire. Eppure è noto come nel Mediterraneo il rischio di perdere la vita sia alto e concreto. Spesso i migranti partono sapendo che con un’altissima percentuale potranno morire, eppure lo fanno lo stesso perché vogliono una vita migliore. Vogliono salvarsi, o lottare per le loro famiglie».
Ed è così che ogni numero – ogni vita spezzata, ogni vita salvata – diventa una storia. «Mentre eravamo fuori dal porto di Catania, ho conosciuto un ragazzo che voleva arrivare in Germania dove la madre stava morendo di cancro, delle famiglie che scappavano dalla guerra in Siria… Spesso si cerca una visione unilaterale o univoca in queste storie, ma le motivazioni delle partenze sono molteplici e sono tutte molto valide».
Disperazione e salvezza
Ritornare alle persone, ritornare ai loro vissuti e alle storie che si portano
dietro diventa allora un imperativo morale. Esercitare l’empatia attraverso l’incontro non con i meri numeri – dettati dai media, declinati attraverso gli organi istituzionali – ma con le storie che questi nascondono.
Storie come quella di Youssouf, incredibilmente non giudicato “vulnerabile” dopo il primo screening sanitario e rimasto a bordo della Geo Barents al porto di Catania per altri due giorni prima dello sbarco definitivo insieme ad altri 213 sopravvissuti.
Una follia del sistema d’accoglienza italiano: 4 ore, come denunciato dall’onorevole Angelo Bonelli dei Verdi (l’unico insieme al dem Antonio Nicita e ad Aboubakar Soumahoro che sono accorsi al porto di Catania per verificare quanto stesse accadendo), per visitare 572 persone. In pratica, 50 secondi a persona. È così che a bordo sono stati trovati sopravvissuti che intanto avevano contratto la scabbia, e addirittura due minori. Ad un certo punto Youssouf si è buttato in mare da una finestra del natante: «Stavo impazzendo. Ho avuto la sensazione che il mio corpo e i miei sogni stessero andando in frantumi. Sono grato per tutta l’assistenza che ho ricevuto a bordo, ma non ce la facevo più. Ho lasciato il nord della Siria per offrire una vita più sicura alla mia famiglia. Ho quattro figlie che sono rimaste a casa. Negli ultimi anni hanno visto le bombe cadere sulla nostra città e non possono andare a scuola perché la zona continua a non essere sicura. I gruppi armati sono ovunque, rapiscono le persone per chiedere riscatti, la situazione è fuori controllo e ogni giorno ho paura per la loro vita. Voglio semplicemente trovare un posto dove possano essere libere e al sicuro. Questo è il mio sogno e non permetterò a nessuno di portarmelo via».
I sogni sono il fulcro cruciale di tutte le storie, e ritornano costantemente in ogni racconto come molla fondamentale per rischiare tutto, nel tentativo di sopravvivere. Ahmed – altro migrante salvato dalla Geo Barents – ha lasciato Damasco, in Siria, un anno fa. Lo ha fatto perché la sua vita era in pericolo: se non fosse scappato, forse oggi non sarebbe qui. Il suo viaggio della speranza ha toccato la Libia e per sei volte ha provato ad attraversare il Mar Mediterraneo. Ogni volta i libici fermavano le imbarcazioni, portavano i migranti nei centri di detenzione e abusavano di loro fisicamente e psicologicamente. «Da allora – racconta con un filo di voce, gli occhi umidi – i dolori alla schiena sono così forti che non cammino più bene».
La fuga dalla Libia
Nella roulette russa che è diventata la fuga in Europa, le storie riemergono in frammenti. Tra le centinaia di persone che hanno trovato sostegno grazie a Medici Senza Frontiere c’è un ventiduenne originario del Bangladesh: «Sono il primogenito, ho un fratello di 12 e uno di 7 anni. Mio padre è malato, lavora molto poco, e così i miei genitori hanno puntato su di me. Per prima cosa ho provato a cercare un impiego in Libia, ma la situazione era insostenibile: lavoravo moltissimo, ma mi pagavano poco e spesso per niente. Un giorno mentre andavo al lavoro sono stato sequestrato per strada: volevano un riscatto dalla mia famiglia per liberarmi. C’erano altre persone e chi non pagava veniva torturato». La storia – tragicamente simile a quella di migliaia di migranti, che nello Stato nordafricano hanno trovato sevizie e violenze – rivela l’animalesca prassi locale: «Per convincere la mia famiglia a pagare mi hanno legato entrambe le gambe, mi hanno appeso al soffitto e mi hanno costretto a videochiamare la mia famiglia. Mi hanno riempito di botte, e queste sono le cicatrici che mi porto addosso».
Lunghi tagli segnano il corpo, punteggiando il rammarico e la sofferenza. «Per salvarmi, i miei genitori hanno venduto tutto quello che avevano: la casa, i terreni, l’auto. Hanno anche dovuto prendere diversi prestiti, perché quando il riscatto veniva saldato non venivo liberato per davvero ma solo ceduto a un altro gruppo. Alla fine il conto è stato di 15mila euro».
Tanto vale, in Libia, la vita di un giovane uomo.«Appena sono stato scarcerato, ho capito che dovevo andare via e sono partito per l’Italia. Per tre giorni sono stato su una barchetta, terrorizzato, perché non so nuotare. Poi finalmente siamo stati soccorsi. Ho pensato che sarei riuscito a realizzare il mio sogno, invece…».
La sospensione della voce corrisponde alla sospensione del destino. «Fisicamente e psicologicamente sono distrutto. I miei fratelli sono stati costretti ad abbandonare gli studi, non sento da settimane la mia famiglia e non ho idea di quando potrò mettermi in contatto con loro. Probabilmente penseranno che sono morto».
Sempre in Bangladesh ha origine anche un’altra storia. Protagonista un padre di famiglia che ha perso tutto durante un’inondazione. «Devo mantenere sei persone: i miei genitori, mia moglie e i miei tre figli. Come contadino nel mio Paese non guadagnavo abbastanza, e così sono dovuto partire. Dopo una parentesi drammatica in Libia, dove sono anche stato sequestrato, ho scelto di partire per l’Europa. È l’unica possibilità che ho per dare un futuro ai miei figli, un presente ai miei genitori».
La traversata della Ocean Viking
A viaggiare con la speranza di approdare in Italia sono stati anche anche Bassem e Ana. Lui 32 anni, lei 22. Sono sposati e hanno una bambina di 5 anni, partita con loro. «Abbiamo pagato 70mila dollari in totale ai trafficanti. E dal 2020 ad oggi abbiamo provato cinque volte a fuggire, prima di riuscire a prendere il mare. Abbiamo scelto di lasciare Damasco per quanto lì avessimo una buona condizione sociale. Non volevamo che nostra figlia crescesse in un paese in guerra».
E così inizia l’impresa: da Damasco a Beirut, poi in aereo fino a Bengasi. «I trafficanti hanno puntato un kalashnikov contro la testa di mia moglie e di mia figlia. Mi hanno detto che o pagavo o le ammazzavano. È stato uno dei momenti più drammatici», racconta Bassem che ad ogni passaggio si vede estorto denaro per salvare la sua famiglia. Fino al 9 ottobre scorso quando i tre vengono caricati sull’ennesimo barcone, ma questa volta dopo 9 ore vengono salvati. Sono gli operatori della nave di Sos Méditerranée, la Ocean Viking. Non avrebbe mai immaginato che da lì sarebbe cominciata un’altra incredibile traversata durata altre due settimane. Una sorte condivisa con altre 231 persone. «Le storie drammaticamente si somigliano tutte. Sono storie che puntualmente restituiscono l’immagine della sofferenza indicibile cui le persone sono sottoposte in Libia tra violenze, stupri, detenzioni irregolari», rivela il portavoce della Ong, Francesco Creazzo.
A differenza della Geo Barents (e della Humanity1, altra nave pure approdata a Catania), il destino della Ocean Viking è stato ancora più crudele e complesso: dopo giorni e giorni in mare al largo dell’Italia, la nave è stata costretta a spostarsi e alla fine è approdata a Tolone. Innescando una crisi diplomatica tra i due Paesi. «Sono state dette cose false in questi giorni – sottolinea ancora Creazzo – È stato detto ad esempio pochi giorni fa in un’informativa in Parlamento dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che noi avremmo innescato, andando di nostra volontà in Francia, la crisi con Parigi. È un’accusa grave e non veritiera».
Tutto ruota attorno a un numero: 46. Tante, in 14 giorni, sono state le richieste di Pos (place of safety) che la nave ha avanzato, soprattutto all’Italia. Richieste a cui nessuno ha mai risposto. Da lì la decisione di spostarsi verso la costa francese. «La verità – continua Creazzo – è che l’Italia, e anche Malta che pure abbiamo contattato mentre eravamo in acque internazionali, non hanno agito in ottemperanza al diritto internazionale che prevede in questi casi l’assegnazione di un Pos. Siamo stati dunque costretti ad agire a causa della situazione a bordo che stava precipitando, cosa che le autorità italiane e maltesi sapevano bene perché erano tutte informate passo dopo passo. Ribadisco: non è stata nostra volontà, siamo stati obbligati a cambiare rotta vista l’inadempienza dell’Italia al diritto internazionale».
Soccorritori “criminali”
Una situazione che lascerebbe quasi pensare che sia meglio fermarsi, evitare scontri con Paesi “democratici”. Ma, esattamente come Msf, anche Sos Méditerranée non ha alcuna intenzione di mollare la presa. «Per adesso la Ocean Viking è a Marsiglia, abbiamo uno stop programmato per controllo e revisione dell’imbarcazione. Ma torneremo nel Mediterraneo centrale per compiere la nostra missione: salvare vite umane».
La metafora di Creazzo, d’altronde, chiarisce la posizione delle Ong più di mille altre parole: «Purtroppo assistiamo da anni, da governi di destra e di sinistra, a un processo di criminalizzazione nei confronti delle Ong. Ed è una follia: se esistono gli incidenti stradali, la colpa non è delle ambulanze. Noi siamo semplicemente dei soccorritori, cerchiamo di riempire il voto che gli Stati lasciano». Un vuoto enorme. Che non senza ipocrisia nessun Paese riconosce. Eppure, mentre l’Italia cerca di creare delle barriere all’accoglienza – con leggi, muri, divieti -, le frontiere cambiano.
E tornano in mente le parole di Alessandro Leogrande, scrittore tarantino prematuramente scomparso che ha indagato nel corso della sua esistenza i flussi migratori. «Le frontiere cambiano, non rimangono mai fisse», rifletteva spesso. Le frontiere sono mobili, e l’essere umano sa fare della resilienza un’arma di sopravvivenza. Ed è così che il pensiero da Catania sbarca a Lampedusa.
Poco distante dal centro dell’isola c’è infatti l’opera di Mimmo Paladino “Porta di Lampedusa – Porta d’Europa”. Un monumento di quasi cinque metri di altezza per ricordare i migranti che, nel tentativo di attraversare questo tratto di mare, hanno perduto la vita. Purtroppo ad oggi non esistono che stime – elaborate sempre per difetto – per raccontare la silenziosa carneficina del Mediterraneo. Secondo la Fondazione Openpolis, solo nei primi otto mesi del 2022, nelle sue acque hanno perso la vita 1.161 persone. Vite, storie, sogni, ambizioni e unicità. Non numeri
(da TPI)
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