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PURE LA TRENTA SCARICA SALVINI, AL PROCESSO OPEN ARMS, SI SMARCA DAL “CAPITONE”: “LE DECISIONI SULL’ASSEGNAZIONE DEL PORTO SICURO ERANO COMPETENZA DEL MINISTRO DELL’INTERNO”

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

“DOPO L’ANNULLAMENTO DEL PRIMO DIVIETO DI INGRESSO DELLA NAVE MI TRASMISE UN SECONDO DECRETO, MA IO RIFIUTAI DI FIRMARLO”… “IO DA MINISTRO DELL’INTERNO NON MI SAREI MAI COMPORTATA COSÌ. I DIRITTI UMANI VANNO RISPETTATI SEMPRE”

“Le decisioni sull’assegnazione del porto sicuro erano del ministro dell’Interno perché erano una sua competenza. Da ministro della Difesa e in relazione ai divieti di ingresso in acque italiane a me spettava solo verificare che non si trattasse di nave militare”: così l’ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, sentita come teste al processo Open Arms, ha specificato il suo ruolo nella decisione di vietare l’ingresso in acque italiane alla nave della ong spagnola con a bordo i profughi soccorsi l’1 agosto 2019.
Il divieto fu disposto con decreto firmato dai ministri dell’Interno, delle Infrastrutture e della Difesa. Al processo è imputato di sequestro di persona l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, accusato di aver illegittimamente rifiutato per giorni l’approdo alla nave spagnola. “Doveva essere un atto per scoraggiare le ong dal decidere di arrivare in Italia”, ha spiegato. La ex ministra ha anche specificato che non era a conoscenza della presenza di terroristi tra i profughi soccorsi.
“Non è detto che io dovessi saperlo – ha aggiunto – Il problema comunque era il numero dei giorni durante i quali fu vietato lo sbarco” Il decreto con il divieto di ingresso della nave il 14 agosto fu poi sospeso dal Tar del Lazio.
“Dopo l’annullamento Salvini le trasmise un secondo decreto analogo da firmare? “, ha chiesto il pm alla teste. “Sì ma io io rifiutai di firmarlo – ha risposto – perché ritenni che valesse ancor di più la decisione del Tar visto che erano passati altri giorni e che comunque era una reiterazione di un provvedimento annullato senza sostanziali novità, anzi in presenza di una situazione peggiorata”.
“Io da ministro dell’Interno non mi sarei comportata così. Le nostre battaglie giuste non devono ricadere sui fragili e ci sono diritti umani che vanno rispettati, secondo me seppur in presenza di minacce di terrorismo. I migranti si potevano farle sbarcare e si potevano fare successivamente le verifiche relative alla presenza di eventuali terroristi a bordo della imbarcazione”.
“Io credevo comunque che non sarebbe stata una misura sufficiente per avere una maggiore collaborazione da parte della ong e arrivare al risultato di un controllo migliore dell’immigrazione”, ha aggiunto. Trenta, dopo l’annullamento da parte del Tar del divieto di ingresso della nave spagnola in acque italiane, si rifiutò di firmare un nuovo decreto di interdizione.
(da agenzie)

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A CHI VA IN CULO IL FISCO? ALLE PERSONE ONESTE: I PIÙ GRAVATI DALL’ERARIO SONO 5 MILIONI DI ITALIANI CHE HANNO REDDITI SUPERIORI A 35 MILA EURO LORDI L’ANNO E PAGANO IL 60% DELL’IRPEF TOTALE

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

NON SOLO: RICEVONO MENO SERVIZI SOCIALI… IL 79,2% DEGLI ITALIANI DICHIARA REDDITI FINO A 29 MILA EURO E CORRISPONDE SOLO IL 27,57% DI TUTTA L’IRPEF: UN’IMPOSTA NEPPURE SUFFICIENTE A COPRIRE LA SPESA PER LE PRINCIPALI FUNZIONI DI WELFARE DEL PAESE

Ci sono 5 milioni di italiani che pagando le tasse si caricano sulle spalle lo Stato
Hanno redditi superiori a 35 mila euro lordi l’anno, sono appena il 13% della platea totale dei contribuenti ma pagano in complesso il 59,95% dell’Irpef. Su 59.641.488 cittadini residenti in Italia all’1 gennaio 2020 – segnala la nona indagine conoscitiva su spesa pubblica ed entrate realizzata da Cida e Itinerari previdenziali presentata ieri al Cnel – sono stati in tutto 41.180.529 quelli che hanno presentato una dichiarazione dei redditi nel 2021. A versare almeno 1 euro di Irpef sono stati però solo 30.327.388 residenti, vale a dire poco più della metà degli italiani, e soprattutto il valore più basso dal 2008 ad oggi.
Il 79,2% degli italiani dichiara redditi fino a 29 mila euro e corrisponde solo il 27,57% di tutta l’Irpef, e quindi un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa per le principali funzioni di welfare del Paese. Nel 2020 sono stati infatti necessari 122,72 miliardi per la spesa sanitaria, 144,76 per l’assistenza sociale e altri 11,3 per il welfare degli enti locali.
Il totale dei redditi dichiarati nel 2021 ai fini Irpef è ammontato a 865,07 miliardi, con un gettito di 164, 36 miliardi (147,38 per l’Irpef ordinaria; 11,99 per l’addizionale regionale e 4,99 per l’addizionale comunale), in calo del 4,75% rispetto al 2019.
«C’è una differenza tra le classi – spiega il presidente del Centro studi Itinerari Previdenziali Alberto Brambilla – troppo marcata e destinata ad acuirsi per effetto dei recenti provvedimenti che aumentano importo e platea dei destinatari di bonus e agevolazioni varie. Giusto aiutare chi ha bisogno ma i nostri decisori politici tendono a trascurare come queste percentuali dipendano in buona parte da economia sommersa, evasione fiscale e assenza di controlli adeguati, per le quali primeggiamo in Europa: è davvero credibile che oltre la metà degli italiani viva con meno di 10 mila euro lordi l’anno».
Tra i falsi miti sfatati dalla ricerca c’è di riflesso anche quello dell’oppressione fiscale, che vuole (tutti) i cittadini tartassati dal fisco e penalizzati delle eccessive imposte. Solo per pagare la spesa sanitaria, per i primi 2 scaglioni di reddito fino a 15 mila euro, la differenza tra l’Irpef versata e il costo della sanità ammonta a 51,817 miliardi, differenza che sale a 58,2 miliardi sommando i redditi da 15 a 20 mila euro.
Considerando anche spesa assistenziale e welfare degli enti locali, la redistribuzione totale è pari a 219 miliardi su circa 555 di entrate, al netto dei contributi sociali. In pratica, viene redistribuito il 40% di tutte le entrate e quasi il 100% delle imposte dirette, che va totalmente a beneficio del 58% di popolazione (corrispondente a quanti dichiarano fino 20 mila euro) e, in parte, al restante 28,96% (corrispondente ai dichiaranti tra 20 e 35 mila euro). Poco nulla invece al 12,99% dei paganti.
«Un costante trasferimento di ricchezza, sotto forma di servizi gratuiti di cui quest’ enorme platea di beneficiari non si rende neppure conto – previsa Brambilla – davanti alle ripetute promesse di nuove elargizioni da parte della politica e alla continua minaccia di abolizione delle tax expenditures per i redditi sopra i 35 mila euro trascurati persino dal virtuoso governo Draghi». Redditi, peraltro lordi, e non certo da «ricchi», spiega l’esperto, che scontano però l’italico paradosso secondo il quale più tasse si pagano e meno servizi si ricevono: una progressività «occulta e pericolosa» viene definita, che «penalizza quanti contribuiscono regolarmente e incentiva i cittadini a evadere o dichiarare meno così da non rinunciare a prestazioni sociali e agevolazioni».
Per il presidente della Confederazione dei dirigenti d’azienda Stefano Cuzzilla «siamo ormai di fronte a paradossi inaccettabili. I nostri dati descrivono una società in cui le retribuzioni non crescono e sempre meno lavoratori sostengono il peso crescente della pressione fiscale. Il fatto che i lavoratori con redditi superiori a 35 mila euro lordi siano appena il 13% apre a un’unica alternativa: o stiamo scivolando verso un impoverimento generale non adeguato a una potenza industriale oppure in questo Paese c’è un sommerso enorme. Di fatto, stiamo continuando a favorire gli evasori».
Col risultato di danneggiare che onestamente continua a contribuire al welfare e alla solidità dei conti pubblici e che, negli ultimi decenni, è stato costantemente penalizzato da blocchi della perequazione, rivalutazioni parziali e contributi di solidarietà, perdendo potere d’acquisto. «E dopo il danno, c’è anche la beffa – conclude Cuzzilla – per chi dalla manovra vedrà tagliato l’adeguamento della pensione e poi non potrà accedere, dato il tetto previsto, a Quota 103 che è finanziata proprio da quei tagli».
(da La Stampa)

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I PECORONI SONO COME GLI ELETTORI: SI LASCIANO GUIDARE DA CHI CAPITA

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

UN TEAM DI RICERCATORI HA SCOPERTO CHE, IN CERTE CONDIZIONI, LE GREGGI DI PECORE HANNO DEI “CAPI” CHE SI ALTERNANO ALLA GUIDA DEL GRUPPO

Le pecore non sono solo un animale ma anche un simbolo, non necessariamente positivo, di chi obbedisce agli ordini altrui e segue il capo senza farsi troppe domande: pensate per esempio al dispregiativo “pecorone”. Ora un nuovo studio della Université Côte d’Azur sembra volerle vendicare, o quantomeno riconoscere loro una complessità sociale che va al di là della struttura “uno guida, gli altri seguono”. Pubblicato su Nature, lo studio dimostra che, almeno in certe condizioni, le greggi di pecore non hanno un solo capo, ma si alternano democraticamente (e casualmente) alla guida del gruppo.
“OGGI TOCCA A ME”
Lo studio ha per ora un solo limite: è stato condotto su gruppi di piccole dimensioni, composti da 2 a 4 esemplari di femmine della stessa età. Queste mini-greggi sono stati osservati durante la giornata e da debita distanza (il luogo di osservazione era la cima di una torre vicino ai loro campi), per scoprire come si comportano quando non vengono guidate da un'”entità” esterna (per esempio, un pastore).
Il team ha scoperto che le pecore alternano momenti in cui brucano l’erba ad altri in cui si muovono in gruppo in cerca di altri pascoli; e che ogni volta che si spostano, il gruppo cambia leader: una pecora si mette alla guida e le altre la seguono ordinatamente. Il nuovo capo è scelto ogni volta in maniera casuale, o almeno così sembra.
MENO CONFLITTI, PIÙ CIBO
In realtà, dietro questa forma di alternanza democratica ci potrebbero essere dei motivi pratici. Ogni esemplare, infatti, ha una diversa conoscenza dell’ambiente circostante: potrebbe, per esempio, conoscere la location di un prato particolarmente verdeggiante che le altre pecore non hanno mai visitato, e aspettare il suo momento di condurre per mostrarglielo.
Inoltre, sapere che prima o poi toccherà a te “fare il capo” aiuta anche ad accettare con più serenità le decisioni degli altri leader, e a evitare possibili conflitti. Il limite dello studio è tutto nelle dimensioni delle greggi considerate: non sappiamo (ancora) se la “rotazione dei leader” avviene anche in gruppi più numerosi, e se la presenza di maschi cambia qualcosa in termini di leadership. Per il team che ha condotto la ricerca si preannunciano dunque altri viaggi in cima alla torre di osservazione.
(da Focus)

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RICCIARDI E LA SENTENZA DELLA CONSULTA SUI VACCINI

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

“LA VITTORIA DELLA SCIENZA, ORA I NO VAX PAGHINO LE MULTE”

L’ex consulente del ministero della Salute sull’emergenza Coronavirus Walter Ricciardi dice che la sentenza della Corte Costituzionale sull’obbligo vaccinale è «un conforto».
Soprattutto per «tecnici e decisori che anche in futuro dovranno decidere misure restrittive per le crisi sanitarie».
In un’intervista rilasciata a La Stampa il professore di Igiene spiega che «è solo l’ultimo atto di una lunga serie di sentenze dello stesso tenore, che stabiliscono come il diritto alla salute sia preponderante e che per tutelarlo si deve potere agire anche facendo leva sull’obbligatorietà delle misure di profilassi necessarie. In particolare quando si è in presenza di malattie altamente contagiose e che mettono in pericolo la vita delle persone. E con il Covid, prima che arrivassero i vaccini era in pericolo l’intera umanità».
Il Green Pass e Meloni
Per Ricciardi «il principio è sempre lo stesso: in presenza di gravi crisi sanitarie si è legittimati ad assumere le misure restrittive che la scienza suggerisce. Ed è una lezione da tenere bene a mente, perché con la globalizzazione e gli antibiotici che iniziano a fare cilecca le malattie infettive stanno tornando ad essere un flagello per l’umanità». Il professore risponde anche alla premier Meloni, che aveva accusato di prendere decisioni non supportate dalla scienza: «Si dica quali sarebbero queste decisioni anti-scientifiche. Voglio solo ricordare che tutte quelle assunte dal governo Conte prima e Draghi poi furono supportate dai pareri di Istituto superiore di sanità, Cts e Consiglio superiore di sanità. Organismi composti dai migliori clinici ed esperti sanitari del Paese». Mentre riguardo il Green Pass, «nella prima fase è stato uno strumento formidabile per spingere la popolazione a vaccinarsi. Poi ha protetto comunque anziani a fragili, perché è vero che con Omicron anche da vaccinato posso contagiarmi, ma se vado in luoghi chiusi ed affollati, dove è più probabile che ciò avvenga, almeno sono protetto dalla malattia grave e dal rischio di morire». Mentre abbonare le multe ai No Vax, come ha auspicato Schillaci, «non ha alcun senso perché fa venir meno il senso di responsabilità verso la collettività. Richelieu diceva: “Fare una legge e non farla rispettare equivale ad autorizzare la cosa che si vuole proibire”».
(da agenzie)

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COSI’ LA GUARDIA COSTIERA FA LITIGARE LEGA E FDI: “LA COMPETENZA E’ DI SALVINI”. “NO, E’ DI CROSETTO”

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

I DUE PARTITI SI SCONTRANO SULLE CAPITANARIE ED E’ SOLO L’ULTIMO ATTO

La Guardia Costiera fa litigare il governo Meloni. «Il corpo delle capitanerie di Porto-Guardia Costiera è alle dipendenze del Ministero» dei Trasporti e delle Infrastrutture, ha detto il vicepremier e ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini in audizione al Senato sulle linee programmatiche del suo Dicastero, elogiando il lavoro di tutto il personale.
Ma a quanto pare non tutti la pensano così. Anzi.
Il Foglio racconta oggi che dalle parti di Fratelli d’Italia la competenza è invece di Guido Crosetto. Ovvero del ministero della Difesa. O meglio: il partito della premier fa notare che l’articolo 132 del Codice Civile Militare dice: «Il Corpo delle capitanerie di porto dipende dalla Marina militare, concorre alla difesa marittima e costiera, ai servizi ausiliari e logistici della Forza armata».
La battaglia navale nel governo Meloni
Tecnicamente, quindi, la Guardia Costiera dipende funzionalmente dal ministero delle Infrastrutture. E gerarchicamente dal ministero della Difesa.
Si riapre così uno dei primi problemi nati all’epoca della formazione dell’esecutivo guidato da Meloni. Cambia però il duellante: in quel caso era Nello Musumeci. Che secondo le indiscrezioni per il suo ministero del Sud avrebbe potuto ricevere proprio le deleghe sulle Capitanerie. Lasciando Salvini a bocca asciutta. Un argomento non secondario, visto che è la Guardia Costiera che soccorre i barconi. E che sul tema potrebbe scoppiare un conflitto di competenze. Ma secondo il retroscena si tratta solo dell’ultimo atto della guerra tra Fdi e gli alleati. In cui il partito di Meloni cerca di lasciare a bocca asciutta di competenze Lega e Forza Italia. Con l’obiettivo di non avere problemi di tenuta.
(da agenzie)

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ATTENTATO A SUSANNA SCHLEIN, PRIMA CONSIGLIERA DELL’AMBASCIATA ITALIANA AD ATENE

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

LE AUTORITA’ GRECHE IPOTIZZANO UNA PISTA ANARCHICA

Attentato a Susanna Schlein, la sorella dell’esponente del Pd Elly Schlein. Durante la notte ignoti hanno incendiato una delle auto della prima consigliera dell’ambasciata Italia ad Atene: il mezzo è andato completamente distrutto dopo un’esplosione. Svegliata da alcuni botti in rapida successione, Schlein si è accorta del tentativo di appiccare il fuoco anche a una seconda auto, vicina alla quale è stata rinvenuta una molotov con la miccia semi-consumata.
Le ragioni e la responsabilità dell’attacco non sono chiare: la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, esprimendo la sua solidarietà a Schlein, ha parlato di «probabile matrice anarchica», anche se al momento non ci sono abbastanza informazioni per dare sostanza a questa ipotesi. La polizia greca sta indagando sul caso.
La Farnesina ha condannato con la massima fermezza il «grave atto criminoso» «mirato ad auto e abitazione della diplomatica» e ha espresso vicinanza e massima solidarietà a Susanna Schlein e alla sua famiglia. Anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, su Twitter ha espresso solidarietà a Schlein, annunciando che «oggi sarò ad #Atene per incontrare il Primo Ministro kmitsotakis. Visiterò l’Ambasciata d’Italia».
Il ministro per la sicurezza Panagiotis Theodorikakos, ha assicurato che la Grecia ha disposto una «vigilanza rafforzata» alle sedi delle autorità diplomatiche italiane dopo l’attentato.
Chi è Susanna Schlein
Quarantaquattro anni, la sorella dell’ex vicepresidente dell’Emilia Romagna è la prima consigliera dell’ambasciata italiana ad Atene, il terzo grado della carriera diplomatica italiana: in Grecia Schlein è la seconda persona in carica dopo l’ambasciatrice Patrizia Falcinelli.
Nata a Lugano, dopo la Maturità si è laureata in Relazioni internazionali all’università di Pavia. Poi un tirocinio a Strasburgo, alla rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa. Nell’autunno del 2003 ha vinto il concorso diplomatico e ha iniziato a lavorare come addetto all’Ufficio Ocse alla Farnesina.
Per tre anni Schlein è stata console a Saarbrücken in Germania, poi dal 2010 al 2014 capo della Cancellieria consolare dell’ambasciata italiana a Tirana. Tra il 2017 e il 2021 è stata consigliere sociale e consolare a Berlino, poi è arrivata ad Atene come primo consigliere dell’ambasciata italiana in Grecia.
(da agenzie)

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DROGA DELLO STUPRO, CONFESSIONI DI UN PUSHER: “TRA I MIEI CLIENTI PARLAMENTARI, ARCHITETTI, FORZE DELL’ORDINE E ANCHE UN PRETE”

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

IL RACCONTO DI FEDERICO, UNO DEGLI INDAGATI DELLA MAXI-INCHIESTA POLARIA: “MOLTI SONO PARLAMENTARI”

L’ultima immagine che popola i suoi ricordi sono i corpi intrecciati di almeno una decina di uomini in una grande sala nell’appartamento di un facoltoso romano. Sesso, droga e alcol. “Come vedere la prima scena di Suburra. Un chill è durato tre giorni e alla fine sembravo uno zombie. Non si dorme, si mangia pochissimo”.
È il racconto di Federico, uno degli indagati della maxi inchiesta della Polaria sul Gbl e i chemsex party a Roma e in altre città d’Italia. Federico oggi ha 30 anni, è stato bloccato all’aeroporto di Fiumicino dalla polizia di frontiera con 40 grammi di mefedrone dentro la valigia. È finito nella stessa indagine che ha coinvolto dal neurologo del San Camillo a Claudia Rivelli, la sorella di Ornella Muti.
Com’è iniziata la sua frequentazione dei chill?
“Quattro anni fa sono stato invitato da un amico a una festa a Trastevere. Mi ero sempre scostato da questo tipo di eventi dove si consumano rapporti sessuali occasionali. Quella sera davanti a me, invece, c’erano una decina di persone strafatte di Gbl. Io ero una nota stonata”.
Lei assumeva droghe?
“No, non ne avevo mai fatto uso. Uno dei partecipanti è stato convincente e ho preso il Gbl. “Non ti farà nulla”, mi ha detto e ha aggiunto che la sensazione, la prima volta, è meravigliosa. Ho bevuto 1,2 ml in un bicchiere di Coca Cola. Il Gbl mi ha dato la sensazione di essere particolarmente brillo. Qualsiasi cosa vedessi attorno a me era un richiamo sessuale molto forte che facevo fatica a gestire. Il buonsenso è caduto, avevo desideri perversi”.
Poi cosa è successo?
“Mi sono lasciato andare alle avance di diverse persone. Dopo un’ora mi sono risvegliato e ho ripreso di nuovo il Gbl. In quasi un giorno ho avuto almeno cinque rapporti. Ero in un girone della perversione. Ha presente la scena iniziale di Suburra? La stessa cosa”.
È stata l’unica volta?
“Dopo la festa mi sono pentito e mi sono detto “Basta!”. Invece nel giro di qualche settimana sono stato invitato una seconda volta. Non si pagava nulla, la droga veniva offerta in cambio dei rapporti sessuali. Era il periodo pre-pandemia, nel 2019. Le case messe a disposizione erano di chi spacciava. Si tratta di personaggi molto facoltosi: architetti, giornalisti, politici di cui non conosco i nomi, avvocati e anche il parroco di una chiesa, portaborse di parlamentari e tantissimi medici. C’erano anche forze dell’ordine. Le case erano a Trastevere, Piazza della Repubblica, Monti. Non ho saputo dire di no perché era un’esperienza opposta alla mia routine e in quel periodo ero sotto shock. Mio padre mi aveva rivelato che ero un figlio illegittimo. Mi sono lasciato andare al fascino del male. Sono diventato tossicodipendente ma ero un sovversivo. Darmi per drogarmi non mi faceva stare bene, ho conservato un po’ del mio pudore. I chill erano il pretesto per farsi in cambio di sesso e non il contrario”.
Cosa ha fatto?
“Dopo un anno mi sono detto “O arredo il tunnel o mi disintossico” ma l’offerta dei Serd è ferma a criteri del 2013. Le droghe sintetiche, invece, sono in circolo da pochi anni. Ero confuso. Allora ho iniziato a cercare come procurarmi droga senza andare ai chill”.
C’è riuscito?
“Era molto faticoso. Avevo una forte amicizia con uno spacciatore. Il rapporto si è deteriorato perché non andavo più ai chill. Poi ho scoperto “Il segreto di Fatima””.
Cioè?
“Ho conosciuto chi forniva le sostanze stupefacenti a prezzo di stock. È il segreto che non si deve rivelare altrimenti finisce che spacciano tutti. E dal quel momento mi sono attivato. A Barcellona ho conosciuto i fornitori. Facevo trasferte tra Olanda e Spagna con cadenza trimestrale. Da Rotterdam imbarcavo il Gbl”.
Lei è accusato di spaccio.
“Gina (il Gbl, ndr) non è mai da sola, si dice negli ambienti. Il Gbl ti butta giù, il mefedrone ti tira su perché è uno stimolante. Io sono stato trovato con il mefedrone ma in grossa quantità. Mi hanno dato spaccio ma quella droga era per me”.
L’arresto è stato il momento in cui ha smesso?
“Praticamente sì. Devo dire grazie alla polizia. Ho incontrato persone molto umane. I primi due mesi sono stati terribili per le crisi di astinenza. I miei genitori hanno scoperto con l’arresto tutto quello schifo dove ero finito. Da un anno non prendo più niente. Ero arrivato a mischiare Gbl e mefedrone, non potevo più farne a meno”.
Spesso si accosta il Gbl alla comunità Lgbtqia+.
“Non è così, è dappertutto. Come non è vero che il Gbl è insapore, è come bere acqua raggia. Per questo va mischiato alle bevande”.
Adesso com’è la sua vita?
“Riesco a spiegarmi i tanti perché di quello che è successo. Ho ceduto perché ero debole, avevo subito una delusione professionale molto profonda. Anche le dinamiche familiari erano un po’ compromesse perché avevo scoperto che ero figlio illegittimo. Ma era una ripicca tra mio padre e mia madre che si sono divorziati, era una bugia. Non sapevo più chi fossi. Quando ti droghi non vedi alcuna prospettiva nella tua vita, adesso voglio dedicarmi al recupero dei tossicodipendenti e diventare operatore. Voglio farlo perché penso che se avessi avuto una persona che mi aiutava ce l’avrei fatta prima. Sto anche scrivendo un libro. È dedicato ai tossicodipendenti e ai loro familiari perché solo chi ci è passato può capirlo”.
(da La Repubblica)

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UCRAINA, GLI ISTRUTTORI NATO E IL SEGRETO SUL RUOLO DELL’ITALIA

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

IL TRAINING EUROPEO CHE AIUTA A FORMARE LE FORZE SPECIALI DI KIEV

“Gli Stati Uniti e la Nato partecipano direttamente alla guerra. Non solo rifornendo l’Ucraina di armi ma addestrando il personale militare sui territori di Gran Bretagna, Germania, Italia e altri Paesi”.
Le parole del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov accendono un faro su un altro aspetto del sostegno bellico internazionale a Kiev, finora sottovalutato. E pongono un nuovo interrogativo sul ruolo del nostro Paese: ci sono reclute ucraine nella Penisola?
Anzitutto, bisogna sottolineare un punto. Un conflitto di logoramento, come quella che si combatte oggi tra Donbass e Dnipro, viene vinto solo provocando il collasso dell’esercito nemico: è la drammatica lezione della Prima Guerra Mondiale, che si ripete un secolo dopo nelle trincee ucraine. Conta quindi la possibilità di ricevere in continuazione nuovi equipaggiamenti per sostituire quelli distrutti in battaglia: la Nato si è impegnata per rifornire il governo Zelensky con armi e mezzi. Ma è fondamentale anche mantenere intatti i ranghi del personale, reclutando cittadini e rendendoli capaci di affrontare la linea del fuoco.
Mentre si parla spesso delle perdite di Mosca, quelle di Kiev sono un segreto. Il capo di Stato maggiore americano Mark Milley ha parlato di centomila tra morti e feriti; le autorità ucraine invece riconoscono diecimila caduti. Di sicuro però in questo momento la priorità dell’alleanza occidentale è addestrare reclute in massa per fermare le prossime offensive russe: il Cremlino infatti sta trasferendo al fronte duecentomila dei riservisti mobilitati lo scorso settembre.
Ieri dal Pentagono è trapelato il piano per preparare 2500 soldati ucraini al mese, trasformando rapidamente una vecchia base tedesca in una gigantesca accademia. L’Unione Europea la scorsa settimana ha lanciato la missione Eumam per formarne altri 15 mila: le reclute verranno concentrate soprattutto in Polonia e in Germania, mentre gli istruttori saranno di tutti i Paesi. La Spagna ha annunciato che si occuperà di 2400 ucraini; la Francia di duemila; il Belgio metterà a disposizione cento trainer. L’obiettivo è di arrivare entro giugno a creare due-tre brigate complete con 12 mila fanti e tremila specialisti, destinati a utilizzare armamenti sofisticati.
Anche il nostro governo ha aderito all’iniziativa europea, ma non è chiaro quale sarà il contributo: la materia degli aiuti a Kiev infatti resta coperta dal segreto di Stato. Il ministro russo Lavrov però ha detto che militari ucraini vengono già addestrati in Italia. E’ una fake news?
La notizia in realtà ha qualche fondamento. Alla fine di agosto, l’allora titolare della Difesa Lorenzo Guerini ha dichiarato: “Stiamo provvedendo a garantire mirate attività addestrative al personale ucraino per rendere più sicuro l’impiego dell’armamento”. In quel periodo l’attenzione era rivolta agli artiglieri, destinati a usare gli obici FH70 consegnati dal nostro Paese: durante l’estate una scuola è stata allestita dalla Nato in una caserma americana in Germania, proprio per insegnare ai militari di Kiev l’uso di armi pesanti occidentali. Lì sarebbero stati tenuti i corsi pure per i cannoni semoventi Pzh2000 e per i lanciarazzi MLRS, la versione cingolata degli Himars, donati in piccoli numeri dall’Italia.
Stando a quello che è trapelato, però, truppe selezionate sarebbero state ospitate nella Penisola, accolte all’interno delle basi dei nostri incursori. I veterani del Comsubin e del Col Moschin gli hanno spiegato le tattiche delle forze speciali, con lezioni mirate sui raid e sulle azioni di sabotaggio. L’ipotesi è che si tratti di poche decine di ucraini, rimasti per periodi di circa un mese: non è escluso che questa attività stia proseguendo. Ma è tutto top secret, impossibile ottenere conferme ufficiali. Anzi, il ministero della Difesa ieri sera lo ha negato.
E nella stessa nota ha specificato di avere mandato “quattro membri delle forze armate in Germania nell’ambito del gruppo europeo addestramento, che, in questo momento, stanno pianificando i possibili cicli addestrativi da svolgersi in futuro”.
Nato e Ue si aspettano molto di più dall’Italia. L’esperienza accumulata dai nostri istruttori in Iraq, Afghanistan, Libia è superiore a quella di qualsiasi altro esercito europeo ed è stata elogiata persino da americani e britannici. Inoltre nel nostro Paese c’è una rete di scuole specializzate d’ogni livello che sono frequentate da allievi stranieri e possono accogliere i quadri di Kiev. Le decisioni spettano al governo ed probabile che verranno discusse a gennaio, quando sarà completato l’iter parlamentare del nuovo decreto. Tempi molto distanti dalla realtà del conflitto, perché molti temono che l’offensiva russa scatterà prima di allora.
(da La Repubblica)

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A ROMA CAMBIANO I GOVERNI MA IN LIBIA SI CONTINUA A NON CONTARE UNA MAZZA

Dicembre 2nd, 2022 Riccardo Fucile

IN LIBIA NON COMANDA NESSUNO OVVERO COMANDANO TUTTI: 180 MILIZIE, MIGLIAIA DI MERCENARI, GUARDIA COSTIERA COLLUSA CON I TRAFFICANTI

A Roma cambiano, governi, maggioranze, primi ministri, ma in Libia continuiamo a contare pressoché niente. Alla faccia di improbabili piani Marshall per il Nord Africa, di inattuabili, per fortuna, blocchi navali e di memorandum scellerati, come quello d’intesa bilaterale con la Libia.
Di grande interesse è l’articolo di Fabio Tonacci su Repubblica. Scrive Tonacci: “Chi comanda in Libia? Uno e centomila, dunque nessuno. La Libia è un rompicapo che si fa più complicato ogni giorno che passa. Un caotico teatro dell’assurdo, dove nuovi attori si aggiungono ai vecchi – il generale Haftar, il poliziotto-trafficante Bija – che sembravano finiti e invece non se ne sono mai andati. Ci sono due governi e sono entrambi deboli: quello di Tripoli del premier Dbeibah è scaduto a giugno 2021 e non riesce a indire nuove elezioni; quello di Tobruk, affidato a Bashagha, non è riconosciuto dalle Nazioni Unite.
Le vittime sono sempre loro, i migranti, che fame, conflitti e cambiamenti climatici trascinano in Libia per cercare chi un lavoro, chi un passaggio verso l’Europa, chi una possibilità. All’inizio dell’anno erano 621 mila, adesso la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è stata ritoccata al rialzo, 668 mila, a cui aggiungere i 43 mila richiedenti asilo.
Le partenze per l’Italia crescono a un tasso che nel 2023 ci riporterà indietro nel tempo alla stagione 2015-2016. La guardia costiera libica, accusata di violare i diritti umani eppure finanziata coi soldi dello Stato italiano in nome di un contestato memorandum che il governo Meloni ha tacitamente rinnovato per altri tre anni il 2 novembre scorso, continua a intercettare i profughi in mare (centomila dal 2017 ad oggi) e a riportarli in un Paese che ormai neppure il più convinto sovranista può definire “sicuro”. Anche perché tornato a essere preoccupante incubatore del terrorismo di matrice islamica, con varianti autoctone dell’Is e di Al Qaeda che si stanno riorganizzando a ridosso dei confini. In questo scenario, l’Italia si è autorelegata in un angolo: non ha più voce in capitolo nel Paese che fu di Gheddafi, né interlocutori affidabili, né uno straccio di piano strategico per il governo dei flussi. Prova ne è il rinnovo del memorandum, senza dibattito in Parlamento e senza idee. “L’instabilità politica della Libia non consente nemmeno di negoziare sull’assistenza umanitaria, che si scontra con enormi difficoltà di accesso al Paese e limiti nelle attività”, osserva Giorgia Linardi, responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere-Libia. “Rinnovare il memorandum, che drena fondi destinati allo sviluppo di questa terra per trattenervi i migranti a ogni costo, è un errore”. In Cirenaica, formalmente area del governo Bashagha ma soggetta alle scorribande di gruppi paramilitari e di fatto sotto l’influenza dell’Egitto e della Russia, presente con almeno duemila mercenari della Brigata Wagner, i trafficanti stanno mettendo in mare barconi con 500-600 persone sopra. In Tripolitania dal 2019 non si muove foglia che Ankara non voglia, non foss’altro per la flotta di droni kamikaze di fabbricazione turca che permette a Dbeibah di respingere gli assalti armati alla capitale. La Turchia di Erdogan ha anche preso in gestione per 99 anni il porto di Misurata e ha firmato un ricco accordo energetico col governo. Nei cinque centri di detenzione ufficiali a Tripoli, gli unici cui hanno accesso le agenzie Onu e le ong come Msf, sono rinchiuse 2.700 persone. Il Direttorato per il contrasto all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno li chiama centri di accoglienza, ma sono prigioni, dove tengono la gente in condizioni pietose. Iperaffollati, sporchi, con poca acqua e poco da mangiare. Li gestisce un signore di nome Mohamad al-Khoja, leader di una milizia, indagato da tre agenzie governative libiche per aver fatto sparire 570 milioni di dinari dal fondo destinato alle forniture di cibo per i migranti. I migranti dei centri di Tajoura e Tarik al Sikka lo accusano di torture, abusi, pestaggi e anche sfruttamento, perché li usa come muratori nel cantiere del centro commerciale del fratello e come camerieri nella propria villa. “Controlla tutto al-Khoja”, racconta chi ha lavorato con lui. “Occupa i cortili dei dormitori per addestrare i combattenti della sua milizia”. E questi sono i centri ufficiali, il nodo visibile di una vasta ragnatela occulta di campi illegali di cui niente si sa. Si va dalle prigioni inaccessibili dell’Ovest nei pressi di Zuwarah, Sabrata e Zawiya, gestite dal gruppo paramilitare Ssa (Stability support apparatus) con l’aiuto del trafficante Bija, il comandante della guardia costiera di Zawiya scarcerato nel 2021, ai centri dell’Est in mano alle milizie del generale Haftar, tornato protagonista sia in Cirenaica sia nel Fezzan. Nonostante la Commissione internazionale d’inchiesta abbia documentato violazioni inquadrabili come crimini di guerra, dal 2023 la cornice d’intervento dell’Onu cambierà e la Libia verrà trattata non più come contesto umanitario ma “di sviluppo”. “Nei documenti sulla nuova cornice le esigenze umanitarie sono definite come “residuali””, spiega Linardi di Msf. “I tempi non sono maturi per questo passaggio: temiamo una pericolosa restrizione dello spazio umanitario”. Al governo italiano non basterà legarsi a un ipotetico e miliardario “piano Marshall per l’Africa”, troppe volte evocato a Bruxelles e mai realizzato, per tornare a contare qualcosa in Libia. Serve piuttosto una visione, un disegno generale e strategico per l’intero Nord-Africa che oltre al Viminale coinvolga direttamente la presidenza del Consiglio. Anche solo trovare un interlocutore affidabile e credibile sull’altra sponda del Mediterraneo sarà un’impresa, perché il problema della Libia – conclude Tonacci – non è il vuoto di potere, semmai il contrario: ci sono troppi poteri. E nessuno porta a Roma”.
Quel muro criminale
Ne scrivono su Avvenire Lorenzo Bagnoli e Fabio Papetti Irpi Media), con la collaborazione di Anonella Mautone). Da leggere per essere ancora più informati e, passateci il francesismo, incazzati.
“Dal primo gennaio alla fine di settembre 2022 oltre 16mila migranti sono stati riportati indietro dalle forze marittime della Libia. Le «operazioni» sono state più di 160; in netto aumento rispetto al passato. La parola «operazione» in questo contesto può assumere due significati: salvataggio oppure intercettazione di un gommone di migranti. Per questi ultimi il finale è sempre lo stesso: il rientro in un centro di detenzione della Libia, dove subiscono abusi e torture, fino al prossimo tentativo di traversata.
Al momento, per le stime ufficiali, sarebbero circa 3mila i migranti detenuti. Senza il contributo dell’Italia e di altri paesi europei, la Libia non avrebbe delle forze marittime in grado di svolgere queste operazioni. A dare maggiore impulso alla collaborazione Italia-Libia è stato il Memorandum of Understanding firmato con Tripoli nel febbraio 2017, che si rinnoverà automaticamente entro il 2 novembre per altri tre anni. Nel solco di questo accordo, l’Italia ha fornito almeno 12 navi e gestisce gli affidamenti delle gare per la loro manutenzione; fornisce equipaggiamenti, somministra corsi di formazione, guida il progetto per la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (in inglese Maritime rescue coordination center – Mrcc).
Le fonti di finanziamento per questi progetti sono sia italiane, sia europee e non le amministra un’unica cabina di regia. Il risultato è una spesa frammentata e poco trasparente, suddivisa su diverse stazioni appaltanti: Polizia, Guardia di Finanza, Marina Militare ed Invitalia, l’agenzia che ha tra le sue funzioni implementare i progetti europei. Da anni molte organizzazioni chiedono una diversa condivisione dei dati, alla luce delle ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti e delle morti in mare. A dispetto della spesa, il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno.
Dallo scorso anno ActionAid gestisce un osservatorio sulle spese per l’esternalizzazione delle frontiere, The Big Wall, il Grande Muro. Ha tracciato l’impegno di oltre un miliardo di euro (soldi italiani, a volte con l’aiuto dell’Ue) a partire dal 2015. Insieme a IrpiMedia, The Big Wall ha analizzato esattamente quanti e dove sono stati spesi questi finanziamenti nel Mediterraneo Centrale.
Il caos libico.
In Libia le forze marittime sono frammentate e contaminate dai gruppi armati di varia appartenenza. Ci sono formazioni che rispondono a signori della guerra per la maggior parte fedeli alla presidenza del Consiglio, quindi al premier Dbeibah. Poi ci sono le forze “ufficiali”, cioè la Guardia Costiera Libica (Gcl) e l’Amministrazione generale della sicurezza costiera (di cui Gacs è l’acronimo inglese), che sono affiliate al ministero della Difesa e al ministero dell’Interno di Tripoli. Anche queste due sono infiltrate da alcune milizie, come la brigata al-Nasr, considerata dalle Nazioni Unite un’organizzazione di trafficanti di esseri umani e contrabbando di gasolio.
La brigata è responsabile della Gcl di Zawiyah, ovest della Libia. Gli uomini di al-Nasr sono guardie e ladri allo stesso tempo, interessati alle forniture italiane per imporre il proprio potere in mare. Per loro e per altre forze marittime della Libia la promessa di effettuare salvataggi dei migranti è stata negli anni una moneta di scambio.
Il progetto Sibmmil.
La prima fase del Support to Integrated Border Management and Migration Management in Libya, acronimo Sibmmil, avrebbe dovuto concludersi nel 2020 ma solo nel corso del 2022 ha ottenuto alcuni dei risultati previsti. È uno dei principali mattoni del Grande Muro del Mediterraneo Centrale. Ha come obiettivi principali il rafforzamento sia delle capacità di salvataggio in mare, sia del controllo del confine marittimo. Tra il 2017 e il 2022, secondo la Ragioneria di Stato, l’Italia ha speso 27,2 milioni di euro di fondi europei dedicati a questo progetto. La dotazione prevista è di circa 44,5 milioni di euro, di cui l’Italia ha fornito circa 2 milioni. Il nostro ministero dell’Interno ne è l’ente attuatore. Tra i beneficiari del progetto, c’è anche l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), agenzia affiliata alle Nazioni Unite a cui spetta, tra le varie mansioni, «l’effettiva verifica dei pubblici ufficiali libici che partecipano all’addestramento affinché siano esclusi coloro che hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani». La strategia sembra rispondere alle rivelazioni del 2019 di Avvenire: tra i guardacoste che arrivarono in Italia per la formazione c’era anche Adel Rahman al-Milad detto Bija, esponente del clan al-Nasr, accusato di traffico di migranti e contrabbando di gasolio. Il processo di verifica dovrebbe evitare che l’incidente si ripeta. Dei 27,2 milioni di euro spesi dall’Italia è stato possibile tracciarne oltre quattro-quinti, circa 20 milioni, tra appalti già completati e altri in corso di assegnazione. Le principali voci di spesa sono 8,3 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,4 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container (dieci dei quali arrivati a Tripoli lo scorso dicembre). Il bando di gara prevede che uno di questi diventi la sede dell’Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi in mare, una delle forniture fondamentali per rendere le forze marittime libiche indipendenti. Secondo il ministro della Difesa del governo uscente Guerini, «dal 3 luglio 2020 l’attività è condotta in piena autonomia dalla marina libica presso proprie infrastrutture a terra e senza coinvolgimento alcuno del personale della Difesa italiano» (7 luglio 2021, Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato). Fonti dalla Libia smentiscono, però, questa ricostruzione.
Il ruolo di coordinamento.
A parlare è una persona che fino al 2021 è stata dentro il centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli e che ancora oggi conosce l’intera catena di comando. Parla in forma anonima, perché non è autorizzata a rilasciare interviste. Il container con il centro di coordinamento previsto dal progetto Sibmmil sarebbe bloccato al porto commerciale a causa di un braccio di ferro tra Marina militare e Guardia costiera, le due forze che rispondono al ministero della Difesa. La Gcl vuole maggiore autonomia nella gestione dei salvataggi all’interno di una base a Tajoura, a est della capitale. Oggi il coordinamento funziona da un appartamento nel centro della città. Le indicazioni sulle navi in difficoltà arrivano ancora per lo più dall’Italia (in misura molto minore da Malta e Spagna). Quando l’europarlamentare della Die Linke Özlem Demirel ha chiesto queste stesse informazioni, la Commissione ha risposto, ad aprile, che «al momento stiamo discutendo con le autorità libiche per identificare il luogo più adatto per l’Mrcc» e non ha fornito indicazioni su dove si trova l’ufficio. Insieme al container sono arrivati in Libia anche apparecchiature radio e radar. La Marina Militare e le aziende italiane coinvolte nella fornitura hanno confermato l’invio dei materiali ma non commentato l’implementazione del progetto Sibmmil.
La torta petrolifera
Da almeno due anni ciò che sta davvero accadendo in Libia è la “Grande spartizione” tra il Sultano e lo Zar, al secolo Recep Tayyp Erdogan e Vladimir Putin. Russi e turchi sono pronti a spartirsi la Libia e a esercitare la loro crescente influenza nel Mediterraneo Occidentale, scrivevamo due anni fa. E’ questo che dicono le manovre aeronavali turche a largo delle coste libiche e lo schieramento dei jet russi nella base di Jufra che, secondo alcuni, hanno parzialmente sostituito i mercenari della Wagner. Ankara vuole insediarsi in Tripolitania, Mosca punta a farlo in Cirenaica. Dagli equilibri che si raggiungeranno dipende l’assetto della Libia di domani che, ancora una volta, non si deciderà né a Tripoli né a Bengasi, prosegue il documento. Da tempo infatti quella in Libia si è trasformata in una guerra per procura dove sono gli attori esterni, regionali, e globali, ha determinarne gli scenari e i possibili compromessi.
Un progetto di spartizione della Libia che, secondo indiscrezioni, sarebbe partito allora e finalizzato in un vertice segreto tenutosi a Malta a fine ottobre 2020. La posta in gioco non è solo il controllo degli idrocarburi gestiti dalla Noc (National Oil Corporation) con importanti contratti all’Eni, è in gioco, ma l’intero asse mediterraneo.
Il punto è che undici anni dopo quella sciagurata guerra voluta dalla Francia e subita dall’Italia, non si vuol prendere atto che la Libia del post-Gheddafi è uno Stato fallito, dove a farla da padroni, quelli veri, sono signori della guerra, trafficanti di esseri umani, banditi di vario genere e caratura, improbabili “tecnici” spacciati per leader politici, signor nessuno come era l’ormai dimenticato Fayez al-Sarraj. Il tutto in un Paese in cui operano, direttamente o per procura, attori esterni che ambiscono a mettere le mani sulla torta petrolifera libica. L’elenco è lunghissimo. Solo per citarne i più attivi: Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar. E un po’, ma nemmeno tanto, defilata, la Francia. La verità che si cerca di nascondere è che l’obiettivo praticato da molti di questi attori esterni è quello della spartizione territoriale della Libia, e delle sue ricchezze di gas e petrolio.
Per riassumere: in Libia sono ancora presenti, stima in difetto, almeno 180 tra milizie e tribù in armi. Sul campo vi sono ancora diverse migliaia di mercenari di tutte le risme, per non parlare dei gruppi criminali che traffico in esseri umani e che controllano, in combutta con le autorità locali, intere aree, soprattutto costiere, del Paese.
Pensare di superare il caos armato libico con finanziamenti a pioggia, senza uno straccio di strategia, non è solo una fesseria politica. E’ una mossa pericolosa. E poi ci chiediamo perché in Libia nessuno ci si fila.
(da Globalist)

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