Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
PROMEMORIA GIURIDICO PER LA MAGISTRATURA ITALIANA CHE HA L’OBBLIGO DI INTERVENIRE E PORRE FINE A DECISIONI ILLEGALI, DENUNCIANDO I RESPONSABILI
«Ho voluto battere un colpo per riaffermare un principio: la responsabilità degli stati di bandiera di una nave». In quale fonte del diritto internazionale il neo-ministro dell’Interno Matteo Piantedosi abbia trovato questo principio, non è dato sapere.
Sta di fatto, però, che tale convinzione è bastata all’ex capo di gabinetto di Matteo Salvini per valutare di impedire a due navi di organizzazioni umanitarie, con a bordo centinaia di persone in difficoltà soccorse nel Mediterraneo, l’ingresso nelle acque territoriali italiane.
Una decisione che potrebbe portare Piantedosi in tribunale, esattamente come accaduto a Salvini (che è ancora sotto processo per il caso Open Arms)
Facciamo un passo indietro. Nei giorni scorsi, le navi umanitarie Ocean Viking e Humanity 1 hanno effettuato una serie di soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo Centrale, recuperando in totale più di 320 persone. Il ministro dell’Interno Piantedosi, intenzionato a prevenirne lo sbarco nei porti italiani, ha successivamente emanato una direttiva ai vertici delle forze di polizia e della Capitaneria di porto «perché informino le articolazioni operative che il ministero degli Affari esteri, con note verbali alle due ambasciate degli Stati di bandiera (Norvegia e Germania), ha rilevato che le condotte delle due navi Ocean Viking e della Humanity 1 attualmente in navigazione nel Mediterraneo non sono «in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale».
Lasciando da parte gli interrogativi su quale «spirito» abbiano le norme a cui si riferisce Piantedosi, per comprendere la sua decisione possono risultare utili le giuridicamente discutibili dichiarazioni riportate su La Stampa: secondo il ministro le due navi sarebbero fuorilegge poiché «le operazioni di soccorso sono state svolte in modo sistematico in area Sar di Libia e Malta, informate solo a operazioni avvenute», cosa ripetutasi con l’Italia. Le ambasciate di Germania e Norvegia sarebbero state coinvolte in quanto, dato che le due imbarcazioni battono le bandiere dei due Paesi, questi dovrebbero consentire lo sbarco nei propri porti.
Piantedosi fa riferimento alla sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Hirsi, che secondo il ministro «ruotava attorno al principio che se un migrante sale su una nave in acque internazionali, tutto il resto è responsabilità del Paese di bandiera» (ma che in realtà ribadisce il contrario, ovvero che il Regolamento di Dublino non è applicabile a bordo delle navi).
Le condotte saranno valutate sulla base dell’art.19 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (Unclos, detta anche “Convenzione di Montego Bay”), che considera il passaggio di una nave come «inoffensivo» fintanto che «non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero».
Sono molteplici gli aspetti secondo cui l’impostazione di Piantedosi, che ricalca la dottrina dei porti chiusi tanto cara a Matteo Salvini, sarebbe contraria alla normativa internazionale.
L’articolo addotto dal ministro come base giuridica per la valutazione è già stato considerato inapplicabile dalla dottrina nei casi di soccorso umanitario, e che al centro della normativa internazionale sul soccorso in mare c’è, appunto, il soccorso: la tutela della vita umana, sopra tutto e prima di tutto.
E quindi il salvataggio, che può avvenire, contrariamente a quanto sostenuto dal ministro, anche senza notifica alle centrali di coordinamento dei vari Paesi. Questo perché ogni eventuale ritardo da parte delle istituzioni, sia esso involontario o volontario, potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza delle persone in pericolo di vita.
Si tratta di un principio ribadito proprio dall’art.98 della suddetta Convenzione Unclos, la cui menzione consente anche di trattare il tema della responsabilità in capo allo Stato di bandiera: «ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: 1) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa».
Una responsabilità c’è, dunque, ma solo per quanto riguarda l’assicurarsi che il soccorso avvenga, e avvenga più velocemente possibile.
La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) obbliga il comandante della nave a «procedere con tutta rapidità» nel soccorso, «se possibile informando» i servizi di ricerca e soccorso «del fatto che la nave sta effettuando tale operazione» (Capitolo V, Regola 33). Anche l’affermazione di Piantedosi sulla mancata notifica come causa di illegittimità, perciò, è smentita.
La normativa internazionale, da questo momento, prevede che il coordinamento sia appannaggio degli stati costieri interessati.
E qui occorre spiegare i concetti di Sar e Pos. Le zone Search and rescue (Sar) sono aree marittime di ricerca e soccorso, non per forza coincidenti con le acque territoriali di un determinato Paese, disciplinate dalla Convenzione internazionale di Amburgo (“Convenzione Sar”) del 1979. Secondo quanto scritto finora, per configurare la necessità di soccorso deve esserci situazione di pericolo.
La convenzione Sar lo identifica con la nozione di distress, una «situazione in cui vi è la ragionevole certezza che una persona, nave o altra imbarcazione è minacciata da un pericolo grave e imminente e necessita di assistenza immediata».
In teoria, il coordinamento del soccorso è da attribuirsi allo Stato titolare della zona Sar in cui è avvenuto. Tuttavia, alla luce di quanto affermato sin qui, va da sé che venga assegnato de facto al centro di coordinamento che per primo risponde alla richiesta.
A questo punto, la Convenzione prevede, in capo all’autorità nazionale che ha assunto il coordinamento, di individuare il più vicino Place of safety, ovvero il luogo sicuro dove sbarcare le persone soccorse, e in cui cessano gli obblighi che il diritto internazionale prevede per lo Stato. Non quindi il porto più vicino, come spesso si sente dire motivando l’intenzione di respingere le navi in Libia o in Tunisia, e nemmeno un generico porto sicuro, ma un luogo fisico ritenuto sicuro dal punto di vista fisico e che consenta la presentazione di domanda di asilo.
È per questo che, sebbene il primo porto sicuro non sia necessariamente nello Stato che ha effettuato il coordinamento, spesso la scelta ricade sull’Italia: né la Libia (la cui zona Sar è stata istituita ma presenta numerose criticità per la sua situazione politica interna e per le condizioni dei migranti nei centri di detenzione), né la Tunisia (in cui manca una legislazione sul diritto d’asilo), né Malta (strutturalmente inadatta a gestire grandi flussi di migranti e già complice di violazioni) soddisfano i requisiti sopra elencati.
Ed è sempre per questo che il rifiuto di indicare un porto sicuro, come sta avvenendo in queste ore con le navi Ocean Viking e Humanitas 1, è considerato illegittimo, così come l’eventuale espulsione o sbarco in luogo non sicuro viola il principio del diritto internazionale di non respingimento.
Come ricordato in un altro articolo, i respingimenti alla frontiera sono illegali: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, all’art.14, stabilisce il «diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni», mentre la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951 sancisce il principio di non-refoulement, ossia di non respingimento, affermando all’art.33 che «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
Ultimo ma non ultimo è il rango del diritto internazionale nell’ordinamento italiano. Sì, perché le norme sopra citate hanno, in Italia, valenza costituzionale, e quindi superiore alle leggi ordinarie. L’art.10 assegna rango costituzionale alle consuetudini internazionali e agli accordi relativi alla condizione dello straniero, mentre l’art.11 lo estende al diritto comunitario. Dall’introduzione dell’art.117, godono di forza costituzionale anche i trattati internazionali.
Il governo italiano, in conclusione, sta violando diverse leggi internazionali che ha sottoscritto.
(da Linkiesta)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
NELLE RICHIESTE DI ASILO IN TESTA GERMANIA CON 191.000, FRANCIA CON 121.000, SPAGNA CON 65.000… ITALIA SOLO QUARTA CON 53.000
I 985 migranti da oltre dieci giorni a bordo delle tre navi umanitarie che li hanno salvati nel Mediterraneo sembrano l’unico obiettivo del governo Meloni per frenare i flussi migratori verso l’Italia. Che, come è stato ampiamente dimostrato, non sono condizionati dalla presenza in mare delle ong.
Dal giorno del cambio della guardia a Palazzo Chigi sono oltre 9.000 i migranti che sono riusciti a mettere piede sul suolo italiano, a fronte dei 985 soccorsi dalle tre navi umanitarie.
Il cruscotto del Viminale rileva, a partire dal 24 ottobre e fino alla data del 3 settembre, l’arrivo di 8.594 persone a cui però devono aggiungersi le oltre 700 arrivate ieri.
Un numero molto più alto rispetto alle 1778 persone sbarcate negli stessi dieci giorni del 2021, segno che l’orientamento politico del governo in carica non è in grado di rallentare i flussi, mossi da diverse emergenze nei Paesi di origine, e soprattutto segno che il ruolo della flotta umanitaria si conferma marginale.
Degli oltre 9.000 sbarcati in questi dieci giorni, per altro, la maggior parte è stata portata a terra da motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza intervenute per soccorrere grossi pescherecci o barconi partiti dalla Libia o in arrivo dalla rotta turca e riusciti ad entrare in zona Sar italiana. Ma sono intervenute anche imbarcazioni di Frontex. Gli altri sono sbarchi autonomi prevalentemente dalla Tunisia a Lampedusa
I dati delle richieste di asilo in Europa
Interessanti anche i numeri delle richieste di asilo in Europa che smontano la narrazione populista dell’invasione dei migranti in Italia. Questi i dati dell’Easo, l’agenzia europea dell’asilo
Le richieste di protezione internazionale avanzate nel 2021 sono state 648.000, un terzo in più del 2020 ma allo stesso livello del 2018, anno pre Covid.
Il paese europeo che ha accolto di più è la Germania con ben 191.000 richieste di asilo, quasi un terzo del totale, seguita dalla Francia con 121.000, la Spagna con 65.000, mentre l’Italia è solo quarta con 53.000.
(da agenzie)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
L’ESPERTO: “PROPOSTA IRREALIZZABILE, LE RICHIESTE DI ASILO DEVONO ESSERE RACCOLTE DA PREFETTURE E QUESTURE” … “AGGIRA IL TRATTATO DI DUBLINO, NESSUN PAESE ACCETTEREBBE”
“Un’opzione percorribile ma non ancora valutata”. Così dal Viminale rispondono alle richieste di chiarimento dopo le indiscrezioni diffuse da Repubblica secondo le quali il nuovo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, sta valutando la possibilità di spingere migranti e operatori a bordo delle navi delle ong a favorire le domande di protezione internazionale già a bordo delle imbarcazioni.
In questo modo, la pratica verrebbe avviata formalmente sul territorio dello Stato di bandiera delle navi, alleggerendo il flusso di domande in arrivo nei Paesi costieri, come l’Italia, che così potrebbero offrire i loro porti per uno sbarco rapido e il trasferimento nei Paesi coinvolti. Un’ipotesi, mentre si aggrava la situazione dei naufraghi a bordo delle tre navi al largo delle coste italiane, che aggirerebbe i Trattati di Dublino, penalizzanti per i Paesi di primo approdo, su tutti Italia, Grecia, Malta e Spagna.
Ma secondo l’avvocato Guido Savio, esperto di diritto delle migrazioni e membro dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), “si tratta di una boutade politica perché richiederebbe modifiche delle normative interne dei singoli Stati membri”.
“Mi sento di dire che si tratterebbe più di un’operazione politica con l’obiettivo di lanciare un messaggio forte all’Europa, ma difficilmente realizzabile. La reputo un’idea campata in aria“.
Questo perché, spiega, “è vero che la richiesta è valida dal momento in cui si entra nel territorio di uno Stato estero, ma per renderla effettiva è necessario che venga raccolta da uffici o personale preposto, come Questure, Prefetture o almeno personale di polizia o di organizzazioni internazionali delegate. Ma non credo, viste le posizioni espresse a Bruxelles, che la Germania o altri Paesi abbiano intenzione di fare concessioni di questo tipo”.
Come spiega l’avvocato dell’associazione che ha assistito numerosi casi di richiedenti asilo in Italia, esistono diversi cavilli legali per cui è complicato rendere questa pratica strutturale: “Sarebbero necessarie modifiche alle normative interne dei singoli Paesi – continua – Se bastasse mettere piede su territorio straniero per formalizzare una richiesta di protezione internazionale, non sarebbe necessario intraprendere un viaggio pericoloso e costoso come quello verso la Libia o la Tunisia. Basterebbe recarsi in un consolato o ambasciata straniera e fare richiesta. Ma non è una procedura contemplata, se non in casi eccezionali”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
MODIFICHE AL PNRR? MOLTO LIMITATE. ENERGIA? I PROVVEDIMENTI DI FONDO SONO QUELLI GIÀ APPROVATI. SUI MIGRANTI, BRUXELLES CONSIDERA DOVEROSO IL SALVATAGGIO IN MARE, RICORDA CHE ESISTE GIÀ UN ACCORDO SULLA DISTRIBUZIONE DEI NUOVI ARRIVI, CHE ALTRI PAESI COME QUELLI DELL’EST STANNO OSPITANDO MILIONI DI UCRAINI…IL DEBITO PUBBLICO SI ALZA
«La linea di fondo al momento non può cambiare». Una frase ripetuta sostanzialmente in ognuno dei tre colloqui sostenuti a Bruxelles da Giorgia Meloni. Ha accompagnato prima l’incontro con Roberta Metsola, poi quello con Ursula Von Der Leyen e quindi l’ultimo con Charles Michel. La risposta dell’Ue ai temi sollevati dalla premier italiana è stata dunque questa.
Nel carniere della neo premier è così entrato ben poco di concreto. Unico punto sul quale si è registrata totale intesa tra i padroni di casa e l’ospite, il sostegno all’Ucraina.
Se la presidente del consiglio italiana si aspettava di poter far cambiare idea ai vertici europei con un solo appuntamento, ecco forse dovrà rivedere i suoi conti. Poi, certo non si è trattato di un esordio segnato da liti, scontri o freddezza. Niente di tutto questo. «Grazie Giorgia Meloni per il forte segnale lanciato con la tua visita alle istituzioni europee nel tuo primo viaggio all’estero.
È stata una buona occasione – è stato il tweet con cui la presidente della Commissione ha commentato il colloquio – per scambiare opinioni su temi critici che vanno dal sostegno all’Ucraina, all’energia all’Italia, al NextGenEU e alla migrazione».
Ma nel merito, alla fine, il giudizio comunitario sui dossier più cari al nuovo governo italiano non è cambiato. E nemmeno era possibile modificarlo in questo momento: dalla necessità di ridurre il debito pubblico all’attuazione senza modifiche (se non molto limitate) al Pnrr, dalla gestione dei migranti all’energia.
E questo nonostante tutti i tre i suoi interlocutori la presidente del Parlamento europeo, quella della Commissione e quello del Consiglio europeo – le abbiano riconosciuto di non essersi presentata a Bruxelles con un’agenda volta a squassare gli attuali equilibri. Del resto, gli uffici di Bruxelles avevano preparato questo appuntamento evitando con cura di costruire una barriera di pregiudizi e negatività formali.
Da giorni, soprattutto Von Der Leyen e Michel, spiegavano a tutti i loro interlocutori preoccupati dall’avvento della destra italiana, che ci saranno comunque le condizioni per lavorare con l’esecutivo di Roma e che la “squadra” meloniana sarà giudicata dai fatti e non dagli slogan del passato più o meno recente. Un modo per dire: se verranno rispettate le regole e gli impegni, non ci saranno problemi.
In caso contrario i problemi emergeranno anche in maniera esplicita. Non è un caso che Meloni per descrivere la discussione abbia usato ieri un aggettivo, «franca», cui in diplomazia si ricorre per spiegare che le posizioni sono diverse e che sono state esplicitate in maniera molto netta. «Mi pare che dal punto di vista anche personale, umano, l’interlocuzione – ha sottolineato la presidente del consiglio – sia stata molto franca e positiva. Ho trovato orecchie disponibili all’ascolto».
Ma l’esito finale, comunque, non ha accolto le aspettative di Meloni che ha esordito puntando sulla «difesa dell’interesse nazionale». Sul Pnrr, ad esempio, sia Von Der Leyen sia Michel hanno ribadito che modificare sensibilmente il piano può essere pericoloso. Sebbene la leader di Fdi abbia più volte richiamato l’attenzione su «come riuscire a lavorare insieme per implementare il Pnnr» e «ragionare sulle grandi priorità, come la questione energetica».
Stesso discorso sui migranti. La premier ha insistito sulla necessità di dare «priorità alla difesa dei confini esterni». Bruxelles considera doveroso il salvataggio in mare degli essere umani, ricorda che esiste già un accordo volontario sulla distribuzione dei nuovi arrivi, che altri Paesi come quelli dell’est stanno ospitando milioni di ucraini e che si sta lavorando ad un nuovo provvedimento ma non prima di un anno.
Sull’energia, poi, difficilmente si potranno fare passi avanti nella direzione immaginata dal centrodestra in campagna elettorale. Tutti le hanno spiegato che i provvedimenti di fondo sono quelli già approvati: in particolare il RepowerEu.
Fondi nuovi sul modello Recovery sono da escludere e che non ci potranno essere disposizione dirette dell’Ue sulle bollette. Meloni chiede «soluzioni concrete». Ma si dovrà verificare a fine mese la praticabilità del tetto al prezzo del gas. Ipotesi, peraltro, che sta diventando sempre più critica.
Su tutto, poi, resta il “nodo dei nodi” italiani: il debito pubblico. L’inquilina di Palazzo Chigi ha fatto notare che stanno «andando di corsa per approvare la legge di Bilancio».
L’invito a controllare debito e deficit è stato rimarcato. Una sollecitazione che equivale ad evitare scostamenti eccessivi in questa manovra.
Anche in vista della riforma del Patto di Stabilità che mercoledì prossimo sarà presentato dalla Commissione e che seppure alleggerirà le procedure per il rientro dal debito eccessivo, nello stesso tempo introduce un meccanismo che obbliga a negoziare con la Commissione i risparmi da effettuare. Nessuna lite palese, dunque. Ma a Bruxelles nessuno ha fatto sconti al nuovo esecutivo italiano. Adesso conta la prova dei fatti.
(da la Repubblica)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
“LA SINISTRA? NON PUO’ RIPARTIRE DA BONACCINI. CONTE? UN MIRACOLATO”
Stefano Bonaga è il Socrate della sinistra italiana. Non ha scritto nulla, tranne un libretto clandestino e mai presentato in giro, Sulla disperazione d’amore. Tutti lo cercano e vogliono un suo consiglio, ma lui si definisce soltanto «uno sfigato».
Ha studiato con i maggiori filosofi francesi del Novecento e ha insegnato da eretico all’Università di Bologna. «Non sono mai stato interessato alle politiche e ai giochi accademici». Lui che della politica ne ha fatto una passione.
Lo abbiamo intervistato sull’attualità, dal reato di invasione pensato per contrastare eventi come i rave party, al reintegro dei medici no vax. Gli abbiamo chiesto del futuro della sinistra attraverso i nomi più quotati dell’attuale opposizione: «I nomi non mi interessano, il problema è ontologico».
E parlando dei nuovi sottosegretari se la ride. Insomma, un dialogo sul presente del nostro Paese con uno dei pochi filosofi italiani.
Il governo ha creato un nuovo reato per punire l’organizzazione di rave party e in generale dei raduni considerati pericolosi. Lo ha chiamato “reato d’invasione” e si rischiano fino a 6 anni. Cosa ne pensa?
Un provvedimento sciocco e indecente. Sciocco perché ci sono già le leggi che impediscono che si occupino proprietà pubbliche o private senza permesso. Allargarlo a valutazioni del tutto soggettive come “pericoloso”, poi, permette di pensare che qualunque adunata possa essere potenzialmente pericolosa. Oltre a essere una legge populista, nel senso di un populismo che è attento all’ultima notizia che circola per prenderla e svuotarla politicamente, c’è una questione di identitarismo. Poiché “ordine” è una vecchia parola della destra, e questo è uno degli atti che segnala il riconoscimento di identità rispetto agli elettori fedeli.
E sulla durata della pena?
Una cosa comica. Ci sono reati ben peggiori per cui si prende di meno o lo stesso. Organizzare un rave party e prendersi 6 anni mi sembra francamente assurdo. Anche qui, la pena ha un senso simbolico utile a recuperare un po’ di identità di destra.
Un altro provvedimento che ha fatto molto discutere riguarda l’ergastolo ostativo, che prevede la negazione di qualunque beneficio penitenziario ai condannati per mafia, terrorismo e associazione a delinquere. Che piega sta prendendo la giustizia in Italia?
Non sono un esperto, ma la giustizia è per sua stessa natura piena di limiti. La giustizia vale per tutti quando ciascuno è diverso dagli altri. La stortura c’è sempre ed è strutturale. Ma ricordo che da un punto di vista costituzionale la pena ha anche funzione rieducativa e non solo punitiva.
Quindi, al di là del fatto che c’è l’ergastolo, un fine pena mai non può limitarsi a considerare se il soggetto condannato se lo sia meritato o meno. È chiaro che se hai le prove che un mafioso anche da dentro il carcere mantiene i suoi rapporti e fa andare avanti la macchina criminale di cui è a capo, è difficile che tu abbia voglia di farlo uscire. Ma se, appunto, i rapporti li mantiene anche da dentro, non vedo come possa essere utile l’ergastolo ostativo. Di istinto direi che tendenzialmente la linea giustizialista non premia mai dal punto di vista sociale.
Ultimo intervento che ha innescato la bufera. Il reintegro del personale sanitario no vax. Il governo vuole difendere la libertà di espressione?
Che cos’è la libertà? Io non credo neanche nella libertà del volere, che si può attribuire solo all’anima, cioè a qualcosa di non fisico, di non causato. La libertà di volere vorrebbe un atto divino, che dal nulla può produrre qualcosa. Io propongo di invertire la concezione tradizionale secondo cui la potenza è figlia della libertà, e chiamare libero ciò che è potente. La libertà è il risultato delle norme e delle condizioni sociali. Non è che tu puoi passare con il semaforo rosso per sentirti libero. Non è libertà dire ai vaccinati che possono infettare gli altri. Non si poteva certo consentire ai medici di essere pericolosi in una zona del mondo chiamata ospedale, dove si è a contatto con i più fragili della società. Sarebbe stato gravissimo. Dopodiché, il reintegro anticipato rispetto al 31 dicembre è un altro atto simbolico che ha almeno due effetti: in primo luogo, quello di raccogliere i consensi di tutti i no vax; in secondo luogo, quello di dimostrare una presunta libertà assoluta indipendentemente dalle conseguenze
Mentre altri si sono vaccinati.
Con questa scelta del governo tutti quelli che hanno mantenuto fede, anche con delle difficoltà, a una norma, ora vedono premiati quelli che non lo hanno fatto. Un messaggio terribile dal punto di vista della legalità pubblica.
Più che della vittoria (annunciata) della destra si è parlato di sconfitta della sinistra. Dove hanno sbagliato in questi anni?
Il paradigma della destra consiste in una richiesta del consenso in favore di un’autonomia del governo. Quello della sinistra, invece, è una richiesta di partecipazione attiva alla costruzione della società, di cui il governo è una delega e, dunque, una potenza. Creare norme non è l’unica attività politica. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia, uscita sconfitta, riuscì a rigenerarsi in quindi anni. Ai tempi ci fu un processo di coinvolgimento dei cittadini. Ora abbiamo chi, come Renzi, sostiene che a contare sia solo lui, insieme alla segreteria del Partito. Così non si va avanti. Intendiamoci, non odio il PD e con Nadia Urbinati abbiamo già fatto presente questi limiti. Però è un partito che, tra le altre cose, non solo ha votato la peggior legge elettorale di tutti i tempi, ma ha cancellato anche il finanziamento pubblico ai partiti.
I partiti dovrebbero ricevere soldi pubblici?
Non sarà nella lettera della Costituzione, ma almeno nello spirito sì. I gruppi, anche privati, che si occupano di costituire il nostro Parlamento, e dunque hanno una funzione costituzionale fondamentale, non possono essere lasciati senza soldi.
Comunque la sinistra ha proposto un programma ai suoi elettori.
Se si pensa solo all’offerta politica, una terminologia da mercato, da grandi magazzini, e questa ogni volta cambia, come se i cittadini fossero solo consumatori, restiamo comunque lontani dal rispettare il paradigma di cui ti parlavo. In Grecia c’erano i polítes, i cittadini che si interessavano alla politica, e gli idiótes, che invece ne restavano fuori. Oggi la politica tratta i polítes da idiótes.
I protagonisti di questa sinistra vogliono ricostruire il fronte di opposizione. Tra i nomi ci sono De Magistris, Enrico Letta, ancora una volta D’Alema. Un rinnovamento può davvero passare per queste figure?
C’è una domanda più cogente. Può uno pensare di andare all’Olimpiadi senza allenarsi? Può diventare politico qualcuno solo per scelta interna, quando un tempo si facevano trent’anni di attività sul territorio, di politica sul campo? Prima si entrava in Parlamento dopo aver sviluppato idee e iniziative concrete. Un leader può essere due cose: o affianca e promuove un processo collettivo necessario, o rappresenta le idee collettive senza un processo reale di costruzione della società. Dovremmo protendere per il primo tipo.
Quali scelte ha pagato il PD in campagna elettorale?
Un paradosso incredibile di queste elezioni riguarda la denuncia costante del pericolo di un ritorno al fascismo per poi correre da soli, rifiutando partiti che avevano il 17% solo perché non votarono la fiducia a Draghi. Però poi si sono uniti con una bravissima persona come Fratoianni, che aveva votato un’infinità di volte contro l’ex premier. Allora lo fate apposta?
Poi c’è la legge elettorale di cui parlava.
Terribile. Non solo, c’è stata la riforma del numero dei parlamentari e si rendeva necessaria una nuova legge elettorale che non è stata fatta. Si è arrivati alle elezioni con una legge bruttissima, punitiva per tutti quelli che non si mettono insieme. E la destra, di cui due terzi erano in maggioranza e un terzo all’opposizione, ha vinto compattandosi, mentre le forze che erano unite al governo si sono disgregate. Ma allora scherzate o fate sul serio?
C’è anche lui, Giuseppe Conte, che si pensa possa essere al timone dell’opposizione.
Una volta l’ho definito un miracolato miracoloso. Ha portato 200 e più miliardi dall’Europa, ha gestito bene il disastro della Pandemia. Ma, diciamo così, si è trovato a sinistra con un movimento che storicamente si dichiarava né di destra né di sinistra. Ha riempito un vuoto. Ma quello che si rende necessario, oggi, è ricostituire i partiti su nuove basi partecipative. E i politici dovrebbero imparare come ascoltare i cittadini. Bisogna tornare alla potenza, chiedere: cosa potete fare voi? C’è un’incredibile potenza implicita nel tessuto sociale, studenti intelligenti, industriali innovativi, volontari (questi ultimi mai riconosciuti dalla politica, mentre fanno vera politica sui corpi).
Un nuovo modo di pensare la democrazia.
In un libretto con vari contributi di altri, ho parlato di isocrazia: tutti i cittadini hanno ugualmente potere. Non eguale potere, ma ugualmente potere. Se non ricominci a recuperare la potenza sociale, che non è su Marte ma qui sulla Terra, sarai sempre e solo quello che chiede fiducia per poi vedersela togliere poco dopo, con una dispersione della potenza sociale insopportabile e inconcepibile. Anche perché il tema principale della politica in Occidente, specialmente in Italia, non è la corruzione, ma l’impotenza (di cui la corruzione è un epifenomeno, insieme all’indifferenza).
Bonaccini sarebbe un buon segretario per il PD?
Siccome ho fatto una dichiarazione di principi mi baso su questo. Bonaccini non mi sembra abbia mai rivendicato nulla di simile. La sua capacità di governo dell’Emilia-Romagna è buona, ma l’ultimo segnale che ha dato Bonaccini è stato incalzare affinché il PD possa riuscire a trovare un segretario entro marzo. Come se la nomina del segretario sia importante per i cittadini, o risolutiva dei problemi del nostro Paese. È indicativo dell’attuale situazione. Infatti, uno dei temi più impressionanti riguarda la possibile fine di questo governo e quello che potrebbe accadere dopo.
Secondo lei?
Non vedo nessun avanzamento nella direzione della costruzione dei sempre più necessari corpi intermedi in una società complessa come la nostra o, come dicono i sociologi, funzionalmente differenziata. Non ci sono più strati o classi in cui gli interessi sono comuni e dunque è necessario sapere intercettare le differenze ben più sfumate.
Cosa intende?
Faccio sempre questo esempio. Prendiamo due operai della stessa fabbrica. Uno ha la casa di proprietà vicino alla fabbrica, l’altro è pendolare e vive in affitto con un figlio disoccupato. Non c’è unità, dal punto di vista del lavoro, della scuola, dei trasporti. O c’è una politica anche locale in grado di compensare le difficoltà e i limiti specifici, o si va avanti con il mito della rappresentanza e con la critica superficiale di chi giudica i rappresentanti non all’altezza della rappresentanza in sé.
Bisognerebbe essere più radicali. Al di là di quella normativa, necessaria a livello parlamentare, la rappresentanza è un concetto completamente vuoto proprio perché c’è una complessità tale negli interessi, che richiede sempre più politica attiva e sempre più lavoro sul territorio.
In Italia pensano solo a farsi votare?
Le elezioni sono una condizione necessaria ma non sufficiente per una democrazia, a tal punto che tutti i grandi dittatori del Novecento sono stati votati, da Mussolini a Hitler, da Ceausescu a Putin. Insisto: bisogna tornare al primato della politica, che non è una manciata di post sui social o i litigi in TV, ma azione. La politica è occupazione di spazi.
Crede che Elly Schlein possa dare nuova linfa a un centrosinistra morente?
Una brava ragazza che ha fatto politica sul territorio, anche se con forza minima. È stata premiata come vicepresidente della regione e ora è stata trasferita in Parlamento. Ma quello che può fare lei è quello che potrebbe fare una persona da sola.
Non potrebbe guidare lei il PD?
Alcuni lo vorrebbero, ma anche questo dare spazio alle nuove generazioni … [sospira] Le nuove generazioni non portano la politica nel cuore con i libri di testo che hanno appena abbandonato. È questione di espansione dell’attività politica, di sviluppo della cittadinanza attiva. Io sono maniaco, fissato, ormai insopportabile a me stesso, perché lo ripeto da tempo, ma il gioco è lì. Cosa puoi cittadino? E non “Cosa vuoi?”.
Nuovi sottosegretari. C’è Lucia Borgonzoni alla cultura.
[Ride] Una che dice che l’Emilia-Romagna confina con il Trentino e con l’Umbria e che cinque anni fa ha detto che l’ultima volta che aveva letto un libro era tre anni prima … è uno schiaffo. Beccatevi mo’ anche Lucia Borgonzoni. È stata pure sconfessata da suo padre, un vecchio comunista.
C’è anche Bignami.
Che faceva le feste vestito da nazista. Ragazzi, non viene neanche voglia di rispondere.
C’è anche Sgarbi.
Sgarbi dovrebbe essere Ministro alla gestione su due secoli di cultura pittorica italiana visuale. Di questo ha competenza.
Un’area molto circoscritta.
Sì.
Sgarbi ha proposto Morgan per un dipartimento dedicato alla musica.
Morgan è stato un mio caro amico. Una persona molto in gamba, intelligente e colta. Adesso è dentro una specie di follia narcisistica imbarazzante. Peccato, perché è un ragazzo con una bella anima. Di musica è espertissimo a tutti i livelli.
La sinistra è divisa sulla questione ucraina. C’è chi è per l’invio di armi e chi critica la guerra e l’atteggiamento atlantista. Lei da che parte sta?
Io ho deciso di tacere per sempre su questa guerra e non mi permetto di dire neanche con me stesso chi abbia ragione o meno. Trattasi di una tragedia in senso greco, perché da qualunque parte la vedi è un disastro. Da un certo punto di vista è ragionevole aiutare una popolazione che è stata invasa da un Paese straniero sul proprio territorio; allo stesso tempo è evidente come l’Occidente abbia trascurato i processi precedenti, come quello del 2014. In un certo senso è chiaro che l’invasore abbia sempre torto, ma è talmente complessa e tragica la situazione, che ho detto a me stesso non ne parlo. Assisto impotente a una tragedia.
Ci sono dei filosofi da cui la sinistra (non solo italiana) potrebbe ripartire?
Sì, Marx. Innanzitutto però bisognerebbe capire se la sinistra legga ancora i filosofi. Però, ecco, su tutti Marx, con la sua definizione di comunismo, quasi infantile, che suona così: a ciascuno sarà dato secondo le sue necessità, a ciascuno sarà chiesto secondo la propria capacità. Oggi è l’impostazione filosofica più necessaria per la politica.
E uno vivo?
Con la potenza di Marx no. Potrei dire gli spinozisti, da Deleuze a Rocco Ronchi. Tutti quelli che sanno che il tema della politica è la potenza. Non c’è nessun idealismo in politica. O le idee sono promotrici di azioni o sono inutili.
Lei è stato un pioniere della Rete democratica. Oggi ci sono i social network e passa da loro la costruzione del consenso. Vince chi investe di più (o meglio) nella comunicazione. Ma il dibattitto pubblico online è spesso ostaggio di fake news rilanciate anche dai nostri politici. C’è un antidoto al populismo online?
Avevo proposto – anche alle Sardine – AlterNet, che parte dalla premessa che la rete è un mondo e che il problema da porsi, quindi, è come stare al mondo. L’uso di AlterNet potrebbe consentire una gestione della rete per la quale ogni computer in mano a un cittadino qualunque può diventare uno strumento di attività politica, dal fact-checking al dibattitto sulle norme, alla diffusione di proposte e di iniziative.
Questo fa parte di un’educazione al mondo che parte con l’homo sapiens e arriva fino a noi. La domanda è sempre la stessa: come stare al mondo? Sappiamo che l’anarchia assoluta dei messaggi non è giusta, le stupidate non sono buone. Questo soprattutto oggi, che non esistono più strutture solide contro cui ribellarsi, come la Chiesa, la scuola o la famiglia. Un tempo bisognava argomentare per rifiutare la fede e il resto.
Oggi non si argomenta più?
Queste solide agenzie di autorevolezza sono in crisi, basti pensare al Papa che dice una cosa e a Salvini che ne dice un’altra con il rosario in mano, oppure ai genitori che picchiano i professori che hanno bocciato loro figlio, o ai bambini che a tre anni hanno già uno smartphone sulle mani. In questa fase la società liquefatta ha bisogno di solidificarsi, anche tornando a parlare di scuola o di famiglia, qualunque famiglia essa sia. E naturalmente la politica deve tornare un luogo di dibattitto e di iniziativa. Bisogna imparare a esistere nel mondo 2.0, il Metaverso, l’infosfera.
Parliamo di merito, uno dei cavalli di battaglia della propaganda di Giorgia Meloni. Che rapporto ha un filosofo con questo concetto?
Il merito è accettato dal buon senso. È evidente che il merito va promosso e va premiato. Non è che una critica a questa nuova dizione del ministero [dell’istruzione e del merito, ndr] sia un elogio del demerito. Anche i grillini dell’uno vale uno sanno che uno qualunque non può andare a insegnare fisica o a operare in ospedale. Uno vale uno a livello di cittadinanza, ma non in campo operativo. Anche lì, state buoni. Il merito è implicito nel buon funzionamento di una società, ma o si tiene conto delle condizioni di partenza, così che si sviluppi ragionevolmente una cultura del merito, o altrimenti è un valore ingiusto, perché ci sarà gente nelle condizioni (per esempio economiche) di meritarsi qualcosa e gente che non potrà neanche aspirare a meritarsi nulla.
I politici si meritano di stare dove sono?
A Le Iene hanno mostrato un servizio in cui si facevano domande su Patria, famiglia e religione, e la gran parte degli esponenti di destra non sapeva rispondere, nonostante sia stato il loro leitmotiv. Ma questo perché un tempo la politica la facevi con l’esperienza e poi con lo studio nelle scuole di partito. C’era una formazione a 360 gradi e consapevole. Non era solo teoria per diventare politologi e salire in Parlamento.
Toni Negri una volta ha scritto che ogni vent’anni si presenta l’occasione per una nuova rivoluzione. Prima il ’68, poi la fine degli Anni Novanta, culminati con il G8 di Genova nel 2001. Sente aria di rivoluzione?
Dobbiamo intenderci su cosa sia la rivoluzione. Oggi quale sarebbe il Palazzo d’Inverno? I poteri sono decentrati a livello impressionante; quello economico, quello tecnologico, quello finanziario. Dal mio punto di vista la rivoluzione oggi sarebbe l’inversione del rapporto libertà-potenza, passando dal domandare cosa si vuole al chiedere cosa, tu cittadino, puoi fare. Tieni anche presente che il comunismo non c’è mai stato. Marx ne aveva previsto l’inverarsi nei Paesi altamente industrializzati come la Francia e la Germania del tempo. Invece si è sempre provato a realizzarlo in Paesi agrari come Russia e Cina. Ci sono stati partiti comunisti, ma non comunismo. Paradossalmente adesso, che c’è uno sviluppo economico clamoroso e una possibilità di redistribuzione enorme, si può concepire il comunismo secondo la definizione di Marx, iniziando a chiedere ai cittadini di partecipare alla costruzione della società, e non pagando le tasse o andando soltanto, una volta ogni cinque anni, a mettere una croce su un foglio. Ma la rivoluzione dovrà essere senza fucili e non potrà avvenire a livello planetario.
(da mowmag.com)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
LUI LE MOSTRA CHE PUÒ FARE IL BAGNO CALDO E HA LA STUFA ACCESA E LEI PARTE PER LA RUSSIA. MA QUANDO ARRIVA TROVA UN HAREM DI RAGAZZE IN LINGERIE CHE VIVE CON L’UOMO
“In Russia questo inverno farà un po’ più caldo”. È l’invito lanciato “alle straniere” in un video – attribuito a una non meglio precisata “propaganda russa” e diventato virale sui social network – in cui si promuove il vantaggio di vivere nella Federazione, nell’implicito confronto con le difficoltà dell’Occidente alle prese con i costi delle sanzioni e quelle del prezzo del gas.
La clip in inglese mostra una giovane donna nel Regno Unito, in un improbabile chalet avvolto dalla neve senza elettricità e riscaldamento, alla ricerca di un compagno su un sito di appuntamenti.
La protagonista scorrendo i profili dei possibili uomini da incontrare si ferma su quello di Svyatoslav, 36enne di Mosca, il cui annuncio recita “vivo nella capitale e non devi preoccuparti di niente”. Scorrendo le foto la ragazza vede l’uomo al caldo nel suo appartamento russo dotato di stufa e tutti i comfort possibili.
In un istante la donna decide di partire per Mosca e incontrarlo. Il finale, tragicomico e sessista, vede quest’ultima bussare alla porta di Svyatoslav che viene aperta da una donna in lingerie accerchiata da tante altre mentre l’uomo sorride suonando il pianoforte. Non si tratta del primo video di “propaganda russa” a diventare virale.
Solo qualche mese fa, l’ambasciata di Mosca in Spagna invitava gli europei e non solo a trasferirsi nella Federazione con un video ammiccante pubblicato su Twitter e volutamente sarcastico rispetto al prezzo da pagare per le sanzioni contro Putin.
(da agenzie)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
MA LA PESCA A STRASCICO PUO’ COSTARGLI CARO: LA MINACCIA DI AZIONI GIUDIZIARIE PER PROFITTO E’ UN REATO… E LA QUERELA DOVEVA ESSERE FATTA A TEMPO DEBITO
Non sparate sul soldato Pillon, può costare seimila euro.
L’istrionico provocatore che accusava i gay di essere pericolosi “cospiratori” non è stato rieletto ed è tornato a fare l’avvocato, ma di se stesso.
Avendo tutto il tempo a disposizione si è messo a rileggere uno per uno i commenti social che hanno attentato alla sua “illibata reputazione”. Così si legge nelle decine e decine di raccomandate-fotocopia che ha fatto spedire da ben sette avvocati con richieste di danni da 10-20mila euro, che scendono però a modiche seimila euro se il pagamento avviene “entro otto giorni”.
In caso contrario, l’ex senatore procederà con denunce in sede civile e penale. Prendere (una denuncia) o pagare. A farne le spese sono persone di tutti i tipi, giovani e anziani non importa. A nulla valgono le scuse ricevute. Neppure l’offerta di devolvere la cifra a un ente benefico. Importa solo l’incasso.
Le lettere stanno arrivando in questi giorni a decine e decine di cittadini in tutta Italia. La pesca a strascico non era poi difficile, è bastato andare sul post del 27 marzo 2021, giorno nel quale il Senato affossa il Ddl Zan e Simone Pillon non fa mancare il sarcastico commento “Ciao ciao Zan”, sapendo bene di spargere sale su una ferita dolorosa per la comunità Lgbt e per i sostenitori della legge. Seguono 5.400 commenti tra insulti e critiche.
Turpiloqui e insulti veri e propri, epiteti coloriti tipo “pidocchio”. Il leghista deve essersi stufato, decidendo di querelare tutti, dai commentatori più goliardici a quelli più offensivi.
La raccomandata arriva uguale per tutti. La ricevono i genitori di una ragazza, ora maggiorenne che aveva scritto “sei marcio dentro, vergognati”. con tanto di tabelle per il calcolo del danno della persona offesa, maggiorato per “l’elevata riconoscibilità del diffamato (Senatore)” la cui reputazione è “illibata”.
“Mia figlia avrà sbagliato, ma ritengo eccessiva una richiesta simile, per altro identica per molte famiglie, un copia-incolla”. Lo stesso, racconta, è capitato a una signora anziana che apre la raccomandata, legge la richiesta dell’ex senatore e quasi sviene.
“C’è scritto che se pago 6mila euro sull’unghia la chiudiamo qui, altrimenti mi manda a processo”. “In pratica, un’estorsione”, lamenta un’altra che ha anche proposto di risarcire Pillon con una donazione a un ente che vorrà, “fosse anche il Centro per la Vita”. “Proporlo mi è costato un pezzo di fegato ma gli avvocati hanno risposto picche, Pillon vuole solo i soldi”.
Nelle raccomandate i legali di Pillon sostengono che il loro cliente si sia accorto solo il 1 settembre scorso, perché a rigor di legge la persona diffamata ha tre mesi di tempo per sporgere querela da che ha avuto conoscenza del presunto reato.
Invero Pillon rispose per tempo al profluvio di insulti. Il 27 aprile, ad esempio, ne elencò alcuni sulla sua pagina Fb ripromettendosi di darne lettura addirittura in Senato.
Dunque non è vero che se ne accorse solo un anno dopo, oppure è vero che si era perfino dimenticato per un anno di quegli insulti che solo ora ritiene così insopportabili. Ma l’avvocato Pillon dimentica anche che esiste un confine tra minaccia di azioni giudiziarie e profitto illecito.
E’ il reato di “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone” (art. 393 cp) e punisce con la reclusione fino a un anno “chiunque si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia”. In alternativa, il 392 che punisce con una multa da 516 euro “chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo”.
Contattato, l’avvocato Pillon sostiene invece che la sua crociata sia sacrosanta. “Non capisco lo stupore, ti auguro che i tuoi figli non debbano mai leggere sui social quello che scrivono di me nelle shitstorm”.
A nulla vale fargli notare quanto abbia gettato benzina sul fuoco. “Dunque è colpa mia, alla fine, se mi aggrediscono per strada, sono io che li ho provocati”.
In realtà vere aggressioni non risultano, mentre restano consacrati sul sacro social i richiami di Pillon alla libertà di espressione. In un suo post su Facebook dell’8 gennaio 2021, vale a dire tre mesi prima di quelli incriminati, aveva sancito come su una tavola biblica le seguenti parole: “Le libertà di espressione sono il pre-requisito di qualsiasi relazione umana, a maggior ragione di una società liberale e democratica. Sono la piazza di cento anni fa, e in piazza ciascuno deve poter dire la sua”.
Ma allora si trattava di difendere Trump dalla censura di Zuckemberg, e allora si chiedeva anche se “un ragazzo può chiudere la bocca del presidente degli Stati Uniti, cosa potrà fare con me che faccio il senatore in Italia? E con te?”.
Lui, però, ha deciso di chiudere la bocca a ragazzi e utenti che senatori non sono, e di scucirgli 6mila euro a testa. Non demorde, non porge l’altra guancia. Ed è lo stesso che nel 2020 derise via social un attivista Lgbt salito sul palco di un evento con la gonna additandolo alla piazza social come un “buffone”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
LA VOCE DI CHI ANIMA LA PRODUZIONE UNDERGROUND IN ITALIA
Nelle ore in cui si discute animatamente del decreto anti-rave, tra rivendicazioni e richieste di rettifica di una norma giudicata da molti troppo interpretabile, abbiamo pensato di chiedere a qualcuno che gli spazi occupati li vive e anima di raccontarci il suo punto di vista.
Mentre il concetto di spazio occupato viene spesso collegato a droga e problemi di ordine pubblico, spesso si tralascia il ruolo centrale che gli edifici autogestiti hanno svolto per la cultura underground.
Forte Prenestino, Leoncavallo, l’Officina 99, sono solo alcuni delle più storiche e famose culle di creatività.
Non è un mistero che da quegli ambienti siano nati artisti come Zerocalcare, pionieri dell’hip hop italiano come gli Isola Posse All Stars, per finire con i più classici 99 Posse.
Da Napoli a Roma, arrivando fino a Bologna, ogni esperienza ha le proprie peculiarità. Ma esistono alcuni denominatori comuni: l’amore per il territorio, la promozione di una socialità interattiva, la valorizzazione di una cultura che continua ad essere in fermento, ma spesso viene respinta dai canali istituzionali.
L’Angelo Mai è uno degli snodi culturali più longevi e prolifici di Roma, che da quasi vent’anni resiste a sgomberi e reiterate azioni giudiziarie.
La sua storia è fatta di un braccio di ferro tuttora irrisolto con le istituzioni della Capitale. Nasce nel 2004 a Monti, con l’occupazione dell’omonimo ex istituto. Nel 2006 viene sgomberata la storica sede e al Collettivo viene assegnata una ex bocciofila nel Parco di San Sebastiano. Ci sono voluti tre anni per trasformare una struttura inizialmente «senza pavimenti, nè finestre» in quello che dal 2009 diventerà il nuovo fulcro propulsore. Ma l’assegnazione, avvenuta in epoca Veltroni, non è mai diventata «concessione»: «Per questa ambiguità burocratica, è impossibile non provare turbamento di fronte a un decreto dalla così ampia interpretabilità», racconta Sylvia De Fanti a Open, una delle fondatrici del Collettivo di Roma.
Una situazione analoga a quella vissuta dal collettivo che a Napoli anima lo spazio dello Scugnizzo Liberato. Nato anch’esso da un’occupazione abusiva, ha poi beneficiato della successiva delibera del Comune che inserisce i beni immobili “occupati” nella categoria di “beni comuni”, a condizione che esprimano un’utilità sociale. Giulia, 26 anni, fa parte del collettivo NaDir, che ha trovato la sua casa nello Scugnizzo Liberato. Ad Open racconta: «Tutto nasce quando nel 2015 un gruppo di attivisti si stabilisce nella struttura dell’ex carcere minorile Filangieri, una struttura abbandonata dal 1999».
Così come lo Scugnizzo Liberato, anche a Bologna il collettivo Làbas è riuscito negli anni a conquistare il diritto ad abitare il proprio spazio. «Làbas nasce nel 2012, con l’occupazione di un’ex caserma militare di 10mila metri quadrati in centro a Bologna, vuota da vent’anni», racconta Tommaso, 29 anni, tra i fondatori del collettivo. Làbas è stato protagonista di uno sgombero molto raccontato, nel 2017. Vicenda che stimolò l’ampio sostegno ricevuto dai cittadini del quartiere (e non solo): un appoggio «dovuto al lavoro quotidiano di relazione che avevamo costruito negli anni. Nacque persino un comitato di difesa dello spazio fatto da mamme, bambini, di cui non sapevamo nulla». Grazie al quale venne esercitata una pressione efficace alla creazione di «un bando, che abbiamo successivamente vinto, secondo le regole del gioco». Adesso, Làbas si trova «in uno spazio ripreso nel cuore della città universitaria, a 800 metri dalla sede originaria».
Incubatori di cultura
Tra le caratteristiche che accomunano queste tre realtà, vi è l’offerta culturale che sono in grado di erogare. L’Angelo Mai aggrega «musicisti, registi, attori, organizzatori di eventi», vantando una particolare attenzione alle tematiche femministe e Queer. È un teatro, ma anche un’accademia musicale, e non ultimo «una casa per creare» a disposizione di tutti gli artisti che non trovano spazio nelle sedi più sdoganate. Offre workshop e laboratori artistici, organizza spettacoli e concerti. Ha prodotto album e ottenuto importanti riconoscimenti, come il Premio Ubu Franco Quadri.
Lo Scugnizzo invece si è proposto sin da subito come un punto di aggregazione per l’artigianato: «Da subito si affacciarono una serie di artigiani che hanno ritrovato la possibilità di avere una bottega, orfani di una sede nel centro storico. Il piano terra del cortile dello stabile è animato principalmente da loro: si occupano di restauro, mosaici, oreficeria…», racconta ancora Giulia. Ospita inoltre eventi come la Scampia summer jam, uno degli eventi di riferimento della cultura hip hop a Napoli. Tornei di calcio, corsi di design, laboratori di progettazione e realizzazione di scarpe su misura e piccoli accessori in pelle.
A distinguere Làbas, invece, oltre agli eventi e all’offerta di una sala studio «nella perenne carenza di posti dove studiare in città», è stata «la proposta di un mercatino biologico, ante-litteram per l’epoca», racconta Tommaso. «Abbiamo creato, in cooperazione con realtà contadine che afferivano al circuito più o meno clandestino, un grande mercato settimanale che nel giro di pochi mesi era diventato un punto di riferimento per centinaia di persone. Anche del quartiere, quindi della Bologna bene: siamo riusciti a scalfire l’iniziale diffidenza». Oltre allo storico mercato, Làbas ha offerto un ampio ventaglio di servizi, dal Doposcuola per i bimbi di scuole elementari e medie a mercatini vintage dedicati alla compravendita, passando per sportelli psicologici e ambulatori odontoiatrici e medici.
Decreto anti-rave: un rischio concreto?
Queste realtà si sentono minacciate dalle manovre del nuovo governo? «È un problema per qualsiasi persona si professi democratica in questo Paese, per qualsiasi luogo che smuove cultura indipendente, pensiero critico», spiega De Fanti.
Fa eco Tommaso: «Questo decreto è pericoloso perché trasforma il piano normativo, di regolamentazione tecnica, in un piano politico. Oltre al fatto che incide a dinamiche a noi molto vicine: quando organizziamo dibattiti in università o scendiamo in piazza a manifestare, siamo esattamente dentro un perimetro che qualcuno vorrebbe restringere».
Ma, puntualizza Giulia, «non è la prima volta. Noi siamo allibiti dall’ipocrisia con cui una parte del centro-sinistra si scaglia oggi contro il decreto provando a forgiare la sua identità di opposizione. Mentre solo alcuni anni fa il Decreto Minniti (espressione di un governo a guida Pd) proponeva delle misure, come quelle del Daspo urbano, che a nostro avviso rappresentavano comunque un pericolo ed erano parimenti ambigue, facendo passare il messaggio che la marginalità sociale doveva essere solo allontanata e messa sotto il tappeto».
Le lacune riempite
Un tema che riecheggia anche nelle parole di De Fanti, che lamenta come per il loro lavoro «non ci sia mai stato il supporto delle istituzioni». Questo nonostante il loro operato vada a sopperire a un vuoto culturale profondo: «I punti di riferimento riconosciuti sono come monumenti: è faticosissimo farsi produrre, è faticosissimo girare. Non sono spazi vivi», racconta. Una situazione che non riguarda solo l’ambito teatrale, e non solo Roma. «L’offerta musicale di Napoli è sempre più in calo», conferma Michele, 26 anni, anche lui membro del collettivo NaDir.
«Chi organizza i concerti accoglie ospiti solo se ne può derivare un ricavo, quindi è difficile trovare un modo per fare esprimere i progetti musicali minori, che tuttavia continuano a fiorire. Nei casi in cui invece questi eventi riescono a prendere vita, abbiamo spesso notato una carenza di assistenza tecnica: un concerto va organizzato nei minimi dettagli».
Ed è qui che si inserisce il lavoro dal basso: «Noi abbiamo all’interno del collettivo svariati professionisti del settore, che fanno questo di lavoro tutti i giorni, quindi riusciamo a fornire un’assistenza tecnica adeguata, che non sminuisce il loro prodotto artistico».
Un’alternativa necessaria
Una logica abbracciata anche da Làbas, secondo le parole di Tommaso. «Tutta la nostra offerta si fonda su un’alternativa all’approccio verticale basato sulla fruizione passiva dei contenuti».
Il tentativo, al contrario, è quello di riuscire a «stimolare un’interazione con i frequentatori del posto».
Il bello di questi luoghi, a suo dire, è che da un limite, spesso quello economico, si riesce a generare un valore: la possibilità di approfondire un piano di ricerca, di novità, innovazione anche nella forma con cui si esprime l’arte. «In altre parti dove prevale la logica economica spesso questo non si crea. Il fatto che non ci sia nessuno che stacchi fatture per provvedere a determinate esigenze, come quella della strumentazione ad esempio, mette nella condizione di chiedersi: “come possiamo organizzarci?”. C’è un meccanismo di partecipazione che soppianta quello di consumo, nel processo culturale».
Anche se la minaccia di sgombero ha accompagnato i loro primi anni di vita, adesso i luoghi raccontati hanno raggiunto una relativa stabilità. Ma, puntualizza Giulia, il decreto in discussione «sarebbe problematico anche se si riferisse unicamente ai rave. Perché rappresentano un bersaglio facile: sono frequentati da persone che nessuno vuole tra i piedi, o che una buona parte della borghesia nazionale benpensante non ha interesse a tutelare».
(da Fanpage)
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Novembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
“C’E’ UN RISCHIO CONCRETO CHE IL NUOVO REATO SI PRESTI A USI POLIZIESCHI VOLTI A LIMITARE INDEBITAMENTE LA LIBERTA’ DI RIUNIONE”
Il governo Meloni ha approvato il dl sicurezza, che prevede pene esagerate per gli organizzatori e i partecipanti di raduni non autorizzati, come i rave (ma il rischio che si possa applicare anche su occupazioni e manifestazioni è altissimo).
Sul Foglio, è il giurista Giovanni Fiandaca a evidenziare i punti più critici dell’articolo 434 bis del codice penale, una norma «che riesibisce il volto del vecchio diritto penale di polizia utilizzabile con una discrezionalità confinante con l’arbitrio».
C’era davvero bisogno del nuovo reato di raduno pericoloso, la cosiddetta norma anti-rave party, o «si tratta dell’ennesima fattispecie manifesto che questa volta il neonato governo di destra-centro ha voluto subito emanare per attestare anche simbolicamente l’intento politico di interpretare in chiave iper repressiva la tutela dell’ordine pubblico, accontentando così i settori più autoritari e punitivisti del suo elettorato di riferimento?».
«Dal punto di vista strutturale – chiarisce Fiandaca – ci troviamo di fronte a un reato di cosiddetto pericolo concreto, dal momento che la disposizione normativa demanda al giudice, e prima ancora agli organi inquirenti, il compito di verificare nei singoli casi se il raduno avvenga – appunto – in modo pericoloso, cioè potenzialmente lesivo degli interessi collettivi predetti. Solo che il vero problema sta proprio qui: cioè nella difficoltà oggettiva di accertare di volta in volta, sulla base di criteri empirici certi, se una situazione di effettiva messa in pericolo incomba realmente, o sia ipotizzabile soltanto in astratto».
Stante questa difficoltà, «sussiste allora – sottolinea il giurista – un rischio più che concreto che il nuovo reato si presti a usi polizieschi e giudiziari volti a controllare e limitare indebitamente la libertà di riunione».
Il secondo punto, che per Fiandaca è esposto a un’obiezione di costituzionalità, fa riferimento al trattamento sanzionatorio, che fa un distinguo tra gli organizzatori e/o promotori del raduno e i partecipi. In base al principio di ragionevolezza-proporzione, «essendo sensibilmente diverso il disvalore delle rispettive condotte dei soggetti che rivestono un ruolo apicale o quello di meri partecipanti, il corrispondente trattamento punitivo – evidenzia Fiandaca – dovrebbe risultare marcatamente differenziato già nelle soglie edittali astratte: cose che non avviene nel caso di specie, essendo la condotta di partecipazione al raduno ridotta a una sorta di circostanza attenuante. Ci sono i presupposti per una possibile declaratoria di incostituzionalità».
(da Globalist)
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