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ORSA JJ4, GLI ANIMALISTI QUERELANO FUGATTI PER ISTIGAZIONE A DELINQUERE E TENTATO DELITTO

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

IL PRESIDENTE LEGHISTA DELLA PROVINCIA DI TRENTO NON POTEVA CONFERMARE LA DECISIONE DI UCCIDERE L’ORSA DOPO LA SENTENZA DEL TAR E IGNORANDO LE ALTRE SOLUZIONI POSSIBILI, OVVERO IL SUO TRASFERIMENTO A CURA DELLA LAV

Il Partito animalista europeo ha querelato il presidente della Provincia di Trento, Maurizio Fugatti, per i reati di istigazione a delinquere e delitto tentato in seguito al decreto di abbattimento dell’orsa Jj4 che ha ucciso il runner Andrea Papi in Val di Sole.
L’atto è stato depositato oggi, sabato 15 aprile, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento per il tramite degli uffici dei Carabinieri Legione Lazio dal Partito Animalista Europeo.
Per il presidente del partito animalista, Stefano Fuccelli, «Emerge in maniera chiara la commissione dei delitti riguardante l’istigazione a delinquere, sia nella forma consumata che in quella del tentativo.
Appare evidente – spiega Fuccelli – che il presidente Fugatti abbia voluto istigare alla commissione di un’ipotesi di reato ben precisa, ovvero quella di cui all’art. 544-bis c.p., diretta a sanzionare penalmente l’uccisione di animali, non configurandosi, oltretutto, lo stato di necessità vista la disponibilità delle associazioni di trasferire in altre regioni, sin da subito, gli orsi incriminati, nell’intento di risolvere il problema relativo alla tutela dell’incolumità pubblica. Nonostante Fugatti fosse a conoscenza delle proposte di adozione, ha confermato la decisione di uccidere non solo Jj4 ed Mj5 ma anche un terzo orso», affonda il colpo il presidente del partito animalista europeo, confidando «nelle competenza e terzietà dei magistrati di Trento» e auspicando «una giusta condanna».
Nella giornata di ieri, venerdì 14 aprile, il tribunale amministrativo regionale di Trento aveva sospeso l’ordinanza di abbattimento dell’orsa Jj4. Decisione, questa, bollata come «inaccettabile» dal presidente della Provincia di Trento che se n’era assunto in prima persona la responsabilità.
(da Open)

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IL “CAPITONE” DICE DI VOLER AVVIARE I CANTIERI PER IL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA ENTRO IL PROSSIMO ANNO, MA È IMPOSSIBILE: NON CI SONO I SOLDI, COME CERTIFICATO NEL DEF APPENA PUBBLICATO

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

IL PROGETTO DEL 2012 È ORMAI VECCHIO: GLI ESPERTI SMONTANO PUNTO PER PUNTO LA ROADMAP DEL MINISTRO DEI TRASPORTI: “ANCHE SE COSTRUITO SAREBBE INUTILE, VISTA LA MANCANZA DI QUALSIASI PROGETTAZIONE DI UNA VERA LINEA VELOCE IN SICILIA E CALABRIA”

Quello propagandato dal ministro Matteo Salvini è un Ponte sullo Stretto di carta. Non ci sono i soldi, come hanno messo nero su bianco i tecnici del ministero dell’Economia nel Def appena pubblicato. Costerebbe comunque quasi il doppio in più rispetto alle previsioni di dieci anni fa.
Ma, soprattutto, nelle prime audizioni sul progetto alla Camera, i docenti universitari ed esperti hanno smontato punto per punto la raodmap del leader della Lega.
Salvini con il decreto approvato in Consiglio dei ministri vuole far rivivere il vecchio progetto del gruppo Eurolink (oggi Webuild di Pietro Salini) per avviare i cantieri entro il prossimo anno: «Impossibile avviare i cantieri entro il prossimo anno, il progetto del 2012 è ormai vecchio, e anche se costruito sarebbe inutile per ridurre il traffico aereo e su nave vista la mancanza di qualsiasi progettazione di una vera linea veloce in Sicilia e Calabria», dicono i professionisti ascoltati in questi giorni nelle commissioni congiunte Ambiente e Trasporti.
Un bluff che però serve al ministro per propagandare la grande opera e fare nel frattempo qualcosa di molto concreto: rimettere in piedi il carrozzone nato nel 1981 e chiuso dal governo Monti nel 2013, la società Stretto di Messina.
Il professore Francesco Russo, ordinario di Ingegneria dei trasporti all’Università Mediterranea di Reggio Calabria ha aggiunto: «Occorre fare di nuovo la verifica di sostenibilità e del progetto. Ma a questo punto c’è un problema: le nuove norme sul piano economico e finanziario prevedono condizioni precise. Ad esempio quelle dei ricavi complessivi dal pedaggio e della sostenibilità ambientale riducendo fonti di inquinamento. Ma rispetto a dieci anni fa, quando si parlava di alta velocità in Sicilia e Calabria, per ridurre l’utilizzo di navi e aerei altamente inquinanti, la situazione è cambiata».
Il professore Russo quindi conclude: «In Sicilia si sta facendo una operazione incredibile che va nella direzione opposta al Ponte: la nuova linea ferroviaria Catania-Palermo alla fine collegherà le due città in due ore e con intere parti a binario unico. In Calabria invece il progetto attualmente presentato aumenta i chilometri di rete ferroviaria e non ad alta velocità. Una follia. Con il Ponte ci vorrebbero comunque quasi nove ore da Palermo a Roma. In soldoni forse potrebbe convenire ai messinesi prendere il treno per andare nella Capitale, non certo al resto della Sicilia».
(da La Repubblica)

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LA CORTE D’APPELLO DI MILANO SMENTISCE IL GOVERNO SUL CASO DELLA FUGA DI ARTEM USS

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

SECONDO LA RELAZIONE DEI GIUDICI INVIATA AL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, IL GUARDASIGILLI, CARLO NORDIO, NON AVREBBE INVIATO LA NOTA DEL GOVERNO USA CHE CHIEDEVA DI FAR TORNARE IN CARCERE LA SPIA RUSSA… IL 9 DICEMBRE NORDIO SI SAREBBE LIMITATO A GIRARE LA RISPOSTA CHE LUI STESSO AVEVA DATO A QUELLA NOTA 3 GIORNI PRIMA, IN CUI SPIEGAVA CHE LA COMPETENZA A DECIDERE SUL CARCERE È DELL’AUTORITÀ GIUDIZIARIA… IL GIALLO DEL MANCATO SEQUESTRO DI CELLULARI E COMPUTER

Il ministro Carlo Nordio non inviò alla Corte d’appello di Milano la nota del Dipartimento Usa della Giustizia che chiedeva di far tornare in carcere Artem Uss, a cui erano stati concessi i domiciliari.
Ai giudici il Guardasigilli si limitò a girare il 9 dicembre la risposta che lui stesso aveva dato a quella nota 3 giorni prima con cui spiegava che la competenza a decidere sul carcere è dell’autorità giudiziaria e che la misura degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, è equiparabile alla custodia in carcere. E’ quanto emerge dalla relazione inviata dalla Corte al ministero.
«Questo ministero rappresenta che nell’ordinamento giuridico italiano la misura cautelare degli arresti domiciliari, che nel caso di Artem Uss è resa più sicura dall’applicazione del braccialetto elettronico, è in tutto equiparata alla misura della custodia in carcere».
La risposta, che attraverso «accertamenti ispettivi» sui giudici milanesi il ministero della Giustizia va cercando sul perché il 40enne uomo d’affari russo (accusato dagli americani di contrabbandare petrolio e tecnologie) fosse rimasto nella sua villa di Basiglio agli arresti domiciliari concessigli dalla Corte d’Appello di Milano il 25 novembre 2022, dopo quasi 40 giorni nel carcere di Busto Arsizio dal 17 ottobre, sta in un documento che il ministero della Giustizia è immaginabile conosca bene perché ne fu l’autore: la lettera di risposta il 6 dicembre 2022 alle doglianze con le quali il 29 novembre il dipartimento di Giustizia statunitense aveva «esortato le autorità italiane a prendere tutte le misure possibili» per evitare «l’altissimo rischio di fuga di Uss»: poi davvero evaso dai domiciliari il 22 marzo all’indomani del primo via libera in Appello all’estradizione, banalmente staccando dalla piattaforma wi-fi il braccialetto elettronico e portandoselo via nella fuga organizzatagli dai favoreggiatori in auto verso Slovenia e Serbia, e da qui in Russia.
La rassicurazione fu data dal ministero anche se gli americani nella loro lettera avevano elencato «negli ultimi tre anni sei casi di latitanti fuggiti dall’Italia mentre era in corso una richiesta di estradizione negli Stati Uniti».
Del resto, mentre per legge la Corte d’Appello avrebbe potuto autonomamente ripristinare il carcere solo in caso di violazioni da parte di Uss, a chiederle di rimetterlo in carcere avrebbero potuto essere sia la Procura generale, sia il ministero, che aveva chiesto il carcere all’inizio il 19 ottobre quando Uss già vi si trovava, e al quale l’articolo 714 del codice di procedura conferisce questa facoltà «in ogni tempo» del procedimento: ma neanche il ministero ritenne di chiedere ai giudici di far tornare Uss dai domiciliari al carcere.
E se è intanto evidente che in generale andrà meglio tarato l’utilizzo dei braccialetti elettronici, da capire resta anche la ragione per cui cellulari e computer di Uss, di cui gli americani sin da ottobre 2022 chiedevano all’Italia il sequestro insieme al suo arresto a Malpensa, non siano stati sequestrati dalla polizia operante all’aeroporto, ma solo il 13 marzo 2023 dalla Procura della Repubblica di Milano, alla quale ora chiede lumi la Procura generale.
(da agenzie)

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ADDIO PNRR: IL GOVERNO VUOLE PRENDERE ALTRO TEMPO E NON PRESENTARE LE MODIFICHE AL PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA ENTRO IL 30 APRILE

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

IN QUESTO MODO, IL VIA LIBERA (NON SCONTATO) AI PROGETTI ARRIVEREBBE A FINE NOVEMBRE. E L’ITALIA AVREBBE SOLO UN MESE PER IMPIEGARE LE RISORSE RESIDUE…IN TAL CASO LO STATO RISCHIA DI PERDERE ALMENO IL 30% DELLA DOTAZIONE

Nonostante le richieste della Commissione europea, ribadite anche ieri da Paolo Gentiloni, il governo non presenterà il nuovo Pnrr con il capitolo di RePowerEu entro la fine di aprile. Con ogni probabilità bisognerà attendere fino all’estate. La conferma, indiretta, è arrivata ieri dalla sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Matilde Siracusano: rispondendo a un’interpellanza urgente del Pd, l’esponente di Forza Italia ha sottolineato che il termine del 30 aprile «non è perentorio» e che l’unica scadenza «da osservare» è quella del 31 agosto.
Da un punto di vista prettamente giuridico, l’interpretazione del governo è corretta perché il regolamento dice effettivamente che gli Stati «sono incoraggiati» a presentare i capitoli di RePowerEu «preferibilmente» entro la fine di aprile. Non si tratta dunque di un obbligo legale. Ma per Bruxelles il tempo stringe. E lo spettro di un ulteriore ritardo preoccupa la Commissione europea perché l’Italia rischia di non riuscire a impegnare tutte le risorse del piano che – secondo il regolamento – vanno stanziate entro la fine del 2023 (e poi materialmente spese entro il 31 agosto del 2026).
Una volta presentate le modifiche, la Commissione avrà bisogno di due mesi per dare una valutazione, dopodiché il Consiglio avrà a disposizione un altro mese per approvarle. Nel caso in cui l’Italia inviasse il suo piano a fine agosto, il via libera arriverebbe quindi a fine novembre. E a quel punto il governo avrebbe soltanto un mese per impiegare le risorse residue.
«In tal caso – si legge nelle linee-guida – lo Stato corre il rischio di perdere il 30% della sua dotazione di sovvenzioni». […] La richiesta esplicita è quindi di presentare tutte le modifiche allo stesso momento, cosa che il governo italiano probabilmente farà, anche perché l’intenzione è di spostare sulle politiche di coesione i progetti del Pnrr che non potranno essere completati entro il 2026 e utilizzare le risorse che verranno liberate per finanziare gli interventi del RePowerEu. Ma è ormai scontato che il nuovo piano non sarà pronto entro il 30 aprile. E più passa il tempo, più crescono i timori.
I tecnici della Commissione hanno già sollevato informalmente l’allarme: «Avanti di questo passo, l’Italia rischia di non farcela». […] E le dichiarazioni di ieri di Paolo Gentiloni lasciano poco spazio alle interpretazioni: parlando con i giornalisti italiani a Washington, il commissario all’Economia ha confermato che «è possibile rivedere alcuni progetti di questo piano», ma «è fondamentale che eventuali proposte di aggiornamento o modifiche di correlazione tra Pnrr e fondi di coesione arrivino, in modo da consentire ai miei uffici e ai servizi della Commissione di valutarle».
Detto ancor più esplicitamente: «Per fare le modifiche bisogna che arrivino le richieste e che ci si metta un po’ intorno al tavolo a lavorarci sopra». Cosa che al momento non è avvenuta. Ma non bisognerebbe attendere oltre perché, ha insistito Gentiloni, «prima si riesce a mettersi al lavoro sulle modifiche e meglio è».
(da La Stampa)

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VADE RETRO STAMPA: CON L’ARRIVO DI MARIO SECHI A PALAZZO CHIGI, ALLA MODICA CIFRA DI 180MILA EURO ALL’ANNO, GIORGIA MELONI HA INIZIATO AD EVITARE LE CONFERENZE STAMPA

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

L’ULTIMA È STATA QUELLA FLOP DI CUTRO, DA QUEL GIORNO, LA MELONI HA MANDATO A PARLARE CON I CRONISTI SOLO I SUOI MINISTRI PER EVITARE ALTRE FIGURACCE

Il governo Meloni fa fatica a confrontarsi. Che sia con la stampa o con il parlamento, la strategia preferita è quella della fuga. È il prezzo da pagare alle difficoltà di comunicazione, palesate in questi mesi a ogni curva. La stella polare è il caso Cutro: dopo la tragedia, la premier si è inabissata, limitandosi a parlarne il minimo indispensabile ed evitando addirittura di recarsi al palazzetto dello sport di Crotone per rendere omaggio alle bare delle vittime del naufragio.
Una scelta politica, ma soprattutto di immagine: il timore delle contestazioni ha prevalso sulla funzione istituzionale. E proprio a Cutro, il 9 marzo, si è celebrata l’ultima conferenza stampa, al termine di un consiglio dei ministri, in cui Meloni ha risposto alle domande dei giornalisti.
FIGURACCIA A CUTRO
L’organizzazione della passerella-spot è stata approssimativa, persino le luci si sono rivelate inadeguate, con la scena che era troppo buia. Ma almeno la premier ha risposto, tra uno sbuffo e un’espressione infastidita, annunciando che sarebbe andata «volentieri» a portare l’ultimo saluto a chi era morto in mare. Un’intenzione che è rimasta tale.
Dopo lo scivolone, è calato il sipario sui confronti tra la leader di Fratelli d’Italia e i giornalisti. Ogni settimana si è tenuto un Cdm, ma in conferenza stampa si sono presentati i ministri. E non si può certo dire che siano mancati i temi rilevanti, come il Documento di economia e finanza, il primo firmato dall’esecutivo che traccia l’agenda economica per i prossimi anni.
La motivazione ufficiosa è che Meloni voglia lasciare spazio agli altri componenti della squadra di governo, ma il sospetto è che preferisca svicolare dalle domande sgradite, rivolgendosi agli elettori con il format degli “appunti di Giorgia”. Una comfort zone, senza un contraddittorio.
SCIVOLONI IN SERIE
Da Palazzo Chigi non mancano imbarazzanti fughe di notizie sui provvedimenti, che richiedono immediate marce indietro, creando confusione tra gli addetti ai lavori. Figurarsi tra le persone comuni. Uno degli ultimi casi si è registrato sul decreto per le assunzioni che aveva generato tante aspettative in merito alla stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione. All’atto pratico, però, il testo non ha previsto nulla di tutto questo.
L’elenco prosegue con scivoloni al di fuori dell’ambito istituzionale, come il karaoke di Meloni con Matteo Salvini, alla festa di compleanno del leader leghista. Mentre a Cutro si piangevano i morti annegati, e loro due cantavano.
E dire che Meloni ha voluto potenziare l’organico in materia di comunicazione. Per questo ha corteggiato a lungo l’ex direttore dell’Agi, Mario Sechi, convocandolo a Palazzo Chigi, in qualità di capo ufficio stampa. Pur di averlo alla sua corte ha messo a disposizione uno stipendio da 180mila euro all’anno. La figura si è incasellata tra le altre già presenti nello staff della presidente del Consiglio, a cominciare dalla portavoce e amica di Meloni, Giovanna Ianniello.
DOMANDE SENZA RISPOSTA
L’allergia al confronto non riguarda solo la stampa. Anche in parlamento il governo Meloni fa scena muta, non rispondendo alle interrogazioni arrivate sui tavoli ministeriali. Secondo un rapporto di Openpolis, l’esecutivo ha risposto, fino alla fine di gennaio, solo nel 27,2 per cento dei casi. È il dato più basso dell’ultimo decennio. Il Conte bis aveva un tasso di risposta pari al 30,7 per cento, mentre l’esecutivo di Draghi e il Conte I si attestavano intorno al 33 per cento.
(da “Domani”)

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IL GOVERNO DELLA DESTRA ASOCIALE FA CASSA SUI POVERI: BISOGNA BEN COMPENSARE I MANCATI INTROITI DA PARTE DEGLI EVASORI FISCALI

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

LA RIFORMA DEL REDDITO DI CITTADINANZA ABBASSERÀ LA SOGLIA ISEE DA 9.360 A 7.200 EURO TAGLIANDO FUORI UN TERZO DELLA PLATEA DEL SUSSIDIO

Il governo conferma il suo intento punitivo nei confronti dei più fragili e dei meno tutelati. Come se la povertà fosse un crimine o una colpa da espiare. Presto arriverà la riforma del Reddito di cittadinanza. Lo strumento partorito dal M5S, così come lo conosciamo, dal 2024 andrà in soffitta lasciando spazio ad una nuova misura di sostegno, riveduta e corretta in senso peggiorativo.
Il decreto sul Reddito di cittadinanza è in fase di “chiusura” e “nelle prossime settimane” approderà in Consiglio dei ministri, ha spiegato la ministra del Lavoro, Marina Calderone. Le persone in difficoltà economica considerate occupabili – i cui nuclei familiari non hanno componenti minori, disabili o over 60 – potranno chiedere il nuovo sussidio per 12 mesi, senza possibilità di rinnovo, e per un importo massimo di 350 euro, ovvero il 30% in meno rispetto ai 500 euro previsti come limite per le famiglie dove ci sono componenti meritevoli di maggiore tutela, a cui verrebbero riconosciuti anche 280 euro per l’affitto. Secondo la bozza circolata in precedenza il limite per gli occupabili era fissato a 375 euro. Sono queste le principali novità – secondo le indiscrezioni riportate da Il Messaggero – che saranno introdotte dal provvedimento al quale sta lavorando il Governo per modificare il Reddito di cittadinanza.
Sarebbe rivisto in senso restrittivo il requisito sull’Isee per accedere al nuovo sussidio che non si chiamerebbe più Mia ma “Garanzia per l’inclusione”. Accanto a cui sarebbe previsto un nuovo sostegno denominato “Garanzia per l’attivazione lavorativa”. Per quanto riguarda le persone tra 18 e 59 anni considerate occupabili il sussidio sarà riconosciuto se presenteranno un valore dell’Isee, in corso di validità, non superiore a 6000 euro. Le persone che non possono lavorare, invece, dovranno presentare un Isee inferiore a 7200 euro e un reddito familiare non superiore a 6000 euro, modulato in base a una scala di equivalenza che terrà conto del numero dei componenti del nucleo familiare.
In base alle indiscrezioni del quotidiano romano questa è destinata a cambiare. Se il primo componente vale uno, i minorenni dovrebbero valere solo lo 0,15 nel caso di bambino inferiore a tre anni e lo 0,10% negli altri casi (adesso è pari allo 0,2 mentre nella bozza precedente erano esclusi e veniva prevista un’aggiunta di 50 euro a minore). Dal ministero del Lavoro fanno sapere che il testo non è chiuso e che soprattutto sulla scala di equivalenza c’è ancora una riflessione in corso.
Ma tanto basta per scatenare l’ira dei Cinque Stelle. “Leggendo le anticipazioni di stampa i nostri timori vengono confermati: l’intento di Meloni & Co. è, ancora una volta, fare cassa sui poveri. In un momento in cui l’inflazione continua a mordere e nei prossimi mesi le bollette di luce e gas torneranno ad aumentare, abbassare la soglia Isee da 9.360 euro a 7.200 euro tagliando fuori circa un terzo della platea degli attuali beneficiari del Reddito è una decisione scriteriata. Così come lo è dimezzare il beneficio economico per i cosiddetti ‘occupabili’, che, a dispetto delle bufale propalate in questi mesi dall’esecutivo, restano ancora in attesa dei fantomatici corsi di formazione sbandierati a destra e a manca”, è la denuncia dei parlamentari del M5s nelle commissioni Lavoro di Camera e Senato. Anche in questo caso – spiegano – la logica è chiara: costringerli ad accettare un lavoro purchessia, finanche sottopagato.
(da La Notizia)

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LA LITE RENZI-CALENDA PER 20 MILIONI

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

DAI 10MILA EURO AL MESE PER LE SPESE DEGLI ONOREVOLI AI 4 MILIONI DEI FINANZIATORI (ECCO QUALCHE NOME)

“Renzi non ha mai voluto fare un partito. Messo alle strette ha provato a rifilarci una ‘solà e non gli è riuscito. Allora ha fatto saltare tutto. Ora ignoriamo gli insulti, la cagnara dei finti profili di IV etc. e andiamo avanti a fare politica come l’abbiamo sempre fatta: in modo onesto, trasparente e sui contenuti”.Con un tweet Carlo Calenda tenta di sedare così la montagna di polemiche, insulti e dileggi che accompagnano il naufragio del Terzo Polo, ormai diviso da tutto e unito dall’unico collante della “roba”, cioè i soldi: 14 milioni di spese dei gruppi in 5 anni, 4 milioni già raccolti da finanziatori privati, 1,6 milioni (800mila euro a partito circa) raccolti col 2xmille.
Perché tenere insieme due forze politiche mentre il progetto comune naufraga in una marea di insulti l’abbiamo scritto ieri: per i 14 milioni di euro di fondi che i due partiti perderebbero in cinque anni se si dividessero, perché a quel punto nessuno dei due avrebbe il numero minimo di eletti per formarne uno proprio (20 alla Camera, 6 al Senato) e perderebbe tutti quei soldi.
Per dare la misura, sono circa 10mila euro al mese ciascuno tra auto, sondaggi, multe, collaboratori, materiale di comunicazione etc. Anche da qui si capisce l’urgenza della convenienza senza esser convolati a nozze. Scelta imposta anche da un altro problema che già si profila: ma chi li finanzierà più?
Quando Renzi e Calenda si unirono attorno al progetto di un Terzo Polo riformista il ghota dell’imprenditoria e della finanza si spellò mani e portafogli per quell’impresa che alle politiche aveva raccolto l’8%. Tanto da versare nelle loro casse 4 milioni di euro a titolo di “erogazione liberale”.
Nell’elenco dei finanziatori spicca il patron Prada Maurizio Bertelli che negli due anni ha versato ad Azione 100mila euro. Sempre nella moda la famiglia Zegna, che al Terzo Polo ne ha donati 60mila, quindi Loro Piana che ne ha versati 130mila, l’ultima tranche a fine marzo. Nel settore sanitario c’è il patron di Technit e Humanitas Gianfelice Rocca che ha versato 100mila euro.
Confindustria aveva scommesso tanto nella convinzione che il progetto di Renzi e Calenda avrebbe fatto molta strada: Alberto Bombassei cala una fishes da 100mila euro sul tavolo dei terzopolisti, insieme all’ex presidente Antonio D’Amato, Ad Alessandro Banzato (già Federacciai) e Giovanni Arvedi, alla guida del colosso dell’imprenditoria siderurgica. Scendono in campo anche i signori del cemento come Pietro Salini (Webuild) che punta al Ponte di Messina. E vede crollare quello tra i due beneficiati.
(da Il Fatto Quotidiano)

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RENZI-CALENDA, ANCHE OGGI VOLANO GLI STRACCI. CALENDA: “MAI RICEVUTO CONDANNE O ACCETTATO SOLDI DA DITTATORI”

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

RENZI: “PIU’ CHE UN LIBERALE PARE UN GRILLINO”

Nel weekend che segue la traumatica rottura tra Italia Viva e Azione sul progetto di partito unico del Terzo Polo, volano gli stracci tra i leader delle due formazioni, Carlo Calenda e Matteo Renzi. Che dopo mesi di lunghe e complicate trattative, definitivamente naufragate questa settimana, di sassolini dalle scarpe da togliersi ne avevano parecchi. A farlo per primo, questa mattina, è stato il fondatore di Azione, che prima di imporre ai suoi un «rigido silenzio stampa» sulla vicenda ha voluto rispondere punto per punto a tutte le accuse ricevute, più o meno esplicitamente, negli scorsi. Con un lungo post sui social, Calenda prende di mira Matteo Renzi, ma anche Emma Bonino – che lo ha definito un «voltafaccia» – e Francesco Bonifazi. «Ho rotto con il PD quando ha tradito la parola alleandosi con Renzi e i 5S. Ho rotto con Letta quando ha trasformato l’agenda Draghi in quella Bonelli/Fratoianni/Di Maio. Non sono caduto nella fregatura di Renzi e Boschi sul finto partito unico», scrive su Facebook. Precisa che «gli Ego o la litigiosità non c’entrano nulla. Tutti i politici hanno un Ego. Per quello di Bonino consiglio di rileggersi Pannella». Il fulcro della questione, per il leader di Azione, è «la volontà di fare politica in modo serio, onorevole e onesto». Ed elenca così tutta una serie di dinamiche a cui lui non si sarebbe mai sottoposto nella sua carriera politica.
«Lasciamo la melma a chi ci sta bene dentro»
«Nella vita professionale non ho mai ricevuto avvisi di garanzia/rinvii a giudizio/condanne pur avendo ruoli di responsabilità. Non ho accettato soldi a titolo personale da nessuno, tanto meno da dittatori e autocrati stranieri», dichiara. «Non ho preso finanziamenti per il partito da speculatori stranieri e intrallazzatori. Non ho mai incontrato un magistrato se non per ragioni di servizio. Mai sono entrato nelle lottizzazioni del CSM», aggiunge.
Si giustifica poi con Bonifazi che lo ha accusato di assenze: «È una classifica fatta su 25 giorni di voti già superata. Quando non ero in Senato ero a fare iniziative sul territorio per Azione e IV. Non ero a Miami con il genero di Trump o in Arabia a prendere soldi dall’assassino di Khashoggi». Infine, chiude dicendo: «Lasciamo la melma a chi ci sta bene dentro».
La replica di Renzi: «Attacchi da grillini, non da liberal-democratici»
Nell’arco di poche ore, ecco servita la replica – altrettanto lunga e circostanziata – dell’ex premier. Che ovviamente riversa sull’ormai ex alleato le responsabilità della rottura. «Ho fatto di tutto per evitare di giungere a questo epilogo. Ci ho creduto ma non ci sono riuscito», premette Renzi nella sua E-news di oggi, sabato 15 aprile, riconoscendo che «chi ha avuto responsabilità in questo fallimento debba chiedere scusa. E io lo faccio – per la mia quota parte – con la consapevolezza che ho fatto di tutto fino all’ultimo per evitare il patatrac». Ma dal momento che i suoi numerosi tentativi di ricomporre le fratture – dice – non hanno potuto evitare la rottura, ecco il benservito a Calenda. Gli attacchi «giustizialisti» dell’ex ministro e dei suoi sono «tipici dei grillini, non dei liberal-democratici». Renzi, in sostanza, che lanciò Calenda in politica nel maggio del 2016 “assumendolo” come ministro dello Sviluppo, lo accusa ora in sostanza di irriconoscenza. «Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando c’era bisogno del simbolo di Italia Viva per presentare le liste. Lo ero anche quando ho sostenuto Calenda come leader del Terzo Polo, come sindaco di Roma, come membro del Parlamento europeo. O addirittura quando l’ho nominato viceministro, ambasciatore, ministro», ricorda velenoso Renzi. Che stigmatizza, dell’ex alleato, il «garantismo di chi paragona un avviso di garanzia a una condanna, l’arte politica di chi distrugge un progetto comune per la propria ira, la serietà di chi attacca le persone per non confrontarsi sulle idee». Fine di un’alleanza. L’amicizia, quella, se mai era esistita, era finita da tempo.
Le prossime tappe dell’avventura renziana
Che farà quindi ora Renzi? Direzione del Riformista e laute conferenze in giro per il mondo a parte, c’è da riprogettare la direzione di marcia di un partito. Ecco come, spiega l’ex premier nella sua E-news. «Nei prossimi giorni partirà il congresso democratico, dal basso, di Italia Viva. Quello che volevamo fare insieme ad Azione, in modo civile e libero, lo faremo con chi ci sta. Prima i comuni, poi le province, poi le regioni». Sguardo più lungo, alla campagna elettorale per le Europee della prossima primavera. A cominciare dall’appuntamento di rito per i seguaci di Renzi. «Faremo la Leopolda l’8-9-10 marzo 2024 cercando di portare tante belle esperienze a discutere, a condividere i sogni, a ragionare di politica». E alle Europee, ribadisce, «cercheremo di stare con chi ha voglia di credere nel riformismo e non nel sovranismo della Meloni o nel massimalismo della Schlein. La nostra casa è Renew Europe, il nostro leader Emmanuel Macron».
Ultima tappa del percorso previsto, in vista delle prossime elezioni politiche: «Dopo le europee, con le primarie e il voto diretto degli iscritti, eleggeremo il leader o la leader che ci guiderà verso le Politiche. Cercheremo di allargare a chi ci sta, senza rinchiuderci in casa nostra. Apriremo ai mondi del cattolicesimo democratico, liberali, riformisti». Il progetto del partito unico, grosso modo, ma senza Calenda e i suoi uomini. A la guerre come à la guerre.
(da Open)

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È INIZIATA LA CAMPAGNA ACQUISTI DI RENZI PER FARE UN GRUPPO AUTONOMO AL SENATO E FREGARE DEFINITIVAMENTE CALENDA

Aprile 15th, 2023 Riccardo Fucile

BASTA UN SENATORE PER SEPARARE LE STRADE DI “ITALIA VIVA” DA QUELLE DI “AZIONE”: STAREBBE PROVANDO A CONVINCERE DAFNE MUSOLINO DI “SUD CHIAMA NORD”

Ufficializzato il divorzio da Calenda, Renzi prepara il campo per una nuova mossa del cavallo. Lo schema, già collaudato con successo con la manovra di palazzo che defenestrò Conte e aprì le porte di Palazzo Chigi a Draghi, ha lo stesso obiettivo della precedente legislatura: rimanere al centro del campo politico, pur controllando solo 14 parlamentari: 5 al Senato e 9 alla Camera.
Il primo passo è quello di rimettersi in proprio. Niente partito unico? Si torna a Italia viva, con gruppi autonomi alle Camere. Come? Regolamenti parlamentari e numeri alla mano, l’operazione non sembra nemmeno troppo complicata.
A Montecitorio la federazione renzian-calendiana conta su 21 deputati: 9 sono con l’ex premier e 12 con il leader di Azione. In questo caso, per avere un gruppo autonomo , serve un minimo di 20 eletti: assai difficile che riesca. Ma poco importa, per l’«Operazione Machiavelli 3.0».
Perché il gioco sembra molto più facile al Senato: su 9 eletti, 5 sono di Italia viva e 4 di Azione. Qui, a differenza di Montecitorio, prima che finisse la vecchia legislatura è stato approvato un nuovo regolamento per il funzionamento della «macchina», adeguandolo al taglio dei parlamentari.
La conseguenza? Per costituire un gruppo autonomo bastano 6 senatori. E Renzi avrebbe già avviato trattative per reclutare il senatore mancante, anche se i nomi che circolano sono più d’uno.
Il primo: Dafne Musolino di Sud chiama Nord. Ma Cateno De Luca, pirotecnico deputato regionale in Sicilia, mette le mani avanti: «Sappiamo che ci sono movimenti in corso, la campagna acquisti è iniziata. Lo voglio dire a scanso di equivoci, noi non siamo in vendita».
Comunque, se la mossa del cavallo andasse in porto, di riflesso Renzi azzopperebbe anche l’ormai fu alleato, che se non riuscisse a fare un’analoga campagna acquisti finirebbe nel gruppo Misto.
Renzi ha in testa una prospettiva a medio termine, investendo sul «fattore Forza Italia» e scommettendo su uno smottamento del contenitore berlusconiano. «Lavoro per costruire quella che è un’esigenza dell’Italia: uno spazio di libertà che c’è e non possiamo buttarlo via. Calenda ha deciso che il partito unico è morto, ma c’è uno spazio».
Che l’ex sindaco di Firenze se ne stia inventando un’altra delle sue, Calenda sembra averlo già capito: «Alle Europee ci saranno due partiti che andranno separati», mette le mani avanti. «Renzi? Sembra quello che ti vende la Fontana di Trevi…».
(da il Corriere della Sera)

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