Destra di Popolo.net

ORSI, I POLITICI TRENTINI SI FACCIANO UN BELL’ESAME DI COSCIENZA: IN ABRUZZO CI SONO SENTIERI OFF LIMITS, IN TRENTINO OGNUNO VA DOVE GLI PARE

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

L’ELENCO DELLE COSE CHE NON SONO STATE FATTE MA CHE SI DOVEVANO FARE

Mi sto chiedendo da molto tempo se siamo nel 21° secolo o ai tempi della “Santa Inquisizione” in cui bisognava dare il “mostro” in pasto alla folla inferocita, abilmente manipolata dall’autorità politica e religiosa del tempo… sì, siamo nel 21° secolo ma ci sono ancora, purtroppo, rappresentanti delle Istituzioni che, invece di governare guidati dal buon senso e dalla ragionevolezza, alimentano con ferocia e cinismo una terribile, crudele e ingiustificata caccia alle streghe nei confronti di animali selvatici, gli orsi, la cui unica colpa è quella di essere tali.
Non è giusto a mio avviso criminalizzare gli orsi, che non sono assassini in quanto solo noi “sapiens” lo siamo, bensì sarebbe giusto che gli amministratori trentini si facessero un bell’esame di coscienza su tutti gli errori che hanno fatto negli anni della gestione del Progetto Ursus Life, nato per proteggere gli orsi ed ora trasformato in un’arma di sterminio, errori che fanno pensare ad una precisa volontà politica (più che incapacità) di farlo fallire.
Era evidente che gli orsi si sarebbero moltiplicati e che sarebbero sorti i conflitti con la popolazione e per ridurli al minimo la convivenza andava gestita giorno per giorno, come avviene in altre regioni dove gli orsi sono considerati una risorsa ambientale e in alcuni casi, con le corrette modalità, anche turistica.
Vogliamo fare un elenco di ciò che non è stato fatto e si doveva fare per la buona riuscita del progetto?
1) Una corretta formazione e informazione nei confronti di cittadini, turisti e operatori del settore, sull’importanza della presenza degli orsi e sul giusto modo di rapportarsi ad essi, in particolare sono mancati i percorsi didattici nelle scuole;
2) I corridoi faunistici, che oltre a limitare l’impatto con le comunità avrebbero potuto favorire la diffusione degli orsi lungo l’arco alpino;
3) Un adeguato programma di monitoraggio, studio e controllo dei territori dove vivono gli orsi;
4) L’arricchimento dell’habitat;
5) La tutela delle zone in cui vivono gli orsi, limitando l’accesso in alcune aree e in alcuni periodi dell’anno;
6) L’installazione dei cassonetti anti-orso per evitare che gli orsi scendano nei centri abitati in cerca di cibo;
7) La regolamentazione dell’attività di foraggiamento della selvaggina per scopi venatori, che ovviamente attira gli orsi e non solo.
L’elenco potrebbe continuare… insomma un disastro su tutti i fronti e i complici di questo disastro sono amministratori e cittadini.
Lassù dove ci sono le montagne più belle del mondo, gli orsi avrebbero potuto renderle ancora più belle e magiche, ma invece di scegliere la via della tutela e della sostenibilità, si è preferito investire sul turismo di massa che tutto devasta e consuma e lasciare che ognuno fosse libero di andare dove voleva, di giorno e di notte, raggiungendo anche con messi motorizzati i luoghi più inaccessibili, perfino nei boschi, come se la natura fosse una cosa nostra da sfruttare e consumare senza porci limiti e senza alcun rispetto per i legittimi abitanti che lì hanno la loro casa.
In Abruzzo ci sono sentieri off limits, in Trentino libero accesso ovunque… In Abruzzo piangono la morte dell’orso Juan Carrito, in Trentino gli orsi li vogliono sterminare…
Cari trentini, siete ancora in tempo per non passare per la 2^ volta alla storia come un popolo sterminatore di orsi. Mi auguro che il buon senso, la prudenza e la ragionevolezza prendano il posto di questa terribile, insensata e incivile voglia di morte e vendetta.
(da Il Fatto Quotidiano)

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LA PROVA DI FORZA DELLA MELONI SULLE NOMINE AVRA’ CONSEGUENZE PER IL GOVERNO

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

CON L’AVIDITA’ DI VOLER ARRAFFARE TUTTO PER LE SUE TRUPPE FAMELICHE, LA MELONI SI E’ GIOCATA ANCHE GIORGETTI

C’è il dispiacere, certo. Ma più ancora c’è la politica: e forse è quella, soprattutto, che preoccupa Giancarlo Giorgetti. Il suo viso teso, rabbuiato, mentre lasciava Piazza Colonna per imbarcarsi alla volta di Washington, diceva quello: di un asse, quello tra il Mef e Palazzo Chigi, su cui il ministro aveva scommesso, e che ora, franando sul tema su cui pure il capo del Tesoro avrebbe maggiore peso negoziale, e cioè le nomine, rimette in moto l’entropia della Lega meno governista.
Quella che già lo accusa “di averci rassicurato fino all’ultimo, finché siamo rimasti fregati”. Ci aveva creduto davvero . Credendo, cioè, non tanto nella cedevolezza di Giorgia Meloni (“Figuratevi se molla”), ma piuttosto nel suo acume politico. “Non sarà così sciocca da inimicarsi il leghista più conciliante su cui può contare”, dicevano, della premier, i parlamentari vicini a Giorgetti
E invece, tra gli effetti collaterali di questa prova di forza della premier, un po’ wannabe Mario Draghi (“Questi sono i nomi a cui ho pensato”) un po’ Marchese del Grillo (“Io so Giorgia, e voi…”), c’è proprio la perdita di credibilità del ministro dell’Economia dentro il Carroccio che da oggi Meloni dà nuova forza all’ala oltranzista.
Quella che alla presidenza dell’Eni voleva Antonio Rinaldi. E dire che l’accordo, stavolta, tra Giorgetti e Salvini aveva retto davvero.
Il segretario aveva creato due diversi tavoli per le trattative. Il primo, quello “di partito”, lo aveva affidato ad Alberto Bagnai, con Armando Siri a supporto. Li aveva tenuti impegnati, esortandoli a stilare una lista di nomi per i cda delle grandi partecipate, e poi ad affinarla, quindi a contrattarla con gli alleati nelle riunioni preliminari, quelle che i leader devono promuovere per far sentire tutti coinvolti.
Giorgetti amministrava l’altro tavolo, quello “di governo” e lo faceva d’intesa con Salvini, muovendosi con discrezione e riservatezza. Salvini s’è fidato del suo ministro. Fino all’ultimo. E fino all’ultimo Giorgetti è rimasto convinto di potere “smuovere” Meloni dalle sue convinzioni. Su Leonardo, per dire, Guido Crosetto, che insieme a Giorgetti era il grande sostenitore di Lorenzo Mariani, capo di Mbda, già venerdì aveva ceduto. Il ministro della Difesa ha cercato invece di riequilibrare in extremis la partita con la proposta dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo, gradito a Crosetto, come presidente; ecco, perfino, la trattativa per promuovere proprio Mariani – che in queste ore è a Parigi e che ancora sta valutando l’offerta – a direttore generale dell’ex Finmeccanica, dunque farne un vice di Cingolani con deleghe sul settore militare. Anche Maurizio Leo, viceministro meloniano dell’Economia, s’è attivato per predicare a Meloni la via della mediazione. Fino a ieri mattina, quando il ministro s’è trovato a dovere, pure lui, alzare la voce con Giovanbattista Fazzolari, gran visir meloniano sulle nomine.
“Se blindate Cingolani, e sapete che è una decisione conflittuale, dovete cedere almeno su Poste”. Macché. “Ma allora almeno su Enel, rinunciate a Stefano Donnarumma”. Le hanno provate tutte, i leghisti, per convincere Meloni neppure un amministratore delegato è stato concesso al Carroccio: disfatta totale.
Con la beffa ulteriore, per Giorgetti, che a ufficializzare questa umiliazione della Lega dovrà essere proprio lui, su carta intestata del suo ministero. Ed è un comunicato che segna, di fatto, una transizione: il ruolo di mediatore che finora il ministro dell’Economia ha svolto verrà meno, e insieme con quello svanirà, il fare conciliante di Salvini
(da La Repubblica)

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NOMINE E POLTRONE, “MELONI NON PUÒ DECIDERE DA SOLA”

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

E UN LEGHISTA MINACCIA: “LA MELONI LA PAGHERA’”

Le manca solo la luna. Giorgia Meloni si è presa tutto. Enel, Eni, Poste, Leonardo e Terna. Cinque amministratori delegati su cinque, scelti da lei, senza mediazione, senza tenere conto delle resistenze di Lega e Forza Italia.
Sono ore passate, si racconta, a ragionare, nell’ufficio di Giovanbattista Fazzolari, sulla nomina di Donnarumma come ad di Enel. Anche i ministri di FdI avrebbero avvisato la premier: “La sua nomina potrebbe finire sotto l’attenzione di Consob e Antitrust. Attenta”. Si scrive sotto un’alluvione di telefonate: “Le liste dei cda verranno comunicate a giornali chiusi”; “Meloni vuole che vengano comunicate oggi”; “c’è un problema donne. Dove sono le donne?”.
Ieri mattina, quando la premier ha fatto il suo ingresso a Palazzo Chigi, dicono che fosse irritata dalla lettura dei giornali. Era infastidita per le ventilate minacce di rappresaglia da parte di Lega e FI. Era indispettita dalle frasi del capogruppo della Lega, Riccardo Molinari (“Sarebbe bizzarro che sulle partecipate a scegliere sia solo un partito”).
Gianni Letta, l’uomo che tratta sulle partecipate per conto di Berlusconi, alle ore 11, era al Senato e partecipava alla presentazione dell’ultimo libro di Franco Bernabè. I leghisti si sono affidati alla sua vecchia sapienza: “Dottor Letta, ci provi lei a fare ragionare Meloni. Non si può stravincere così”. Ma perché Meloni avrebbe dovuto rinunciare, lo ha confidato lei stessa, “a quanto Berlusconi, Renzi hanno fatto duranti i loro governi? Da sempre gli ad sono stati scelti dai presidenti del Consiglio. Perché dovrei rompere questa tradizione?”.
E’ sottile, ironica, salace. Chi dice che da oggi qualcosa cambierà non va poi così lontano dal vero. Nel bene e nel male, chi la stima dirà infatti: “Si è fatta valere”. Ma tutti quelli che ha scontentato diranno invece: “Si è ubriacata. E’ tracotante”. Forza Italia vive questo tormento: assecondarla o combatterla?
Alle ore 15, a Piazza Colonna, passa il suo capogruppo, il simpatico Paolo Barelli, atteso a Palazzo Chigi. Delle nomine non parla. I commessi, il creato li benedica sempre, dicono che la scena si svolga tutta nella stanza di Fazzolari. La loro confessione: “Giorgetti che entra, Giorgetti che esce. C’è movimento”. Il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, di FdI, per non sbagliare, se ne torna al ministero. Maurizio Lupi, che esce invece dal retro di Palazzo Chigi, sussurra a un amico: “Prenderà tutto Meloni e nessuno glielo può impedire. Nessuno ha la forza di far cadere questo governo”.
Un leghista, alla Camera, deserta, è sconvolto o forse ha solo aperto gli occhi: “Meloni la pagherà, eccome se la pagherà”. FdI, e i tanti dirigenti, i più astuti, fanno notare che l’equazione dei quotidiani è sbagliata. La Lega, e sono parole loro, “avrebbe già ottenuto Mps con Lovaglio e a Enav la nomina di Pasqualino Monti perché Monti non è in quota FdI, ma in quota Lega”. Il Def, che pure il Cdm approva, passa in secondo piano, così come altre due nomine definite laterali
L’unica cosa certa è che si litiga.
(da il Foglio)

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REGIONE LAZIO, IL GOVERNATORE ROCCA ASSUME LA FIGLIA DI GIANFRANCO FINI

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

TRA I COLLABORATORI ALTRI BIG DELLA DESTRA E MEMBRI DELLA CROCE ROSSA

Il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca ha dato il via alle assunzione dei primi 23 suoi collaboratori: tra questi spunta il nome di Giuliana Fini, figlia di Gianfranco, l’ex presidente della Camera dei deputati e leader di Alleanza Nazionale.
Assunta in Regione, la 38enne aveva già lavorato con Rocca nell’ufficio cerimoniale quando il governatore del Lazio era capo della Croce Rossa internazionale. Poche ore fa il suo nome è comparso nella nota ufficiale indirizzata alla Direzione affari istituzionali e personale, firmata dal governatore, in cui viene chiesta l’assunzione dei 23 collaboratori «a tempo pieno e determinato fino alla fine della legislatura».
Nel cerchio dei fedelissimi
Tra big della destra ed esponenti di Croce Rossa, il cerchio dei fedelissimi di Rocca va pian piano formandosi. Oltre a Giuliana Fini, nella lista degli assunti compare anche il nome di Andrea Urbani, già direttore della Sanità del Lazio durante la legislazione di Renata Polverini, e indagato per il ruolo avuto successivamente al ministero della Salute nell’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione dell’emergenza Covid.
Presente nell’elenco anche Federico Rocca, noto esponente di Fratelli d’Italia, consigliere capitolino e presidente della Commissione trasparenza, che il presidente vuole impegnare nella comunicazione istituzionale.
A seguire Daniele Belli, nipote dell’ex sindaco di Supino, ex deputato di Alleanza Nazionale, ex consigliere regionale ed ex portavoce di Francesco Storace; Andrea Signorini, ex consigliere municipale e marito dell’ex deputata leghista Sara de Angelis, passato a Fratelli d’Italia. E poi, proprio come Giuliana Fini, diverse personalità provenienti da Croce Rossa, come Riccardo Iotti e Silvia Amici.
(da La Repubblica)

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LITE NEL TERZO POLO, CALENDA: “RENZI SCIOLGA ITALIA VIVA, IO LAVORO PER IL PARTITO UNICO, LUI NON C’E'”

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

REPLICA LA BOSCHI: “SEI UN LEADER GRAZIE A MATTEO”

«Matteo Renzi deve sciogliere Italia Viva». In ore che sembrano precedere a un vero e proprio divorzio a parlare è Carlo Calenda, leader di Azione e ideatore del partito del Terzo Polo assieme al neo direttore de Il Riformista. Un fronte comune che ora sembra più che vacillare sulle difficoltà di «posizioni inconciliabili» dichiarate dalle due parti. Intervistato dal Corriere, Calenda lancia la palla al suo forse ex collega di partito: «Se stiamo divorziando? Lo deve chiedere a lui. Sono 48 ore che vengo bersagliato da attacchi anche personali da parte di quasi tutti i dirigenti di Italia Viva. Il punto per noi è politico: Renzi si rifiuta di prendere l’impegno di sciogliere Italia Viva quando nascerà il nuovo partito e sta bloccando ogni passo avanti sulla strada del partito unico».
Il colpo di teatro
Per il capo di Azione il punto starebbe dunque nella scarsa intenzione di Matteo Renzi di aderire pienamente al partito unico: «E questo è un problema: se da due partiti non nasce un partito ma ne nascono tre significa semplicemente che vuoi tenerti le mani libere». A nulla sembrano essere servite le rassicurazioni arrivate da Renzi poche ore fa durante l’assemblea con i suoi parlamentari: «Non c’è nessun motivo per rompere il progetto del partito unico. Italia Viva si scioglierà quando ci sarà il partito unico». Poi l’accusa: «I suoi sono tutti motivi finti: le polemiche le faccia lui, noi no». A riunirsi con i parlamentari nella serata di ieri 11 aprile anche Calenda: «Ragazzi, io vado dritto come un fuso. l partito lo faccio anche senza Renzi».
La risposta
Una presa di posizione che il leader di Azione ha chiarito poche ore fa su Corriere: «Il coordinamento del Terzo polo non si riunisce più perché a dicembre con un colpo di teatro Renzi è ridiventato segretario di Italia Viva, accentrando su di sé tutti i poteri e levando Ettore Rosato con cui lavoravamo molto bene e che sedeva negli organi di coordinamento del Terzo polo». Eppure secondo il leader di Azione un modo per sbloccare l’impasse ci sarebbe: «Potrebbe intanto rispondere al documento che gli ho mandato da settimane per preparare il processo che porterà al partito unico e poi dicendo con chiarezza se è disponibile a sciogliere Italia Viva, perché se non è disponibile non nasce nessun partito unico».
«Sta giocando di strategia»
Tra rassicurazioni, documenti senza risposta e azioni politiche non preannunciate, per Calenda tutto farebbe parte di una strategia renziana ben precisa: «Io ho l’impressione che lui voglia bloccare tutto fino alle Europee ritardando ogni decisione e poi si vedrà in attesa della prossima mossa del cavallo». Una partita a scacchi che il leader di Italia Viva starebbe giocando anche con il minimo sforzo: «A differenza di Renzi su questo partito lavoriamo tutti 25 ore al giorno insieme a Elena Bonetti, con cui ho un ottimo rapporto», continua Calenda. «Ma il nostro progetto non può dipendere da una persona che per il 90% del suo tempo fa altro e che ogni tanto torna e dice “no, non facciamo così, facciamo colà” e smonta tutto il lavoro fatto».
«Avvertito del Riformista un quarto d’ora prima che accadesse»
Le lamentele di Calenda continuano: «Quello che io mi rifiuto di fare è di girare l’Italia come un pazzo insieme a Elena Bonetti, produrre proposte e nel contempo avere una persona che è in altre cose affaccendato ma da cui dipende ogni singola decisione». Poi il riferimento a una delle notizie più dibattute degli ultimi giorni sul nuovo ruolo assunto da Renzi: «Non puoi fare credibilmente un partito con uno che ti avverte che farà il direttore del Riformista un quarto d’ora prima che accada».
Boschi: «Posizione inspiegabile di Calenda»
Sul possibile divorzio tra Renzi e Calenda si esprime anche la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi. «A quanto pare c’è un divorzio, anche se per tutti noi è stato un fulmine a ciel sereno», dichiara al Corriere. «Nessuno si capacita del perché Calenda abbia cambiato idea all’improvviso sul progetto del partito unico», continua, raccontando di come «anche i colleghi di Azione fossero rimasti stupiti». Una scelta quella di Calenda che Boschi definisce «senza motivazioni» e che per questo non sta convincendo «nemmeno i suoi». L’ex ministra renziana ribadisce poi quello che dovrà succedere al momento dell’ufficializzazione del partito unico: «Se si fa il congresso per il partito unico, Azione e Italia Viva si sciolgono. Se si fa la federazione no. E se chiami il congresso, poi non ti devi stupire che ci siano candidature alternative», chiarisce.
L’umiltà di Renzi
Alle critiche di protagonismo rivolte a Renzi, Boschi replica dicendo che l’ex premier «si è messo da parte con umiltà, caratteristica che pure non è la più renziana». Poi di nuovo sul leader di Azione: «Calenda è diventato ministro grazie a Renzi, ha ottenuto i galloni da leader grazie alla generosità di Italia Viva, non vedo per cosa possa lamentarsi». La deputata di Italia Viva commenta anche la discussione aperta «Matteo Richetti e altri dirigenti di Azione» definendo «inspiegabile» quanto dichiarato finora sul mancato scioglimento del partito: «Prima si faccia il congresso democratico e poi si sciolgano i partiti. In democrazia funziona così».
Richetti: «Ora basta giocare»
A parlare nelle ultime ore è anche il deputato di Azione e capogruppo alla Camera Matteo Richetti: «Sono amico di Renzi: ha annunciato che farà il direttore del Riformista e che avrebbe lasciato la responsabilità di partito a Calenda», spiega a Repubblica. «Poi si è ripreso la presidenza di Italia Viva facendo il contrario». Una posizione analoga a quella del leader del suo partito che ora mette in dubbio le reali intenzioni di Renzi sul progetto del Terzo Polo: «Lo dico con chiarezza: dobbiamo capire cosa vuole fare il nostro compagno di strada», continua Richetti. «Io ricordo che noi abbiamo eletto trenta parlamentari con un simbolo che aveva il nome di Calenda bene in vista: va bene il giochino, ma adesso basta. Dicano cosa vogliono fare e lo facciano».
(da Open)

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QUANTO VALE IN BUSTA PAGA IL MINI TAGLIO DEL CUNEO FISCALE ANNUNCIATO DAL GOVERNO

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

UNA CIFRA MODESTA TRA 25/30 EURO MENSILI

Quanto vale in busta paga il taglio del cuneo fiscale annunciato dal governo Meloni nel Documento di Economia e Finanza? Nel Def, il primo dell’esecutivo, si stanziano 3 miliardi di euro per la riduzione delle tasse sul lavoro.
Il Sole 24 Ore ricorda oggi che il taglio in Finanziaria è costato cinque miliardi di euro. La normativa prevede per il 2023 l’estensione alle retribuzioni lorde fino a 25 mila euro dell’esonero del 3% sulla quota di contributi previdenziali dei lavoratori dipendenti pubblici e privati. Per la fascia successiva, quella tra 25 e 35 mila euro, l’esonero è al 2%. L’effetto sui soldi in più in busta paga è relativamente modesto.
Per i redditi fino a 25mila euro lordi c’è un risparmio mensile di 41,15 euro lordi ed annuo di 493,85 euro. Da 27.500 a 35mila euro di reddito parliamo di una trentina di euro lordi in più in busta paga, 360-390 l’anno. Oggi il cuneo fiscale-contributivo è pagato per due terzi dalle imprese e per un terzo dai lavoratori. Attualmente il carico del cuneo fiscale raggiunge il 46,5% della retribuzione per un lavoratore standard single. Aggiungendo oneri e contributi sociali si arriva a sfiorare il 50%. Si tratta di uno dei livelli più elevati nel mondo.
In tutto ciò, la manovrina di primavera di Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti dovrebbe portare in tasca ai lavoratori della fascia di reddito fino a 25 mila euro lordi annui un aumento nella busta paga mensile pari a 25-30 euro mensili. Ovvero da 300 a 360 euro annui. A stimarlo oggi è il Resto del Carlino.
Ciò sosterrà, secondo il Mef, il potere d’acquisto delle famiglie e contribuirà alla moderazione della crescita salariale. Unitamente ad analoghe misure contenute nella legge di bilancio, questa decisione testimonia, per il ministero, l’attenzione del governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi.
(da agenzie)

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SCHIFANI A CENA NEL RISTORANTE DELLA PALERMO BENE IL CUI GESTORE E’ STATO APPENA ARRESTATO PER SPACCIO DI DROGA

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

PD E M5S: “UN BRUTTO SEGNALE, TIPICO DELLA DESTRA: INUTILI SHOW A FAVORE DI TELECAMERA E AZIONI CHE STRIZZANO L’OCCHIO A COMPORTAMENTI CRIMINALI”

Il governatore della Sicilia a cena nel ristorante gestito dallo chef, che era stato appena arrestato in flagranza per spaccio di droga.
È una polemica sotterranea e velenosa quella che ha animato il week end della Pasqua a Palermo. La scorsa settimana nel capoluogo siciliano è stato arrestato Mario Di Ferro, gestore del Villa Zito, uno dei più noti ristoranti di via Libertà, nel cuore del salotto buono della città.
Da sempre ritrovo della “Palermo bene“, al Villa Zito fanno tappa fissa politici, professionisti e alti burocrati della Regione Siciliana. Anche Giancarlo Migliorisi, il capo della segreteria tecnica della presidenza dell’Assemblea regionale siciliana, era un cliente del Villa Zito.
Ed è proprio Migliorisi l’uomo sorpreso dagli agenti della Squadra Mobile mentre acquistava da Di Ferro tre grammi di cocaina, pagandola con 300 euro in contanti. Lo scambio, avvenuto nel pomeriggio del 4 aprile sotto casa del ristoratore, ha portato all’arresto in flagranza di Di Ferro e alla segnalazione di Miglioresi al prefetto per uso personale.
La notizia dell’arresto è stata diffusa solo due giorni dopo, il 6 aprile, quando alla fine dell’udienza di convalida la gip Ermelinda Marfia ha imposto a Di Ferro l’obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria, respingendo la richiesta di arresti domiciliari avanzata dalla procura guidata da Maurizio De Lucia.
Per Migliorisi, invece, è scattato il licenziamento in tronco, deciso dal presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno. L’esponente di Fdi ha voluto dare un segnale forte, dopo che nei giorni scorsi si era fatto promotore del test antidroga per i deputati regionali, al quale si era sottoposto solo la metà dei consiglieri.
A parte il licenziamento di Migliorisi, però, la “Palermo bene” sembra non essersi scandalizzata più di tanto. Dopo l’arresto di Di Ferro, al Villa Zito le serate sono andate avanti come da programma, con la clientela di sempre.
Pure Renato Schifani, ex presidente del Senato e governatore della Sicilia, si è fatto vedere a cena venerdì sera, in una sala interna del ristorante. L’inquilino di Palazzo d’Orleans è indicato come un cliente abituale del Villa Zito, che è tra i ristoranti preferiti di molti altri big di Forza Italia.
La sua presenza a tavola nel day after dell’arresto per droga del gestore, raccontata dai giornali locali e mai smentita dal diretto interessato, ha sollevato più di qualche perplessità. Soprattutto a livello politico.
Per Sergio Lima, componente della segreteria regionale e della direzione nazionale del Pd, si è trattato di “un brutto segnale, tipico della destra: inutili show a favore di telecamera, come l’analisi del capello all’Ars, e azioni che strizzano l’occhio a comportamenti criminali“.
Il portavoce della mozione Schlein punta il dito contro il governo Schifani, anche perché “non sta investendo un centesimo sulle politiche di riduzione del danno e di assistenza medica e psicologica in contrasto all’uso delle sostanze stupefacenti”. Dello stesso tenore l’intervista rilasciata all’edizione palermitana di Repubblica dal deputato regionale dem, Tiziano Spada: “La politica vive di atti concreti ma anche di segnali. In questo senso la presenza del presidente della Regione a Villa Zito il giorno dopo l’arresto del gestore del locale con l’accusa di spaccio è stata quantomeno inopportuna”
(da il Fatto Quotidiano)

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“LA GUERRA È UN MEZZO DI SCAMBIO CULTURALE”:IL DELIRIO DI MIKHAIL PIOTROVSKY, IL DIRETTORE DELL’ERMITAGE CHE CONTINUA A SPROLOQUIARE IN SOSTEGNO DELL’AMICO PUTIN

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

“LA GUERRA STA CONTRIBUENDO A RAFFORZARE IL SENSO DI AUTOCOSCIENZA NAZIONALE IN UCRAINA. GUARDATE CON QUANTA FORZA SI STA FORMANDO LA NAZIONE UCRAINA”

Mikhail Piotrovsky, il direttore dell’Ermitage che lo scorso anno ha espresso forte sostegno all’invasione russa dell’Ucraina , ha dato una nuova intervista in cui ha descritto la guerra come “un mezzo di scambio culturale che può arricchire reciprocamente le culture in conflitto”.
Parlando con “Rossiiskaya Gazeta”, quotidiano ufficiale del governo russo, in un’intervista pubblicata il 2 aprile, Piotrovsky ha ribadito la sua posizione: «E’ importante per me essere con il mio Paese quando fa una scelta storica. Ovviamente le guerre hanno parzialmente distrutto la cultura, ma in generale c’è stato uno scambio culturale. La guerra sta contribuendo a rafforzare il senso di autocoscienza nazionale in Ucraina. Guardate con quanta forza si sta formando la nazione Ucraina.
Prendete come esempio le crociate. I musulmani impararono dai crociati a costruire potenti fortezze, e i cristiani ricominciarono a fare il bagno nei bagni, ricordando quelli romani… E [i cristiani] presero in prestito beni di lusso: il livello generale di cultura tra i musulmani era allora più alto che in Europa».
Piotrovsky è un sostenitore di lunga data del presidente Vladimir Putin, assiduo frequentatore dell’Hermitage di San Pietroburgo. Anche suo figlio, Boris Piotrovksy, è in politica ed è vice governatore di San Pietroburgo.
Piotrovsky ha aggiunto che la “nuova generazione” di russi deve capire che “il comfort precedente non esiste più”, non solo a causa delle “operazioni militari”, ma anche a causa di “sfide interne”.
Nella sua ultima rubrica mensile per un quotidiano di San Pietroburgo, pubblicata anche in inglese sul sito dell’Hermitage, Piotrovsky sottolinea la necessità del museo di rafforzare i legami culturali con il Medio Oriente e la Cina poiché «stiamo cambiando il nostro focus, allontanandoci un po’ dall’Europa. Stiamo trattando con la Cina per partecipare a una mostra sulla cerimonia del tè; stiamo preparando le Giornate dell’Hermitage a Belgrado… Ci sono molti paesi in cui siamo ben compresi».
(da agenzie)

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MARCO RIZZO E LA CARTINA STRAMPALATA SU TAIWAN, MASSACRATO SUI SOCIAL: “E ALLORA RIPRENDIAMOCI LA CORSICA”

Aprile 12th, 2023 Riccardo Fucile

IL “DUBBIO GEOGRAFICO” DEL PRESIDENTE DEL PARTITO COMUNISTA HA SCATENATO COMMENTI IRONICI E SFOTTO’

«Mi chiedo, ad esempio, come mai le isole Malvinas di fronte all’Argentina, a 12mila km da Londra, possano esser inglesi e invece l’isola di Taiwan, a 100 km dalla costa di Fuzhou, non debba esser cinese».
È bastata questa domanda per scatenare contro Marco Rizzo, ex segretario del Partito Comunista e co-fondatore della lista Italia Sovrana e Popolare, una tempesta di battute e risposte ironiche.
Se la distanza geografica è l’unica cosa che conta, hanno pensato alcuni utenti, ci sono tanti altri confini che si potrebbero riscrivere.
«Allora perché la Corsica non è italiana se si vede dall’isola d’Elba?», si chiede qualcuno. E l’idea sembra aver una certa presa: «Ma infatti, perché Malta non è nostra?», fa notare un altro utente.
Mentre c’è chi vuole passare direttamente ai fatti: «Forza, Città del Vaticano l’abbiamo già circondata», «Andiamoci a riprendere la Corsica, e che c**zo».
Ma ci sono anche utenti che, prendendo alla lettera il ragionamento strampalato di Rizzo, provano ad applicarlo ad altri ambiti della vita quotidiana: «Io vivo a 500 metri dallo stadio Olimpico ma non sono né laziale né romanista. Sono confuso adesso», commenta l’inviato Rai Gianmarco Sicuro. In mezzo a centinaia di commenti di sfottò, ci sono anche utenti che provano a smontare il «dubbio geografico» del presidente onorario del Partito Comunista con argomentazioni più solide. «A parte una recente guerra vinta dal Regno Unito e un referendum finito 99% a 1% per rimanere con UK, beh a Taiwan nessuno vuole la guerra o diventare parte della Cina», fa notare Guglielmo Picchi, ex vice ministro degli Esteri durante il governo Conte I. Mentre il giornalista Simone Turchetti prova a ripartire dall’abc della geopolitica: «Si chiama autodeterminazione dei popoli, è un concetto in voga da un centinaio d’anni».
(da agenzie)

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