Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
“LA COLPA È NOSTRA MA POTEVANO FERMARE QUESTO CASINO SE A ISCHIA NON ESISTE UN PIANO REGOLATORE? PERCHÉ NON SI POTREBBE COSTRUIRE DA NESSUNA PARTE”
Nella testa di un costruttore di Ischia il giorno dopo la tragedia della frana vengono frullati realismo e denuncia, ci sono ammissioni di colpa, chiamate a correo e pure un allarme sui cambiamenti climatici. Luigi ha 53 anni e ha iniziato ad andare in cantiere quando ne aveva 14. «Era il lavoro di famiglia. I miei volevano che facessi la scuola ma mi sono innamorato della cazzuola». Da sfollato, fuma una sigaretta dietro l’altra e racconta l’edilizia dell’isola.
Ecco, l’abusivismo a Ischia: di chi è colpa?
«Nostra, ma qui è caduta la cima di una montagna, e una cosa del genere non c’entra niente con le case abusive».
Anche se fosse, cosa da provare, ciò non toglierebbe che il problema esiste.
«Non posso dire che siamo dei santi, per carità. Ma la casa non te la scegli, a volte erediti un terreno dai genitori e lì costruisci. Io lavoro per il pane e a volte penso, in coscienza, che certe case non le dovrei costruire».
E perché lo fa?
«La questione è complicata. Adesso mi trovo in tutte e due i ruoli, quello di costruttore e quello di abitante. Avrebbero dovuto fermare tutto molti anni fa ma il sistema ci ha mangiato, andava bene a tutti. Ovunque al mondo esiste un piano regolatore ma a Ischia non c’è. Come mai? Perché nessuno si è impuntato per farlo? Non lo sa, eh? Lo dico io, perché non si potrebbe costruire da nessuna parte».
E invece le case nascono e sono nate. Qual è stato il periodo di massima crescita edilizia?
«Gli anni Ottanta, c’è stato il boom. La gente aveva un campo di famiglia e costruiva, le pensioncine si allargavano e un pezzo alla volta aggiungevano camere e camere, così diventavano grandi alberghi. E magari la moglie del titolare dava una mano ai lavori come carpentiere».
E i controlli non venivano fatti?
«La colpa è anche nostra, però, chiedo io, potevano fermare questo casino subito, senza far buttare soldi alla gente. Se io ho un vigneto e stanotte ci costruisco le fondamenta di una casa, tu autorità domani lo vedi e dovresti fermarmi per dirmi: dopodomani voglio che torni tutto come prima, distruggi le fondamenta. E invece no. Mi fai andare avanti e spendere un casino di soldi e magari mi vieni a chiedere conto dopo 30 o 50 anni di quella casa. Mi dici che questa cosa lì non ci poteva stare. Tutti hanno tenuto la testa sotto la sabbia e fatto finta di non vedere».
Come è possibile che si sia arrivati a tutto questo?
«Ischia è un’isola molto popolosa, magari a Ponza e Ventotene non ci sono problemi. Qui siamo 60 mila, in estate 120 mila, e c’è bisogno di immobili. Poi ci si sta mettendo la natura».
Seguire le regole non sarebbe anche utile a evitare certe tragedie?
«Se a me dessero 10 metri in un posto sicuro io me ne andrei. Ci rimetto anche, ma dammi uno spazio tranquillo. Ma lo Stato perché dovrebbe mettermelo a disposizione? Per carità, non voglio niente da nessuno. Comunque, ho visto che tanti parlano di tragedia annunciata. Allora perché non sono venuti 24 ore prima a dircelo. Se sapevano dell’allerta meteo ci dovevano avvertire. Ma in Italia succede sempre così e facciamo finta di non vedere».
(da La Repubblica)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
“IN CORSO INTERLOCUZIONI CON LA COMMISSIONE EUROPEA”
Il governo prova a smorzare i toni della discussione sull’innalzamento del limite minimo sopra il quale gli esercenti sono obbligati ad accettare pagamenti elettronici.
Nell’ultima bozza della legge di Bilancio, l’articolo 69 – intitolato Misure in materia di mezzi di pagamento – porta il tetto all’obbligo del Pos da 30 a 60 euro. Tuttavia, a poche ore dall’arrivo del testo in parlamento, Palazzo Chigi invia una precisazione ai giornalisti: «Sul tema delle soglie al di sotto delle quali gli esercizi commerciali non sono tenuti ad accettare pagamenti con carte di pagamento, sono in corso interlocuzioni con la Commissione europea dei cui esiti si terrà conto nel prosieguo dell’iter della legge di Bilancio».
Intanto, dalle opposizioni, continuano ad arrivare critiche nei confronti della norma: «È una scelta scellerata, un invito all’evasione fiscale», commenta il segretario del Partito democratico, Enrico Letta.
Il capogruppo del Movimento 5 stelle nella commissione Finanze di Montecitorio, Emiliano Fenu, incalza: «Si rischia ancora una volta di strizzare l’occhio all’evasione fiscale e al nero. Il governo non prenda in giro gli italiani, cosa che fa quando nella relazione tecnica alla norma in questione, inserita nelle ultime bozze della Legge di bilancio, giustifica l’intervento con l’esigenza di garantire liquidità. La liquidità delle imprese e degli esercizi commerciali oggi è drenata dal caro bollette, non dai Pos. Peraltro faccio notare che questa trovata governativa è inserita nello stesso articolo della legge di Bilancio che prevede l’aumento del tetto al contante da mille a 5mila euro, altra super strizzata d’occhio all’evasione».
(da agenzie)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
LE VOCI NOTE SONO RIDUZIONE DEL SUPERBONUS E TAGLIO DEL REDDITO DI CITTADINANZA, CON CUI SE VA BENE SI ARRIVERÀ A 1 MILIARDO DI RISPARMI. SUGLI ALTRI 13, PER ORA, PUNTI VAGHI E GENERICI
A oggi una considerevole porzione della legge di Bilancio è ancora ignota. A mancare all’appello è buona parte delle cosiddette coperture, cioè le misure con le quali il governo intende finanziare i tagli delle tasse e gli aumenti di spesa su cui è stato invece solerte nella comunicazione.
Durante la conferenza stampa, alle minori entrate e maggiori uscite sono stati dedicati quasi tutti i 63 minuti di presentazione da parte della presidente del Consiglio e dei ministri, mentre poco o nulla si sa su chi pagherà queste misure. O meglio, poco o nulla si sa oltre al deficit aggiuntivo. L’unico punto fermo, già scritto nero su bianco nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, sono infatti i 21 miliardi di deficit aggiuntivo. Dal 3,4 per cento del pil previsto al 4,5 definitivo.
Bene, ma tutto il resto? Sappiamo che la legge di Bilancio interviene su circa 35 miliardi di tagli fiscali e maggiori spese. Per finanziarli, mancano dunque all’appello circa 14 miliardi di euro, cioè ben il 40 per cento degli interventi.
Tra le coperture le uniche voci note sono la riduzione della spesa per il Superbonus, che passa dal 110 al 90 per cento per le case unifamiliari, e il taglio del Reddito di cittadinanza.
Le due misure raggiungono sommate circa 1 miliardo di euro di risparmi. Sui restanti 13 necessari troviamo due punti generici: “Altre entrate” per oltre 6 miliardi di euro e “Altre (minori) spese” circa 7 miliardi. Null’altro viene comunicato su chi effettivamente pagherà questi 13 miliardi.
Il viceministro Maurizio Leo ha affermato in un’intervista che circa 3 miliardi di euro dovrebbero arrivare dalle nuove imposte sugli extraprofitti energetici: un numero su cui possiamo fare affidamento a metà vista la parziale inefficacia del contributo straordinario introdotto dal governo Draghi, ma per ora atteniamoci ai numeri dell’esecutivo.
La seconda voce dovrebbe arrivare – sorpresa sorpresa – dalle pensioni, o meglio dalla mancata rivalutazione totale all’inflazione degli assegni oltre i 2.100 euro al mese. Da qui secondo i numeri del Dpb e delle anticipazioni giornalistiche dovrebbero arrivare circa 2 miliardi di euro.
Anche sui risparmi di spesa dal reddito di cittadinanza – 734 milioni di euro – va usato il condizionale, dal momento che il ministero dell’Economia scrive nel suo comunicato che “verranno allocati in un apposito fondo che finanzierà la riforma complessiva per il sostegno alla povertà e all’inclusione”.
Ciò significa – evidentemente – che questi soldi non potranno finanziare il taglio del cuneo fiscale o l’espansione del regime forfettario per le partite Iva. E infine l’innalzamento delle accise sulle sigarette, per 138 milioni di euro.
Basta una calcolatrice per accorgersi che al conto mancano ancora sei miliardi di euro, su cui non è disponibile alcuna informazione.
(da Il Foglio)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE SVIMEZ: “SENZA RDC CHE FINE FARANNO?”
Quando l’economia italiana soffre, quella del Mezzogiorno soffre di più. Quando l’economia gode, quella del Mezzogiorno lo fa di meno. È copione che si ripete da anni, non inevitabile ma inesorabile.
Sarà così anche nel 2023 secondo quanto annuncia il centro studi Svimez che oggi ha presentato alla Camera il suo 49mo rapporto annuale.
L’anno prossimo le regioni del Sud si muoveranno sul filo della recessione con il rischio di un arretramento del Prodotto interno lordo fino ad un – 0,4%.
Recessione che dovrebbe invece essere risparmiata al Centro Nord per cui è stimata una crescita dello 0,8%. Quello che accomuna l’intero paese è il deciso rallentamento rispetto al 2022, anno in cui il Pil si chiuderà con un progresso del 4% nelle zone centro settentrionale e del 2,9% al sud. Il dato medio italiano dovrebbe registrare una frenata da + 3,8 a + 0,5%.
Lo Svimez rileva come lo shock energetico sia destinato a penalizzare soprattutto le famiglie e le imprese meridionali, favorendo quindi una divaricazione della forbice di crescita del Pil tra Nord e Sud. Forbice che dovrebbe confermarsi nel 2024, anno in cui è prevista una crescita dell’1,7% nel Centro Nord e dello 0,9% nel Mezzogiorno.
L’aumento dei prezzi di energia elettrica e gas si traduce in un aumento in bolletta annuale di 42,9 miliardi di euro per le imprese industriali italiane; il 20% circa (8,2 miliardi) grava sull’industria del Mezzogiorno, il cui contributo al valore aggiunto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%.
Nel corso del 2022 la Svimez ipotizza una crescita media dei prezzi al consumo dell’8,5%; dato che racchiude però una significativa differenziazione territoriale: +8,3% al Centro-Nord e +9,9% nel Mezzogiorno. Nel “carrello della spesa” del consumatore medio del Sud è, infatti, prevalente l’acquisto di beni di consumo, più colpiti dal rincaro delle materie prime; viceversa, al Centro-Nord assume un peso rilevante l’acquisto dei servizi, interessati da una crescita dei prezzi significativamente minore. La differenza nel “carrello della spesa” delle famiglie tra le due circoscrizioni si deve, a sua volta, all’ampia difformità nella distribuzione dei redditi a livello territoriale.
L’aumento dei prezzi di energia elettrica e gas si traduce in un aumento in bolletta annuale di 42,9 miliardi di euro per le imprese industriali italiane; il 20% circa (8,2 miliardi) grava sull’industria del Mezzogiorno, il cui contributo al valore aggiunto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%.
A causa dei rincari dei beni energetici e alimentari, l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta potrebbe crescere di circa un punto percentuale salendo all’8,6%, con forti eterogeneità territoriali: +2,8 punti percentuali nel Mezzogiorno, contro lo 0,3 del Nord e lo 0,4 del Centro. In valori assoluti lo Svimez stima 760mila nuovi poveri causati dallo shock inflazionistico (287mila nuclei familiari), di cui mezzo milione al Sud.
Di fronte a questo quadro preoccupante il centro studi fa anche un’analisi sul ruolo svolto dal reddito di cittadinanza (rdc), che il governo Meloni intende gradualmente sopprimere. Si conferma l’importanza dello strumento nel contrasto alla povertà, in assenza di questo sostegno si conterebbero un milione di poveri in più rispetto al 2020.
Di questi, 750mila si troverebbero nelle regioni del Mezzogiorno. Il rapporto rende conto anche della scarsa capacità del rdc nel favorire il reinserimento del mercato del lavoro, a maggior ragione nel Sud. Tuttavia lo studio avvisa di “fare attenzione a scaricare sui beneficiari gli effetti della carenza della domanda di lavoro e delle inefficienze dei centri per l’impiego”.
Tra i percettori di Rdc considerati occupabili (per età e condizioni di salute) soltanto uno su cinque ha ricevuto una qualche offerta.
Lo Svimez accende i riflettori su un altro fenomeno, ossia quello di chi ha un occupazione ma riceve stipendi talmente bassi da rimanere comunque in una condizione di povertà. Fenomeno che il reddito di cittadinanza aiuta a contrastare. “Dalla crisi del 2008, il progressivo peggioramento della qualità del lavoro, con la diffusione di lavori precari ha portato ad una forte crescita dei lavoratori a basso reddito (working poor), a rischio povertà. Ha assunto valori patologici in Italia e specialmente nel Mezzogiorno il part-time involontario”, si legge nelle slide di presentazione dello studio da cui emerge che i lavoratori ha tempo parziale involontari nelle regioni del Sud siano ben il 77% (54,7% al Nord). I dipendenti a bassa retribuzione sono il 34% del totale nel Mezzogiorno e il 18% nel resto del paese.
(da agenzie)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
I SINDACATI PROTESTANO: “SIAMO ESTERREFATTI”
“Le carceri sono la mia priorità“. Parola di Carlo Nordio, che così aveva risposto ai cronisti pochi giorni dopo il giuramento da ministro dalla Giustizia.
E invece nella prima legge di bilancio del governo di Giorgia Meloni non solo gli stanziamenti per l’amministrazione penitenziaria non aumentano, ma addirittura subiscono un taglio di almeno 35 milioni nei prossimi tre anni: nove milioni e mezzo per 2023, 15 milioni e quattrocentomila euro per il 2024 e quasi 11 milioni per il 2025. È questa una delle novità contenute nell’ultima bozza della legge di bilancio, datata 27 novembre e appena arrivata alla Camera. Il testo del provvedimento non è ancora bollinato, ma la parte dei tagli non dovrebbe subire ulteriori variazioni.
I tagli all’Amministrazione penitenziaria
La sforbiciata è contenuta nell’articolo 154 del provvedimento, che disciplina le “misure di razionalizzazione della spesa e di risparmio connesse all’andamento effettivo della spesa”. Si tratta di quello che viene definito “contributo dei Ministeri alla manovra“, cioè la spending review che serve a coprire il costo dei provvedimenti varati dal governo, dalla cosiddetta “tregua fiscale” alle più economiche flat tax e quota 103. Come contribuirà dunque il ministero della Giustizia alle spese del governo Meloni? Con la “riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale, in particolare con la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale“.
In questo modo, l’esecutivo prevede di risparmiare almeno 9.577.000 euro per l’anno prossimo, 15.400.237 euro nel 2024 e 10.968.518 euro ogni dodici mesi dall’anno successi.
E meno male le carceri erano la priorità del guardasigilli Nordio. Ma non solo. Dall’anno prossimo anche il Dipartimento per la giustizia minorile dovrà tirare la cinghia, nel vero senso della parola. Nella legge di bilancio si prevede “la razionalizzazione della gestione del servizio mensa per il personale“, in modo da risparmiare 331.583 euro per l’anno 2023, 588.987 per il 2024 e 688.987 dal 2025.
Le mense della giustizia minorile
I tagli a personale dell’amministrazione penitenziaria e alle mense dei dipendenti hanno subito scatenato i sindacati. “Leggendo il testo della bozza del disegno di legge di bilancio trapelato mercoledì scorso avevamo lanciato l’allarme a causa dell’assenza di qualsiasi misura di supporto per le carceri, nell’esaminare la versione aggiornata a ieri e che starebbe per essere presentata in Parlamento, dobbiamo constatare addirittura un peggioramento con tagli al personale e alle mense. Evidentemente al peggio non c’è mai fine“, dice Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria.
“A fronte di 18mila unità mancanti al Corpo di polizia penitenziaria, 85 suicidi (80 fra i detenuti e 5 fra gli operatori) dall’inizio dell’anno, strutture degradanti, penuria e inefficacia di automezzi, equipaggiamenti e strumentazioni, siamo letteralmente esterrefatti e increduli. Se poi mettiamo tutto ciò in relazione a quanto affermato da Meloni nel suo discorso sulla fiducia alla Camera dei deputati e con le ripetute dichiarazioni del ministro della Giustizia e dei sottosegretari, che promettono il miglioramento delle condizioni di lavoro, ci sembra di trovarci su scherzi a parte”, continua il segretario della Uilpa polizia penitenziaria.
Meno soldi alle intercettazioni
E se i tagli all’amministrazione penitenziaria e alla giustizia minorile smentiscono le dichiarazioni d’intenti del guardasigilli Nordio, almeno una voce nella legge di bilancio conferma gli annunci del ministro: le spese per le intercettazioni saranno infatti ridotte di più di un milione e mezzo ogni anno, per la precisione 1.575.136 euro. Già in campagna elettorale, infatti, l’ex pm aveva destato scalpore per aver proposto di tagliare il costo degli ascolti telefonici. Per la verità, però, il taglio previsto in manovra è minimo: nel 2022 nel capitolo 1363 del bilancio del Ministero della giustizia erano stati stanziati per le intercettazioni 213,7 milioni di euro. Dunque alla fine il taglio delle spese ammonta ad appena lo 0,7% rispetto allo scorso anno: una buona notizia vista la nota importanza degli ascolti telefonici per le indagini giudiziarie. Secondo Angelo Bonelli, in ogni caso, con questo taglio “si depotenzia il ruolo investigativo nel contrasto alla criminalità organizzata da parte di autorità e polizia giudiziaria e a la criminalità organizzata festeggia. È una decisione folle e intollerabile che va respinta drasticamente”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
SMENTITA MELONI CHE DICEVA: “NESSUN CONDONO, SOLO MISURE VANTAGGIOSE PER LO STATO”
Dalla relazione tecnica della legge di Bilancio emerge che stralci, definizioni agevolate e nuova rottamazione ridurranno gli introiti per l’erario di 1,6 miliardi nel solo 2023. Il conto sale considerando anche gli anni successivi.
Falso che la riscossione delle cartelle sotto i 1000 euro costasse più che annullarle, come sostiene il viceministro Leo: l’intervento vale 730 milioni di mancati incassi. Il buco più grosso è legato alla definizione agevolata per chi ha commesso irregolarità nelle dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni
La relazione tecnica della legge di Bilancio smentisce la premier Giorgia Meloni. “Non è previsto alcun condono nella nostra tregua fiscale. Ci sono solo operazioni di buon senso e vantaggiose per lo Stato“, ha assicurato la leader di Fratelli d’Italia una settimana fa dopo il cdm che ha approvato la manovra. Il testo, finalmente pronto e atteso ad ore alla Camera, dice il contrario. Le tabelle dei 10 articoli dedicati alle “misure di sostegno in favore del contribuente” smentiscono il governo quantificano le mancate entrate per l’erario di qui al 2032 in ben 3,6 miliardi di cui 1,6 solo nel 2023.
Soldi che avrebbero potuto consentire, per esempio, di non ridurre pesantemente l’indicizzazione delle pensioni o potenziare il taglio del cuneo fiscale. I maggiori introiti attesi dal “ravvedimento speciale” e dalla definizione agevolata delle controversie tributarie in ogni grado di giudizio, pari a 1,9 miliardi, compensano solo in piccola parte l’ammanco. E occorre tener presente che il conto finale con buona probabilità sarà assai più alto. Sia perché dalle passate rottamazioni si è ricavato sempre molto meno del previsto, sia perché ogni sanatoria dà un’ulteriore picconata alla futura fedeltà fiscale. L’ultima risale a solo un anno e mezzo fa, con il governo Draghi.
Il buco più grosso – 1,6 miliardi – è legato alla definizione agevolata delle somme dovute a fronte del controllo automatico delle dichiarazioni del 2020, 2021 e 2022, che riduce dal 30 al 3% le sanzioni per chi ha commesso irregolarità e consente di pagare a rate in cinque anni. L’intervento viene giustificato con la necessità di “fornire supporto alle imprese e ai contribuenti in generale, soprattutto nell’attuale situazione di crisi economica dovuta agli effetti residui dell’emergenza pandemica e all’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (…) riducendo gli oneri a carico dei contribuenti ed estendendo l’ampiezza dei piani di rateazione”. Risultato: lo Stato su questo fronte sceglie di rinunciare a 387 milioni di incasso già l’anno prossimo e ad altrettanto nel 2024, spiega la Relazione.
Altra botta pesantissima agli incassi fiscali deriverà dalla Rottamazione quater, ovvero la nuova definizione agevolata delle cartelle affidate all’Agenzia delle Entrate Riscossione dal 2000 al 2022 con tanto di abbuono degli interessi e dell’aggio: nel complesso la stima è di 1,3 miliardi in meno di cui 913 milioni nel 2023.
Questo perché, a differenza che per le precedenti rateizzazioni, verranno abbuonati tutti gli interessi, le sanzioni e l’aggio per poi consentire il pagamento a rate in cinque anni.
Di conseguenza “l’introduzione della nuova misura agevolativa”, attesa la relazione, “produrrà una flessione sulla previsione di riscossione in quanto una parte dei carichi per i quali si stima l’adesione alla nuova misura agevolativa, sarebbero stati prevedibilmente riscossi, al lordo delle componenti abbuonate, attraverso l’ordinaria attività di recupero oppure per il tramite di rateizzazioni di pagamento”.
Costa poi oltre 730 milioni lo stralcio delle mini cartelle sotto i 1000 euro affidate alla Riscossione tra 2000 e 2015. Il testo smentisce il viceministro dell’Economia Maurizio Leo, che in conferenza stampa aveva detto che “non sono più esigibili” e riscuoterle sarebbe “costato di più” che annullarle. Al contrario, spiega la Relazione tecnica, la misura comporta due effetti negativi: verranno annullati crediti per i quali sono ancora in corso pagamenti nell’ambito della Rottamazione ter e ci sarà un impatto negativo sulla riscossione ordinaria “derivante dall’annullamento dei singoli carichi di importo residuo fino a mille euro affidati dal 2000 al 2015, per i quali era ancora in essere un’aspettativa di riscossione“. Quest’ultimo effetto vale oltre 323 milioni di perdita attesa. L’impatto complessivo sulle entrate da riscossione ammonta a 451,5 milioni (di cui 245 per carichi affidati da enti previdenziali), a cui vanno sommati 285 milioni di mancati rimborsi di spese e diritti di notifica dell’erario e 9,7 milioni di aggio in meno. Le cifre sono relativamente contenute perché il nuovo condono segue lo stralcio del 2018 sulle cartelle dello stesso importo affidate fino al 2010 e quello del 2021 sui debiti fino a 5000 euro.
Passando alle misure che dovrebbero aumentare il gettito, al primo posto per incassi stimati c’è l’articolo 42 (anche questo quasi identico a una disposizione del decreto fiscale del 2018) che consente di chiudere ogni lite con il fisco, dal primo grado alla cassazione, pagando una percentuale del valore della controversia variabile a seconda della probabilità di vittoria. In caso di ricorso pendente in primo grado la quota è del 90%, che scende al 40% se l’Agenzia delle Entrate ha perso in primo grado, al 15 se è risultata soccombente in secondo grado e al 5% per definire una lite in Cassazione se le Entrate hanno perso nei gradi precedenti. Il gettito atteso è di 1,1 miliardi di cui solo 165 nel 2023.
L’articolo 40 su un ulteriore “ravvedimento speciale delle violazioni tributarie” attraverso il pagamento in due anni di “un diciottesimo del minimo edittale delle sanzioni”, oltre ad imposta e interessi dovuti, determina una perdita di 119 milioni nel 2023. Questo perché, in assenza di modifiche, l’anno prossimo i contribuenti avrebbero “ravveduto errori ed omissioni” per oltre 1 miliardo, mentre per effetto della nuova disposizione ne pagheranno solo la metà. E il presunto incentivo alla regolarizzazione dato dalle minori sanzioni non sarà sufficiente per coprire i mancati incassi. Al contrario, nel 2024 sono attesi maggiori introiti per 963 milioni nel 2024. Non molto considerato che le violazioni complessive in materia ammontano in media ogni anno a 65 miliardi di euro.
Nessun introito, in via prudenziale, è attribuito invece alla regolarizzazione delle irregolarità formali pagando solo 200 euro per ogni periodo di imposta coinvolto. Idem per la “Regolarizzazione degli omessi pagamenti di rate dovute a seguito di acquiescenza, accertamento con adesione, reclamo/mediazione e conciliazione giudiziale” con il versamento integrale di quanto dovuto entro il 31 marzo 2023 o in 20 rate trimestrali. “Alla disposizione in esame non si ascrivono maggiori entrate per il bilancio dello Stato”, annota tristemente il Mef, “in considerazione della manifestata bassa propensione all’adempimento, seppure in condizioni di favore, da parte della platea dei possibili destinatari della misura, prudenzialmente, alla disposizione in esame non si ascrivono maggiori entrate per il bilancio dello Stato”.
(da agenzie)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
TRA I SUOI SOSTENITORI CI SONO MOLTI EX LEGHISTI FORZISTI, MARONIANI DELLA PRIMA ORA E PURE MOLTI EX GRILLINI…“NON POSSO E NON VOGLIO TIRARMI INDIETRO”
Di bianco vestita, circondata da sostenitori ed esponenti politici il cui nome è scritto quasi in bella copia nella squadra con cui Letizia Moratti punta a conquistare il gradino più alto della Regione.
Ha scelto una mattina di gelido sole milanese al Palazzo delle Stelline l’ex vicepresidente lombarda per prendere la rincorsa e presentare la sua candidatura con la lista civica «Letizia Moratti Presidente», il supporto del Terzo polo e di altre civiche che si andranno ad aggiungere in queste settimane.
Un fischio d’inizio di fronte a oltre 700 persone e a molti «ex» che confluiranno nella sua lista: maroniani, leghisti della prima e ultima ora, forzisti, autonomisti e qualche pentastellato fuoriuscito dal gruppo.
«Sono nella condizione di impegnarmi per il bene collettivo e non posso e non voglio tirarmi indietro», ha detto Moratti lanciando ufficialmente la sfida a Fontana, con cui ha governato fino al 2 novembre, e al candidato di centrosinistra Pierfrancesco Majorino. Perché si tratta di «scardinare le barriere» con «scelte che vadano oltre i partiti».
Da qui, la discesa in campo come «civica», con un «programma aperto alle esigenze di tutto il territorio» e una «politica che metta insieme crescita e necessità di non lasciare indietro nessuno».
Moratti ha ribadito di voler «far tornare la Lombardia ad essere la locomotiva nazionale ed europea». Riprendendo il tema di una regione che «non cresce più», Moratti ha ricordato che «ci sono province al di sotto della media del Pil nazionale: dobbiamo lavorare per superare diseguaglianze territoriali ed economiche». È stato svelato anche il logo della lista, che porta «i colori della Lombardia: il verde delle nostre valli, l’azzurro dei laghi e il bianco delle montagne innevate».
La candidatura di Moratti «sta intercettando attenzione nel centrodestra, nel Terzo polo che ha esplicitato il supporto, nel centrosinistra per quanto riguarda l’area riformista e nel mondo autonomista», dice il consigliere regionale di Lombardia Migliore Manfredi Palmeri, che sarà capolista a Milano. Motivo per cui «è possibile che nascano altre civiche a supporto della sua candidatura».
Per ora l’elenco è lungo e guarda molto a destra: tra i nomi che gli elettori si troveranno con ogni probabilità nella lista civica dell’ex sindaca ci sono Valentina Aprea, fuoriuscita da Forza Italia dopo la mancata nomina a sottosegretaria, Davide Boni, ex presidente del consiglio regionale oggi coordinatore lombardo di Grande Nord, lo stesso fondatore del movimento indipendentista Roberto Bernardelli.
E poi ex maroniani come Marco Tizzoni, capogruppo di «Maroni presidente», e Luca Ferrazzi, già in An, Tiziano Mariani, consulente di Moratti ed editore di Radio Lombardia, Mario Mauro, ex ministro della Difesa nel governo Letta ed ex vicepresidente del Parlamento europeo, Christian Borromini, ex segretario della Lega di Sondrio e l’ex bossiana e assessora Monica Rizzi.
Anche l’azzurro Andrea Mandelli potrebbe confluire e tra i politici in sala c’era Roberto Cenci, appena fuoriuscito dal M5S.
Moratti candiderà anche Akashdeep Singh, 23 anni, bresciano di religione Sikh, studente di Giurisprudenza: sarà «portavoce delle comunità extracomunitarie per intraprendere un necessario percorso interreligioso».
(da agenzie)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
L’HA DECISO IL GOVERNO DI VIENNA, AZIONISTA UNICO DEL QUOTIDIANO FONDATO NEL 1703… IL FOGLIO, NATO DURANTE IL REGNO DI LEOPOLDO I D’ASBURGO, RESTERÀ SOLTANTO ONLINE E AVRÀ UN’EDIZIONE MENSILE IN EDICOLA
La sua storia è scritta a lettere d’oro perfino nell’Enciclopedia Britannica: battezzata nel lontano 8 agosto 1703, la Wiener Zeitung è uno tra i più longevi quotidiani al mondo. Ancora per poco, tuttavia: a fine anno anche questo autentico pezzo di cultura mitteleuropea se ne va in pensione.
Lo Stato austriaco, azionista unico del quotidiano viennese, ha deciso di trasferire nel web il foglio nato durante il regno di Leopoldo I d’Asburgo, il nonno di Maria Teresa, col nome di Wiennerisches Diarium (Diario viennese) e il pomposo sottotitolo deliziosamente barocco “Contenente ogni cosa notevole, di giorno in giorno, sia in questa residenza imperiale di Vienna che in tutti i luoghi del mondo”.
Della Wiener Zeitung resterà quindi dal 2023 un notiziario online, e una edizione cartacea mensile. Forse nell’era del digitale non è uno scandalo. Eppure la reazione in Austria è stata forte, con tanto di sollevazione del consiglio comunale di Vienna, petizioni di protesta e così via.
Perché non è solo un antico e blasonato giornale che se ne va: tutti i rintocchi fatali della storia austriaca (anzi europea) hanno suonato all’unisono con la Wiener Zeitung.
In epoca rococò subì i capricci dei Kaiser, che le imponevano tasse inverosimili. Durante la restaurazione il principe Metternich (che guarda caso possedeva un giornale concorrente), spediva i suoi questurini a intimidire il direttore. Dopo l’Anschluss i nazisti chiusero il giornale (a malincuore, perché guadagnava bene): un ex-stato non poteva certo possedere giornali statali. Poi arrivarono le bombe del 1945, che distrussero redazione e rotative. Le pubblicazioni ripresero con otto pagine, nel dopoguerra di miseria, macerie e stipendi da fame così ben evocato dai romanzi di Heinrich Böll.
Tra le firme ci sono stati pionieri dell’estetica musicale come Eduard Hanslick, drammaturghi engagé come August von Kotzebue, guru dell’orientalistica come Joseph von Hammer-Purgstall, cavalli di razza della musica novecentesca come Ernst Krenek, poeti lirici di primo livello come Theodor Kramer.
Dopo ogni crisi, la Wiener Zeitung si è rialzata. Riuscendo anche a evitare di “ingessarsi” nel ruolo di media statale: durante il periodo dell’austrofascismo anni Trenta osò lodare marxisti come Brecht o Ernst Bloch. E ai nostri giorni non ha paura di scrivere chiare e tonde verità scomode, ad esempio che in Austria «senza contributi pubblici chiuderebbero immediatamente tutti i media ».
La sua ottima scuola giornalistica non a caso teneva bene: finora ogni giorno uscivano 24mila copie con una foliazione generosa. Il governo però ha tagliato le ali, abolendo l’obbligo di pubblicazione sulle sue pagine degli annunci a pagamento (fallimenti, costituzioni e scioglimenti di società etc.), che costituiva la sua forza economica e anche di diffusione: per decenni la classe media ha iniziato la giornata spulciando le pagine di bandi e annunci della Wiener Zeitung per sapere se il nuovo partner di lavoro è affidabile, se quel tale cantiere aprirà, se quel finanziamento pubblico verrà concesso. Ora è vittima della crudele ristrutturazione di tutto il comparto mediatico pubblico.
(da La Repubblica)
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Novembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
“PORTATE VIA I NOSTRI FIGLI DA QUELL’IGNOBILE TRITACARNE”
Dopo mesi di combattimento su territorio ucraino le mamme dei soldati russi chiedono di riavere i loro figli a casa, lontano da quello che chiamano «un ignobile tritacarne».
Il movimento Resistenza femminista contro la guerra e un gruppo organizzato di madri di soldati mobilitati e a contratto hanno pubblicato una lettera aperta, invocando la fine della guerra e chiedendo il ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino.
Il documento è stato pubblicato in coincidenza con la festa della mamma in Russia ed è rivolto ai membri delle commissioni competenti della Duma e del Consiglio della Federazione: «Chiediamo il ritiro delle truppe dal territorio dell’Ucraina, il ritorno a casa di tutti i soldati, la protezione dei soldati di leva dalla partecipazione a qualsiasi ostilità», scrivono le donne russe.
Poi le richieste si concentrano sulla condizione femminile nel loro Paese: «Chiediamo l’adozione di una legge sulla prevenzione della violenza domestica, un degno sostegno materiale per l’infanzia e per la maternità!».
Le attiviste hanno lanciato anche una petizione sulla piattaforma Change.org: «Da nove mesi va avanti la cosiddetta “operazione militare speciale”, che porta distruzione, dolore, sangue e lacrime», scrivono. «Tutto ciò che accade in Ucraina e in Russia non può che distruggere i nostri cuori. Indipendentemente da quale nazionalità, religione o status sociale siamo, noi – le madri della Russia – siamo unite da un unico desiderio: vivere in pace e armonia, crescere i nostri figli sotto un cielo pacifico e non aver paura per il loro futuro».
La petizione ha ottenuto più di 5mila firme in poche ore e il numero continua a crescere. «In molte regioni le famiglie dei mobilitati hanno dovuto provvedere autonomamente alla raccolta dell’equipaggiamento per i propri uomini da mandare a morire, comprando tutto a proprie spese, anche i giubbotti antiproiettile», raccontano le madri russe.
«Voi, che avreste dovuto avere il dovere di proteggere i diritti e le libertà delle madri e dei bambini, non dovete chiudere gli occhi su questo. I vostri familiari possono contare sulla protezione dalla partecipazione ad azioni militari, voi non rischiate nulla e non perdete nessuno: noi soffriamo ogni giorno per i nostri cari, inviati con la forza a questo tritacarne», spiegano poi rivolgendosi ai parlamentari di Mosca.
Le madri russe proseguono nella lettera aperta descrivendo le pessime condizioni in cui il Paese versa dopo l’invasione delle forze di Putin in Ucraina: «Dopo il 24 febbraio la situazione non fa che peggiorare. Le sanzioni causate dall’operazione militare in Ucraina portano ad un aumento dell’inflazione e, nel contesto dell’inflazione, il denaro stesso messo a disposizione di noi madri si sta deprezzando».
I temi affrontati sono quelli della povertà e delle situazioni di grave indigenza in cui molti minori sono costretti a vivere: «Secondo i dati ufficiali di Rosstat , quasi un bambino su cinque vive in una famiglia con un reddito medio pro capite inferiore al livello di sussistenza, cioè in condizioni di povertà. Lo Stato ci incoraggia a partorire di più, e poi ci getta nella povertà o sacrifica i nostri figli alle loro ambizioni». E ancora: «Il nostro Paese ha reintrodotto il titolo di “mamma-eroina” per le mamme di famiglia numerosa, ecco solo le statistiche ufficiali ci dicono che la maternità (e soprattutto avere tre figli) in Russia garantisce praticamente alle donne una vita al di sotto della soglia di povertà. Non abbiamo bisogno di titoli inutili, abbiamo bisogno di misure reali che garantiscano a noi e alle nostre famiglie una vita dignitosa».
(da agenzie)
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