Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
TOLTI I 21 MILIARDI PER LE BOLLETTE, DA SOMMARE AI 9 GIÀ STANZIATI, RESTA ASSAI POCO. CHI NE FARÀ LE SPESE SARÀ SALVINI
La cancellazione del condono penale per gli evasori e la rimozione (per adesso) dell’innalzamento della quota di pagamenti in contanti fino a cinquemila euro fanno ben sperare. Con una manovra di fine anno in larghissima parte destinata a fare da calmiere per il caro-bollette, quasi quasi non vale la pena litigare su quel che resta, cioè le briciole.
Ed è la ragione per cui ieri ha cominciato a diffondersi un moderato ottimismo sulla possibilità che lunedì, al massimo martedì, il governo possa presentare il testo della legge di stabilità. Già questo, riuscire a vararla entro il 31 dicembre, sarebbe un risultato positivo innegabile, per un governo uscito dalle elezioni del 25 settembre e insediatosi il 22 ottobre.
E non avrebbe senso rovinarlo con le classiche liti interne di ogni maggioranza, quando è chiaro che i margini di manovra sono assai ristretti e sull’orientamento di cercare rimedi alle conseguenze della crisi energetica c’è un accordo generalizzato, dato che si tratta di una scelta obbligata per difendere l’economia del Paese. Dunque, tolti i 21 miliardi per le bollette, da sommare ai 9 già stanziati, resta assai poco.
Chi ne farà le spese sarà Salvini, che avrebbe voluto aggiungere al taglio delle bollette, di cui comunque porterà una parte del merito, un rafforzamento della flat-tax per i lavoratori autonomi e un intervento più consistente sulle pensioni, entrambi cavalli di battaglia della Lega in campagna elettorale
Ma appunto, stando a quanto trapela dal ministero dell’Economia, retto dal leghista Giorgetti ma improntato a una linea di continuità con il governo Draghi, in entrambi i casi si tratterà di piccoli ritocchi, e neppure nel senso auspicato dai programmi leghisti. L’aumento della flat-tax, riservata finora ai redditi autonomi fino a 65mila euro, dovrebbe riguardare coloro che decideranno di denunciare un incremento fino a 85mila, cosa che in molti casi si risolverà in emersione di transazioni in nero.
La quota finale delle pensioni – anni di contribuzione più età – potrebbe verosimilmente aumentare di una unità, da 102 a 103 (41 anni di contributi più 62 anni), avvicinandosi, sia pure correggendola, a quella fissata dalla legge Fornero. Si tratta di far buon viso a cattivo gioco: si vedrà se Salvini è disposto.
(da la Stampa)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
AL MINISTERO C’È ROBERTO CALDEROLI, CHE NEL SUO CURSUS HONORUM DEVE VANTARE IL FALÒ DI QUALCHE TRICOLORE
Ci sono in Italia argomenti così arati, usati, abusati, detti e contraddetti, poi dimenticati, quindi ripresi a seconda delle alleanze, dei governi e magari anche delle congiunzioni degli astri che quando come oggi rispuntano fuori viene da dire con un misto di sconforto e incredulità: uh, mamma, ancora?
Uno di questi temi è il federalismo che si tira appresso, oltre al suono cavernoso del primissimo Bossi, “fe-de-ra-liiismo!”, ulteriori e già un po’ più articolate esclamazioni tipo: ma non l’avevano già fatto? Oppure: ma non ci avevano messo una pietra sopra? E comunque, con un occhio al futuro: ecco, ci mancava solo il federalismo.
Vero è che a un certo punto, per stanchezza, gli avevano pure cambiato nome, per cui all’inizio del secolo il federalismo venne detto “devolution”; mentre oggi si parla di “autonomia”, per giunta “funzionale”. Il mese scorso il nuovo governo le ha dedicato addirittura un ministero, “Affari regionali e autonomie”, là dove il plurale lascia immaginare la più prevedibile abbondanza di pastrocchi accompagnati da una pari quantità di grane, allorché nel centrodestra le pretese federali inesorabilmente faranno cortocircuito con la sacra nozione e la retorica di Patria.
Alla testa del ministero, come premio di consolazione per la mancata elezione alla presidenza del Senato, c’è Roberto Calderoli, che nel suo cursus honorum, in nome dell’iper-autonomia turbo- federale deve vantare il falò di qualche tricolore, e che durante la cerimonia veneziana della Dichiarazione d’indipendenza (1996), abito scuro e mano sul petto, fu chiamato a declamare gli articoli della Costituzione della Padania.
Calderoli presenterà presto una bozza di Autonomia/e. Si tratta del suo secondo o terzo testo dedicato. Siccome l’Italia, pure nella versione padana, è una Nazione parecchio espressiva, la prima bozza federalistica venne compilata nell’agosto del 2003 da quattro “saggi” del centrodestra auto-segregatisi – l’attuale ministro in pantaloncini tirolesi – all’interno di una scomoda baita nel Cadore, a Lorenzago.
Un anno e mezzo dopo, era Pasqua, la riforma federalista fu pronta, ma poiché la suddetta espressività ci mette nulla a trasformarsi in buffoneria, Calderoli ritenne opportuno sigillare la normativa cartacea in un uovo di cioccolata che festosamente recapitò a Bossi. A Gemonio, provvisto di martellone, il piccolo Eridano Sirio ruppe l’uovo e poco dopo la devolution divenne legge – che l’anno seguente, 2006, gli italiani abrogarono con un referendum.
Sennonché la Repubblica dei pasticci legislativi non ha mai capo né coda, né mai contempla esclusivi pasticcioni. Per cui dopo gli strepiti da comizio del Senatùr ed esaurite le provocazioni del professor Nosferatu Miglio, che a un certo punto arrivò a prefigurare nientemeno che una Repubblica dell’Etruria, anche la sinistra e i suoi dissennati costituzionalisti s’ innamorarono di questo benedetto federalismo, tanto da farne un caposaldo della Commissione Bicamerale D’Alema, oltre che la ciliegina sulla vana crostata di casa Letta.
Fatto sta che nel marzo del 2001, a fine legislatura, con l’acqua alla gola e quindi incastonandolo fra il nuovo codice della strada e la rinnovata disciplina dell’attività pugilistica, ecco che gli strateghi del centrosinistra, incuranti di creare un pericoloso precedente, approvarono a maggioranza un testo di riforma costituzionale del Titolo V recante raffazzonate e sgangheratissime norme sulle regioni, le province e i comuni.
Su tale base nel 2008, divenuto ministro, Calderoli presentò la sua penultima bozza di Federalismo, nel caso specifico fiscale: sempre in Cadore, all’hotel “Ferrovia” di Calalzo, e sempre in atmosfera festosa celebrando il compleanno del ministro Tremonti, al quale davanti ai fotografi insieme con Bossi tirò le orecchie con una certa energia.
In seguito Salvini, fattosi acceso sovranista e cristianista, lasciò un po’ cadere la smania del federalismo. Ma i risultati del pregresso lavorio si sono visti durante l’ondata del Covid con le regioni e i loro governatori che andavano e facevano ognuno per conto suo.
Una buona ragione per ricominciare.
La sintesi dell’eterno ritorno può rinvenirsi in una vignetta di Altan donata al presidente Ciampi. C’è un tipo che dice: «Insistono con le riforme e il federalismo». Risponde l’altro: «Ma se facciamo tutto noi cosa gli resta da fare ai nostri figli?».
(da la Repubblica)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO LO STRAPPO, IL PROCONSOLE SICILIANO DI BERLUSCONI: “VOLEVANO INCHIODARMI A ROMA, I FURBETTI. DO FASTIDIO…”
Assicura che la sua «non è una sfida», che «non c’è nessuna guerra». Poi, però, il proconsole siciliano di Silvio Berlusconi, Gianfranco Micciché, protagonista dello scontro a distanza con il governatore Renato Schifani che ha portato a una scissione in Forza Italia, lancia una provocazione al presidente della Regione: «È sempre stato una persona equilibrata – dice – Lo invito alla mediazione, a meno che non abbia deciso che il suo partito è Fratelli d’Italia».
Un attimo, Micciché, un passo indietro. Che cosa è successo?
«Ho subito un sacco di pressioni per andarmene».§
È stato eletto sia all’Ars che al Senato. Vuole restare in Sicilia?
«Ho promesso alla mia famiglia che non sarei più andato a Roma. Sono stato lì per 20 anni. Non posso fare una scelta di vita?».
Chi l’ha pressata?
«Schifani un giorno mi ha detto di aver ottenuto la vicepresidenza del Senato per me. Do fastidio?».
Fra voi due non corre buon sangue da anni
«Mi hanno mandato un video di un suo intervento in campagna elettorale. Schifani diceva cose strabilianti di me: “Gli devo tutto”. Non so cosa sia successo da allora».
Non faccia finta di nulla: il nome di Schifani presidente le è stato imposto.
«Me l’ha imposto Ignazio La Russa dopo il problema di Musumeci. Ma io ho accettato».
Lo scontro di quest’estate: Nello Musumeci voleva ricandidarsi alla presidenza della Regione, lei l’ha stoppato.
«Ho ritenuto sbagliato quello che Musumeci faceva. Non so se mi stiano facendo pagare questo».
Chi? La Russa?
«Io non faccio nomi. Constato che l’atteggiamento è surreale: ci sarà qualcosa dietro».
Nessuno dei suoi uomini è entrato in giunta. Nessuno ha avuto finora incarichi di sottogoverno.
«Schifani ha scelto un’assessora tecnica per la Sanità. Mi ha chiamato e mi ha detto: “Questo è il tuo nome, candidala”. Non funziona così».
Quindi ha rotto.
«Io? Tutt’ altro. Io non voglio che si rompa».
Non si era notato.
«Martedì mattina ho tentato una mediazione. Mi hanno detto no».
Su cosa?
«Non mi hanno nemmeno invitato alla riunione del gruppo».
Va bene, ma ora come si ricuce?
«Io sono disponibile a tornare indietro e fare un gruppo unico. Mi diano un segnale».
Vuole già rimettere mano alla giunta faticosamente nata a 52 giorni dal voto?
«Intanto parliamo. Troveremo una soluzione. Ma la mia non è una sfida. Sono loro che mi fanno la guerra».
Ne ha parlato con Silvio Berlusconi?
«Ogni giorno. È molto dispiaciuto. Gli ho chiesto di convocare me e Schifani. Vorrei avere un confronto in cui Renato mi dica qual è il problema».
(da la Repubblica)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
IL DNIPRO È DIVENTATO IL FRONTE DI GUERRA: L’ARMATA LESSA STA COSTRUENDO UN’ENORME LINEA DI DIFESA FATTA DI CENTINAIA DI TRINCEE CHE SI ALLUNGA SU TUTTA LA COSTA, PER DECINE DI CHILOMETRI
Opere di “fortificazione” sono in corso per difendere la Crimea, secondo quanto reso noto dal capo della Repubblica russa, Serghei Aksyonov, citato dall’agenzia Interfax.
La riva meridionale del Dnipro è lastricata di trincee, lunghi tunnel paralleli all’acqua profondi un metro e mezzo scavati nella terra rossiccia. Una bandiera russa impolverata sventola su un’asta piantata nel terreno. Qualche metro più avanti, lungo la discesa che porta verso il letto del fiume, alcuni soldati si riparano dietro un furgone abbandonato, usato come barricata. Sulla sua fiancata è stata disegnata una grande lettera Z. Ogni tanto qualcuno di loro fa esplodere dei colpi di kalashnikov verso le posizioni dell’esercito ucraino sulla sponda opposta, per tentare di intimorirlo.
Da quando le truppe di Mosca hanno abbandonato la città di Kherson il Dnipro è diventato il fronte naturale. Le truppe di Putin hanno quasi totalmente lasciato la riva orografica destra e stanno ora costruendo sulla sponda opposta la “linia oboroni”: una enorme linea di difesa fatta di centinaia di trincee che si allunga su tutta la costa e che è larga decine e decine di chilometri. Dall’altro lato gli ucraini stanno invece provando a impedire ai russi di realizzare le fortificazioni sparano incessantemente missili e colpi di artiglieria
Le trincee della “linia oboroni” sono scavate nelle pianure della steppa. La linea inizia sul confine tra l’oblast di Kherson e quello di Zaporizhya, non lontano da Mariupol, per terminare sulle rive del Dnipro. Entrando al suo interno si incontrano migliaia di carri armati, mezzi militari e furgoni che si dirigono nella direzione opposta, verso il Donbass. Molti provengono dalle zone da cui i russi si sono ritirati.
Molti di loro hanno appena lasciato la città di Kherson e sono stati mandati qualche decina di chilometri più indietro per costruire le difese o per essere impiegati nelle operazioni di “zachistka”: ovvero delle “azioni di prevenzione antiterrorismo”, come le chiamano, contro i gruppi armati che si oppongono alla loro presenza.
Man mano che ci si addentra nel cuore dell’oblast di Kherson i posti di blocco diventano sempre più frequenti. Lungo alcune tratte si viene fermati ogni mille metri. I soldati fanno scendere i passeggeri dall’auto e perquisiscono il bagagliaio, alcuni si rivolgono ai conducenti in russo, altri in ucraino. Sono principalmente ragazzi del posto che hanno giurato fedeltà a Mosca e che sono stati inquadrati nelle forze armate russe. Molti di loro sono ex poliziotti ucraini.
Arrivati a una decina di chilometri dal Dnipro i check point iniziano ad essere pattugliati da giovani uomini con il viso coperto dai passamontagna, sotto il quale spuntano delle lunghe barbe scure. Sulle divise, all’altezza del cuore, hanno cucite delle toppe verdi che recano la scritta “Ahmat Sila”. Sono le forze speciali cecene alle quali la Russia ha totalmente appaltato il controllo di una intera parte della “linia oboroni”. Alleate dell’esercito di Mosca ma dotate di un forte grado di indipendenza, esse controllano interi villaggi sparsi nelle pianure.
Vivono in caserme isolate nel nulla oppure nei villaggi, dentro case abbandonate dai cittadini fuggiti sull’altro lato del fiume in seguito all’arrivo dei russi.
Vestiti con pesanti caschi e giubbotti antiproiettile camminano per le strade e perquisiscono le case dove pensano siano nascoste armi clandestine.
Con i ceceni collaborano anche alcuni abitanti locali. C’è chi lava piatti nelle caserme, chi pulisce le case, chi ha partecipato alla distribuzione dei pacchi di viveri da loro organizzate, chi fornisce informazioni, chi è entrato a fare parte delle nuove amministrazioni comunali. «Le autorità ucraine ci chiamano collaborazionisti » racconta Tania, signora di mezza età che fa i mestieri in case oggi abitate dai ceceni «qualora tornassero si vendicherebbero immediatamente su di noi. Ce lo hanno giurato».
Da Kherson nelle ultime ore stanno arrivando immagini di gruppi di persone legate a dei pali, imbavagliati e picchiati per avere collaborato con i russi nei mesi precedenti. Per questo molti sono pronti a fuggire. «Se tornassero gli ucraini non avremmo più futuro» continua Tania «verremmo maltrattati sia dai soldati che da molti nostri compaesani, come d’altra parte già succede»
Nelle scorse settimane migliaia di persone sono fuggite da Kherson. Molte si sono momentaneamente sistemate in alloggi messi a disposizione dal governo russo nella regione di Genischensk, vicino alla Crimea. Si tratta soprattutto di ex “collaborazionisti” oppure di coloro che preferiscono vivere sul lato dei russi.
«Sono fuggita qui con mio marito e i miei figli perché ci sentiamo russi» racconta una giovane donna sulla quarantina. «I miei genitori sono invece rimasti a Kherson perché mio padre si identifica totalmente nell’Ucraina ». I fuggiaschi che lo vorranno verranno inseriti in un programma promosso delle autorità di Mosca che li farà trasferire in Russia.
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
RACCONTANO I COLLEGHI: “DURANTE LA PANDEMIA HA PRESO UN LUNGO PERIODO DI FERIE. HA IN PRATICA ATTESO CHE I VACCINI NON FOSSERO OBBLIGATORI PER TORNARE AL LAVORO”
La nuova portavoce del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, si chiama Marina Nalesso ed è una giornalista Rai.
Un passato al Tg1, quando Sangiuliano era vicedirettore, poi la conduzione del Tg2 prima che il “direttore” venisse promosso “ministro”.
Per lei la notizia era diventata una questione di fede.
Cattolica, ultra, Nalesso si presentava in video con rosari e crocifissi. Una fede che però pare vacilli sulla scienza.
Questo è quanto raccontano i suoi colleghi in Rai: “Durante la pandemia ha preso un lungo periodo di ferie. Ha in pratica atteso che i vaccini non fossero obbligatori per tornare al lavoro”.
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
LA CARNE COSTA IL 7% IN PIÙ, LA PASTA +18,4%, IL RISO +25% E LE UOVA +12,9% – L’UNICO MODO PER RISPARMIARE? SCEGLIERE PRODOTTI IN OFFERTA
Quanto costa un litro di latte? Nelle interviste quasi nessun politico sa mai rispondere (a oggi 1,72 euro, circa come la benzina); Giovanna Cornacchia, 48 anni, impiegata, sì. Dà un’occhiata alla lista della spesa e stima: «Farà sui 140 euro». Annoto la scommessa.
Appuntamento alla cassa 1 di un grande supermercato a Cologno Monzese (Milano). È arrivata col carrello pieno di sporte già aperte, pronte ad accogliere la spesa per i prossimi «7-9 giorni» e che fa solo il giovedì pomeriggio quando un tetris di nonni, catechismo, figli che il marito può prendere a scuola le lascia un po’ meno di due ore libere.
Con il carrello «Ire», esordisce – c’è un’intimità nel far mettere il naso a un’estranea nelle proprie economie, e mi pare che col diminutivo lei me la accordi – «non farmi sembrare una morta di fame». Non potrei: è sorridente, ben vestita, energica. L’ho contattata sì tramite la Lega Consumatori della Lombardia che aiuta chi resta indietro con le bollette, ma lei è un’amica della presidente, non una sua assistita (quelli che ho sentito mi davano appuntamento per metà dicembre, non potendo permettersi di tornare al supermercato prima).
Spende in alimentari per sé, il marito Donato Contardo e i due figli Niccolò e Carola di 12 e 9 anni, «almeno 400 euro al mese» più qualche pizza fuori. Si sommano a un mutuo di 700 per tre locali a Brugherio; si sottraggono ai 1.500 euro del suo part-time in un’azienda che esporta utensili, più 1.800 del marito operaio. Un bilancio sopramedia: il 62% delle famiglie italiane vive con meno di 2.000 euro al mese; una su cinque ha almeno un membro disoccupato; 6 su 10 non riescono a risparmiare (Nomisma).
Ventuno pasti Giovanna è più attenta a non sprecare minuti che denaro, in vista del suo svago del giovedì sera, il corso di teatro: precisamente, di improvvisazione. È un’arte cui comunque è tenuta anche qui. In mano la lista, in testa il programma dei prossimi ventuno pasti – colazione ognuno ha la sua, a pranzo tutti fuori, a cena tutti insieme – nelle tasche un budget sempre più stretto che fa quadrare con offerte che troverà lì per lì.
Soprattutto, tentando di mangiare «bene»: cioè sano e leggero. «Detesto ingrassare, e cerchiamo coi ragazzi di non riempirci di porcherie. Merendine e biscotti li compro, ma solo per colazione».
Nel suo carrello non entrano wurstel né sofficini; un pacco di crocchette di patate surgelate è la trasgressione massima a cui assisto; la pancetta «è solo per le schiscette di mio marito, e prendo quella di sottomarca, tanto è tutto grasso uguale».
La tendenza, con l’inflazione che da mesi alza il prezzo degli alimentari (+13% solo a ottobre), è quella già in atto, ad esempio, negli Usa: le materie prime fresche e non lavorate aumentano, il cibo processato, ricco di sale e grassi, è più a buon mercato.
Tre banane, otto mele, di frutta nient’ altro. «Mangiamo leggero e sano il più possibile» e appunto non è che non costi: «Guarda, questi cordon bleu te li danno per due lire», un euro l’uno in effetti, «ma sono porcherie, scarti». In offerta, di leggero e non troppo lavorato, ci sono quattro hamburger di scottona: nel carrello. Arrosto a fette. Sovraccosce di pollo.
Ogni acquisto di Giovanna è stato già monitorato da associazioni che da mesi stimano l’impennata dei prezzi.
La carne costa in media il 7% più di un anno fa ed è salito del 49%, del resto, il costo dei mangimi. Petto di pollo, +9%. Spezzatino bovino, +8% (Federconsumatori). Pasta +18,4%, riso +25%, uova +12,9% (ministero per lo Sviluppo economico).
La famiglia media spenderà 1.011 euro l’anno in più per mangiare (Codacons): era dal 1983 che i prezzi non crescevano così tanto (Istat). Più in vista di prima nel banco della carne: fegati, cuori, trippe, foiolo.
Tra i salumi Giovanna sceglie speck e crudo dolce per le piadine di stasera. La cena costerà 19,23 euro. Piadine bisogna comprarne due pacchetti, spiega Giovanna: sembrano sfuggite al rincaro, cioè costano come prima ma la confezione ne contiene tre e non più quattro. Trucco che ritroviamo sullo yogurt, prima 500 grammi e ora 450; sull’acqua in bottiglie da un litro e non uno e mezzo; sulle mozzarelle rimpicciolite. E comunque a tre minuti di strada c’è un McDrive: quattro Big Mac costerebbero meno di questa cena, e nel fare questo conto i food desert degli Stati Uniti, dove l’obesità è il male dei poveri e il cibo sano introvabile, sembrano futuro prossimo.
Saltiamo il banco del pesce: «Lo salto sempre. Non so cucinarlo e comunque onestamente è caro, e non sfama mai». Nel carrello va giusto una confezione famiglia di bastoncini Findus, 30 per 4,95 euro, in offerta anche quelli e alla fine comunque la cosa più cara in mezzo metro di scontrino. Parmigiano, «cerco di non farlo mancare». È in offerta sottocosto. Delle 66 cose che Giovanna ha comprato 31 sono in offerta; 18 sono senza marchio; l’olio era sulla lista ma «lo prendo la prossima volta, aspetto un’offerta».
«Offerta» è il mantra: «La sola strategia che alla fine seguo per risparmiare». Il 51% degli italiani compra meno cose (Coldiretti). «Ma con due ragazzini…». Il 53% cucina di più.
«Ho già giornate convulse». Altri scoprono il discount: a settembre il fatturato dei «market low cost» è salito del 10% (Nielsen per Federdistribuzione). «Che devo dirti? Ho provato a comprare lì, soprattutto le merendine dei ragazzi, ma non hanno lo stesso sapore. Taglio su altro». Ad esempio? «I viaggi. Non ne facciamo. Esco un venerdì sera su due, con le amiche, e lì per due ore non penso solo a cucina orari turni soldi, cosa c’è a cena, la schiscetta di mio marito, le visite del grande, il corso della piccola…».
A conti fatti Shampoo e balsamo, in offerta. Due confezioni di profiteroles a un euro l’una, somma che oggi non vale più di tre mele o pochi acini d’uva. «Ma detesto ingrassare». Emmental, pesto rosso, ravioli, trofie, farfalle rigate. Uno straccio da passare a terra il sabato mattina, «che è quando faccio le pulizie» (non ci sono aiuti), un pacco di crackers, biscotti, merendine, «ma secondo te, Ire, ci torniamo indietro? Alla situazione di prima? Dovremmo scendere in piazza».
Ci andrebbe? «Beh, certo. Da ragazza ci andavo, ma per bigiare. Qui se non lo facciamo non cambia mica, la situazione». Termine vago. Il politico che ignora il costo del latte non lo userebbe, ma Giovanna Cornacchia sa definirlo con precisione chirurgica: alla cassa (automatica) la somma spesa è di 139,53 cent, 47 cent di errore sulla stima iniziale. E «almeno 40 euro più di sei mesi fa. Ti pare normale?».
(da il Corriere della Sera)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
GLI AVVOCATI DELLA COPPIA: “PRONTI A FAR COMMISSARIARE IL VIMINALE SE LA SENTENZA NON SARÀ APPLICATA”
Il muro alzato dal governo non scoraggia le due mamme che hanno ottenuto dal tribunale di Roma il riconoscimento del diritto a vedersi rilasciata per la loro figlia di 7 anni una carta d’identità con la dicitura «genitori» anziché «padre e madre» come previsto dal decreto Salvini del 2019.
Sonia, madre biologica della bambina, ha scritto una lettera aperta allo stesso Salvini, che aveva commentato negativamente («Non ho parole, padre e madre sono le parole più belle del mondo») l’ordinanza del giudice. Il team legale che le ha assistite con le associazioni Rete Lenford e Famiglie Arcobaleno prepara le contromosse alle obiezioni sollevate dal governo per sottrarsi all’esecuzione della condanna del tribunale.
Nei prossimi giorni la strategia sarà definita. L’ordinanza sarà formalmente notificata al Viminale, con una richiesta di adempimento. «Stiamo individuando tutti gli strumenti per attuare la pronuncia, fino alla nomina da parte del Tar di un commissario che si sostituisca al ministero in caso di inerzia», spiega l’avvocato Vincenzo Miri.
Il commissariamento è lo strumento predisposto dalla giustizia amministrativa per costringere amministrazioni pubbliche riottose a obbedire a comandi provenienti dall’autorità giudiziaria.
Il comunicato di Palazzo Chigi, nella serata di mercoledì, avanzava però ostacoli di tipo informatico (adeguamento del software) e organizzativo (caos nel sistema di identificazione) all’esecuzione dell’ordinanza.
Non si tratta di questioni nuove. Il ministero li aveva sollevati anche davanti al tribunale. In una relazione evidenziava «i chiari problemi applicativi sottesi all’eventuale modifica del software per l’emissione e la stampa della carta di identità».
Il giudice Crisafulli, per «evitare una lunga e costosa consulenza tecnica», aveva chiesto «delucidazioni» allo stesso ministero. La Direzione centrale per i servizi demografici del Viminale aveva risposto definendo «tecnicamente fattibile l’intervento sul software, che però implicherebbe la concessione e l’emissione di un documento anagrafico elettronico privo di fondamento legale, poiché difforme dalle disposizioni normative attualmente vigenti, con tutte le possibili conseguenze che potrebbero sorgere in caso di operazioni di controllo da parte delle forze dell’ordine».
In sintesi: è complicato modificare il software, e anche volendo l’esito sarebbe un pasticcio che metterebbe nei guai la stessa bambina e le due mamme.
Ma il giudice ha «serenamente» rigettato questa tesi, deducendo l’inesistenza di «difficoltà insormontabili se non impossibilità» di natura tecnica e alzando il velo sulle fragili basi giuridiche del decreto Salvini, «che oltre a violare l’innumerevole elenco di principi costituzionali e internazionali è viziato da eccesso di potere».
Per questo ha ordinato al Viminale di emettere la sospirata carta di identità «apportando se necessario ogni opportuna modifica tecnica a software e hardware».
Il clamore suscitato dalla vicenda ha spinto negli ultimi giorni altre coppie omosessuali a rivolgersi alle associazioni, per far valere il loro analogo diritto. In assenza di una modifica del decreto Salvini, pur richiesta due volte dal Garante della privacy, quella giudiziaria resta l’unica strada. «Vogliamo che tantissime altre famiglie arcobaleno non debbano affrontare un processo e quindi non escludiamo ricorsi di massa (class action) nei tribunali per spingere il governo ad annullare un decreto puramente ideologico», ipotizza l’avvocato Miri.
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
FDI SALE A DISCAPITO DEGLI ALLEATI… IL TERZO POLO STABILE, SALE IL M5S A SCAPITO DEL PD
Nell’ultimo sondaggio di Proger index research per Piazzapulita, Fratelli d’Italia sale ancora rispetto alle ultime rilevazioni e va al 29,6% dei consensi. Sono 0,5 punti in più della settimana scorsa e quasi 4 punti in più di quelli ottenuti alle elezioni del 25 settembre.
Un dato che pone il principale partito della maggioranza ben al di sopra dei suoi alleati di governo.
Infatti, nonostante Matteo Salvini, segretario della Lega, continui ad annunciare misure e sbilanciarsi sui risultati che il governo otterrà, il suo partito ha meno di un terzo dei voti di Fratelli d’Italia.
La Lega si attesta all’8,2% dei consensi nel sondaggio, era all’8,8% il 25 settembre.
La segue a ruota il terzo polo, formato da Azione, con la guida di Carlo Calenda, e Italia Viva dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. La coalizione tra i due partiti ottiene l’8% delle preferenze, di poco superiore al risultato elettorale (7,7%).
Il terzo partito di maggioranza, Forza Italia, si ferma invece al 6,5% nel nuovo sondaggio. Un calo significativo rispetto all’8,1% del 25 settembre.
E perde punti anche il Partito democratico. Il partito di Enrico Letta arriva al 16,5% delle preferenze. Era al 16,7% la settimana scorsa, e perde oltre 2,5 punti rispetto al (già deludente) 19% delle scorse elezioni politiche.
Il Pd, stando ai numeri di Proger index research, non si può più definire il principale partito di maggioranza. Il Movimento 5 stelle, presieduto da Giuseppe Conte, raggiunge il 16,8% dei consensi e supera il Partito democratico, con cui in queste settimane c’è un dibattito anche per quel riguarda le candidature nelle regioni Lombardia e Lazio.
Tra i partiti con risultati più bassi che sono comunque entrati in Parlamento, non ci sono particolari differenze nei risultati rispetti a quelli ottenuti alle elezioni politiche del 25 settembre.
L’alleanza Verdi-Sinistra italiana ha il 3,9% delle preferenze, in leggero aumento rispetto al 3,6% ricevuto a livello elettorale.
+Europa, che non era riuscita a raggiungere la soglia di sbarramento del 3% alle elezioni di Camera e Senato, ma esprime comunque alcuni parlamentari grazie alle elezioni nei seggi uninominali, in questo sondaggio raggiunge la fatidica soglia del 3%.
Nel complesso, quindi, la coalizione di centrodestra arriva al 44,3% delle preferenze. La lieve crescita della coalizione è trainata del tutto da Fratelli d’Italia, dato che sia la Lega, sia soprattutto Forza Italia, perdono consensi rispetto al voto del 25 settembre.
La coalizione di centrosinistra, invece, fa il 23,4% dei voti. Anche in questo caso, il sondaggio esclude Impegno civico, schieramento creato da Luigi Di Maio, che l’ha poi abbandonato dopo il deludente risultato elettorale (0,6% dei voti). In ogni caso, il centrosinistra vede un calo significativo rispetto al 25 settembre, quando raggiunge il 26% dei voti. Il Partito democratico è la principale causa della perdita di preferenze.
(da Fanpage)
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Novembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
SEMPRE PIU’ PERSONE SARANNO COSTRETTE A LASCIARE LA PROPRIA CASA NEI PROSSIMI ANNI
Gli ultimi otto anni sono stati i più caldi di sempre. E mentre le temperature continuano ad aumentare, i ghiacciai a sciogliersi e il livello del mare ad alzarsi, ci sono interi ecosistemi che rischiano il collasso. Il cambiamento climatico ci riguarda tutti, ma per alcuni significherà perdere la propria casa. Non solo a causa dei disastri naturali sempre più frequenti e imprevedibili, ma anche per un ambiente che, in alcuni casi, rischia di diventare inospitale per l’uomo.
Pensiamo alle temperature estreme e alla siccità nell’Africa subsahariana. Ci sono intere popolazioni la cui sussistenza dipende dall’agricoltura: la mancanza di acqua e il caldo torrido potrebbero mettere a rischio i raccolti e costringere le persone ad abbandonare interi territori.
O ancora, le popolazioni costiere dell’America centrale potrebbero trovarsi costrette a lasciare le zone in cui vivono a causa di uragani e alluvioni. Migrare, insomma, potrebbe diventare una strategia di adattamento al cambiamento climatico.
Questo, però, non colpirà tutti allo stesso modo. Ad essere più esposte saranno le popolazioni già più povere e vulnerabili, che non avranno la stessa capacità di reazione del Nord del mondo. Secondo il database che monitora gli spostamenti interni a livello globale, nel 2020 30,7 milioni di persone sono rimaste sfollate a causa del cambiamento climatico. E queste si trovano principalmente nel continente africano, in Medio Oriente, in America Centrale e nel Sud-Est asiatico.
Invisibili davanti alla legge
Insomma, si tratta di realtà che riguarda soprattutto i Paesi a medio e basso reddito, nonostante non siano questi i principali responsabili del cambiamento climatico. Si tratta anche di un fenomeno in crescita. Secondo un report della Banca mondiale entro il 2050 oltre 200 milioni di persone saranno costrette a lasciare la loro casa a causa del clima. Molti, probabilmente, continueranno a spostarsi entro i confini del proprio Paese. Altri, invece, li attraverseranno.
Ad oggi queste persone rimangono per la maggior parte invisibili davanti alla legge. Se da un lato è vero che negli ultimi anni sono stati fatti degli importanti passi avanti, riconoscendo in diversi forum internazionali il legame tra cambiamento climatico e migrazioni, dall’altro manca una vera e propria integrazione normativa delle due cose. In poche parole, ai migranti climatici non viene riconosciuto lo status di rifugiati, non possono cioè beneficiare della protezione internazionale quando sono costretti ad abbandonare le loro case.
Un vulnus che lascia queste persone doppiamente vulnerabili. Non vedersi riconoscere la protezione internazionale significa infatti essere rimandati indietro, rimpatriati, verso quel Paese in cui però non ci sono più condizioni di vita sicure.
Lo status di rifugiato
La normativa di riferimento è quella della Convenzione di Ginevra del 1951, secondo cui il rifugiato è chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.
Dentro a questa definizione, ad oggi, sono state riconosciute le persone che scappano da conflitti armati, persecuzioni, guerre civili, violenza. È molto complesso, però, dimostrare come il cambiamento climatico sia il diretto responsabile delle ragioni che rendono un determinato luogo pericoloso. Spesso, però, è proprio il cambiamento climatico ad esacerbare tensioni sociali o politiche, nonché violenze o discriminazioni verso determinati gruppi.
Una crisi che si aggrava
“Senza investimenti urgenti nella mitigazione e nell’adattamento ai cambiamenti climatici, i Paesi del Sahel rischiano decenni di conflitti armati ed esodi esacerbati dall’aumento delle temperature, dalla scarsità di risorse e dall’insicurezza alimentare”, si legge nell’ultimo report del Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per lo sviluppo del Sahel con l’Unhcr, l’Agenzia ONU per i rifugiati. E ancora: “Se non controllata, l’emergenza climatica metterà ulteriormente a rischio le comunità saheliane, in quanto inondazioni, siccità e ondate di calore devastanti comprometteranno l’accesso all’acqua, al cibo e ai mezzi di sussistenza e amplificheranno il rischio di conflitti”.
Insomma, a meno che non sia messa in atto a breve una radicale inversione di marcia per quanto riguarda le politiche ambientali, i migranti climatici sono destinati ad aumentare. Nel 2020 Unhcr pubblicava le “Legal considerations regarding claims for international protection made in the context of the adverse effects of climate change and disasters”, delle linee guida per includere la questione climatica nel perimetro delle richieste di protezione internazionale.
Le considerazioni dell’Onu
Nelle loro considerazioni, le Nazioni Unite sottolineano quanto sia importante riconoscere anche a livello giuridico e normativo questo legame tra cambiamento climatico e migrazioni. E citano due esempi di convenzioni internazionali al passo con i tempi. La Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa (detta semplicemente Convenzione sui rifugiati dell’OUA) e la Dichiarazione di Cartagena sui Rifugiati (oppure solamente Dichiarazione di Cartagena).
Si tratta di accordi internazionali che riguardano due regioni precise del pianeta: quella africana e quella dell’America latina, tra le più colpite dal cambiamento climatico. Grazie a questi documenti oggi sono 48 i Paesi africani e 14 quelli sudamericani che riconoscono come rifugiati anche i migranti climatici.
La Convenzione dell’OUA e la Dichiarazione di Cartagena
Nello specifico la Convenzione dell’OUA, all’articolo 1(2), assicura lo status di rifugiato a “qualsiasi persona che, a causa di eventi che disturbano seriamente l’ordine pubblico in parti o nell’intero Paese di sua provenienza, sia costretta ad abbandonare il suo abituale luogo di residenza per cercare rifugio in un altro luogo, al di fuori del suo Paese di origine”.
La Dichiarazione di Cartagena, invece, al terzo punto delle conclusioni, raccomanda di includere tra i rifugiati “le persone che sono fuggite dal loro Paese perché le loro vite, la loro sicurezza o libertà è stata minacciata da altre circostanze che hanno seriamente minacciato l’ordine pubblico”.
Nessuna delle due, quindi, parla esplicitamente di cambiamento climatico. Ci si riferisce più generalmente a eventi o circostanze che hanno minacciato l’ordine pubblico. Nella loro concreta applicazione, però, specialmente nel caso dei disastri ambientali, sono stati inclusi gli effetti del cambiamento climatico tra gli elementi che hanno minato all’ordine pubblico, riconoscendo così protezione ai migranti ambientali.
I migranti climatici sono rifugiati
Le persone in fuga dalla propria terra a causa del cambiamento climatico sono destinate ad aumentare. Un fatto con cui prima o poi il diritto internazionale dovrà misurarsi, riconoscendo come il climate change possa rappresentare una minaccia al godimento dei più basilari diritti umani. La Convenzione sui rifugiati dell’OUA e la Dichiarazione di Cartagena sono l’esempio di come due regioni hanno saputo adattarsi alle sfide del tempo, ma in futuro sarà necessario garantire la stessa protezione a tutti i migranti climatici.
Non per forze servono nuove norme. Ciò che è necessario è il pieno riconoscimento di come il cambiamento climatico possa mettere a rischio il pieno godimento dei diritti umani, ad esempio limitando l’accesso a cibo e risorse naturali o al controllo del territorio. Tutto ciò potrebbe poi tradursi in una minaccia per l’integrità fisica delle persone e a un adeguato standard di vita, che garantisca disponibilità di acqua, alimenti, salute. Tutti elementi che contribuiscono poi a far aumentare le tensioni politiche, sociali ed economiche. Che, a loro volta, potrebbero risultare in conflitti, violenza e persecuzioni, soprattutto in presenza di governi e istituzioni indebolite.
Il principio di non-refoulement, cioè di non-respingimento, sancito dalla Convenzione di Ginevra, vieta di riportare una persona nel luogo dove questa è a rischio persecuzione. Una condizione che può essere scatenata anche dal cambiamento climatico. Senza contare che anche l’articolo 6, sul diritto alla vita, e l’articolo 7, contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, della Convenzione sui Diritti civili e politici impongano la protezione di coloro che rischiano di subire danni fisici o sono comunque in serio pericolo.
Insomma, già oggi i migranti climatici avrebbero pieno diritto a chiedere la protezione internazionale e a vedersi riconoscere lo status di rifugiato. Ed è ora di prenderne atto.
(da FanPage)
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