Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
LA GUARDIA COSTIERA ITALIANA NE SALVA ALTRI 150
Nella notte di Natale la nave umanitaria Sea Watch ha soccorso oltre cento persone nei Mediterraneo centrale.
In due diverse operazioni l’equipaggio della nave Ong tedesca ha tratto in salvo per la precisione 118 persone, tra cui anche un bimbo di soli tre anni. “Ora si trovano al sicuro a bordo della Sea Watch 5”, hanno fatto sapere dalla Sea Watch, confermando che le autorità italiane competenti hanno assegnato Marina di Carrara come porto sicuro di sbarco.
“Non ci fermiamo, neanche la notte di Natale: in due diverse operazioni di soccorso, il nostro equipaggio ha appena salvato 118 persone che ora si trovano al sicuro a bordo della Sea Watch 5. Il naufrago più piccolo ha solo 3 anni”, hanno scritto i soccorritori su X.
“Nelle ultime ore, in coordinamento con Roma, la Sea-Watch 5 è rimasta a sud di Lampedusa per coadiuvare le ricerche di un peschereccio con circa 150 persone a bordo”, hanno anche fatto sapere dalla Ong. Il peschereccio è stato poi individuato e soccorso da due motovedette della Guardia costiera italiana a poca distanza: dovrebbe sbarcare a Lampedusa nelle prossime ore, mentre la Sea-Watch 5 ha ripreso il suo viaggio verso Nord.
Nei giorni scorso l’Organizzazione internazionale delle migrazioni ha diffuso alcuni dati sui morti in mare nel 2023. “Quest’anno nel Mediterraneo centrale sono morte 2.271 persone, il 60% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (1.413)”, ha scritto su X Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim.
“È inaccettabile che l’Ue scelga di proteggere i suoi confini piuttosto che la vita delle persone. Quest’anno nel Mediterraneo centrale sono morte 8 persone al giorno, questo numero continua a crescere anno dopo anno”, accusa Medici senza frontiere, che si trova nel Mediterraneo con una nave umanitaria. L’Ong conclude: “Le persone che soccorriamo nel Mediterraneo portano i segni delle violenze addosso: arti spezzate, cicatrici, gravidanze indesiderate. E l’Europa cosa fa? L’Europa respinge. Gli Stati dell’Unione europea stanno facendo di tutto per evitare che le persone arrivino in Europa. Erigono barriere, fanno accordi con Paesi terzi, respingono e riportano indietro chi cerca di scappare da posti non sicuri. O più semplicemente si rifiutano di aiutare chi è in pericolo. Come Malta che ignora le richieste di aiuto in mare. O come l’Italia che con le sue leggi ostacola il lavoro di ricerca e soccorso in mare delle organizzazioni non governative e ci assegna porti sempre più lontani. Quante altre persone devono morire prima che le cose cambino davvero?”.
(da Fanpage)
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Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
COSI’ IL CETO MEDIO NON PUO’ PIU’ PERMETTERSI LA CITTA’
Le bollette nelle buche delle lettere, quei prezzi dei prodotti negli scaffali dei supermercati sempre più alti e poi i costi della benzina e gli aumenti degli abbonamenti del trasporto pubblico: il caro vita colpisce indiscriminatamente gli italiani. Tante famiglie non riescono più a risparmiare, anzi sempre più persone ricorrono a quel gruzzolo accumulato nel corso degli anni per affrontare le spese quotidiane. Tagliare il superfluo spesso non basta. Gli stipendi italiani non crescono, sono tra i più bassi d’Europa e anche quelli che stanno diminuendo di più a causa dell’inflazione. Chi la casa l’ha acquistata si ritrova ad affrontare il problema dell’aumento dei tassi di interesse dei mutui. Chi invece non ha una casa di proprietà – e al mutuo non può accedere – deve fare i conti con i prezzi degli affitti che schizzano verso cifre ormai fuori dalla portata di tante famiglie. In media nell’intero territorio italiano dal 2015 a oggi i prezzi degli affitti sono aumentati quasi del 40%: a Milano, come ormai noto, le famiglie sono costrette a confrontarsi con i canoni più alti del Paese. In media servono più di 2.000 euro al mese per potersi permettere il sogno di un appartamento da 100 metri quadrati in zona urbana o in centro. La situazione del capoluogo lombardo è emblematica ma non un’eccezione. Inaspettatamente, si registra una situazione altrettanto estrema anche a Bologna, la città universitaria italiana per eccellenza. Teoricamente per la casa bisognerebbe spendere massimo il 30% del proprio stipendio, ma questo è impossibile anche a Firenze, solo per fare un altro esempio. In tante città gli affitti sono diventati inaccessibili anche per il cosiddetto “ceto medio”, in particolare famiglie con due lavoratori che iniziano a spostarsi alla ricerca di canoni meno eccessivi. “Quello che si intravede è il rischio di centri urbani abitati da soli anziani e ricchi”, spiega al fattoquotidiano.it Massimo Bricocoli, docente di Politiche Urbane e Housing e direttore del dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.
I prezzi in Italia – Negli ultimi otto anni, infatti, è cresciuto di 39,7 punti percentuali il prezzo dell’affitto medio in Italia passando (secondo i dati diffusi dal portale Immobiliare.it) da 9,2 euro al metro quadro dell’agosto del 2015 ai 12,9 €/m² del novembre 2023. La città con gli affitti più cari si riconferma Milano con un prezzo medio che ha raggiunto 22,7 €/m² segnando un aumento di oltre il 71% rispetto al 2015 (quando il prezzo medio era di 13,3 €/m²). In parole povere per un appartamento di 80 metri quadrati all’interno del Comune di Milano il prezzo medio si aggira intorno a 1.800 euro al mese, contro poco più di 1.000 euro di otto anni fa. Una media tra gli appartamenti di lusso del centro cittadino e le abitazioni delle periferie, dove comunque i prezzi anche qui continuano a crescere di anno in anno. Al secondo posto, tra le grandi città, c’è Firenze con 20,5 €/m² (+53% in otto anni) mentre chiude il podio Bologna con 17,63 euro di affitto medio al metro quadro che segna però la variazione maggiore rispetto al 2015: +72,8%. Al quarto posto Roma che con 15,6 €/m² di affitto medio con una variazione negli ultimi otto anni inferiore (poco meno del 10%) rispetto alle altre metropoli.
La fuga dalle città – Il professore Massimo Bricocoli è anche il responsabile dell’Osservatorio Casa Abbordabile (Oca) di Milano Metropolitana nato proprio con l’obiettivo di monitorare le dinamiche di “abbordabilità” della casa: cioè la sostenibilità dei costi abitativi rispetto ai redditi. Il primo report presentato dall’Osservatorio si intitola proprio “Non è una città per chi lavora” e mette in evidenza come nel capoluogo lombardo la condizione lavorativa non è sufficiente per abitare la città ed emerge evidente anche il rischio di una progressiva espulsione da Milano di individui e nuclei familiari. E a essere interessati non sono solo i lavoratori poveri, ma anche le famiglie del ceto medio costrette a orientarsi verso i comuni dell’hinterland milanese. “Un fenomeno che è in corso ed è molto evidente – spiega Bricocoli – e interessa non solo Milano ma anche altri centri urbani attrattivi“. Infatti anche se i prezzi degli affitti medi aumentano in tutte le grandi città italiane (Napoli +22%, Torino +32%, Palermo +27% e Genova +6%), in molte – con qualche sacrificio in più – è ancora possibile trovare prezzi “abbordabili” (con medie di 13,4 €/m² a Napoli, 10,8 €/m² a Torino, 8,4 €/m² a Palermo e 8,5 €/m² a Genova). Colpiti dal fenomeno sono invece anche piccoli centri di località turistiche in cui chi lavora in quelle città ha difficoltà ad affittare un appartamento.
Le categorie colpite – “Noi mettiamo in evidenza – afferma Massimo Bricocoli – che non è solo un problema dei lavoratori del mondo dei trasporti e degli infermieri, che spesso sono visti come gli appartenenti alle categorie più necessarie alla città e che hanno un reddito contenuto. Ma coinvolge anche gli insegnanti, i ricercatori universitari fino ad arrivare ai medici ospedalieri. In molti casi riguarda anche quadri della pubblica amministrazione, per esempio”. È il caso di vincitori di concorsi per ruoli nella Pubblica amministrazione che hanno rinunciato al posto di lavoro: “Perché quando verificano le condizioni complessive, se vengono da contesti dove le spese sono più basse rinunciano al posto nonostante, magari, avrebbero ottenuto anche un reddito più alto“. In contemporanea crescono i contratti a breve termine: “Si passa sempre più da contratti 4+4 a contratti che sono su base annuale. E questo fa sì che a ogni scadenza – spiega Bricocoli – il proprietario di casa può decidere di alzare l’affitto. E questa è una dinamica vorticosa“. E le famiglie? “Qualsiasi nucleo familiare che ha intenzione di crescere, alle attuali condizioni, in città non trova le condizioni abitative per immaginare di avere dei figli”. Ecco allora la conseguenza: la fuga dalla città. “Chi ha la necessità di stare in prossimità del posto di lavoro, inizia a cercare altrove, all’esterno della città. Con una riduzione dei costi della spesa ma con un investimento in tempi di trasferimento molto consistente, con le criticità anche dei trasporti pubblici”, sottolinea il docente del Politecnico.
La simulazione – Una delle novità introdotto dalla ricerca dell’Osservatorio Oca è proprio il concetto di abbordabilità: cioè quanti metri quadrati un lavoratore potrebbe permettersi a Milano partendo dal principio che la spesa dell’affitto non dovrebbe superare il 30% dello stipendio netto. Il fattoquotidiano.it ha provato a replicare i calcoli (in modo meno scientifico di quanto fatto da Oca) sulle principali città italiane tenendo conto degli stipendi medi italiani elaborati dall’Osservatorio JobPricing (reddito netto di 1.524 euro al mese per un operaio, 1.818 per un impiegato e 2.668 per un quadro) con gli affitti medi al metro quadro del portale Immobiliare.it aggiornati a novembre 2023. Quello che viene fuori è che un operaio a Milano potrebbe permettersi poco più di 20 m², 22,3 a Firenze, 26 m² a Bologna, 29,4 a Roma, 34 a Napoli, 40 a Bari, 42 a Torino. Meglio a Genova e a Palermo dove per un operaio i metri quadri abbordabili sono rispettivamente 53 e 54. Cifre che andrebbero moltiplicate per due nel caso di una famiglia composta da due operai. Per gli impiegati va poco meglio: sarebbero abbordabili 24 m² a Milano (48 per una coppia di impiegati), 26,5 a Firenze, quasi 31 a Bologna, 35 a Roma, 40,5 a Napoli, 48,6 a Bari, oltre 50 a Torino, 64 a Genova e 65 a Palermo. Per i quadri con uno stipendio da quasi 2.700 euro netti al mese sarebbero abbordabili 35 m² a Milano, 39 a Firenze 45,4 a Bologna, oltre 51 a Roma, quasi 60 a Napoli, oltre 71 a Bari, quasi 74 a Torino, 94 a Genova e 95 a Palermo.
L’impoverimento degli italiani – Di fatto gran parte degli italiani in affitto, nei grandi centri, investe una percentuale di gran lunga superiore al 30 percento del suo reddito. Non solo, per molti uscire fuori dalla spirale del caro affitti è un’impresa impossibile. Nonostante l’aumento dei tassi di interesse, in media – secondo i dati Nomisma – la rata di un mutuo è del 20% inferiore al costo mensile dell’affitto (nel 2012 erano i mutui a essere del 13% più alti), l’acquisto di un appartamento è un miraggio per molte famiglie. Tra inflazione, caro bollette e gli stessi affitti, tanti italiani attingono sempre più ai loro risparmi. “Chi non riesce ad accedere al mutuo perché non ha quel 20% di capitale iniziale da potere anticipare, è costretto suo malgrado a continuare a rimanere in affitto”, spiega al fattoquotidiano.it Fabrizio Esposito, segretario nazionale del Sindacato inquilini casa e territorio (Sicet): “E proprio perché paga troppo di affitto – aggiunge – inevitabilmente si impoverisce e tende a scivolare indietro, più o meno velocemente, verso l’area del disagio“. Per Esposito la nostra società “si apre sempre più tra inclusi ed esclusi e nell’area dei potenziali esclusi rischiano di finire persone che lavorano. Quindi c’è qualcosa che non va”, sottolinea. “Il vero responsabile di questa emergenza è il mercato degli affitti fuori controllo, da anni lasciato totalmente libero e che nessuno vuole toccare. Allo stesso tempo non bisogna dimenticare i più poveri, quelli in lista d’attesa per l’assegnazione di case popolari, proprio mentre l’emergenza abitativa si fa sempre più complessa”.
Le storie – Infatti mentre il ceto medio sempre più impoverito inizia a lasciare le città alla ricerca di affitti più a portata di mano, chi negli anni scorsi riusciva, con tante difficoltà, ad arrivare a fine mese oggi finisce a pieno titolo nel mondo della povertà. È il caso di Ludovica che insieme al marito e ai suoi 2 figli vive a Milano: lui lavoratore dipendente come operaio muratore, lei lavora alcune ore come colf. Da 10 anni vivono nello stesso appartamento e adesso l’affitto è aumentato a 900 euro così come le spese. “Non vogliono arrivare allo sfratto per morosità ma non troviamo nessuna soluzione”, lamentano. Gianni, invece, lavora full time in un ristorante mentre la moglie ha un impiego part time. Nella casa dove vivono con i loro due figli è scaduto il contratto e il proprietario ha aumentato l’affitto da 800 a 1.100 euro: “Stiamo cercando una casa fuori Milano – raccontano – ma siamo molto preoccupati, il cambio di scuola sarà un problema per i bambini e ci mancherà la rete di solidarietà della zona dove abbiamo vissuto per tanti anni”. Maria ha 72 anni ed è pensionata: lo stabile dove viveva era di proprietà di un ente pensionistico (pagava 500 euro comprese le spese). Ora l’immobile è stato venduto e la società immobiliare ha inviato gli sfratti per finita locazione agli inquilini. “Con mille euro al mese di pensione è difficilissimo trovare un’altra sistemazione”, dice preoccupata. A Roma c’è Loredana 47enne mamma single di una ragazzina di 13 anni. Da 420 euro al mese le è stato proposto un rinnovo contrattuale con un canone di 750 euro, ma lei ne guadagna solo 1.200: “Non riesco, ho una figlia ed è già una battaglia arrivare alla fine del mese”
La situazione a Milano, Roma e Torino – Sono solo alcune delle storie delle persone che si rivolgono agli sportelli di Sicet. “Qui il problema è il mercato, ormai fuori controllo e i prezzi sono irraggiungibili per sempre più persone”, spiega Mattia Gatti referente di Milano. “Il sogno di avere un costo della casa intorno al 30% dello stipendio qui è irrealizzabile, non esiste proprio”, racconta Paolo Rigucci responsabile di Sicet Roma: “Per una famiglia con figli, ovviamente, ancora peggio. Nella capitale – aggiunge – è la diffusione dei b&b uno dei problemi più gravi. C’è sempre più carenza di case e i prezzi crescono. Ormai soffrono anche le persone che hanno un reddito costante“. E anche in città meno “care” come Torino cominciano a registrarsi sempre più situazioni di disagio. “Stiamo constatando che la cosiddetta fascia grigia, quelli che riuscivano in qualche modo a stare in locazione privata, oggi risultano essere troppo poveri per il mercato degli affitti privati ma troppo ricchi per l’edilizia residenziale pubblica”, afferma Simone Pensato che sottolinea anche l’aumento nel capoluogo piemontese degli sfratti per fine locazione. “Un dato che a Torino è il più alto degli ultimi 10 anni ed è un dato allarmante che ci segnala – conclude – la tendenza dei proprietari ad aumentare gli affitti o orientarsi verso il mondo dei più redditizi affitti brevi o turistici”.
(da il ilfattoquotidiano.it)
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Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
FESTEGGIARE IL 25 DICEMBRE E’ UNA ABITUDINE MOLTO PIU’ ANTICA DELLA NASCITA DI GESU’
Festeggiare il 25 dicembre è una abitudine molto più antica della nascita di Gesù. Horus in Egitto, Mitra per gli indo-persiani e il Dio del Sole babilonese erano tutte divinità festeggiate in occasione del solstizio d’inverno. Del resto è un passaggio astronomico importante, che segna il ritorno del sole nell’emisfero boreale. E infatti festeggiavano anche i Celti e pure i Romani, che con i Saturnali si scambiavano anche doni quale forma di augurio.
Quando sia nato effettivamente Gesù i Vangeli non lo dicono.
La prima volta che ricorre la data del 25 dicembre è nel Cronographus di Furio Dioniso Filocalo. Era l’anno 336 d.C., la religione cattolica era entrata di diritto nell’Impero romano e sotto il pontificato di papa Giulio I si decise di far confluire feste pagane e feste religiose. Alcuni invece ritengono che già un centinaio di anni prima si celebrasse la nascita di Gesù il 25 dicembre. Ma oggi poco importa.
Quello che importa è soprattutto che noi oggi festeggiamo il Natale perché lo prevede una legge dello Stato italiano.
Eh sì. Perché sappiamo che la legge regola tutti gli aspetti della nostra vita e anche le festività. Cioè i giorni che troviamo in rosso sul calendario lo sono soltanto perché è la legge 27 maggio 1949, n. 260 a disporlo. Reboante fin dal titolo “Disposizioni in materia di ricorrenze festive”.
Poi contiene un elenco preciso. Oltre al 2 giugno, data di fondazione della Repubblica, sono da considerare “giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici”, i giorni seguenti: tutte le domeniche; il primo giorno dell’anno; il 25 aprile, anniversario della liberazione; il giorno di lunedì dopo Pasqua; il 1 maggio: festa del lavoro; il giorno dell’Assunzione della B. V. Maria; il giorno di Ognissanti; il giorno della festa dell’Immacolata Concezione; il giorno di Natale; il giorno 26 dicembre.
Curioso vero? A dire la verità la cosa più curiosa è che la legge del 1949 in origine prevedeva altre sei festività e cioè: il giorno dell’Epifania; il giorno della festa di San Giuseppe; il giorno dell’Ascensione; il giorno del Corpus Domini; il giorno della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo; il 4 novembre: giorno dell’Unità nazionale; ma alla fine degli anni ’70 il Governo Andreotti in anni di austerity decise di modificare il calendario e cancellare un po’ di feste, per aumentare la produttività sul lavoro ed evitare il rischio di troppi “ponti”. Con la L. 5 marzo 1977, n. 54, di cui fece le spese anche la festa nazionale del 2 giugno spostata di diritto alla prima domenica di giugno.
I lavoratori dipendenti furono subito compensati di tale “furto legale”: infatti ben presto nei contratti collettivi furono aggiunte le “festività soppresse” cioè un numero di giorni aggiuntivi di ferie da godere a piacimento, per recuperare il maltolto.
Ma poi le festività cancellate sono incredibilmente cominciate a tornare. Prima la Befana e il Santo patrono di Roma (29 giugno), con il D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 792, subito dopo che Craxi aveva firmato il nuovo Concordato di Villa Madama.
Poi anche la festa nazionale, ripristinata al 2 giugno con la legge 20 novembre 2000, n. 336. Le altre festività invece sono rimaste soppresse, ma i lavoratori dipendenti continuano a goderne contrattualmente, comunque.
Ma torniamo al Natale. Ma prima del 1949 in Italia non si festeggiava?
Certo che sì. In verità il primo atto sulle festività dello Stato Italiano è il Regio Decreto 17 ottobre 1869, n. 5342 Col quale “viene esteso per gli effetti civili a tutto il Regno il Calendario dei giorni festivi già in uso nelle antiche Provincie dal 6 settembre 1853 in appresso”.
In quell’elenco – conservato nelle preziose carte dell’Archivio di Stato di Torino – mancavano feste a noi ben care, Santo Stefano e Capodanno. Perché erano considerati festivi: tutti e singoli i giorni di domenica, il giorno di Natale, della Epifania, della Ascensione di N.S.G.C, della Concezione, della Natività della B.V.M, della Assunzione, del SS. Corpo di Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, di Ognissanti, del celeste Patrono di ciascuna diocesi, citta’ o terra.
Poi il Regno cominciò ad ampliare le feste
Con la legge 23 giugno 1874, n. 1968 venne aggiunta la festività del primo giorno dell’anno. Poi con la legge 19 luglio 1895, n. 401, il 20 settembre (anniversario della Breccia di Porta Pia) E con regio decreto-legge 23 ottobre 1922, n. 1354 il 4 novembre anniversario della Vittoria.
E il regime fascista abbondò con feste ulteriori. Con Regio decreto-legge 19 aprile 1923, n. 833 il 21 aprile giorno commemorativo della fondazione di Roma. Con regio decreto 10 luglio 1925, n. 1207 , a partire dal 1926, il 4 ottobre in onore di San Francesco d’Assisi. Con legge 6 dicembre 1928, n. 2765 il giorno 19 marzo dedicato a San Giuseppe. Con legge 27 dicembre 1930, n. 1726 l’anniversario della Marcia su Roma il 28 ottobre più una serie di solennità civili: il giorno 11 febbraio: anniversario della stipulazione del Trattato e del Concordato con la Santa Sede: il giorno 23 marzo: anniversario della fondazione dei Fasci; il giorno 24 maggio: anniversario della dichiarazione di guerra; il giorno 12 ottobre: anniversario della scoperta dell’America; il giorno 11 novembre: genetliaco di S. M. il Re.
Quante feste… Servirà la Repubblica a mettere ordine nelle festività aggiungendo anche il nostro caro Santo Stefano, ma siamo alla legge n. 260 del 1949, tuttora vigente.
(da agenzie)
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Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
I PRIMI GIOCHI “ELETTRONICI” ERANO I FLIPPER, INTRODOTTI NEI BAR NEL 1947, MENTRE IL PRIMO VIDEOGIOCO VENNE INVENTATO NEL 1958 DA UN FISICO NUCLEARE RITOCCANDO UN OSCILLOSCOPIO A TUBO CATODICO
Fuggire a dei coloratissimi fantasmini in un labirinto, affrontare a colpi di cannone laser dei massicci asteroidi che arrivano da ogni direzione, vestire i panni di un rotondetto idraulico baffuto che scavalca barili lanciati da un gorilla per salvare la fidanzata: le storie dei videogiochi sono innumerevoli, e la storia dei videogiochi, che è una sola ma caleidoscopica, le comprende tutte mischiandole con il guazzabuglio di idee, emozioni e aneddoti delle persone che hanno reso possibile tutto questo.
La ripercorre un libro illustrato, La storia dei videogame in 64 oggetti (HarperCollins), opera di Jon-Paul Dyson e Jeremy Saucier, curatori della World Video Game Hall of Fame. Questa collezione permanente, istituita allo Strong National Museum of Play di Rochester, conta oggi oltre 60.000 giochi e centinaia di migliaia di materiali d’archivio che documentano l’evoluzione dei giochi elettronici nell’ultimo mezzo secolo.
A partire dall’antesignano: il flipper Humpty Dumpty di Gottlieb, prima macchina dotata di palette elettromeccaniche, che apparve nei peggiori bar di quartiere nel 1947. «In realtà i primi flipper risalgono al 1931: assomigliavano all’antico gioco di società “Bagatelle”, già in voga in Francia nel 1700, dove bisognava spingere delle biglie dentro delle buche incavate in un piano di legno evitando dei chiodi posti a mo’ di ostacolo» spiega Jon-Paul Dyson.
«La rivoluzione di “Humpty Dumpty” sono le palette, che introducono un minimo requisito di abilità in un gioco dove la forte componente casuale evocava lo stigma sociale del gioco d’azzardo». Proprio così: l’allarme morale nasce insieme alle sale giochi, non è spuntato fuori negli ultimi vent’ anni
«Uno dei videogiochi che creò più polemiche fu, nel 1976, Death Race» spiega Jon-Paul Dyson. «Si trattava di un gioco di guida molto particolare, ispirato a un film grottesco del 1975 Anno 2000 – la corsa della morte. Nel film gli Stati Uniti erano diventati un regime totalitario che, per blandire il popolo con dei “circenses”, organizzava una gara automobilistica in cui per fare punti bisogna investire i pedoni».
E infatti nel videogioco si controllava un’automobilina che scorrazzava sullo schermo tentando di arrotare figurine antropomorfe che – con una certa ipocrisia – erano definite “gremlin”.
E pensare che i primi videogiochi elettronici erano nati in un ambiente serissimo, quello dei laboratori del progetto Manhattan. «Siamo nel 1958, in piena Guerra Fredda, e al Brookhaven National Lab […]viene mostrato un gioco realizzato dal fisico nucleare William Higinbotham ritoccando un oscilloscopio a tubo catodico: si tratta di Tennis for Two» spiega Jon-Paul Dyson.
Raccoglierà l’eredità di quell’idea seminale il gioco Pong. E nel passaggio tra i giochi nati in laboratorio sui primi, costosissimi computer, come Tennis for Two, elitari perché accessibili solo a pochi scienziati e invece il grande successo popolare di Pong, risulterà cruciale Nolan Bushnell, il fondatore di Atari.
Bushnell nel 1964, da studente dell’University of Utah, era rimasto affascinato da Spacewar!, gioco realizzato da ingegneri del MIT in cui due astronavi battagliavano nello spazio a colpi di laser. «Quel gioco richiedeva un computer PDP-1 da 120 mila dollari di allora (l’equivalente odierno di un milione). Impensabile, nel 1964, fare una versione da sala giochi di Spacewar!
Ma nel 1968 a Bushnell venne un’idea: realizzare una scheda elettronica che permetteva di sfruttare, per spostare oggetti su uno schermo, i segnali analogici usati per la sincronia del televisore. Funzionò: nel 1971 Bushnell varava Computer space: gioco dove si controllava un razzo che sparava a dei dischi volanti cercando di evitarli».
Non fu un grande successo nelle sale giochi, ma assicurò a Bushnell abbastanza soldi da fondare, insieme all’amico Ted Dabney, Atari. E lanciare nel 1972 il rivoluzionario Pong. «Un gioco di una semplicità quasi zen: le laconiche istruzioni del gioco dicevano “Per un alto punteggio, non mancare la palla”» spiega Jeremy Saucier. «Pong andò fortissimo nei bar e trasformò i videogiochi in un nuovo passatempo. Anzi, di più: in un nuovo lubrificante sociale che univa appassionati di ogni estrazione sociale».
I videogiochi entravano, insomma, a pieno titolo nella società. Ciò che ancora mancava perché entrassero davvero nella cultura pop erano delle icone, dei personaggi simbolo, delle storie. «Il primo personaggio realmente riconoscibile a livello globale è Pac-Man» spiega Jeremy Saucier. «L’idea nasce nel 1978, quando il giovane game designer Toru Iwatani, consumata la prima fetta di una pizza, pensò che la parte restante somigliasse a una testa con la bocca aperta.
“Perché non progettare un gioco basato sul mangiare?” si chiese Iwatani. E per il nome, Iwatani si ispirò alla parola “Pakku”, usata per descrivere il suono che fa una bocca quando si apre e chiude». L’importanza di Pac-Man è nell’essere il primo gioco che, facendo leva sull’estetica del “carino”, può essere apprezzato sia dai ragazzi che dalle ragazze: con Pac-Man il videogioco trascendeva gli ambienti maschilisti, e in certi casi malfamati, delle sale giochi.
A questa sorta di sdoganamento contribuirà anche il crescente successo delle console domestiche: dall’Atari 2600, all’Intellivision di Mattel, e poi ai sistemi videoludici di Nintendo, Sega e Sony, che con la Playstation dal 1994 in avanti entrerà in un numero ragguardevole di soggiorni in tutto il globo. «Questo non vuol dire che l’industria dei videogiochi non abbia sofferto di spettacolari fallimenti: uno di questi è stato il Virtual Boy di Nintendo, commercializzato nel 1995» spiega Jon-Paul Dyson.
«L’idea era molto avanzata: un dispositivo che invece di mostrare le immagini su uno schermo, le proiettava tramite dei Led sulla retina del giocatore, creando un’impressione di 3D. Ma nel libretto si ricordava di riposare gli occhi ogni 15 minuti. L’idea che queste misure suscitarono nel pubblico è che il gioco potesse danneggiare gli occhi. E così fu un flop».
Ma la ricerca di comandi innovativi per videogiocare produsse una miriade di meraviglie ludiche: dal comando con giroscopio della Nintendo Wii, che permetteva di controllare i personaggi sul video muovendo braccia e gambe, al gradevolissimo design del “cruscotto da locomotiva” con cui si poteva giocare – su PC e Playstation – negli anni 90, al simulatore di treni Densha de Go!.
E nel terzo millennio proprio i giochi che permettevano di ricostruire in piccolo il mondo reale o di inventare nuovi mondi – da Sim City, che rese spassosa la pianificazione urbanistica, a quel Minecraft
(da “Il Venerdì”)
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Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
SE AVETE DECORATO CASA VOSTRA, DOVETE RINGRAZIARE LORO
Dall’albero di Natale artificiale alle palline colorate che pendono dai suoi rami. Dalle statuine del presepe agli angioletti appesi sul portone condominiale. Dalle luci rosse, blu e verdi allestite sul terrazzo alle altre, innumerevoli, decorazioni piazzate in ogni angolo della vostra casa. Se nelle ultime settimane avete maneggiato qualcuno degli oggetti citati, sappiate che esiste una probabilità altissima che la provenienza di quel prodotto possa coincidere con la Cina.
O meglio: con una città in particolare. Si tratta di Yiwu, un agglomerato industriale situato nella provincia dello Zhejiang, nella prefettura di Jinhua, di circa 1,2 milioni di abitanti. Qui, a quasi trecento chilometri a sud-ovest di Shanghai, prende forma la cosiddetta “città di Babbo Natale”, il luogo dove viene fabbricato il Natale, nonché tutti gli ornamenti che contribuiscono a creare l’atmosfera natalizia. Gli stessi che finiscono sui mercati globali a prezzi stracciati e diventano assoluti protagonisti delle nostre abitazioni nel mese di dicembre.
Rinomata come città commerciale durante la dinastia Qing, Yiwu divenne nuovamente famosa per i suoi mercati in seguito alle riforme economiche cinesi varate negli ann Ottanta. Da quel momento in poi, infatti, questa megalopoli si è trasformata nel cuore delle più importanti catene di approvvigionamento manifatturiere della nazione. Yiwu, infatti, attira commercianti da ogni angolo del pianeta alla ricerca di decorazioni natalizie o di qualsiasi altra festività, penne, accendini e milioni di altri prodotti economici, al punto da esser stata soprannominata anche “negozio del pianeta”. Nei mesi che precedono il Natale, le fabbriche della città producono il sessanta percento delle decorazioni natalizie esportate nel mondo, l’ottanta percento di quelle esportate dalla Cina. La maggior parte – Babbi Natale, renne, pupazzi di neve, personaggi del presepe e tanto altro ancora – prende la via degli Stati Uniti, mentre il restante transita fino all’Europa e in altri continenti. La pandemia di Covid-19 ha in parte ridimensionato gli affari di questa fiorente città che, soltanto considerando il business natalizio, fino a pochi anni fa raggiungeva i 4 miliardi di euro annui. Soldi, va da sé, da aggiungere all’export di altri prodotti non legati al Natale, come, tra gli altri, maschere di Halloween, piante finte, profumatori per auto, candeline per le torte di compleanno, giocattoli, capi d’abbigliamento e tecnologia varia.
A Yiwu ci sono dalle seicento alle ottocento fabbriche che producono, senza sosta, qualsiasi cosa possiate immaginare. Devono alimentare il giro d’affari che si concretizza nei vari mercati all’ingrosso locali, disposti in un’area di quattro milioni di metri quadrati, là dove si incontra l’offerta dei circa 75.000 venditori e la domanda di migliaia e migliaia di procacciatori d’affari, per lo più stranieri. Ben felici, s’intende, di comprare prodotti a prezzi stracciati da destinare agli scaffali dei propri negozi dislocati oltre la Muraglia. Ogni zona del mercato è dedicata ad un settore specifico: quello dei calzini, dei ciucci per bambini, delle borse e, i più curiosi, quelli relativi alle festività. Per facilitare il commercio, nel 2016 è stata inaugurata una linea ferroviaria lunga circa diecimila chilometri che collega Yiwu a Madrid. La merce arriva in Europa in ventuno giorni
Come funziona il mercato di Yiwu
Urge una precisazione: ogni stand presente a Yiwu – hanno tutti la stessa dimensione: sono cubi di 2,5 x 2,5 metri – altro non è che lo showroom di una fabbrica cittadina. Il mercato, dunque, non deve essere pensato come un centro commerciale, dove le singole persone acquistano al momento quel che richiedono. Siamo di fronte, semmai, ad una enorme fiera permanente e senza fine, costruita da Pechino per intermediari ben più importanti: gli acquirenti al dettaglio, che accorrono in loco da tutta la Cina e dal resto del mondo per negoziare accordi su container pieni di prodotti economici. Che, come detto, riempiranno gli scaffali dei loro negozi. I media cinesi hanno scritto che quest’anno le esportazioni natalizie di Yiwu hanno fatto registrare una crescita del venti percento rispetto al 2022. Da gennaio a ottobre, il volume commerciale totale del “negozio del mondo” ha raggiunto i 476,8 miliardi di yuan, con un aumento del 19,8% su base annua. Le esportazioni hanno toccato quota 421,71 miliardi di yuan, in crescita anch’esse del 16,9% su base annua. Anche se parte di questo commercio sta lentamente migrando online, verso piattaforme come Alibaba, passeggiando per Yiwu è possibile constatare l’esistenza della vasta rete invisibile che sforna il made in China. Lo stesso che tutti acquistiamo in Occidente.
Federico Giuliani
(da mowmag.com)
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Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
ASSALTATO IL MUNICIPIO DI BELGRADO, LA POLIZIA SPARA GAS URTICANTI
Alcune migliaia di persone sono scese in piazza a Belgrado alla vigilia di Natale per protestare contro l’esito delle elezioni svoltesi in Serbia una settimana fa, chiedendone l’annullamento. Il raduno, che fase seguito a quelli che si svolgono nella capitale da giorni, è degenerato in serata quando un gruppo di manifestanti armato di strumenti di fortuna ha tentato di irrompere all’interno del Municipio della capitale.
La polizia è riuscita a fatica a contenere l’assalto della folla, facendo ricorso anche a gas lacrimogeni e urticanti.
«Vucic ladro» e «La città è nostra», urlavano i dimostranti, che hanno bersagliato il Municipio con uova, pomodori, bottiglie di plastica e altri oggetti.
Domenica scorsa, 17 dicembre, il partito del primo ministro Aleksandar Vucic in carica ha vinto con ampio margine secondo i risultati ufficiali le elezioni politiche anticipate, svoltesi in concomitanza con le amministrative: al suo Partito del progresso serbo (Sns) sarebbero andati oltre il 46% dei voti, con il cartello delle opposizioni de “La Serbia contro la violenza” (Spn) fermatosi ad appena il 23%.
Sull’esito si sono però allungate le ombre di un voto non del tutto corretto, come attestato in via preliminare dall’Osce. L’opposizione chiede però indagini più approfondite e reclama l’annullamento e la ripetizione del voto.
Richiesta respinta sonoramente al mittente sin qui da Vucic, che stasera, dopo il tentato assalto al Municipio di Belgrado ha accusato l’opposizione di sobillare invece la violenza. «Da giorni lo dicevamo che avrebbero tentato un’azione di forza”
(da agenzie)
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Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
L’EX GIORNALISTA PACIFISTA NON ERA UNA MINACCIA MA UN POTENZIALE DANNO ALLA SUA IMMAGINE
“Qualsiasi persona sana di mente che intraprenda questo passo avrebbe paura, ma la paura non deve vincere”. Ancor prima di candidarsi, l’ex giornalista televisiva Yekaterina Duntsova era consapevole della sfida che l’avrebbe attesa. Non soltanto aveva deciso di scendere in campo per sfidare Vladimir Putin, ma voleva farlo stravolgendo la Russia, azzerando sostanzialmente gli ultimi vent’anni.
Anche quando sabato si è vista respingere all’unanimità la sua candidatura dalla Commissione elettorale centrale a causa delle “numerose violazioni” (cento, secondo l’Associated Press) nella documentazione presentata, la resa sembra un termine a lei sconosciuto. “Con questa decisione politica, siamo privati dell’opportunità di avere un nostro rappresentante ed esprimere opinioni diverse dal discorso aggressivo ufficiale”, ha scritto sul Telegram promettendo che “questa non è la fine, andremo alla Corte Suprema per presentare ricorso”. Assicura battaglia, dunque, senza ascoltare i consigli di chi – forse genuinamente, forse no – le consiglia di lasciar perdere. “Sei una giovane donna, hai tutto davanti a te. Ogni aspetto negativo può sempre essere trasformato in positivo. Ogni esperienza è sempre un’esperienza”, le ha ricordato Ella Pamfilova, la presidente della Commissione che l’ha esclusa dalle elezioni.
Contraria alla guerra in Ucraina, dove avrebbe raggiunto quanto prima una pace, e favorevole alla scarcerazione dei prigionieri politici detenuti nel suo paese, a cominciare dallo scomparso Alexei Navalny per il quale gli Stati Uniti si sono detti “profondamente preoccupati”, Duntsova rappresentava una piccola minaccia per il Cremlino sebbene le sue possibilità di vittoria fossero affidate alla sola voglia di crederci.
Poco dopo le elezioni regionali e provinciali – le prime dall’invasione – stravinte dai suoi governatori in autunno, il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov aveva spiegato che, se lo Zar avesse avuto voglia di ripresentarsi per un quinto mandato (come poi è avvenuto), “allora è ovvio che allo stato attuale non ci sarebbe una reale concorrenza” in quanto “gode dell’assoluto sostegno della popolazione”.
Duntsova non si era però lasciata intimidire dai consensi bulgari, decidendo comunque di provarci da indipendente. Aveva ricevuto le 500 firme necessarie per presentare domanda e doveva trovarne altre 300mila entro fine gennaio per potersi candidare.
Ma la Corte elettorale ha fermato tutto con l’esito che ormai conosciamo. Si è così rivolta a Grigory Yavlinsky, economista russo (nato a Leopoli), ex deputato della Duma nonché fondatore del partito liberale Jabloko, che in passato ha tentato per tre volte di conquistare il Cremlino, senza successo. Ma alla richiesta della quarantenne di potersi candidare come rappresentante del suo partito – senza così dover presentare una nuova domanda – Yavlinsky ha posto il veto: “Non la conosciamo”.
Non ci sono prove che dietro l’esclusione di Duntsova ci sia la mano di Putin, ma un risultato fuori le righe della giovane candidata – che sostiene tesi profondamente opposte a quelle del Cremlino – sarebbe stato un duro colpo all’immagine del presidente. Su cui avrebbero potuto gettarsi a capofitto i falchi che volano sopra la Moscova.
Alle elezioni Putin non vuole scherzi, se mai ce ne fossero. L’opposizione in Russia è solo de iure, perché nel pratico nessuno osa andargli contro. Al contrario della Duntsova, a essere ammessi sono stati Boris Nadezhdin (centro-destra), un rivale di cui Putin ha poco da temere nonostante si spacci come suo oppositore, mentre il partito Russia Giusta che dovrebbe figurare tra quelli della resistenza allo Zar ha già annunciato di volerlo sostenere.
Il Partito Comunista, seconda forza alla Duma, ha affermato di sostenere il deputato Nikolai Kharitonov. Per ora, i candidati sono in tutto ventinove, ma nessuno che possa davvero impensierire il potere putiniano.
“È chiaro che Duntsova non costituiva una minaccia reale”, spiega ad Huffpost research fellow dell’Ispi, Eleonora Tafuro Ambrosetti. “Sappiamo bene che possiamo fidarci poco dei sondaggi, anche degli istituti più attendibili che vengono però costantemente minacciati di venire considerati agenti stranieri, ma Putin gode di un consenso indiscutibile. Magari non dell’80% come dicono. Anche perché non c’è un’alternativa politica e, nel momento in cui è visto come l’unico in grado di governare, la sua popolarità aumenta”.
Tuttavia, “con Duntsova ha voluto mandare un segnale. Lei non avrebbe vinto e si sarebbero trovati altri escamotages per impedirglielo, questo è sicuro, ma bloccare fin dall’inizio la sua candidatura è un messaggio agli oppositori. C’è una certa preoccupazione al Cremlino, un bisogno di mostrare che i russi sono ancora contenti di Putin e che lui è il leader legittimo”.
È una questione di mero calcolo politico: “Anche nei paesi illiberali, l’autocrate si fregia del supporto popolare per dire che le sue politiche sono legittime. Non è un caso che Navalny sia sparito”, osserva l’analista. “Potrebbe essere una strategia per bloccare il suo messaggio che, seppur debole e filtrato, arriva comunque alla popolazione”.
All’appuntamento di marzo, Putin vuole dunque arrivarci con quante più carte giocabili possibile. Tra queste c’è anche la guerra in Ucraina, dove le cose adesso vanno meglio di prima – ma comunque non bene. Complice anche l’inverno, senza una svolta nei prossimi mesi sarà davvero complesso uscire dallo stallo che ormai si è andato a consolidare. La Russia ha conquistato poco più di quanto già non avesse preso dopo la prima invasione del 2014, fallendo nei suoi obiettivi iniziali. Tuttavia, inglobare il sud dell’Ucraina vuol dire appropriarsi di gran parte della sua economia, oltre che portarsi a casa un territorio che ha sempre ritenuto erroneamente di sua proprietà.
Insomma, ci sono tutti i presupposti per poter parlare al popolo russo di vittoria, anche se il termine dovrebbe essere utilizzato in ben altri contesti. Ecco perché l’indiscrezione del New York Times sulla possibile apertura di Putin a un accordo, con cui tirare una linea sul terreno e consolidare le posizioni, può essere letta come una mossa in vista delle presidenziali.
Ciononostante, da qui ad affermare che siamo prossimi a una pace in Ucraina ce ne passa. Bisognerà vedere quanto Putin sia credibile e quanto, invece, non stia agendo da spietato stratega come sempre. Da comprendere è anche il modo in cui verrà recepita una simile proposta dall’Occidente, con gli americani che hanno visto dei segnali incoraggianti già da diverso tempo: alcuni, come il generale ed ex capo di stato maggiore dell’esercito Mark Milley, avevano suggerito al presidente Volodymyr Zelensky di trattare; altri invece ritenevano non fosse ancora il momento. Certo è che per gli ucraini non lo sarà mai fin quando anche solo un soldato russo rimarrà sulla loro terra, da liberare centimetro per centimetro. E già qui potrebbero arenarsi le possibilità di un accordo.
Per l’esperta di Ispi, non c’è sorpresa nel leggere quanto scritto dal quotidiano statunitense. “Più di una volta la posizione russa è stata quella di negoziare un accordo, ma che vada bene a loro. Mosca è sempre stata aperta ma alle sue condizioni, ed è chiaro come un’intesa che piace alla Russia non può piacere all’Ucraina. L’avvicinarsi delle elezioni può rappresentare uno stimolo in più. Gli farebbe comodo almeno un cessate il fuoco alle sue condizioni, anche se sappiamo che non ha bisogno di questi espedienti per essere eletto. Ma non aspettiamoci flessibilità: a parole i russi sono aperti, nei contenuti invece sono rigidi”.
Anche perché c’è da ragionare sul lungo periodo. Il timore è che il tempo lasciato a Putin gli permetterà di ricostruire le fila del suo esercito, per riprovare la sua offensiva fra qualche tempo. All’allarme (forse un pochino esagerato) lanciato qualche giorno fa dal servizio di intelligence tedesco sulla possibilità che la Russia attacchi Moldavia e paesi Baltici entro la fine del decennio in corso, è seguito quello del servizio segreto europeo, convinto che Mosca potrebbe tentare un’offensiva contro l’Europa nell’inverno a cavallo tra il 2024 e il 2024. A scriverlo è la Bild, evidenziando come quello sarebbe un periodo durante cui gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi senza un leader e quindi incapaci di difendere gli alleati.
Mentre a guidare la Russia sarà sicuramente Putin, visto che le prossime elezioni sono già scritte. Ma Duntsova promette di porre fine al dominio dello Zar. “Comprendiamo perfettamente cosa potrebbe accadere”, aveva dichiarato prima di presentare la candidatura, consapevole degli ostacoli che avrebbe incontrato. “Se non dovessimo essere in grado di presentarci al primo tentativo, proveremo una seconda volta e così via”.
(da Huffingtonpost)
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Dicembre 25th, 2023 Riccardo Fucile
LA CITTA’ PALESTINESE CANCELLA LE TRADIZIONALI ATTIVITA’ NATALIZIE PER SOLIDARIETA’ A GAZA… L’UCRAINA FESTEGGIA IL 25 DICEMBRE ANZICHE’ IL 7 GENNAIO VOLTANTO LE SPALLE ALLA CULTURA RUSSA
Nella terra in cui si ritiene sia nato Gesù non ci sarà Natale. Nella chiesa di Santa Caterina, presso la Basilica della Natività di Betlemme, ad ascoltare la messa di mezzanotte del patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, non ci saranno né pellegrini né tantomeno turisti. Probabilmente, sarà assente anche il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen. Annullate le processioni e le musiche di accompagnamento, come quelle suonate dai chierichetti mentre attraversavano la città. Le strade sono spoglie, private anche delle solite luminarie di festa. Laddove veniva alzato il tradizionale albero natalizio nella piazza della Mangiatoia, non c’è niente. Solo una serie di rappresentazioni artistiche che rimandano al dramma che si sta consumando a settanta chilometri più a sud, a Gaza. Testa e cuore sono rivolti lì, a una tragedia troppo grande per potersi concedere qualche ora di spensieratezza, sicuramente poche. Tutti sono a loro modo coinvolti. “Dal 7 ottobre siamo precipitati in un mare di odio, di rancore, di vendetta, di morte” che “ha colpito la società israeliana e sta colpendo ora la società palestinese”, ha scritto nel suo messaggio Pizzaballa, pensando con dolore anche “alla nostra piccola comunità cristiana di Betlemme”, che conta tra i 35mila e i 50mila fedeli. Il 2% della popolazione che vive in Cisgiordania è cristiana, mentre a Gaza prima della guerra si aggiravano sulle mille unità. Ciascuno fiero di rivendicare con orgoglio la propria fede, quest’anno silenziata dal rumore delle armi.“Quando facciamo affidamento sul potere e sulle armi, quando razionalizziamo il bombardamento dei bambini, Gesù è sotto le macerie”, ha dichiarato Muther Isaac, il pastore della chiesa evangelica luterana del Natale chiedendo la pace nella Striscia. “Se Gesù dovesse nascere oggi, nascerebbe da sotto le sue macerie”. Le ha volute rappresentare nel presepe che ha allestito nella sua chiesa mettendoci sopra un bambinello, seppur tradizione voglia che si debba aspettare lo scoccare del 25 dicembre. Ma questo è un Natale diverso. Per quelli nati dopo l’operazione Piombo Fuso del 2008, è il primo con un conflitto in corso, sebbene conoscessero già bene il concetto di violenza. Vedere il Figlio di Dio in quel contesto “è stato scioccate, difficile [da accettare] anche per la nostra gente”, ha ammesso il pastore. “Ma ha lasciato una forte impressione perché l’immagine è molto reale, mette di fronte alla realtà – di allora e di oggi – in modo molto potente”. Il motivo è insito nella biografia di Gesù: “È nato in difficoltà, ha vissuto sotto occupazione, è sopravvissuto a un massacro ed è diventato un rifugiato. È una storica che noi palestinesi possiamo comprendere”. Non a caso, altri edifici ecclesiastici hanno seguito l’esempio del suo presepe.
Il Natale in Terra Santa è stato svuotato della sua essenza. In quanto città originaria di Cristo, Betlemme ogni anno è presa d’assalto da circa due milioni di turisti. Durante questo periodo di feste arrivano in migliaia ogni giorno, pernottando nelle stesse strutture che oggi hanno piena disponibilità per la mancanza di prenotazioni. Quelli che arrivano si contano sulle dita di una mano, forse due. In condizioni normali, ci sono più accessi per entrarvi, ma dopo gli attentati di Hamas la sicurezza israeliana si è fatta più serrata, riducendo i posti di blocco da dove è possibile passare e contingentando il numero delle persone. L’unica eccezione verrà fatta proprio in occasione della messa di stanotte, quando i soldati dell’Idf lasceranno aperti i varchi per qualche ora, dalle 18 alle 23:30, e lo stesso faranno alla fine della cerimonia e per alcune ore del mattino successivo.
“Questo Natale arriva in una forma diversa. Oggi Betlemme, come ogni altra città palestinese, è in lutto. Ci sentiamo tristi”, ha spiegato il sindaco Hanna Hanania. Seguito da padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, che ha preso parte a una veglia tenutasi sabato durante cui le consuete preghiere natalizie sono state sostituite con la richiesta di porre fine alle sofferenze attuali. “Betlemme è un messaggio. Non è una città, è un messaggio di pace al mondo intero” che “trasmettiamo da questo luogo sacro”. Con una richiesta che al momento sembra utopia: “Stop alla guerra, stop al sangue, agli omicidi e alla vendetta”.
Anche il quartiere cristiano della Città Vecchia di Gerusalemme è insolitamente silenzioso e denudato dei classici addobbi di Natale. Non verrà festeggiato neanche qui, in solidarietà con il mondo palestinese. Il tipico mercatino che comincia dalla Porta Nuova, uno dei punti di accesso, è stato annullato nel consenso generale di chi non riesce a distogliere il pensiero da Gaza. Ma c’è chi crede che la magia natalizia non debba essere tolta, almeno ai bambini. Quindici anni fa Issa Kassissieh ha trasformato la sua abitazione, antica 700 anni, nella Casa di Babbo Natale e ha deciso di tenerla comunque aperta, per “inviare al mondo un messaggio di speranza, amore e pace dal cuore di Gerusalemme”, ha spiegato. “A casa mia accolgo visitatori ebrei, musulmani e cristiani. Tutti amano Babbo Natale. Per me Gerusalemme è il cuore del mondo: se riusciamo a creare la pace qui, avremo la pace ovunque”.
Sarà un Natale del tutto nuovo anche nell’altro contesto di guerra, tremila chilometri a nord dello Stato ebraico. Per la prima volta dal 1917 l’Ucraina lo festeggerà il 25 dicembre. Fino ad oggi ha seguito il calendario giuliano utilizzato dalla Russia, che fa cadere la festività il 7 gennaio. Non sarà più così, perché Kiev ha deciso di passare a quello gregoriano. Nonostante siano in maggioranza ortodossi, già lo scorso anno gli ucraini hanno voluto liberamente riunirsi nel giorno nello stesso giorno dei cattolici, lanciando un segnale a Vladimir Putin. Sì, perché il cambio ha molto poco a che fare con la religione mostrandosi piuttosto come un’arma politica e di resistenza. Sono esausti dell’influenza di Mosca, da cui vogliono staccarsi definitivamente sotto ogni punto di vista smantellando simboli e tradizioni. La Chiesa ortodossa di Kiev si era già staccata da quella di Mosca quattro anni fa, a causa dell’annessione della Crimea del 2014, e questo è solo l’ultimo passo dell’allontanamento.
È uno dei tanti aspetti che lo Zar non aveva calcolato quando ha lanciato la sua offensiva. Voler imporre la propria identità a un popolo porterà sempre a una maggiore resistenza di quest’ultimo, cementificando la sua anima nazionale. Magari non sarà l’elemento che gli farà perdere la guerra da un punto di vista militare, ma è utile per fargli comprendere quanto indesiderato sia nel paese che considera un prolungamento di quello che governa. Al contrario, festeggiando il 25 dicembre, Kiev inoltra ancora una volta il suo messaggio all’Europa, sposando la sua cultura. Fin dal giorno zero, il conflitto è entrato di diritto nella quotidianità degli ucraini. Ogni riferimento punta a quello: la liberazione dall’esercito russo. Come ha scritto la Bbc nel suo reportage in un villaggio poco fuori la capitale, lo si vede anche sugli alberi di Natale decorati con dei Mig, soldatini in miniatura, un trattore che traina un tank russo o altri elementi che rimandano alla guerra.
Quella del cambio di calendario non sarà l’unica novità. Proprio alla Vigilia, Russia e Ucraina hanno stipulato un accordo che permetterà ai rispetti prigionieri di ricevere lettere e regali dai familiari e associazioni umanitarie. Un modo per farli sentire meno soli e dargli una parvenza di normalità. Una minima consolazione che riporta alla celebre tregua di Natale del 1914, quando inglesi e tedeschi misero da parte i rancori e obiettivi militari per inscenare una partita di pallone. Paradosso vuole che venne vinta per tre reti a due dall’esercito che poi sarebbe uscito sconfitto dalla Prima Guerra Mondiale. Ma ci sarebbero voluti altri quattro anni prima della fine della guerra. Oggi come allora, la storia non cambia: anche dopo questo Natale – se non durante – si continuerà a combattere, in Ucraina non meno che in Terra Santa.
(da Huffingtonpost)
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