Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
“IL DECRETO PIANTEDOSI CITA IL REGOLAMENTO 1624 DEL 2016 CHE E’ STATO ABROGATO NEL 2019, OMETTE IL 656 DEL 2014 SUGLI OBBLIGHI DI SOCCORSO, OMETTE IL PRINCIPIO DI NON RESPINGIMENTO DELLA CONVENZIONE DI GINEVRA E L’ART 19 DELLA CARTA DEI DIRITTI DELL’UNIONE EUROPEA
La legge del mare
La convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare o Unclos, firmata anche dall’Italia, prevede che chiunque sia in pericolo in mare va salvato e che il soccorso si può considerare concluso solo con lo sbarco nel porto sicuro di più vicino. Un dovere per tutti senza distinzioni. L’articolo 19 del testo unico dell’immigrazione stabilisce poi che i minori presenti in frontiera non possono in alcun modo essere respinti.
Il regolamento di Dublino
E’ quello che al momento regola le richieste di asilo in Europa e prevede che il Paese di primo approdo è quello in cui chi arriva deve avanzare richiesta di asilo. A quello Stato tocca farsi carico della gestione dell’accoglienza, della valutazione della richiesta di asilo e dell’eventuale rimpatrio. Un regolamento che, naturalmente, penalizza l’Italia in quanto Paese costiero.
Il giurista: “Il decreto va impugnato”
“Il decreto del governo sulla sosta temporanea della navi ong in acque italiane cita norme già abrogate, omette quelle in vigore che obbligano al soccorso e, infrangendo un principio di non contraddizione, getta in un “limbo” decine di naufraghi che l’Italia è, invece chiamata a far sbarcare a terra affinchè questi possano presentare domanda di asilo.
E’ il parere del giurista ed esperto di diritti umani Fulvio Vassallo Paleologo.
“Il decreto – spiega Paleologo – contiene un errore e una omissione già in premessa. Esso cita il Regolamento europeo 1624 del 2016 che è stato abrogato nel 2019 e non fa, invece, riferimento al Regolamento 656 del 2014 che richiama in modo cogente gli obblighi di soccorso a carico degli Stati previsti dal Diritto internazionale e il principio di non respingimento previsto dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e dall’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
I LEGALI: “INAMMISSIBILE SELEZIONARE CHI DEVE SBARCARE, QUESTO E’ UN RESPINGIMENTO IN VIOLAZIONE DELLE LEGGI INTERNAZIONALI”
La situazione sulla nave Humanity 1 – a bordo della quale ci sono 179 persone tra cui 104 minori – diventa sempre più complicata. Avranno pasti caldi ancora solo per tre giorni dopo di che dovranno fare i conti con la scarsezza di cibo.
Joachim, capitano della nave della Ong Sos Humanity che da ieri sera si trova a largo delle coste di Catania insieme ad altre tre navi all’Adnkronos dice: “Sono responsabile della sicurezza di tutte le persone a bordo. Dopo circa due settimane sul ponte, con queste condizioni metereologiche e soprattutto con la storia dei sopravvissuti, tutte queste persone hanno bisogno di protezione. Stiamo esaurendo il cibo a bordo: due pasti caldi possono essere forniti solo per altri tre giorni. Abbiamo urgente bisogno di sbarcare in un luogo sicuro. È un loro diritto e mi batterò per questo”.
Il peggioramento del tempo non aiuta le condizioni di vita sulla nave. I migranti si trovano sul ponte che è solo parzialmente protetto da un telone. “Sono al freddo – dicono dalla Ong – e durante la notte si sono bagnati col temporale. Chiediamo agli Stati europei, così come alla società civile, di agire immediatamente e di non rimanere inerti ad accettare questa ingiustizia”.
“Il decreto del ministro dell’Interno italiano è illegale. Respingere i rifugiati al confine italiano viola la Convenzione di Ginevra e il diritto internazionale – dice Mirka Schäfer, dell’ufficio legale di Sos Humanity – Tutte le 179 persone soccorse in mare a bordo di Humanity 1, così come a bordo delle navi di soccorso civile Ocean Viking, Geo Barents e Rise Above, hanno bisogno di protezione. L’Italia è obbligata a lasciare che tutti i sopravvissuti scendano a terra immediatamente“.
La Ong ha fatto sapere che ieri sera il capitano dell’Humanity 1 – a cui è stato concesso dalle autorità italiane di entrare in acque territoriali per ripararsi dal maltempo – ha ricevuto la lettera firmata dai ministri dell’Interno italiano Matteo Piantedosi, della Difesa Guido Crosetto e delle Infrastrutture e Mobilità Matteo Salvini.
“Il decreto – dicono dalla Ong – vieta a Humanity 1 di rimanere nelle acque territoriali italiane più a lungo di ‘quanto necessario per assicurare operazioni di soccorso e assistenza alle persone in condizioni di emergenza e in condizioni di salute precarie. Il decreto indica che saranno identificate particolari persone vulnerabili e solo una selezione di sopravvissuti sarà portata a terra dalla nave ancorata al di fuori del portò. Un decreto senza dubbio illegale“.
Sarebbe “inammissibile”, secondo Sos Humanity, operare, come vorrebbe il decreto del governo italiano, una “selezione” di chi dovrebbe sbarcare.
“Tutti i 179 – sottolineano all’Adnkronos dalla Ong – sono persone soccorse in mare che, secondo il diritto internazionale, devono essere portate a terra in un luogo sicuro senza indugio. I sopravvissuti sono fuggiti dalla Libia, dove sono stati esposti a violazioni dei diritti umani. Come rifugiati, sono chiaramente in uno stato vulnerabile, alcuni di loro visibilmente traumatizzati. Devono poter scendere immediatamente a terra, dove possono essergli garantite cure mediche e psicologiche e potranno esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale. Sarebbe inammissibile – concludono – secondo il diritto internazionale e dal punto di vista umanitario, sbarcare solo una selezione dei sopravvissuti”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
“C’E’ BISOGNO DI AIUTI CONCRETI, NON DI INVITI ALLA RESA”
«Quando penso alla resistenza ucraina mi ricollego ai racconti di mio papà, papà Paolo. Mio padre ha combattuto con convinzione il regime fascista e l’occupazione nazista. La sua resistenza, come quella ucraina, è stata una resistenza aperta, partecipata e concreta: è quella che dobbiamo pensare oggi».
Letizia Moratti, dal palco allestito a Milano per la manifestazione indetta dal Terzo Polo per esprimere il proprio sostegno all’Ucraina, è intervenuta per ribadire l’importanza di un sostegno concreto alla resistenza del popolo ucraino.
L’ormai ex vicepresidente della Regione Lombardia, che Carlo Calenda e Matteo Renzi vedrebbero bene in un ticket con Carlo Cottarelli – anche lui presente i piazza – da opporre allo schieramento di centrodestra alle prossime elezioni regionali, ha raccontato l’esperienza di suo padre partigiano.
«Mio padre ha lottato per la libertà, è stato un fiero partigiano liberale e ha lavorato con tutte le formazioni partigiane del Comitato di liberazione nazionale», ha detto l’ex sindaca di Milano trattenendo a stento la commozione, «ha pagato con una prigionia lunghissima e non ha neanche mai più voluto parlare di questa prigionia, perché è stato segnato, è un segno che gli è rimasto per la vita».
Moratti non ha poi risparmiato una stoccata a Giuseppe Conte, anche lui in piazza per la pace in Ucraina a Roma insieme al Partito democratico, ai sindacati e alle associazioni pacifiste.
«C’è bisogno di aiuti concreti, non mere parole di fratellanza, non parole vuote o inviti alla resa», ha detto Moratti, «nella vita ci sono dei momenti in cui bisogna scegliere da che parte stare, bisogna scegliere chi sostenere».
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
SFILANDOSI DALLA GUERRA VERREBBERO MENO ANCHE TUTTI I VALORI CHE FINO AD OGGI HANNO SOSTENUTO LA NOSTRA IDEA DI DEMOCRAZIA, AUTODETERMINAZIONE E LIBERTÀ
Quando si parla di pace nel contesto di questa sanguinosa e drammatica guerra istigata dalla Russia, alcune persone non vogliono riconoscere un semplice fatto: non esiste pace senza giustizia (dal discorso di accettazione del Peace Prize of the German Booktrade dello scrittore ucraino Serhiy Zhadan il 23 ottobre). Ho trascorso le ultime settimane in Ucraina, spinta lì dagli attacchi che il 10 ottobre hanno riportato il terrore nelle strade di Kyiv, che hanno colpito ancora Dnipro e Zaporizhzhia uccidendo venti persone e ferendone più di cento.
Il mondo ha guardato a quegli attacchi come a una fase nuova del conflitto, la strategia del terrore, si dice. Ed è vero, funziona così. Si colpisce la vita quotidiana, si condannano i civili a uno stato di tensione e privazione permanente sperando che, alla lunga, persino il più solido degli animi ceda e chieda a chi è chiamato a prendere decisioni, di fare un passo indietro, concedere qualcosa all’avversario, consegnare all’invasore ciò che chiede.
La strategia del terrore, si è detto. Come fosse un dato inedito e invece, semplicemente, ci eravamo distratti, perché inchiodati alla cronaca del presente, abbiamo perso di vista i disegni imperiali del regime di Putin che seguivano un calendario dilatato.
«O la resa o la morte» è il metodo putiniano della guerra. L’aveva detto durante l’assedio dell’Azovstal, a marzo. «Che non entri e non esca nemmeno una mosca» è stata la regola che Putin ha imposto sull’ultima battaglia di Mariupol: l’arma era l’assedio, la conseguenza la fame, l’effetto la resa. La guerra allora era iniziata da otto settimane e già c’erano tutti gli elementi per capire che circondare e affamare le persone fossero i tasselli di una strategia precisa.
Le truppe russe avevano già devastato terreni agricoli, distrutto attrezzature, minato i terreni fertili, danneggiato le rotte di rifornimento, bloccato i porti, tagliato l’elettricità e distrutto le centrali elettriche, interrotto le forniture di acqua e di gas, distrutto magazzini di cibo, e depositi alimentari. Colpito consapevolmente i mezzi dei corridoi umanitari e le code dove le persone aspettavano la distribuzione di pane e aiuti alimentari, ucciso volontari, massacrato civili.
Nelle settimane successive, era aprile, ero a Bucha. Ho visto i cadaveri in strada, ascoltato i racconti dei civili torturati, ho ascoltato le vedove di uomini giustiziati sulla porta di casa, visitato anziani colpiti alle gambe e lasciati marcire di dolore nelle cantine, anziani rimasti senza gambe, amputate perché non c’era più niente da fare. Li ascoltavo mentre qui, in Italia, alcuni di quelli che invocavano la pace, negavano le stragi di Bucha, negavano le evidenze della strage del teatro di Mariupol.
Sono passati i mesi, a quei cadaveri in strada, che erano lì, lo so perché ci ho camminato in mezzo, ha reso giustizia l’indagine giornalistica, ha reso giustizia la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite i cui esperti hanno concluso che in Ucraina siano stati «senza dubbio» commessi crimini di guerra. I tifosi della pace-come-resa dell’Ucraina che avevano negato la responsabilità russa su quegli eccidi, però, non si sono mai scusati. Oggi, probabilmente, saranno in piazza con la bandiera arcobaleno.
Ho osservato l’Ucraina per settimane nella maestosa luce che ha la città quando la bella stagione staffetta con l’autunno, ho cercato di cogliere negli sguardi dei passanti cosa sia abitudine al conflitto, come la consuetudine alla paura modifichi la ritualità del quotidiano e insieme i connotati dei volti, ho scoperto che la guerra fa al viso di un uomo quello che il mare e il vento fanno agli scogli, li consuma e insieme li definisce.
Sono salita sui tetti degli edifici colpiti, incidentalmente si direbbe, così come si direbbe che i morti siano collaterali. Ho guardato le città dall’alto, e lì mi è stato chiaro cosa provochi un missile quando colpisce una centrale elettrica e un ponte, cosa produca quando danneggia una scuola, e quando i vetri di una finestra si frantumano sul corpo di un’anziana mentre cuce a maglia con gli aghi e i gomitoli, dritto rovescio, dritto rovescio e poi, improvvisamente, è colpita da una scheggia e muore.
Dopo aver incontrato gli occhi sfiniti dei sopravvissuti mi sono domandata quale fosse – se c’era – un modo rispettoso di chiedere agli ucraini cosa sia per loro la parola pace, oggi, mentre qui, in Italia, imbizzarrisce il dibattito tra pacifisti storici (e improvvisati) e i difensori del sostegno armato al popolo ucraino.
La prima cosa che ho capito, tessendo le risposte che ho ricevuto da nord a sud, da est a ovest, da soldati e civili, da attivisti e bambini è che pace, lì, sia una parola imperfetta.
Lo è per Stanislav, che è un soldato, e mentre sistemava le munizioni dell’obice di cui era responsabile mi ha detto che pace per lui è sposare la sua fidanzata, fare dei figli, comprare un barbecue e invitare i suoi amici a vedere la partita, in tv, la domenica. Ma che non c’è pace senza libertà.
Pace è una parola imperfetta anche per Liljia, che ha sessant’anni ed è tornata a vivere a Irpin. Di madre e padre russi, vive a Kyiv da sempre, suo padre è sepolto in Crimea e lei non può andare a piangerlo sulla tomba perché la Crimea è occupata da altri russi. Quando le ho chiesto cosa significasse per lei la parola «pace» mi ha detto che sta imparando a vivere dentro la guerra. Ha risposto così, dopo una pausa che è servita a disegnarle sul volto il sorriso di chi ha capito che non finirà presto, che niente sarà – comunque – più come prima, anche se le armi tacessero domani.
È la saggezza dell’esperienza delle vittime che dovrebbe indicare la via e dare le parole d’ordine a chi scenderà in piazza, oggi. Le parole come quelle di Liljia, che qui consegno testuali: «Noi voltiamo le spalle ai russi perché loro hanno voltato le spalle a noi. Dobbiamo solo imparare a viverci dentro. I tempi in cui eravamo sangue dello stesso sangue sono passati e non torneranno mai più. Nessuno vuole tornare a quello che esisteva prima del 1991, pace per noi è andare da qualche parte nel futuro, ma i russi invasori che volevano un unico grande Paese hanno costruito un’unica grande prigione».
In questi otto mesi di invasione russa in Ucraina il valore delle parole dei testimoni è stato progressivamente indebolito, fino ad essere quasi del tutto ignorato, perché la portata delle evidenze di cui ci rendevano consapevoli non poteva che richiamare a una responsabilità collettiva, cioè solidarizzare con gli invasi, aiutare le vittime a difendersi, e cioè a liberarsi dall’invasore e chiedere giustizia. Per i giustiziati, i torturati, le donne stuprate, gli anziani lasciati morire di dolore, e risarcimenti per i ponti distrutti, le strade danneggiate, le scuole rase al suolo, le fosse comuni, le condotte idriche frantumate.
Perché, in una guerra di invasione, val la pena ricordarlo a chi scende in piazza, funziona così. Sono gli invasi che vivono nei bunker, scendono in metropolitana con i sacchi a pelo per paura di morire schiacciati dal tetto di casa, solo da un lato del confine si vive con le sirene antiaeree nelle orecchie dal 24 febbraio, è per questo che da un lato del confine non può esserci pace senza giustizia.
La demarcazione tra pace e giustizia attraversa l’opinione pubblica da mesi, come se i due campi anziché essere necessari l’uno all’altro fossero di segno opposto. Il conflitto in Ucraina si sta trasformando in una lunga guerra di logoramento, e rischia di diventare anche la linea di demarcazione tra una idea di Europa che rischia di frantumarsi sotto il peso di questa spaccatura dell’opinione pubblica, Putin lo sa. È la condotta di ogni fanatismo, creare divisioni nel campo avversario e riempire il vuoto che si è creato seminando odio.
Ecco perché la strategia del terrore di Putin, riguarda anche chi scenderà in piazza oggi. La manifestazione di oggi chiama al negoziato, alla pace, sacrosanto. Attenzione però a non confondere la pace con la debolezza di aver ceduto al ricatto di un dittatore.
Alcuni sostenitori dello stop all’invio di armi ritengono che sfilandosi dalla guerra diminuiranno i combattimenti e si morirà di meno. Anche questo è sacrosanto. Invito, però, i partecipanti – soprattutto i tanti che spinti da nobili intenzioni riempiranno strade e piazze – a chiedersi quanto siano diventati strumenti di una parola così pura ma usata, oggi, sul ring di leader perdenti e in crisi di identità politica che provano a raschiare un magro consenso, scendendo in piazza con le bandiere arcobaleno.
Viene da pensare, con un realismo dettato dall’esperienza e non dal pregiudizio, che sfilandosi dalla guerra, oggi, diminuirebbero la spinta dei rifugiati sui nostri confini (leggasi sul nostro welfare) e poi, certamente, le bollette del gas. Diminuirebbe la paura dei cittadini del costo economico di questa guerra di liberazione. Ma verrebbero meno anche tutti i valori che fino ad oggi hanno sostenuto la nostra idea di democrazia, autodeterminazione e libertà. La nostra idea di mondo giusto, l’unico nel quale una vera pace è possibile.
Francesca Mannocchi
(da “La Stampa”)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
COSÌ CI RITROVIAMO CON I PRONTO SOCCORSO IN PERENNE EMERGENZA. SENZA CONTARE CHE DAL 2010 AL 2020 SONO STATI TAGLIATI QUASI 37MILA POSTI LETTO
La carenza di dottori in Italia «è un problema importante. I medici vanno gratificati meglio e hanno bisogno di avere uno stipendio adeguato al lavoro che fanno». Perché oggi quello dei nostri camici bianchi «non è in linea con quelli europei e mi impegno personalmente a trovare una soluzione a questo problema». Parola del ministro della Salute, Orazio Schillaci, che dovrà vedersela però con uno stanziamento per il rinnovo del contratto già scaduto che basta appena a mettere nelle buste paga dei medici una sessantina di euro, buoni per un paio di uscite in pizzeria.
Eppure il Ministro da medico, oltre che da cattedratico, sa bene come senza i nostri apprezzatissimi dottori, che all’estero ci invidiano e ci rubano, non si risolleva la sanità pubblica italiana e nemmeno si ripara alla piaga delle liste d’attesa, allargatasi ancor più con la pandemia. Il problema è che i nostri camici bianchi guadagnano meno dei loro colleghi europei, hanno sempre più difficoltà a fare carriera e sono sottoposti a turni di lavoro massacranti per carenza di personale. Così in 8mila si sono licenziati dal 2019 al 2021 e 11mila sono migrati a far fortuna oltre frontiera, dove abbiamo fatto dono di altrettante Ferrari, visto che tanto costa formare ogni singolo dottore.
I peggio pagati d’Europa
Cominciamo da quello che non è mai un dettaglio, le retribuzioni. I dati Ocse del 2020 a parità di potere d’acquisto collocano gli stipendi dei nostri dottori dietro a tutti i Paesi dell’Europa occidentale, fatta eccezione per la Grecia, che è a 60.739 dollari lordi, e la Svezia, dove ne guadagnano 105.392, poco meno dei nostri 110.348, superati di quasi duemila euro dalla Spagna, ma molti di più dagli altri Paesi.
In Germania lo stipendio medio è di 187.703 dollari, il 70% in più di quanto mettono in tasca i nostri medici. Gli inglesi guadagnano il 40% in più e all’incirca sulla stessa cifra sono i danesi. Il 27% in più lo incassano i belgi mentre in Francia le retribuzioni sono dell’8% più alte. Questo per non parlare di come vanno le cose fuori dal Vacchio Continente. Negli Usa si viaggia su cifre più che doppie, in Corea del Sud lo stipendio medio è di 195 mila dollari e persino in Cile guadagnano nettamente meglio: 136mila dollari, 26mila più che da noi.
Insomma, per allineare gli stipendi dei nostri dottori a quelli percepiti nei Paesi a noi equiparabili di strada da fare ce n’è molta. Ma mentre Schillaci ci mette la faccia impegnandosi “personalmente” a risolvere il problema i soldi messi sul piatto dal Governo, il precedente in verità, sono una miseria. “Appena 616 milioni per il biennio già scaduto 2019-21, che equivalgono a una sessantina di euro mensili netti in busta paga”, spiega sconsolato Pierino Di Silverio, segretario nazionale dell’Anaao, il maggiore sindacato degli ospedalieri.
Ma se i medici piangono gli infermieri non ridono. Anzi, stanno ancora peggio, perché nella classifica Ocse si trovano proprio nel gradino più basso dei Paesi occidentali dell’Ue. In Italia lo stipendio medio del 2020 (sempre a parità di potere d’acquisto e in dollari) è di circa 39 mila dollari numeri ben distanti dagli 87 mila dollari che percepiscono gli infermieri belgi e dagli 81 mila dollari di quelli statunitensi. Ma i numeri sono più bassi del 51% anche se riferiti ai tedeschi (59 mila dollari nel 2018 ultimo dato presente), agli spagnoli che percepiscono 56 mila dollari e ai britannici (48 mila dollari). Facciamo meglio di Grecia e Ungheria ma in questo caso la forbice è molto stretta.
Inutile dire che anche questi professionisti scarseggiano. Ne mancano circa 70mila secondo la Fnopi, la federazione dei loro ordini professionali. E con questa carenza sarà difficile far camminare la riforma dell’assistenza territoriale finanziata con 7 miliardi dal Pnrr, che prevede la figura dell’infermiere di famiglia e gli ospedali di comunità, strutture intermedie a conduzione infermieristica, dove assistere chi non ha più bisogno dell’ospedale vero e proprio ma nemmeno è nelle condizioni di tornare a casa.
La fuga dai pronto soccorso e dalle specialità dove si fa poco privato
Tornando ai medici, non c’è da stupirsi se con queste retribuzioni in molti abbiano scelto il privato o di emigrare all’estero. E a darsela a gambe dalle specialità dove c’è poco spazio per arrotondare con l’attività privata sono anche i giovani specializzandi, che rendono sempre più nero il futuro dei nostri già stressatissimi pronto soccorso. Tanto che i medici dell’emergenza e urgenza che ci lavorano scenderanno in piazza a Roma il prossimo 17 novembre, come proclamato da Simeu, la società scientifica che li rappresenta.
Secondo uno studio appena pubblicato dall’Anaao, infatti, il 50% dei posti nei corsi di specializzazione in medicina d’emergenza è andato deserto. Ancora peggiori sono i numeri dei corsi di specializzazione di microbiologia con il 74% dei posti non assegnati, patologia clinica (il 63% di posti vacanti), radioterapia (63%) e medicina di comunità, con il 54% di diserzioni.
“Queste mancate assegnazioni – commentano Pierino Di Silverio e Giammaria Liuzzi responsabile nazionale Anaao Giovani – si traducono inevitabilmente nella cronicizzazione della carenza di medici specialisti in medicina d’emergenza e sono la prova oggettiva del fallimento dell’attuale impianto formativo dei futuri medici specialisti, fermo a un decreto di ben 23 anni fa (D.Lgs 368/99). Dimostrano inoltre che non basta aumentare i contratti di formazione per colmare le carenze in certe specialità alla luce anche di un contratto di lavoro per la dirigenza medica già scaduto prima ancora di essere rinnovato”. Fatto è che vanno invece alla grande i corsi di specializzazione dove il mercato privato tira, come chirurgia plastica, dermatologia e oftalmologia, per fare qualche esempio.
Carriere bloccate e turni massacranti
A commentare il quadro ci sono le carriere bloccate e i ritmi infernali di lavoro. Dal 2010 al 2020 sono stati tagliati quasi 37mila posti letto, che significano centinaia di reparti cancellati dalle mappe dei nostri ospedali. Altrettanti di conseguenza sono i posti scomparsi di capo dipartimento, il ruolo dei vecchi primari insomma. E se fare carriera diventa difficile quando i posti apicali sono sempre meno, lo diventa ancora di più quando nelle aziende sanitarie pubbliche le nomine dei manager le fa la politica, che a scendere condiziona così anche l’assegnazione dei posti di responsabilità dei medici.
Non un’illazione ma un dato di fatto documentato dalle tante inchieste giudiziarie che si sono succedute negli anni. Ma a deprimere ancor più i nostri dottori è anche il come si è costretti a lavorare, con doppi e tripli turni coperti senza un adeguato riposo, con tutto quel che questo comporta anche dal punto di vista della sicurezza. Perché un medico stanco e stressato è statisticamente più portato a commettere errori.
Di medici in pianta organica tra Asl e ospedali oggi ne mancano ben 15mila e sarà emergenza fino a quando non si vedranno arrivare nel 2027 i giovani specializzati che hanno potuto iscriversi ai corsi grazie all’aumentato numero delle borse di studio durante la pandemia. Nel frattempo ci sarebbe il cosiddetto “Decreto Calabria” che consentirebbe di tamponare la situazione permettendo di assumere gli specializzandi degli ultimi due anni di corso. “Ma serve il nulla osta delle Università che quasi mai lo rilasciano”, denuncia il leader dell’Anaao, De Silverio. Chissà se l’ex Rettore di Tor Vergata, Orazio Schillaci, si impegnerà a correggere anche questa stortura.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
CHI PROVERÀ A FUGGIRE VERRÀ FUCILATO… È L’ULTIMA TROVATA DELLO ZAR CHE È A CORTO DI UOMINI
Come tutti gli altri russi in età militare da ieri anche i detenuti nelle carceri potranno essere arruolati e spediti a combattere in Ucraina, perché il presidente Putin ha firmato una legge che annulla la loro esclusione dalla mobilitazione. Soltanto i condannati per determinati reati come pedofilia, terrorismo, tradimento e traffico di materiale nucleare continueranno a non essere considerati arruolabili.
Si chiude in questo modo il mercato del reclutamento nelle prigioni russe, cominciato a luglio con una campagna del gruppo Wagner, una compagnia privata di mercenari molto vicina al presidente che prometteva ai volontari uno stipendio e l’amnistia in cambio di sei mesi al fronte. L’idea era poi stata seguita dal governo russo ma adesso c’è la legge ufficiale, che mette i prigionieri allo stesso livello di tutti gli altri – con la differenza che non possono scappare all’estero per evitare la guerra come hanno già fatto trecentomila russi.
La legge arriva per supplire in qualche modo alla carenza di combattenti. I detenuti sono soprattutto impiegati sulla linea del fronte del Donbass – che da Luhansk scende giù per centinaia di chilometri fino a Vulhedar nel Donetsk – dove le truppe di Putin tentano tutti i giorni di applicare una pressione forte e contraria all’avanzata ucraina che arriva da ovest, nella speranza di essere loro e non i soldati di Kiev a guadagnare qualche chilometro.
Ogni giorno la manovra è la stessa: i russi escono dalle loro linee fortificate, spingono anche soltanto alcune centinaia di metri e tentano di aprire una breccia nel fronte ucraino. Ogni giorno l’esito è uguale, le sortite finiscono sotto al fuoco e sono ridotte a zero prima che possano raggiungere i nemici. I dati di questi giorni sono paradossali: le posizioni sulla cartina non si spostano ma c’è un eccidio di soldati russi.
Le prime vittime di questa coazione a ripetere del comando russo sono i detenuti, che secondo alcune intercettazioni telefoniche di soldati sono piazzati in prima linea, quella più pericolosa.
(da Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
IL PREMIER VOLEVA CENTRALIZZARE IL CONTROLLO SULLE DELEGHE DOVE TRANSITANO I MILIARDI DEL PNRR. MA L’OPERAZIONE È FALLITA IN CONSIGLIO DEI MINISTRI… UNA NUOVA VITTTORIA DEL “CAPITONE”, CHE MANTIENE IL CONTROLLO DEI PORTI
È stata lotta dura fino all’ultimo inciso. «Ferme restando le competenze delle singole amministrazioni»: con questa formuletta, all’articolo 12 del decreto-legge dedicato ai ministeri, Lega e Forza Italia sostengono di aver sventato il blitz sulla redistribuzione delle deleghe, che Giorgia Meloni avrebbe voluto realizzare attraverso la creazione di tre comitati a Palazzo Chigi. Questione purissima di potere che si cela dietro le nuove denominazioni dei dicasteri.
Chi fa cosa, insomma. Perché ci sono i ministeri del Mare, dei Trasporti, del Turismo che rischiavano di accavallarsi nelle competenze. E poi ancora il ministero del Sud (che è lo stesso del Mare), della Coesione (che è anche degli Affari Ue e del Pnrr), che già iniziavano a calpestarsi i piedi. Gli Esteri e quello delle Imprese e il Made in Italy che si contendevano il Commercio all’estero…
E dunque nella mappa del nuovo mondo meloniano serviva mettere ordine. E per farlo, assieme al sottosegretario della presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, la premier aveva pensato ad alcune soluzioni. Con un obiettivo che ha fatto immediatamente storcere il naso agli alleati: centralizzare il più possibile a Palazzo Chigi, o attraverso uomini di assoluta fedeltà (tutti di Fratelli d’Italia), il controllo sulle deleghe più contese o quelle dove transitano i miliardi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Meloni aveva un ulteriore problema, di natura più casalinga: come accontentare Nello Musumeci, costretto al passo indietro in Sicilia, dopo 5 anni da governatore, e oggi titolare di un ministero che appare come una scatola vuota. Tra le bozze visionate nel pre-consiglio dei ministri e il decreto arrivato in serata sul tavolo del Cdm le differenze sono significative. Le correzioni al testo, che La Stampa è riuscita a visionare, hanno tranciato di netto intere proposte.
L’idea iniziale prevedeva tre Comitati interministeriali: uno per la Transizione ecologica, uno per le politiche del Mare, e il terzo denominato Comitato strategico per il Sud. Due – secondo e terzo – istituiti presso la presidenza del Consiglio e tutti e tre presieduti dal capo del governo o da un ministro di competenza. Nel caso delle politiche del Mare e del Sud, in entrambi il sostituto di Meloni sarebbe stato Musumeci. È finita però diversamente.
Il Comitato strategico per il Sud è scomparso. Al suo posto, il titolo dell’articolo 13 riporta “Piano strategico per il Sud”. E infatti, il sottosegretario Mantovano durante la conferenza stampa cita solo il Comitato per le Politiche del mare e quello per il Made in Italy nel mondo, che condivideranno il ministro delle Imprese Adolfo Urso e il collega della Farnesina e vicepremier Antonio Tajani. Mantovano non cita nemmeno il Cite, il comitato interministeriale della Transizione ecologica che, a sentire Forza Italia, avrebbe di fatto commissariato Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica.
Un piccolo giallo a cui diverse fonti contattate nel governo non hanno saputo (o voluto) rispondere. Sta di fatto che i leghisti e i berlusconiani escono soddisfatti dal Cdm. Le deleghe sono salve. «Se qualcuno pensava di svuotare il ministero, ora abbiamo la certezza che non potrà farlo», è il ragionamento di Matteo Salvini.
Il leader della Lega ha mosso i suoi uomini perché alla fine il nome del suo ministero tornasse alla formula classica “dei Trasporti e delle Infrastrutture”, rinunciando a Mobilità sostenibile. Ma soprattutto, secondo Salvini, è fallita l’operazione di scippargli il controllo dei porti e di affidarlo a Musumeci sotto la regia di Palazzo Chigi.
Il Comitato delle Politiche del mare sarà un tavolo di mediazione e di sintesi interministeriale, niente di più: avrà un ruolo «di coordinamento e definizione degli indirizzi strategici delle politiche del mare» anche «sulla valorizzazione delle vie del mare e sullo sviluppo del sistema portuale» ma «ferme restando le competenze delle singole amministrazioni».
Un inciso che dovrebbe valere anche per «le concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative», cioè i balneari, oggi in capo al Turismo guidato da Daniela Santanchè anche se per tutto il giorno si è sentito dire che la materia sarebbe destinata a ricadere nelle competenze dirette di Palazzo Chigi.
Tutto è bene quel che finisce bene, dicono anche da Forza Italia, contenti di aver aumentato le risorse destinate alle bollette e aver anticipato la norma di Pichetto-Fratin sull’estrazione nazionale del gas. Grazie a una deroga ad hoc, il fedelissimo sottosegretario Mantovano riceverà anche la delega sui servizi, ma alla fine, Meloni poteva concentrare a Palazzo Chigi ancora più potere di quello che ha.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
CHI ERA IL SOLDATO “NINJA”
Sarebbe stato ucciso in combattimento in Ucraina Trevor Kjeldal, 40enne australiano conosciuto nel suo battaglione come «Ninja».
Secondo il Sydney morning herald, Kjeldal è morto lo scorso mercoledì dalle truppe russe, dopo aver combattuto negli ultimi mesi nel battaglione di stranieri a sostegno di Kiev.
L’uomo non aveva alcun legame con l’Ucraina, né una preparazione militare. Lo scorso luglio era rimasto ferito, dopo aver passato mesi nelle foreste ucraine con i suoi commilitoni.
Guarito dal ferimento dopo due mesi di stop, aveva deciso di tornare a combattere: «Ho battuto le probabilità una volta – aveva scritto a un suo compagno di unità – quindi vediamo se riesco a farlo di nuovo».
Kjeldal sarebbe rimasto ucciso nella regine di Lugansk, mentre cercava di liberare un villaggio dall’occupazione russa. La sua morte è stata confermata dal ministero degli Esteri australiano.
Secondo il racconto di un commilitone di Kjeldal, la battaglia in cui è rimasto ucciso l’australiano è stata «piuttosto intensa». Di lui ricorda l’impegno per la causa ucraina, in cui credeva fermamente: «Era veramente impegnato per la libertà ucraina».
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
FLAT TAX, PENSIONI, TAGLIO DEL CUNEO FISCALE? QUESTI HANNO GIUSTO TROVATO 10 MILIARDI LASCIATI DA DRAGHI PER FARSI BELLI, PER IL RESTO NON C’E’ UN EURO… UNICA COSA CHE FARANNO E’ IL CONDONO AGLI EVASORI FISCALI E ALZARE IL DEBITO PUBBLICO, OLTRE A SPARTIRSI IL MALLOPPO DEL PNRR (CHE ABBIAMO GRAZIE A DRAGHI E CONTE)
Con la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza per il 2023, presentata nella serata di venerdì 4 novembre, il governo Meloni non ha solo reso pubblico il suo primo atto di politica economica e fiscale della sua storia, ma ha fornito anche una panoramica di quel che sarà il suo orizzonte programmatico – salvo cataclismi, che nel 2022 non è un’eventualità da prendere sottogamba – per i prossimi cinque anni. Sintesi? Dimenticatevi tutto quel che avete letto sul programma della destra nel corso della scorsa campagna elettorale.
Non è una novità, intendiamoci. Sono anni, se non decenni, che siamo abituati a votare – o a combattere – programmi che sappiamo benissimo non saranno mai realizzati, di destra o sinistra che siano.
Questa volta, però, il dato di realtà stride maggiormente con le aspettative, per diverse ragioni. Perché a governare c’è una coalizione politica che ha vinto le elezioni, non una somma di forze politiche che si sono combattute in campagna elettorale. il contesto economico era noto, e non è radicalmente cambiato dopo il voto, come invece accadde nel 2001 e nel 2008, o ancora nella legislatura appena conclusa.
Eppure, anche questa volta, la distanza tra programmi e realtà appare immediatamente siderale.
Qualche esempio?
La famosa flat tax, o tassa piatta che dir si voglia – che nella sua formulazione da programma costerebbe tra i 20 e i 60 miliardi di euro all’anno, a seconda di quanto si riesca a recuperare dall’evasione fiscale – è diventata un estensione del regime forfettario per le partite iva, una misura introdotta dal governo Renzi nel 2014. L’abolizione del reddito di cittadinanza, sono parole della ministra Calderone e del suo viceministro Durigon – è diventata una sua parzialissima rimodulazione, e senza la sua cancellazione è difficile trovare i 16 miliardi di euro promessi per allineare la spesa pubblica per la famiglia alla media europea.
Allo stesso modo, lo è quella che Matteo Salvini chiama la “cancellazione” della Legge Fornero, che anche con “Quota 41” rimarrà intatta nelle sue basi, a partire dal calcolo contributivo per determinare l’ammontare della pensione e nel suo impatto complessivo sui conti pubblici.
Ancora, appare molto difficile saranno trovati quei 16 miliardi all’anno circa – e siamo generosi – che permettano al governo di tagliare di cinque punti il cuneo contributivo sul costo del lavoro, così come promesso da Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento alle Camere.
Non siamo nemmeno alla prima legge di bilancio, direte voi. Lasciateli lavorare. D’accordo. Eppure basta guardare i conti pubblici, e le previsioni di spesa e l’andamento congiunturale dell’economia italiana per capire l’andazzo.
Partiamo da deficit e debito. Per il 2023 il governo si è giocato la miglior cartuccia a disposizione. Complice l’inflazione e quel po’ di crescita economica che ancora rimane dal rimbalzo post pandemia, in attesa della recessione, Meloni e Giorgetti sono riusciti a recuperare 1,1 punti percentuali di disavanzo aggiuntivo, rispetto a quanto previsto dal governo Draghi, facendo in modo che tale disavanzo non faccia aumentare il rapporto tra debito e prodotto interno lordo. E tutto lo spazio fiscale che hanno ricavato da questa scelta contabile e dall’extragettito connesso a una crescita del Pil oltre le previsioni – una trentina di miliardi – lo hanno (giustamente) usato per finanziare le misure contro il caro bollette.
Domanda: quante altre volte, nei prossimi anni, avranno ancora possibilità di farlo? Difficile che accada il prossimo anno, con l’inflazione che diminuirà per effetto dell’aumento dei tassi – facendo impennare il costo del debito -, con la recessione che busserà alle porte del nostro prodotto interno lordo, e con una crisi energetica che nel migliore dei casi finirà nel 2024.
Altrettanto difficile che possa avvenire negli anni successivi, con le nuove regole del patto di stabilità che rientreranno in vigore il prossimo anno, che presumibilmente saranno già a regime nel momento di preparare la prossima legge di bilancio, e che prevedono una diminuzione strutturale del rapporto tra debito e Pil, anno dopo anno, soprattutto per i Paesi con un debito alto come Italia e Grecia.
Torneremo a battere i pugni sul tavolo (col piattino in mano) a Bruxelles? L’atteggiamento del governo Meloni, perlomeno allo stato attuale, non sembra essere bellicoso, in questo specifico ambito. E se non sei bellicoso ora, mentre si stanno scrivendo le regole del gioco prossimo venturo, sarà difficile esserlo domani, quando quelle regole entreranno in vigore. Più facile, molto più facile, che passi tutto in cavalleria.
E che, come al solito, le misure promesse vengano messe in soffitta per essere rispolverate tali e quali al prossimo giro, in quanto “obiettivi di medio termine”, sui quali “abbiamo cominciato a lavorare”.
L’unica eccezione? Il condono fiscale, per raggranellare un po’ di cassa senza aumentare le aliquote e senza tagliare la spesa pubblica.
(da Fanpage)
argomento: Politica | Commenta »