Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
MACRON RESTA UN ALLEATO CHE L’ITALIA NON PUÒ PERMETTERSI DI PERDERE ALLA VIGILIA DI PARTITE DECISIVE SU ENERGIA E CONTI PUBBLICI
Coerente all’istinto che ciclicamente lo fa sparire dalla scena pubblica, il bailamme fra Roma e Parigi ha un solo spettatore silenzioso: Mario Draghi. Mentre andava in pezzi l’asse diplomatico costruito con pazienza per venti mesi, l’ex premier era a Londra a godersi qualche giorno di vacanza coi nipoti.
Come sempre non ha mancato di tenersi informato su quel che stava accadendo.
Chi ha avuto il privilegio di accedere al suo telefono l’ha sentito stupito, quasi incredulo per gli errori di Giorgia Meloni nella gestione della Ocean Viking, se non altro per la rapidità con la quale ha dimenticato i consigli dispensati. Breve flashback: 22 ottobre, Palazzo Chigi. L’ex banchiere centrale e la leader di Fratelli d’Italia si chiudono in un salottino.
Per oltre un’ora Draghi spende parole sulla materia che meglio conosce: i rapporti in Europa. Invita Meloni a evitare passi falsi sia con la Francia che con la Germania. Snocciola tutte le ragioni per le quali coltivare rapporti di buon vicinato, i dossier sui quali il giudizio dei grandi elettori dell’Unione è essenziale.
L’accordo sul tetto al prezzo del gas, la riforma del Patto di stabilità, del fondo salva-Stati, la revisione del Recovery Plan, la vendita di Alitalia, il futuro di Telecom. Da qualunque angolo lo si guardi – questo il ragionamento di Draghi – «non c’è partita che l’Italia possa vincere da sola».
All’economista forse sfugge solo di metterla in guardia dal cul de sac più pericoloso che c’è: l’immigrazione. Fino a quel momento i contatti fra i due – e fra i rispettivi staff – era stato quasi quotidiano. L’aveva detto pubblicamente: «Sarò garante di una transizione ordinata».
Ma si era anche ripromesso che quella postura da lord protettore sarebbe venuta meno il giorno dopo il passaggio di consegne. E così è stato, dicono le fonti interpellate: l’ultimo contatto fra i due risalirebbe a quel giorno. Secondo alcuni Meloni in questi giorni ha tentato di raggiungerlo al telefono, invano.
L’unica certezza è che Draghi considera quello consumato in queste ore un gigantesco errore. Se c’è un alleato che l’Italia non può permettersi di perdere, è Emmanuel Macron. Perché l’agenda dei due governi è simile su molte partite. L’energia e i conti pubblici, per citare le due più importanti. Perché la Francia il più influente dei Paesi della sponda sud dell’Unione.
Draghi aveva dato credito a Meloni, anche nell’ultima riservatissima cena all’Eliseo, invitato da Macron. Lo aveva fatto perché convinto delle sue doti di leadership, e perché certo che se c’è un momento storico in cui sfruttare l’asse con Parigi, è questo: l’Italia e la Francia si sono vincolati attraverso un trattato intergovernativo (il patto del Quirinale) nel momento più difficile dei rapporti fra Francia e Germania. «Per decenni, e fino all’uscita di scena di Angela Merkel, l’Unione è stata governata dall’asse franco-tedesco. Dire che avessimo spostato l’asse su di noi sarebbe troppo, ma ci eravamo molto vicini», racconta uno stretto collaboratore sotto la garanzia dell’anominato.
Sui perché del pasticcio di queste ore Draghi non si è granché interrogato. Ma chi ha lavorato con lui ha maturato una convinzione: la vicenda Ocean Viking ha portato in superficie una divisione sotterranea interna al governo francese e alla squadra di Macron. Fra chi ha costruito con convinzione l’asse con l’Italia e chi invece era scettico, soprattutto dopo la vittoria elettorale di Meloni.
Che ci fossero crepe all’Eliseo, a Palazzo Chigi lo avevano avvertito in un paio di occasioni dopo il voto di settembre. Prima con le parole sprezzanti della ministra degli Affari europei Laurence Boone sulla necessità di «vigilare sull’Italia», e il giorno successivo all’insediamento della Meloni, quando fino all’ultimo non era chiaro se i due si sarebbero incontrati durante la visita del francese a Roma. Il 21 ottobre, a precisa domanda, Macron aveva escluso l’incontro.
Poi, sotto gli auspici del Quirinale, la decisione di accettare il faccia a faccia, seguito da una stretta di mano non troppo convinta. Un altro degli ex frequentatori di Palazzo Chigi lo dice allargando le braccia: «Se il nuovo governo voleva dare un alibi al partito degli scettici, ha centrato l’obiettivo. Speriamo sia solo un problema di inesperienza».
Se l’ambizione di Draghi fosse stata esaudita, a mettere una pezza alla crisi diplomatica dal Colle oggi ci sarebbe lui. Macron, che dell’ex presidente Bce ha stima sin dai tempi in cui era ministro delle Finanze, ora vorrebbe farlo succedere a Jens Stoltenberg alla Nato.
Ma il primo a essere poco convinto dell’ipotesi è proprio Draghi: non si sente tagliato per quel ruolo, ed è convinto che a decidere le sorti di quella poltrona non sarà l’inquilino dell’Eliseo, ma quello della Casa Bianca, che gli preferirebbe in ogni caso qualcuno più avvezzo ad assecondare i desiderata di Washington.
L’unico futuro che l’ex premier non disdegnerebbe è al Consiglio europeo, la cui successione è però prevista solo nel 2024. Cosa farà nel frattempo nessuno, neppure gli amici più intimi, è in grado di prevederlo. L’unico futuro che non si augura è quello di essere chiamato a rimediare agli errori della politica italiana. Sarebbe la terza volta in dieci anni.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
L’ESTATE SCORSA IN EUROPA ERA STATO APPROVATO IL MECCANISMO VOLONTARIO PER LA REDISTRIBUZIONE DEI MIGRANTI
«Lo scontro tra Italia e Francia rischia di affossare definitivamente la riforma di Dublino e l’intero Patto sull’immigrazione e l’asilo, uno scenario che porterebbe a un aumento incontrollato dei flussi di migranti all’interno dell’Unione europea, al quale alcuni Paesi potrebbero rispondere con la chiusura delle frontiere. Sarebbe la fine di Schengen».
Il ragionamento fatto da un alto funzionario Ue rispecchia una preoccupazione diffusa a Bruxelles – tanto che la Commissione intende chiedere un vertice d’emergenza dei ministri dell’Interno – e spiega l’atteggiamento del governo tedesco: pur ribadendo che Roma ha l’obbligo di accogliere le navi, la Germania ha deciso di smarcarsi dalla Francia. Berlino non seguirà l’appello di Parigi, ma terrà fede all’impegno di accogliere 3.500 richiedenti asilo dall’Italia. A patto che vengano prima fatti sbarcare.
Per capire le ragioni di questa scelta bisogna fare un salto al 22 giugno scorso. Quel giorno il Consiglio dell’Ue ha dato il via libera politico a due diversi regolamenti, approvando il mandato per i successivi negoziati con l’Europarlamento. Si tratta di due provvedimenti inclusi nel Patto sull’immigrazione che riguardano gli aspetti legati alla “responsabilità”, la contropartita necessaria per avere strumenti di “solidarietà”.
Il primo riguarda il regolamento sul database Eurodac, la banca dati che racchiude tutte le informazioni dei richiedenti asilo, e che viene utilizzata per rimandare nel Paese di primo ingresso i migranti che raggiungono gli altri Stati in seguito ai “movimenti secondari”.
Con le nuove regole la loro identificazione sarà più facile, anche perché gli Stati saranno obbligati a inserire maggiori dati biometrici per il riconoscimento facciale e non più soltanto le impronte digitali. I dati saranno conservati per 10 anni. Il secondo rafforza invece le procedure di “screening” alla frontiera e potrebbe imporre ai Paesi come l’Italia l’apertura di nuovi centri di detenzione per trattenere i migranti da espellere.
Il governo Draghi aveva dato la sua approvazione proprio perché, contestualmente, era stato approvato il meccanismo volontario per la redistribuzione dei migranti e perché gli altri governi si erano impegnati a trasformarlo in uno strumento giuridico vero e proprio.
Ora però l’esecutivo guidato da Meloni minaccia di strappare l’accordo se non ci saranno concessioni sul fronte della solidarietà: per il via libera definitivo a questi due regolamenti, infatti, servirà ancora un passaggio in Consiglio.
Questo spiega gli annunci arrivati ieri da alcuni Paesi, i quali confermano di voler mantenere gli impegni di accoglienza. La Germania, innanzitutto, oppure il Lussemburgo (anche se i numeri sono decisamente inferiori: cinque entro la fine del 2022). Dovrebbero essere confermati anche gli impegni da parte degli altri Stati: la Romania si era detta disponibile ad accoglierne 20 e la Croazia 30. Inizieranno soltanto a partire dal prossimo anno, invece, i trasferimenti verso Portogallo (70), Lettonia (20) e Belgio (100 tra tutti i Paesi mediterranei).
È però necessario che l’Italia consenta lo sbarco dei migranti salvati nel Mediterraneo, come ha puntualizzato anche il ministro degli Esteri spagnolo. L’ambasciatore tedesco a Roma, Viktor Elbling, ha fatto presente che «l’Italia fa tanto in termini di migrazione, ma non è la sola» perché nei primi nove mesi dell’anno il numero dei richiedenti asilo è stato pari allo 0,083% della popolazione, meno della metà di quelli registrati in Francia e Germania.
Nelle scorse settimane la presidenza ceca ha proposto di istituzionalizzare il piano di accoglienza, ma la proposta non piace all’Italia: prevede di ridistribuire tra i cinquemila e i diecimila migranti l’anno (con la possibilità per la Commissione di alzare la cifra) attraverso un sistema di solidarietà «obbligatoria, ma flessibile». Ai Paesi viene infatti lasciata l’opzione di scegliere se accogliere i migranti o fornire assistenza finanziaria.
L’Italia ha chiesto di inserire la questione nell’agenda del Consiglio Affari Esteri in programma lunedì a Bruxelles, al quale parteciperà il ministro Tajani. La discussione dovrebbe concentrarsi sulla dimensione esterna, con Roma che preme per aumentare i fondi destinati ai Paesi africani di origine e di transito dei migranti.
(da La Stampa)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
“HANNO LANCIATO LORO LA NOTIZIA”
Il rapporto tra Giorgia Meloni e la stampa italiana si è annunciato decisamente turbolento a partire dalla campagna elettorale. In quel frangente, infatti, era stato manifestato una sorta di pregiudizio preventivo rispetto al trattamento riservato alla leader di Fratelli d’Italia su giornali e trasmissioni di approfondimento. Adesso, nel ruolo istituzionale di presidente del Consiglio, si assiste a un ulteriore salto di asticella nelle relazioni. Durante la conferenza stampa di oggi, infatti, Giorgia Meloni ha – nei fatti – scaricato le responsabilità della crisi internazionale in atto con la Francia (in merito alla vicenda dell’Ocean Viking) sulla stampa italiana, che aveva per prima battuto la notizia di una disponibilità del governo di Parigi ad accogliere i migranti della nave dell’ONG diretta in Italia.
«Ci sono state delle incomprensioni. Voi avete scritto che il ministero dell’Interno francese avrebbe accolto la Ocean Viking, senza selezione. Questa notizia non è stata smentita per 8 ore e allora io ho fatto una nota di ringraziamento, che voleva essere assolutamente un segnale distensivo. Non so se la notizia l’abbiate inventata voi o se il governo francese nel frattempo ha cambiato idea. Ma io semplicemente volevo fare un gesto distensivo e ricordare che è stato un segnale importante».
La notizia di un possibile accordo con la Francia era arrivata all’indomani dell’incontro – alla Cop27 del Cairo – tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron. Successivamente, Giorgia Meloni aveva fatto diramare una nota ufficiale da Palazzo Chigi per ringraziare la Francia del presunto accordo. Una nota che, però, aveva sollevato l’irritazione del governo francese che ha spinto Parigi, addirittura, a mettere in discussione il piano di adesione volontario dei Paesi UE per la ricollocazione dei migranti. Un incidente diplomatico in piena regola che, però, a quanto pare viene ora etichettato come incomprensione dovuta a una possibile falsa informazione diffusa dalla stampa italiana.
La sensazione – e questo caso non fa altro che confermarlo – è che l’attuale assenza di fiducia (un sentimento collettivo piuttosto diffuso, che viene evidenziato più volte su diversi canali social) nei confronti della stampa italiana possa essere una sorta di paravento per qualsiasi cosa. Dalla semplice gaffe, fino all’incidente diplomatico. Lo avevamo visto con il presidente del Senato Ignazio La Russa, che aveva invitato Berlusconi a dichiarare che i suoi fogliettini contro Giorgia Meloni esibiti a Palazzo Madama erano una fake news (nonostante fossero stati oggetto di fotografie scattate dai professionisti che fanno il lavoro di fotoreporter in Parlamento), lo vediamo ora con questo tentativo di derubricare una crisi internazionale a una scorretta interpretazione di un gossip di stampa.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
“UN MILIONE DI IMMIGRATI DAL 2017”: UN SOTTOSEGRETARIO CHE DICHIARA IL FALSO
Ha trascorso quasi 28 mesi – negli ultimi 4 anni e mezzo – all’interno delle stanze del Viminale. Per tutto questo tempo ha ricoperto il ruolo di Sottosegretario al Ministero dell’Interno. Prima coadiuvando Matteo Salvini (nel governo Conte-1), poi al fianco di Luciana Lamorgese (nell’esecutivo guidato da Mario Draghi).
E questo lasso temporale è destinato a crescere, visto che Nicola Molteni è stato “premiato” anche dal nuovo corso Meloni che lo ha nominato in quello stesso identico ruolo per il dicastero ora guidato da Matteo Piantedosi. Tutta questa esperienza nel Ministero dell’Interno, però, ha portato il leghista a perdere di vista i numeri dei flussi migratori verso l’Italia. Nonostante tutto ciò sia di sua competenza.
Qualche giorno fa, mentre in Italia si discuteva delle strategie del Viminale sullo sbarco dei migranti soccorsi dalla Humanity 1 e dalla Geo Barents nel Mediterraneo (e ancor prima che scoppiasse il caso diplomatico con la Francia sulla gestione della Ocean Viking), Nicola Molteni aveva rilasciato un’intervista a Libero Quotidiano in cui aveva dato i numeri.
Questi numeri: «Nel periodo in cui Pd e 5 Stelle hanno gestito l’immigrazione hanno fatto solo danni: depotenziare il decreto sicurezza ha causato migliaia di morti in più. Le politiche del secondo governo Conte sono state un manifesto per migliaia di irregolari. Nei 14 mesi di Salvini gli sbarchi sono stati 5 mila. Quest’anno, in 9 mesi, siamo a 88 mila. Dal 2017, tolta la parentesi della Lega al Viminale, la sinistra ne ha fatti arrivare quasi un milione».
Già il primo dato, quello sui 14 mesi di “gestione Salvini” è falso.
Lo dicono i numeri ufficiali del Viminale: in quel lasso di tempo (suddiviso a cavallo tra due anni), non sono sbarcate 5mila persone, ma 15mila. Un numero significativamente più alto rispetto a quanto dichiarato da Molteni a Libero quotidiano.
Avrà “sbagliato” solo su questo numero? Assolutamente no. Perché il sottosegretario (ormai quasi perpetuo) al Viminale, sostiene che dal 2017 al 2022 (escludendo l’Era Salvini) «la Sinistra ne ha fatti arrivare quasi un milione». Ovviamente non è così.
Come spiega PagellaPolitica, che fa riferimento a tutti i report del cruscotto statistico sull’immigrazione del Ministero dell’Interno, dal 2017 a oggi sono sbarcati in Italia poco meno di 330mila migranti (se aggiungiamo i circa 15mila arrivati durante l’epopea di Salvini al Viminale questo dato va a sfiorare i 35mila).
Un numero di gran lunga inferiore al «quasi un milione» citato da Nicola Molteni. Un errore da matita blu, ma lui è solo un sottosegretario al Ministero dell’Interno che lavora lì da anni e continua a lavorarci anche oggi.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
LA STORIA DI ERIKA E DI IMPRENDITORE VERO (NON I PRENDITORI CHE PIACCIONO AI SOVRANISTI)
Erika Forghieri lavora in un’azienda di vendita e noleggio di Scandiano, la Ferretti Automotive. Di lei si sa poco: è originaria di Sassuolo e residente con il marito Devid e un bimbo a Scandiano, ed è stata assunta durante la pandemia, in pieno lockdown, con un contratto a tempo determinato. La sua storia però è diventata molto popolare perché Erika in un momento particolare della sua vita, la gravidanza, ha annunciato di essere incinta al suo datore di lavoro e invece di essere penalizzata è stata promossa.
Sono notizie che non dovrebbero esserlo, è vero. Ma è davvero raro ascoltare una dipendente che racconta: “Quando sono rimasta incinta, il mio titolare ha voluto fare un ulteriore sforzo trasformando il contratto in indeterminato”. Il titolare da parte sua dice molto di se spiegando come considera la sua lavoratrice: “Mi reputo un collaboratore prima che il titolare di Erika – dice alla Gazzetta di Reggio Paolo Ferretti, titolare della omonima azienda – . La conosco da un po’ di anni e ne apprezzo la professionalità”.
Sembra che comunque anche senza l’annuncio della gravidanza Erika avrebbe avuto il suo contratto a tempo indeterminato, come è giusto che sia, per i suoi meriti. Dice infatti il titolare dell’azienda: “Avevamo già il contratto pronto, ma appena ci ha comunicato di essere in attesa non abbiamo aspettato un attimo e abbiamo voluto premiare il suo talento e la sua bravura. Crediamo nel valore delle persone e della famiglia” e a testimoniare che non sia una millanteria parlano i fatti. Alla Ferretti Automotive sono diversi i dipendenti che negli ultimi mesi sono stati promossi passando da un contratto a tempo determinato al cosiddetto “posto fisso”. E anche se Erika sottolinea “Non dovrebbe far scalpore quello che mi è successo, anzi dovrebbe essere la prassi”, nell’Italia del 2022 storie come la sua ricordano invece un film di Frank Capra.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
L’ARMATA LESSA, CHE CONTROLLA ANCORA L’80% DELLA PROVINCIA, SI E’ TRINCERATA SULL’ALTRA SPONDA DEL FIUME DNIPRO… PER I RUSSI, MAL EQUIPAGGIATI, POTREBBE ESSERE DIFFICILE CONTINUARE A RESISTERE
Prima dell’alba di ieri, quando in Italia erano le tre, le forze russe sulla riva occidentale del fiume Dnipro hanno lasciato la città di Kherson e ripiegato verso Oriente. Il ministro della Difesa di Mosca, Sergei Shoigu, l’ha annunciato come uno squillo di fanfara. Operazione perfettamente riuscita. L’ordine per il ritiro è stato eseguito in meno di tre giorni. Shoigu dice che nessun soldato, munizione o veicolo militare è stato lasciato indietro. Se fosse tutto come appare, una manovra brillante.
I primi soldati ucraini sono arrivati nel pomeriggio fino al ponte Antonivskiy che è il principale collegamento tra Kherson e la sponda opposta dove sono ora trincerati i russi. È un ponte lungo almeno un chilometro e le immagini che i militari hanno pubblicato online mostrano un’enorme voragine. Da lì gli ucraini non potranno passare a lungo. Per Mosca quindi tutto bene?
I russi hanno completato in modo fulmineo un’operazione che secondo gli esperti occidentali avrebbe richiesto delle settimane. Una sorta di Dunkerque sul corso d’acqua invece che sulla Manica. C’erano da trasferire quasi 40mila fanti, forse 5mila tra blindati, tank e cannoni. Avare le immagini social dell’impresa: si vedono solo decine di fanti russi camminare carichi di zaini e armi sui pontoni alla base dell’Antonivskiy.
I combattimenti avrebbero potuto essere feroci, le perdite ingenti. Invece Mosca si prepara a tenere le difese sulla sponda del fiume in faccia alla città con uomini e armi in efficienza. Al netto del «dolore per la decisione di abbandonare Kherson» il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, può aver ragione a dire che «il ritiro non è un’umiliazione per la Russia e il presidente Putin» proprio perché realizzato in modo ottimale. Ma la sconfitta resta. Ritirarsi al di là del Dnipro significa rinunciare a prendere tutta la costa sul Mar Nero fino a Odessa, tagliare a Kiev l’accesso al mare e ridurla a un’enclave terrestre senza valore commerciale o strategico. Sostanzialmente obbligarla a rientrare nell’orbita di Mosca.
Invece ora da Kherson batterie d’artiglieria ucraine potranno colpire la Crimea che è ad appena 60 chilometri e i missili arrivare con 120 chilometri di volo sulla flotta russa. La base navale di Sebastopoli è quel che rende ancora Mosca una potenza globale. Dal «mare caldo» possono partire navi e sommergibili carichi di missili nucleari. Senza quel porto sempre agibile, la deterrenza russa sarebbe compromessa.
Ieri, però, gli ucraini non insistevano tanto sull’avvicinamento alla Crimea quanto sul presunto ritiro perfetto. L’intelligence di Kiev si è rivolta a sbandati o sabotatori: «Il tuo comando ti ha abbandonato, vuole che scappi da Kherson da solo in abiti civili. Non ce la farai. Ogni soldato russo che resisterà sarà ucciso. Arrenditi e sarai trattato secondo la Convenzione di Ginevra». Il vicegovernatore ucraino di Kherson, Serhiy Khlan, parla di artiglieria che ha massacrato i fuggiaschi e di soldati russi annegati.
Khlan usa l’immagine crudele di «gamberetti che quest’anno saranno belli grossi perché avranno molto da mangiare». È nell’interesse di Kiev trasmettere la sensazione di russi incapaci di coordinare le loro stesse azioni, ma neppure il vice governatore usa l’espressione «disfatta russa» o mostra colonne di mezzi catturati. Tocca al presidente Zelensky trovare il tono giusto, senza polemiche: «È un giorno storico. Oggi riprendiamo il Sud del Paese»
È presto per capire l’esatta dinamica del ritiro. È probabile che mercoledì, mentre a Mosca il comandante dell’invasione Surovikin e il ministro della Difesa Shoigu recitavano la sceneggiata di un consiglio di guerra in diretta tv («Signor ministro, propongo il ritiro da Kherson perché le linee di collegamento rendono difficile la protezione dei soldati». «Concordo con lei generale, proceda al ripiegamento»), lo spostamento delle truppe fosse già in gran parte compiuto. Il successo della ritirata sarebbe quindi duplice. Primo, per aver avuto (se vero) poche perdite.
Secondo, per essere riusciti a nascondere i movimenti di truppe e mezzi fino all’annuncio. Migliaia di uomini e cannoni sarebbero improvvisamente diventati invisibili agli occhi di satelliti e droni.
Fino a questa fase della guerra, l’apparato di sorveglianza occidentale non aveva sbagliato un colpo. Da quando Washington avvisava dell’invasione nello scetticismo generale, alle ultime telefonate tra ufficiali russi sull’impiego della bomba nucleare. Questa volta invece lo spionaggio non avrebbe visto passare una mandria di elefanti.
L’evacuazione indolore dei russi può essere forse spiegata con trattative segrete. È possibile che, in cambio del «safe passage», i russi abbiano offerto qualcosa a Kiev o all’Occidente. Se ne parla in ambienti diplomatici e militari, ma resta un’ipotesi.
Il ritiro da Kherson è avvenuto meno di due mesi dopo il referendum farsa che avrebbe dovuto rendere il capoluogo «eternamente russo». Quella era la città dove le spie di Mosca avevano corrotto poliziotti e funzionari ucraini così da conquistarla senza combattere. Una volta occupata, però, Kherson non si è arresa.
Indimenticabile la ferocia della signora che avvicina per strada un soldato russo armato di tutto punto per consegnargli una manciata di semi di girasole. «Mettiteli in tasca, così quando morirai almeno servirai da concime». Chissà se anche lei ieri è scesa in strada a festeggiare le avanguardie di Kiev.
La bandiera dell’Ucraina (a cui qualcuno aveva aggiunto quella dell’Unione Europea) sventolava ieri nella piazza principale di Kherson. La guerra entra in una nuova fase. I russi controllano ancora l’80% della provincia, sono trincerati sulla sponda orientale del fiume e stanno addirittura preparando difese in Crimea. L’inverno potrebbe congelare gran parte dei combattimenti, ma senza un cambio di armamenti o forza economica, la strada per la Crimea da ieri è aperta.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
LA RITIRATA RUSSA DA KHERSON HA FATTO IMBESTIALIRE ALEKSANDR DUGIN: “PUTIN NON RIESCE A SALVARE IL SUO POPOLO. CHI NON È ARRABBIATO PER LA PERDITA DI KHERSON NON È UN VERO RUSSO”
Il re è nudo. La ritirata delle truppe russe da Kherson ha aperto una nuova fase della guerra in Ucraina. Vladimir Putin, ormai isolato dal resto del mondo (resiste solo Xi Jinping), non è mai stato così in difficoltà. E adesso i nemici se li ritrova anche in casa. L’ultima umiliazione non è andata giù agli uomini del potere russo, che chiedono la sua testa. Il mormorio nei corridoi del Cremlino si è fatto insistente, nessuno guarda più lo zar con lo stesso timore e lo stesso rispetto di prima.
Ha fatto rumore l’attacco di Aleksandr Dugin, neonazista soprannominato “Il cervello di Putin”, che ha paragonato la sorte del presidente al «re della pioggia», sacrificato se non riesce a «salvare il suo popolo». Un messaggio chiaro, che è fomentato da gran parte dell’elite russa: «Putin va rovesciato». Dugin, che ha perso la figlia in un attentato avvenuto a Mosca durante la guerra (che per l’intelligence americana è stato opera di Kiev), è sempre stato uno degli uomini di riferimento per Putin. Per questo adesso le sue parole – pubblicate su Telegram e poi rimosse – tengono lo zar in ansia. «Chi non è arrabbiato per la perdita di Kherson non è un vero russo», ha scritto Dugin.
Dugin è solo uno dei tanti ultranazionalisti preoccupati per le sorti del Paese. L’economia russa sta crollando per le sanzioni, l’Europa sta trovando nuovi fornitori di gas e sul campo di battaglia si collezionano umiliazioni, mentre Putin prova a fare la voce grossa millantando attacchi nucleari che suonano come mosse della disperazione. Ma lo zar, che tramite il suo portavoce Peskov ha dato la colpa di quanto successo a Kherson «ai militari», non può permettersi una rivolta interna. Per questo a Mosca è in corso una vera e propria caccia ai traditori. La “Zrada”, come viene chiamata. Chi si oppone alla guerra finisce in manette.
Eppure il dissenso non manca. Lo scrittore Zakhar Prilepin, storico sostenitore del presidente, parlando della sconfitta a Kherson ha definito Putin un «comandante supremo tratto in inganno» da innominabili ignoti. Nessuno crede alla storia della ritirata strategica, mentre in piazza nella città riconquistata gli ucraini fanno festa e innalzano le bandiere in segno di vittoria. Mikhail Leontiev, il portavoce del potente capo di Rosneft Igor Sechin, ha attaccato il Cremlino in tv: «Deve essere la politica ad assumersi la responsabilità». Nella vittoria tutti uniti, nella sconfitta si scoprono le carte. E Putin, che ha annunciato il forfait al G20, adesso trema.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
TRA GLI ALTRI UNO DEI MURALES RAFFIGURA PUTIN CHE VIENE SBATTUTO A TERRA DA UN RAGAZZINO
Tre murales attribuiti a Banksy, l’artista anonimo più famoso del mondo, sono apparsi nella località di Borodyanka, nei pressi di Kiev, come riporta il quotidiano britannico «The Guardian».
L’artista potrebbe dunque trovarsi nel Paese dilaniato dal conflitto contro la Russia. Uno dei tre murale — una ragazza, probabilmente una ginnasta, in equilibrio sulle macerie — è stato rivendicato dallo stesso artista sul suo profilo Instagram, accompagnato dalla frase «Borodyanka, Ucraina», senza altri dettagli.
Una delle opere raffigura, inoltre, un uomo che assomiglia al presidente russo, Vladimir Putin, che viene gettato a terra durante una partita di judo con un ragazzino.
La terza opera rappresenta invece due bambini che usano una trappola metallica come altalena.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
MARK KELLY VINCE IL SEGGIO IN ARIZONA. I DEM A UN PASSO DALLA CONQUISTA DEL SENATO… L’ATTENZIONE SI SPOSTA ORA SUL NEVADA, DOVE C’È UNA LOTTA SERRATA TRA LA DEMOCRATICA CATHERINE CORTEZ MASTO E IL REPUBBLICANO ADAM LAXALT. IN GEORGIA SI ANDRA’ AL BALLOTTAGGIO IL 6 DICEMBRE
Il democratico ed ex astronauta Mark Kelly vince in Arizona. Kelly batte il repubblicano Blake Masters, appoggiato da Donald Trump, e mantiene un seggio chiave in Senato per i liberal. E’ quanto emerge dalle proiezioni dei media americani. La sua vittoria assegna ai Democratici 49 seggi al Senato, uno in meno per assicurarsi la maggioranza.
L’attenzione si sposta ora sul Nevada, dove c’è una lotta serrata tra la democratica Catherine Cortez Masto e il repubblicano Adam Laxalt, e sulla Georgia, dove nessuno dei due candidati ha ottenuto più del 50% dei voti e si andrà al ballottaggio il 6 dicembre. Nel caso ci fosse un’ulteriore parità dopo i risultati dei due Stati, quindi una situazione di 50 seggi a 50, il Senato sarebbe a maggioranza democratica grazie al voto della vice presidente Kamala Harris.
(da La Stampa)
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