Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
IL TAGLIO ALL’ADEGUAMENTO DELL’INFLAZIONE GARANTIRÀ UN GETTITO DI 3 MILIARDI, MA I PENSIONATI CON ASSEGNI SUPERIORI AI 2MILA EURO RIMARRANNO FREGATI: RISPETTO AGLI “SCAGLIONI DRAGHI” CI SARÀ UNA PERDITA DI 411 EURO L’ANNO
Alla fine il taglio all’adeguamento all’inflazione delle pensioni 4 volte superiori al minimo è stato molto più duro del previsto, tanto da garantire un gettito di ben 3 miliardi, con i quali i pensionati con assegni dai 1.500 euro netti in su contribuiscono più di chiunque altro a far tornare i conti della manovra.
Questo perché la scorciata alle percentuali di perequazione non è avvenuto come in passato sulla sola quota di incremento della pensione ma sull’intero importo.
Fino agli assegni di 4 volte superiori al minimo, corrispondenti a 2.102 euro lordi, circa 1.500 netti, il recupero sarà del 100% ma, è bene ricordarlo, sarà pari al 7,3% e non all’11,9, livello al quale è nel frattempo giunta l’inflazione. Così l’assegno sale a 2.255 euro.
La perdita per gli altri scaglioni di rendita l’ha calcolata lo Spi-Cgil.
Tra 4 e 5 volte il minimo, ossia per gli assegni da 2.000 a circa 2.600 euro, la rivalutazione scende dal 90 all’80% che riduce in pratica il recupero al 5,6%. Ossia una rendita di 2.250 euro al mese dai 2.413 euro previsti con gli “scaglioni Draghi” diventa ora di 2.381 euro, con una perdita netta di 411 euro l’anno.
Da 5 e 6 volte il minino la perequazione scende poi al 55%, così l’attuale assegno di 2.500 euro, che sarebbe dovuto salire a 2689 si ferma a quota 2.600 per una perdita annua di 1.035 euro.
Tra sei e sette volte il minimo, ossia pensioni comprese tra 3.150 e 4.200 euro mensili il recupero scende ancora al 50%. Così un assegno di 3.500 euro che sarebbe dovuto lievitare a 3.736 euro non va oltre i 3.628, per una perdita annua di 1.407 euro.
Salendo ancora ai trattamenti tra sette e otto volte il minimo il recupero cala al 40%. Tanto che un assegno di 4mila euro lordi mensili anziché salire a 4.263 euro si ferma a quota 4.146, che significa dover rinunciare in un anno a 1.521 euro.
Oltre otto volte il minino poi il recupero del caro-vito si riduce a un modesto 35%, il che significa che una pensione di 4.500 euro lordi mensili che doveva salire a 4.790 euro non andrà oltre da gennaio prossimo a 4.631 euro, perdendone così 2.62 in un anno.
C’è da dire che a settembre le pensioni dovrebbero beneficiare di un nuovo adeguamento all’inflazione reale, se questa continuerà a viaggiare su numeri a doppia cifra. Ma anche in questo caso il recupero sarà più parziale di quello che si sarebbe ottenuto con i vecchi scaglioni di perequazione al caro-vita.
Che secondo il centro studi della Uil politiche sociali dal 2011 al 2021, tra un primo blocco della perequazione imposto dalla legge Fornero e i successici adeguamenti ridotti è già costato un’intera mensilità ai pensionati con assegni quattro volte superiore al minimo.
I pensionati al minimo, che con la manovra intascano una mancetta che fa salire il loro assegno da 524 euro mensili a 570 il primo anno e a 589 nel 2024. Somme che ricomprendono anche l’adeguamento all’inflazione e che quindi in termini reali si riducono a poco più di una decina di euro, buoni per qualche caffè al bar.
(da La Stampa)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
LE REGIONI SUL PIEDE DI GUERRA: I 2 MILIARDI IN PIÙ NON COPRONO NEANCHE IL BUCO (DA 3,4 MILIARDI) DOVUTO A COVID, SUPER INFLAZIONE E CARO ENERGIA… A RISCHIO LE CASE E GLI OSPEDALI DI COMUNITÀ: MANCANO I FONDI PER IL PERSONALE NECESSARIO
Nella manovra appena varata dal governo «la sanità colleziona zero tituli», commenta con una battuta il presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta. In realtà allo striminzito «Titolo VI» della legge di Bilancio ci sono due miliardi in più, ma 1,4 sono vincolati ad ammortizzare i costi del caro bollette che continuerà a pesare sui bilanci di Asl e ospedali. Somme che non coprono neanche lontanamente le falle pregresse causate dal Covid e dagli stessi costi energetici.
Per non parlare del fatto che la manovra lascia così com’ erano gli anacronistici tetti di spesa vecchi di decenni per il personale e per il recupero delle liste d’attesa. Tradendo così le attese di chi, dopo aver visto portare la nostra sanità sugli scudi durante l’emergenza Covid, sperava ora in un trattamento migliore. Anche per recuperare i milioni di prestazioni saltate con la pandemia.
«Tra caro energia, super-inflazione e spese per il Covid, nella sanità si è aperto un buco da 3,4 miliardi di euro e in queste condizioni diventa difficile assicurare le migliori cure a tutti, ridurre le liste di attesa e assumere i sanitari che servono a far sì che le nuove Case e Ospedali di comunità nel territorio non restino scatole vuote». È in sintesi il contenuto della missiva che il presidente della Conferenza delle Regioni, il leghista friulano Massimiliano Fedriga, ha consegnato prima della manovra al ministro della Salute, Orazio Schillaci, che proprio le questioni personale e tempi di attesa ha messo in cima alla sua agenda.
Nel documento sottoscritto all’unanimità, sia dalle Regioni rette del centrodestra sia da quelle di centrosinistra, si ricorda che «i maggiori oneri indotti dalla pandemia, pari a 4,6 miliardi per il solo anno 2021, hanno trovato copertura parziale nelle risorse previste dai decreti emergenziali e dai recenti provvedimenti governativi». E in effetti secondo i conti fatti dagli esperti regionali il governo di suo ci ha messo 1,6 miliardi, lasciando a carico delle amministrazioni locali i restanti 3.
Che diventano 3,4 se si aggiungono i 400 milioni non coperti del miliardo speso in super bollette generate dal caro-energia. Per questo le Regioni si dicono «preoccupate per lo scenario economico e programmatico» della Nadef, «che indica un ridimensionamento della spesa sanitaria prevista per il triennio 2023-2025». Risorse che «tutte le Regioni e province autonome concordano sulla necessità di incrementare».
Anche perché, si legge sempre nel documento, «il fabbisogno di personale sanitario sta assumendo i connotati di un’emergenza nazionale». Il governo per le nuove assunzioni ha consentito lo sforamento fino a un miliardo di euro dell’anacronistico tetto di spesa che per medici, infermieri e il restante stuolo di lavoratori della sanità è fermo alla spesa del lontano 2004, diminuita per giunta dell’1,4%. Il problema è che quel miliardo le Regioni dovrebbero ricavarlo dal fondo sanitario che loro stesse considerano ampiamente sottostimato. E così non solo diventa difficile frenare la desertificazione delle corsie degli ospedali, ma è ancor più problematico far partire Case e Ospedali di comunità finanziati dal Pnrr, che per il rilancio dell’assistenza territoriale investe 7 miliardi di euro.
Nelle Case di comunità dovrebbero infatti lavorare in team medici di famiglia, specialisti e infermieri 7 giorni su 7, fornendo anche accertamenti diagnostici di base, in modo da fare filtro rispetto ai congestionati pronto soccorso. Mentre gli Ospedali di comunità sarebbero a forte conduzione infermieristica, dovendo dare assistenza ai malati che non hanno più bisogno dell’ospedale tradizionale ma che nemmeno possono essere lasciati soli a casa. Ora i cantieri stanno già partendo, ma con quali soldi si pagherà chi deve lavorare dentro queste strutture resta un mistero.
Per i sempre più stressati medici e infermieri che lavorano nell’emergenza-urgenza la manovra stanzia invece 200 milioni, così come promesso da Schillaci. Ma non saranno questi a decongestionare i pronto soccorso, intasati sia per il mancato filtro del territorio sia per la carenza di letti nei reparti, che fa sostare più del lecito sulle lettighe delle astanterie i pazienti bisognosi di ricovero. Viene poi rinnovato con 650 milioni il fondo per l’acquisto di vaccini e farmaci anti Covid, a conferma che l’epidemia non è finita. Infine le liste d’attesa. Anche per abbattere queste servirebbero più medici. Così come sarebbe necessario poter acquistare più prestazioni, soprattutto diagnostiche, dal privato. Missione impossibile con l’attuale tetto di spesa fissato per legge dieci anni fa, che le Regioni chiedono ora al governo di superare per consentire «il recupero delle prestazioni rinviate durante la pandemia». E alleggerire le liste d’attesa che stanno rendendo sempre più virtuale l’accesso gratuito alle cure.
(da la Stampa)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
RAFFAELE TANGORRA, COMMISSARIO DELL’AGENZIA PER LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO: “TRE QUARTI SONO DISOCCUPATI DA OLTRE TRE ANNI O NON HANNO MAI LAVORATO. SPESSO SI TRATTA DI PERSONE CHE NON SANNO LEGGERE NÉ FAR DI CONTO”
«Solo il 13% dei beneficiari del Reddito di cittadinanza presi in carico dai centri per l’impiego e inseriti nel programma Gol sono pronti a lavorare, work ready come si dice in gergo», dice Raffaele Tangorra, commissario dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. «Una percentuale che invece sale al 74% tra chi percepisce la Naspi, il sussidio di disoccupazione».
E questo cosa significa?
«Significa che ha un’estrema difficoltà a collocarsi e necessita di una vera e propria riqualificazione. E questo perché è molto lontano dal mondo del lavoro: tre quarti non lavorano da oltre tre anni o non hanno mai lavorato. Spesso si tratta di persone che non sanno leggere né far di conto».
Ce la farà il governo a rimetterli in pista in otto mesi?
«Non siamo all’anno zero delle politiche attive del lavoro. Molto è stato fatto: oggi siamo in grado di fare meglio del passato nell’accesso ai servizi. Molto deve essere fatto, se si pensa che in questi tre anni le Regioni sono riuscite ad assumere solo la metà degli 11.600 nuovi addetti dei centri per l’impiego previsti dalla legge sul Reddito del 2019. Anche il miliardo messo a disposizione dei centri per il loro rilancio, cresciuto di altri 200 milioni col Pnrr, non è ancora stato del tutto impiegato».
Ma quanti sono gli occupabili tra i beneficiari di Reddito?
«Circa 833 mila, di cui 173 mila hanno un impiego. E gli altri 660 mila no. Per noi “occupabili” significa che hanno lavorato almeno un giorno negli ultimi due anni o sono stati almeno un giorno in Naspi. Oppure se hanno un membro in famiglia che ha lavorato almeno un giorno nell’ultimo biennio. E poi tutti i giovani».
Chi prende il Reddito e lavora che lavoro fa?
«Tendenzialmente sono lavoretti. Per più di un terzo dei casi di durata inferiore ai tre mesi. Oltre la metà sotto i sei mesi. Sono lavoratori poveri, a part-time, che integrano col Reddito».
Chi prende il Reddito non lo molla più e si rifiuta di lavorare?
«Non è quello che osserviamo. Nei primi sei mesi di quest’ anno il tasso del turn over è stato dell’84% su 900 mila indirizzati ai centri per l’impiego. Si esce e si entra dalla misura con rapidità».
(da la Repubblica)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
LO STRATAGEMMA DEL MINISTRO FITTO: BYPASSARE LA MANOVRA E INSERIRE POI IN 2 DECRETI LA LINEA DEL GOVERNO PER RIDISCUTERE I TERMINI DEI FINANZIAMENTI EUROPEI
Il fantasma del Pnrr aleggia sulla manovra di bilancio 2023. Il guardiano Mattarella, allarmato dalla totale assenza delle 4 consonanti preferite da Draghi nel corso della presentazione della finanziaria, ha richiamato tutti all’ordine ricordando che “il Pnrr è un appuntamento che l’Italia non può eludere”. Il retroscena è dovuto al silenzioso e sempre più operativo lavoro del Ministro Fitto.
“L’uomo che sussurra a Meloni” ha proposto alla Premier di bypassare la legge di bilancio e inserire direttamente in 2 decreti legge la linea del governo sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
L’operazione è ben congegnata e, senza compromettere l’impianto strutturato da Draghi, permette alla Meloni di ottenere in un colpo solo tre considerevoli risultati: guadagnare tempo, personalizzare la manovra e lasciar giocare l’irrequieto Salvini.
La perfezionista Meloni è consapevole che ci sono oltre 40 miliardi di Pnrr (sui 220 finanziati) ad altissimo rischio di irrealizzabilità entro giugno 2026 a causa di una valanga di criticità mai dipanate.
La vera domanda è se i suoi alleati di governo le permetteranno di impostare un “serio confronto” con Bruxelles volto ad evitare la perdita degli stanziamenti e a destinare quelle risorse verso progetti “targati Meloni”.
(da agenzie)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
ALDO CAZZULLO: “DIVENTA ESPLICITA E RIVENDICATA LA DISTINZIONE TRA LAVORATORI AUTONOMI E DIPENDENTI. I PRIMI AVRANNO UNA FLAT TAX DEL 15% FINO A 85 MILA EURO (COMPRENSIVA DI IRPEF, IRAP, IVA). UN LAVORATORE DIPENDENTE DA 50 MILA EURO L’ANNO CONTINUA A PAGARE IL 43% DI IRPEF, CUI SI AGGIUNGONO ADDIZIONALI E CONTRIBUTI. A VOI DECIDERE SE PREVALE LO SCANDALO O IL RIDICOLO”
Il governo ha potuto fare poco perché non aveva molti soldi da spendere, e i due terzi sono andati alla riduzione dei prezzi dell’energia. Ma un segnale ideologico l’ha dato, ed è apertamente punitivo nei confronti degli elettori che hanno votato per l’opposizione. Legittimo; ma innegabile.
Il più evidente è l’abolizione del Reddito di cittadinanza, misura bandiera dei Cinque Stelle. Però – come fa notare lei, signor De Pace – è altrettanto importante la distinzione, che già esisteva ma ora diventa esplicita e rivendicata, tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti. I primi avranno una flat tax del 15% fino a 85 mila euro (comprensiva di Irpef, Irap, Iva).
Un lavoratore dipendente da 50 mila euro l’anno continua a pagare il 43% di Irpef, cui si aggiungono addizionali e contributi: un lavoratore da 2.500 euro netti al mese è considerato il più ricco d’Italia (essendo i veri ricchi spesso indisturbati a Montecarlo e in Svizzera). A voi decidere se prevale lo scandalo o il ridicolo.
Se poi apre una partita Iva per arrotondare – con 2.500 euro al mese si fatica a mantenere una famiglia numerosa in una grande città -, la flat tax per lui non vale. In campagna elettorale Fratelli d’Italia aveva promesso anche ai lavoratori indipendenti la flat tax «incrementale», cioè sugli aumenti di stipendio.
In effetti è stata introdotta; ma non per i lavoratori dipendenti, solo per gli autonomi che non scelgono il regime forfettario. E qui siamo al limite dell’incostituzionalità, alla violazione del principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E il ceto medio dipendente non può neppure sperare in futuro nel Pd, l’unico partito dai tempi dei Tories e dei Whigs a punire i suoi elettori (come fece il secondo governo Prodi quando aumentò le aliquote Irpef).
(da il Corriere della Sera)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
“È UNA FORMA DI CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ”… IL RACCONTO DEI PERCETTORI: “SE CI TOLGONO IL SUSSIDIO, SAREMO COSTRETTI A SPACCIARE”
Alle quattro del pomeriggio in vicolo Gallo nel cuore dell’Albergheria si spacciano dosi di crack.
La gente vuole sapere se il prossimo anno potrà ancora contare sul Reddito di cittadinanza. Perché quei soldi ogni mese tengono lontani tanti di loro dalla piazza dello spaccio e da altri espedienti. E non si tratta di poca gente visto che all’Albergheria il 65 per cento dei residenti percepisce il sussidio dello Stato.
È così anche per Gaetana Grisafi, 33 anni e una figlia di cinque. «Con gli 800 euro che mi danno pago l’affitto, le bollette e anche la quota della mensa scolastica della bambina. Dal 2019 sono serena, posso dormire tranquilla perché la piccola ha un tetto sulla testa. Lavoro non se ne trova, se non in nero. Se mi tolgono il sussidio, per me è finita».
I telefoni dei Caf squillano continuamente. Tutti alla ricerca di un appuntamento, chi non trova posto si presenta lo stesso. «Il 90 per cento delle persone che si rivolge a noi lo fa solo per chiedere il Reddito – dice Sabrina Ciaramitaro, responsabile del Caf di piazza Baronio Manfredi – Parliamo di un supporto che in quartieri come questo è fondamentale, senza questa misura tanta gente non riuscirebbe a vivere». Antonella Lo Porto, a 51 anni, teme di essere fra quelli a rischio.
Persino dal centrodestra difendono la misura: «Ha salvato un intero quartiere – dice Salvo Imperiale, consigliere comunale della Dc di Totò Cuffaro che ha gestito il Caf fino alla sua elezione -. Difendo la misura con tutte le mie forze, certo va migliorata. Ma a non funzionare non è il Reddito, semmai sono i centri per l’impiego. È una forma di contrasto alla criminalità».
Don Domenico Luvarà non fa altro che rassicurare i genitori sul futuro. «Quando vengono a riprendere i ragazzi – dice il salesiano – mi chiedono se perderanno il Reddito. Mi chiedono se ho capito qualcosa in più di loro delle decisioni del governo. Parliamo di famiglie con quattro, cinque figli, a cui il sussidio ha cambiato davvero la vita, ha consentito loro di raggiungere quella soglia di dignità che altrimenti non avrebbero».
(da la Repubblica)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
L’ASSENZA DI ELETTRICITÀ E DI RISCALDAMENTO POTREBBE CAUSARE UNA SECONDA ONDATA DI PROFUGHI IN EUROPA… DALL’INIZIO DELLA GUERRA SONO ALMENO 15 MILIONI GLI UCRAINI FUGGITI DAL LORO PAESE, 4,7 DEI QUALI IN EUROPA
È davvero l’ora più buia per l’Ucraina. L’assenza di elettricità e di riscaldamento nelle case di Kiev, di Leopoli, di Odessa, di Kherson, di Kharkiv sono un problema per l’Unione Europea. Soprattutto per i Paesi che con l’Ucraina e la Moldavia (anch’ essa parzialmente senza corrente) confinano.
La strategia del buio di Putin, infatti, è ibrida: serve a fiaccare il fronte interno di Zelensky ma anche a stringere l’Ue in una morsa umanitaria, con una nuova ondata di profughi in cerca di luce e un termosifone acceso. «Nello scenario peggiore, si prevede che prima di Natale possano attraversare il confine fino a tre milioni di ucraini», stimano fonti qualificate dell’intelligence europea. E a Bruxelles non possono fare altro che lanciare l’avviso ai naviganti.
«È necessario che gli Stati membri siano pronti ad accogliere un nuovo flusso di sfollati», fa sapere un funzionario europeo in vista del Consiglio straordinario sugli Affari interni di domani. «Con l’inverno è probabile che si verifichino nuove partenze dall’Ucraina, in concomitanza con l’aumento dei flussi migratori sulla rotta del Mediterraneo Centrale e dei Balcani occidentali».
Al momento la seconda ondata non è ancora cominciata. Le strutture di accoglienza di Intersos, l’organizzazione non governativa italiana presente sulla frontiera moldava e polacca, non registra transiti superiori alla media degli ultimi giorni.
Tuttavia, le conseguenze del peggior blackout della storia moderna europea (nemmeno in Germania nel 1945 era accaduto che un’intera nazione rimanesse senza luce) sono imprevedibili. Il presidente Zelensky ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. «Ripareremo tutto e andremo avanti, siamo un popolo che non si piega», assicurando la prossima creazione di quattromila centri “dell’invincibilità” per fornire acqua e corrente agli abitanti delle città. Se non saranno allestiti in fretta, e se non basteranno, un altro esodo verso l’Europa è scontato
Da quando è cominciata la guerra, sono 15 milioni gli ucraini fuggiti dai bombardamenti russi attraversando il confine. Molti però, con la stabilizzazione del fronte al di là del fiume Dnipro, sono rientrati. Ad oggi risultano quasi 3 milioni di sfollati ucraini in Russia e Bielorussia, e 4,7 milioni registrati nel territorio dell’Ue, soprattutto in Polonia (1,5 milioni), Germania (un milione), Repubblica Ceca (460 mila).
Al 18 novembre, l’Italia ne ha accolto 173.456, di cui 92.258 donne, 29.923 uomini, 51.275 minorenni, ai quali si aggiungono 5.079 minori non accompagnati. Sono sistemati nella rete di appartamenti e case del sistema diffuso dell’accoglienza, poi 11 mila sono nei Cas, 2 mila nelle strutture del vecchio circuito Sprar.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi in più di un’occasione ha espresso preoccupazione per il congestionamento del sistema, facendo capire che, nel caso di nuova ondata di profughi, l’Italia potrebbe non essere in grado di prenderne molti più di adesso. L’onere ricadrà soprattutto sui Paesi limitrofi o vicini all’Ucraina, come Polonia e Repubblica Ceca.
Che però sono già al limite dell’accoglienza e si troveranno nelle condizioni di protestare a Bruxelles con gli altri Paesi Ue, mettendo così a rischio ogni possibile compromesso sul governo dei flussi migratori. Esattamente la tensione che sta cercando di provocare Putin.
(da agenzie)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
HA ANNUNCIATO DI ESSERSI DISFATTA DELLE QUOTE DELLO STABILIMENTO BALNEARE MA NON HA VOLIUTO DIRE A CHI HA VENDUTO
A chi ha venduto le proprio quote del Twiga la ministra del turismo Daniela Santanchè? La curiosità sorge spontanea, visto che nell’intervista che ha rilasciato oggi a La Stampa lei non ha voluto dirlo. La questione della proprietà dello stabilimento balneare di cui era socia insieme a Flavio Briatore è emersa all’epoca della sua nomina nel governo Meloni.
Con annessa accusa di conflitto d’interesse, visto che il suo ministero in teoria avrebbe avuto le deleghe sui balneari (poi conferite a Nello Musumeci). Santanchè però ha giocato d’anticipo. Prima che l’argomento finisse in qualche ordine del giorno del Consiglio dei ministri, ha venduto le sue quote. Si è presentata dal notaio, come Open ha potuto verificare e risulta alla banca dati Cerved, qualche giorno fa.
L’immobiliare Dani cede le quote del Twiga
O meglio, lo ha fatto il legale rappresentante della Immobiliare Dani s.r.l., Mario Cambiaggio. Che ha ceduto alla Thor s.r.l. e alla Modi s.r.l. rispettivamente il 3,75% e il 7,275% in suo possesso. Per 487.500 e 945.800 euro. Quindi Santanchè ha venduto l’intera partecipazione pari all’11,025% del capitale della Twiga s.r.l. con sede a Forte dei Marmi. Incassando in totale 1 milione e 433 mila 300 euro.
La controparte? Il legale rappresentante delle due società è Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena, nato a San Marino il 22 aprile del 1969. Ovvero l’attuale compagno di Daniela Santanchè. Il tutto è stato certificato in data 18 novembre 2022 dalla notaia Paola Casali di Milano. A seguito della cessione delle quote di Santanchè alle società del suo fidanzato, quindi, l’azionariato di Twiga s.r.l. è composto da:
Majestas Sarl, proprietaria di una quota del 56,925% del capitale;
Thor s.r.l., titolare della nuda proprietà di una quota pari al 22,05% del capitale;
Thor s.r.l., titolare di una quota del 3,75% del capitale (quella appena venduta da Immobiliare Dani);
Modi s.r.l., proprietaria adesso del 7,275% del capitale (sempre dopo la vendita di Santanchè)
Bruno Thierry Sebastien Michel, che possiede il 10% del totale.
La Majestas Sarl è naturalmente la società lussemburghese di Briatore e Francesco Costa che detiene le sue partecipazioni nel Twiga così come del Billionaire di Porto Cervo, di Crazy Pizza e di una dozzina di altre società tra Italia, Montecarlo ed Emirati Arabi.
E che ha anche acquistato in precedenza l’altro 11,025% del capitale che era in capo a Immobiliare Dani (che fino alla fine di ottobre ne possedeva il 22,05%). Sia la Thor che la Modi appartengono a Dimitri e al fratello gemello Soldano.
Insomma, Santanchè ha sì venduto le sue quote del Twiga. Ma queste per ora sono rimaste “in famiglia”. Chissà se Giorgia Meloni lo sa.
(da Open)
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Novembre 24th, 2022 Riccardo Fucile
“SE NON AVESSIMO ALZATO LA VOCE, MELONI LO AVREBBE CANCELLATO. LA NOSTRA BATTAGLIA È APPENA INIZIATA”… “FARÀ FELICI SOLO EVASORI E CORROTTI, PRECIPITERÀ IL PAESE NELLA RECESSIONE E AUMENTERÀ LE INGIUSTIZIE SOCIALI”
Giuseppe Conte, il governo ha cancellato di fatto il Reddito di cittadinanza.
«Non ci sorprende questa manovra pavida, senza coraggio, che apre una guerra senza scrupoli ai poveri e agli ultimi. Anche per questo non mi pento di aver usato toni duri a difesa del Reddito di cittadinanza in campagna elettorale: se non avessimo alzato la voce, già con l’inizio del nuovo anno Meloni lo avrebbe cancellato. La nostra battaglia è appena iniziata».
Fico ha detto che teme per la tenuta sociale del Paese.
«Il governo ha agito con pregiudizio ideologico. Il 70,8% dei percettori “occupabili” ha titoli di studio che non superano la terza media, 53mila sono over 60 e 135mila hanno fra i 50 e i 59 anni. Come si può pensare di potenziare l’efficacia del sistema delle politiche attive in soli otto mesi? Il centrodestra nelle Regioni non è riuscito nemmeno a spendere i fondi stanziati dal mio governo tre anni fa per rafforzare i centri per l’impiego».
Lei ha annunciato una manifestazione.
«Questa manovra, al contrario delle dichiarazioni propagandistiche della Meloni, precipiterà il Paese nella recessione e aumenterà le ingiustizie sociali. Siamo pronti a ricorrere anche alla piazza, tra i vari strumenti che intendiamo mettere in campo. L’importante però è che ci sia un percorso quotidiano — anche nei territori — che porti a costruire un’ampia coalizione sociale e politica, con la società civile, l’associazionismo e le forze sociali del Paese».
Anche il Pd ha indetto una piazza: sarà una sfida tra voi?
«Non esiste una sfida tra piazze e non ci interessa la “paternità politica” di una mobilitazione: non abbiamo ansie da prestazione. Piuttosto, vogliamo creare un metodo di convergenza. Il problema non è chiamare una piazza, ma riempirla di contenuti e di persone. Noi siamo aperti ad una partecipazione ampia con tutte quelle forze che condivideranno le nostre forti preoccupazioni contro questa manovra indecente».
Alle Regionali invece?
«Per noi è sempre una questione di temi e di programmi: non ci interessano fughe in avanti su candidati o progetti tarati su qualche calcolo politico. Chi condivide i temi e le priorità della nostra agenda è il benvenuto al nostro tavolo».
Evocare la piazza può alimentare tensioni sociali?
«La piazza è da sempre simbolo della dialettica politica, il luogo in cui la cittadinanza prende voce. Le manifestazioni violente vanno scongiurate e soprattutto stigmatizzate. Però la miccia della tensione sociale la sta accendendo questo governo: l’unica violenza che si vede oggi è nell’attacco del governo verso gli ultimi».
Voi siete molto critici con diversi punti della manovra. Ma in Parlamento potete fare ben poco.
«Non direi. Già la nostra ferma opposizione sul tetto al contante ha ridimensionato il piano iniziale della destra di portare la soglia a 10.000 euro. Continueremo a non dare tregua contro una manovra misera, che penalizza lavoratori e ceto medio e prevede zero investimenti per le imprese. Che fine ha fatto la Meloni che in pandemia proponeva bonus da 1.000 euro al mese con un click per tutti? Ora, con gli italiani in crisi per il caro-prezzi, prospetta ai lavoratori 10 euro in più al mese sulla busta paga, che bastano per una pizza.
Si fa cassa a danno dei pensionati recuperando 3 miliardi di euro dalle rivalutazioni delle pensioni proprio adesso che abbiamo un’inflazione altissima. La nuova normativa sui voucher farà dilagare un precariato selvaggio nei settori turistico e agricolo. Più in generale si prevedono interventi per il caro-bollette solo per i primi tre mesi del nuovo anno. Il governo sembra trascurare che questa non è una trimestrale, ma il piano finanziario del nostro Paese per tutto il 2023. L’austerity meloniana farà felici solo evasori e corrotti».
La flat tax fu votata nel 2018 con il supporto M5S.
«Ma quello fu un intervento per le partite Iva con ricavi più modesti, entro i 65 mila euro. Estendere quel regime, con la stessa aliquota del 15% anche ai ricavi sino a 85mila euro, finisce per aprire una forte sperequazione rispetto ai lavoratori dipendenti ai quali si applicano gli scaglioni Irpef fino al 43%».
Anche il Superbonus è stato ridimensionato.
«Meloni ha cambiato idea rispetto alla scorsa legislatura. Le ricordo che, secondo autorevoli stime, fino al 70% dell’investimento pubblico legato al Superbonus rientra nella casse dello Stato solo considerando il gettito fiscale, la misura ha contribuito per il 22% alla crescita del Pil e ha contribuito a creare quasi 1 milione di posti di lavoro, tagliando di 1 milione di tonnellate le emissioni di Co2. Prima di prendere decisioni e causare danni al Paese sarebbe bene studiare».
Il M5S in Ue si è astenuto su una risoluzione anti-Russia. Come mai?
«La condotta di Putin e della Russia l’abbiamo condannata senza se e senza ma. Oggi i nostri sforzi sono protesi a costruire, a partire dal protagonismo dell’Unione europea, un vero percorso diplomatico. Definire la Russia uno Stato terrorista allontana le parti in causa e non aiuta a ricomporre il dialogo».
(da il Corriere della Sera)
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