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RUSSIA: UN ALTRO COLLEGA DI PARTITO DI PUTIN E’ VOLATO DALLA FINESTRA

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

LA STRANA MORTE DI VLADIMIR EGOROV

Vladimir Egorov, esponente del partito Russia Unita del presidente russo Vladimir Putin è stato trovato morto nel cortile della sua casa a Tobolsk, in Siberia. Sul corpo non ci sono «segni esterni di violenza», hanno detto gli investigatori al Kommersant.
Non sono ancora chiare la cause del decesso anche se nel necrologio pubblicato dalla Duma nella città di Tobolsk si parla di «tragico incidente». Secondo quanto riportato dal canale Telegram non ufficiale Baza il corpo di Egorov «è stato scoperto nel cortile della sua casa in via Kedrovaya mercoledì».
Tutte le ultime strane morti di politici e industriali russi
La morte di Egorov è solo una dei numerosi decessi eccellenti a Mosca. Tra questi Ravil Maganov, presidente di Lukoil, la seconda più importante compagnia russa di petrolio e gas, che lo scorso anno si era detto contrario alla guerra in Ucraina. Maganov è morto cadendo dalla finestra di un ospedale di Mosca. Poi, il magnate russo delle salsicce, deputato, Pavel Antov, membro del partito Russia Unita tra i dipendenti pubblici più ricchi del Paese, morto in India precipitando dal terzo piano del suo hotel. Mesi prima della sua morte Antov aveva ribadito il suo sostegno a Putin dopo aver negato di aver pubblicato un messaggio contro la guerra su WhatsApp, bollandolo come «sfortunato malinteso e un errore tecnico». A maggio è morto invece il viceministro russo della Scienza e dell’Istruzione Pyotr Kucherenko, dopo essersi ammalato mentre era su un aereo con una delegazione russa di ritorno da un viaggio d’affari a Cuba.
(da agenzie)

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PUTIN HA NASCOSTO I NUMERI DEI MARINAI RUSSI, VITTIME DELL’ATTACCO UCRAINO: “MORTI 74 MARINAI SULLA NAVE NOVOCHERKASSK”

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

LA NOTIZIA VIENE FATTA SPARIRE DAL SITO DEL CANALE TV

Il 12 agosto del 2000 il sottomarino nucleare russo “Kursk” lasciò un porto al di sopra del Circolo Polare Artico russo per compiere esercitazioni navali nel Mare di Barents. Non molto tempo dopo la partenza, uno dei siluri a bordo esplose in uno dei tubi di lancio, uccidendo la maggior parte dei 118 membri dell’equipaggio e facendo rapidamente affondare lo scafo, Si seppe solo dopo, attraverso un foglietto ritrovato nel giaccone di uno dei marinai, che 23 di loro erano sopravvissuti a lungo, sul fondo del mare, dopo aver cercato l’ossigeno rimasto nella parte posteriore del sottomarino, e avrebbero forse potuto essere salvati. Se Vladimir Putin fosse stato più tempestivo, o magari se avesse accettato prima le offerte di aiuto di Norvegia, Gran Bretagna, Stati Uniti.
Invece il giovane ex funzionario del Kgb si mosse tardi, impacciato, lentamente, e molto freddamente. Troppo. Per due giorni faticò anche solo a riconoscere l’accaduto. Mai Mosca fornì cifre. Tanto meno parlò di possibili sopravvissuti che potevano essere liberati dal fondo del mare. Qua do, a cose fatte, al Larry King’s show fu chiesto a Putin cosa era successo al “Kursk”, rispose lapidario: «È affondato». Passa alla storia come la prima (e forse la più grave) “crisis management” del futuro dittatore della Russia. Che si segnò definitivamente sulla lista nera l’oligarca eltsiniano Boris Berezovsky, il quale inizialmente ne aveva sostenuto l’ascesa al Cremlino. Berezovsky possedeva una tv che fu molto dura con l’allora neo presidente russo, silente sul numero delle vittime, lentissimo e privo di empatia nei soccorsi, gelido in tutta la vicenda. Paralizzato, o peggio. Dodici anni dopo Berezovsky fu trovato morto impiccato nella sua magione londinese).
Ma quando si tratta di numeri di morti russi, specie se militari, che Putin non è stato in grado di proteggere adeguatamente, sia pure in forme e vicende diverse la storia ritorna, e sono sempre le crisi più gravi per lui, che gioca il suo potere e la sua permanenza al potere innanzitutto come arbitro tra le fazioni militari e loro garante. Successe dopo l’affondamento della nave ammiraglia della flotta russa sul mar Nero, la “Moskva”, il Cremlino ammise ufficialmente la cifra ridicola di un morto e 27 dispersi. E sta succedendo adesso, con i numeri dei morti della nave da sbarco Novocherkassk. Un funzionario di intelligence occidentale riferisce i “dispersi” vanno letti come “morti”, e nei paesi occidentali la cifra viene considerata un quarto di quella reale.
L’equipaggio della nave Novocherkassk era composto da 98 persone. Ieri è accaduta una cosa singolare: il canale televisivo di Sebastopoli Nts, molto informato sull’area, che collabora con la flotta del Mar Nero, e subito dopo anche la pubblicazione online Sevastopol News, hanno riferito della morte di 74 marinai sulla “Novocherkassk”, che è affondata nel porto di Feodosia dopo un attacco missilistico martedì scorso, il 26 dicembre. Solo che Nts ha prontamente cancellato questa notizia. Di cui però diversi giornalisti investigativi russi hanno lo screenshot.
Nts sosteneva che «74 marinai del Mar Nero sono morti durante l’attacco delle forze armate ucraine alla nave Novocherkassk il 26 dicembre, e altri 27 sono rimasti feriti». E poi: «Questo è stato reso noto dal messaggio ufficiale del dipartimento di supporto informativo della flotta del Mar Nero». Secondo Nts, il comandante in capo della Marina, l’ammiraglio Nikolai Evmenov, si era rivolto al capo dell’amministrazione di Novocherkassk, Yuri Lysenko, chiedendo di dichiarare due giorni di lutto in città. Tutto è poi sparito, anche dal sito Sebastopoli News.
La direttrice di Nts Diana Tyrmus, richiesta di spiegazioni dal collettivo di “Agentsmedia”, ha prima detto «l’articolo non è sul sito», poi ha detto un’altra cosa, «l’informazione non è vera», Infine ha consigliato di rivolgersi al portavoce del Ministero della Difesa (Igor Konashenko, un comunicatore che quanto a bugie è secondo, forse, solo a Dmitry Peskov), o a quello della Flotta del Mar Nero. D’altra parte il comandante della nave, Nikolai Stepanenko, quando martedì notte gli era stato chiesto se qualcuno dei membri dell’equipaggio fosse ferito, ha risposto testualmente: «Nessuno è rimasto ferito, tutto è andato liscio, tutto andava bene». Il sito indipendente Astra aveva scritto invece nei giorni scorsi, citando sue fonti, di un morto, 33 marinai nella lista dei dispersi e 23 in quella dei feriti, specificando peraltro che potrebbero esserci più morti e che tra loro ci sono dei coscritti.
Tutto è un problema di propaganda, soprattutto, e in minima parte anche di soldi: senza cadaveri, e senza numero di morti, niente funerali solenni imbarazzanti, niente risarcimenti alle famiglie. «Nessun uomo, nessun problema», diceva Stalin, o almeno la frase (di Anatoly Rybakov) gli fu attribuita. Putin, anche in questo, sembra averlo ascoltato.
(da La Stampa)

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VERDINI E IL SOCIO DI CARMINATI JR, LO SCANDALO CHE IMBARAZZA SALVINI

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

PILERI E’ STATO IN SOCIETA’ CON IL FIGLIO DELL’EX TERRORISTA… LA FIDANZATA DI SALVINI HA VENDUTO LA SUA QUOTA POCHI GIORNI PRIMA DELL’INDAGINE

In una Lega già scossa da scandali giudiziari o politici recenti, Matteo Salvini ora deve affrontare la tormenta giudiziaria che ha travolto il suocero e il cognato, i Verdini, Denis e Tommaso. Cioè la sua nuova famiglia acquisita per via del fidanzamento con Francesca Verdini.
La questione, tuttavia, non può essere ridotta alla sola parentela del ministro delle Infrastrutture. Va oltre perché l’indagine della procura di Roma e della guardia di finanza punta dritto al comparto delle società di stato controllate dal ministero guidato dal leader leghista.
E, come scoperto da Domani, alcune delle aziende, secondo i pm, favorite dal rapporto con i Verdini hanno ottenuto affidamenti diretti e commesse anche nel periodo in di Salvini alle Infrastrutture. Scavando ancora, inoltre, nella rete societaria sotto inchiesta affiorano collegamenti con aziende di consulenza in cui il socio di Verdini, anche lui indagato, è stato azionista insieme al figlio di Massimo Carminati, l’ex terrorista nero a capo dell’associazione criminale che a colpi di mazzette ha fatto il bello e il cattivo tempo nella Capitale.
L’imbarazzo per Salvini nasce anche dal ruolo del sottosegretario all’Economia, Federico Freni (leghista pure lui), non indagato ma citato ampiamente nelle carte: gli indagati, intercettati, lo definiscono a «disposizione» del gruppo. L’affresco di una Lega avvicinabile dal gruppo di Verdini potrebbe rivelarsi una millanteria, certo. Freni dal canto suo ha precisato di aver «visto alcune di queste persone qualche volta…in ogni caso nessuno mi ha mai formulato richieste inopportune». Ma tant’è.
IL PESO POLITICO
Il punto è che ora Salvini dovrà per un attimo pensare meno al Ponte sullo Stretto e capire come uscire dalla strettoia in cui lo hanno spinto il suocero e il cognato. Perché dall’indagine in cui i Verdini sono indagati emerge la capacità di controllare nomine in Anas e Ferrovie dello Stato.
A tal punto da far scrivere al giudice per le indagini preliminari, che ha firmato gli arresti domiciliari per Verdini jr., come il padre Denis sia «in grado di far valere il peso politico sui referenti pubblici di Anas e di attivarsi, al contempo, per garantire a questi ultimi, con reciproca soddisfazione, in termini di adeguati posizionamenti o nuove collocazioni lavorative in concomitanza con lo spoil system attuato con il cambio del governo».
L’esecutivo nell’arco delle indagini è cambiato due volte, nel 2021 con Mario Draghi, nel 2022 con Meloni. La Lega occupava caselle importanti (con Giancarlo Giorgetti e Federico Freni) nel primo e le occupa nel secondo con molti più ministri, tra cui quello delle Infrastrutture da cui dipendono le nomine in Anas e Ferrovie. Ecco perché l’indagine sui Verdini tocca politicamente Salvini.
E per questo le opposizioni vorrebbero andasse a riferire in aula. Federico Cafiero De Raho, 5 stelle ed ex procuratore nazionale antimafia chiede «un’informativa urgente del ministro Salvini per riferire sul sistema di consulenza e appalti pubblici banditi da Anas, indagini che hanno coinvolto Tommaso Verdini. È gravissimo quanto sta accertando la procura di Roma». Anche Angelo Bonelli, Verdi – Sinistra, invita il leader leghista a spiegare al Parlamento. Il Pd con Debora Serracchiani invoca «spiegazioni» per «la necessità di dare trasparenza».
C’è chi parla di questione morale. Altri rilevano l’opportunità politica di condurre il ministero con cui, si scopre, hanno fatto affari i Verdini e gli amici loro. Non è peraltro la prima volta che le attività imprenditoriali dei Verdini creano difficoltà alla Lega: Domani aveva scoperto che la casa di produzione cinematografica della fidanzata del ministro aveva ottenuto affidamenti diretti da Sport e Salute, società controllata dal ministero dell’Economia, ai tempi del governo Draghi con la Lega nell’esecutivo.
LE QUOTE DI FRANCESCA
Quella dei Verdini è una storia italiana. L’hanno definita una dinasty fiorentina. Una saga familiare e politica, sempre orientata verso l’orizzonte del potere. Ora dalle carte dell’indagine della procura e della guardia di finanza di Roma quella dinasty assomiglia più a un Sistema, quanto lecito o illecito spetterà ai giudici stabilirlo. Di sicuro emerge l’abilità nel gestire affari, nell’offrire consulenze in cambio di «utilità» e nel mettere a disposizione il proprio capitale relazionale nella politica e nelle istituzioni per ottenere nomine dei manager organici a questo Sistema.
Altrettanto certo è che in casa Verdini i guai giudiziari si tramandano da padre in figlio. Ed è un fatto che nella famiglia del potente Denis, abile tessitore di trame politiche e affaristiche, la cronaca giudiziaria è scritta sui muri della dimora nella quale l’ex senatore, berlusconiano prima e trasversale poi, sta scontando i domiciliari per due condanne definitive. Ai domiciliari ora c’è anche il figlio Tommaso socio della Inver, società di consulenza fondata nel 2017 insieme alla sorella Francesca, fidanzata del leader leghista nonché ministro delle Infrastrutture.
La compagna di Salvini ha venduto il suo 50 per cento di azioni nel luglio 2021, giusto in tempo per schivare la bufera abbattutasi sulla compagine societaria sottoforma di indagine per corruzione. Il periodo in cui Francesca Verdini ha ceduto le quote è lo stesso in cui, secondo i detective della finanza, sono iniziate le fatturazioni delle consulenze agli imprenditori coinvolti nel sistema: «Tra il luglio 2021 e l’aprile del 2023, Inver ha emesso fatture nei confronti degli imprenditori citati per complessivi euro 301.950,00 con la generica causale consulenza», è scritto negli atti dell’inchiesta, che ha quasi 10 indagati, Verdini padre e figlio.
La compagna di Salvini ha venduto le quote Inver per un totale di 2mila euro: il 20 per cento le ha cedute a Francesco Rizzo (imprenditore che uscirà dalla società a maggio 2022), il 20 per cento a Fabio Pileri, e il 10 per cento a Holdver. Quest’ultima è una holding sempre dei fratelli Verdini, costituita a luglio del 2017: dal 2018 detiene una piccola quota di Pastation, il ristorante di famiglia. Infine, Francesca, ad agosto 2021, ha ceduto al fratello Tommaso il 50 per cento delle sue quote in Holdver per 500 euro.
Con l’uscita della donna, in Inver fa il suo ingresso il socio Pileri. Il protagonista insieme a Verdini padre e figlio dell’ultima inchiesta dei pm di Roma. Il “pagamento” dei servizi offerti dai due Verdini e da Pileri sarebbe avvenuto attraverso somme di denaro «camuffate sotto forma di compensi per consulenze fittizie», scrivono i magistrati. E sarebbero state pagate alla Inver, di cui Denis Verdini sarebbe «socio di fatto e artefice delle strategie».
IL FIGLIO DI CARMINATI
Pileri, umbro classe 1977, nel 2022 ha aperto anche un’altra società di consulenza, Pica Consulting. Il socio al 50 per cento era Andrea Carminati, 33 anni, figlio di Massimo, “er Cecato” che dal 2020 sta scontando ai domiciliari i 10 anni di condanna per l’inchiesta “Mondo di mezzo”, che ha travolto il potere romano, con accuse pure di mafia poi cadute negli ultimi due gradi di giudizio. Carminati è un ex dei Nuclei armati rivoluzionari, erede di una storia che affonda le radici nella banda della Magliana e arriva all’oggi segnato da rapporti con i boss della camorra romana.
Il figlio, invece, è incensurato. Lo ritroviamo nella Pica insieme al socio di Verdini. Costituita il 26 gennaio 2022 con un capitale sociale di 100 euro è stata liquidata il 19 ottobre 2022, a pochi giorni dal giuramento del governo Meloni. Carminati jr, un mese prima di aprire la Pica, aveva costituito, sempre dallo stesso notaio, un’altra società di consulenza: la 10 A&C. Capitale sociale di 100 euro, sede ai Parioli. La 10 A&C, ancora attiva, nell’ultimo bilancio ha ricavi per quasi 55mila euro e un utile di quasi 7mila.
APPALTI E INFRASTRUTTURE
Al di là dei circuiti relazionali del socio di Verdini, l’inchiesta dei detective della finanza si concentra sulla galassia aziendale attorno a Inver. Le indagini hanno documentato che sono quattro gli imprenditori che pagavano la società di Verdini. C’è chi non si fidava di firmare consulenze per «paura dei controlli» e preferiva pagare in nero, come Stefano Cicchiani della Se.Gi. Lui Avrebbe dato alla Inver almeno 500mila euro in diverse tranche e regalato dei lavori a casa di Verdini.
Gli altri, invece, in due anni hanno versato a Inver, circa 300 mila euro. Tutti in cambio, grazie all’intermediazione dei Verdini e di Pileri con gli uomini di Anas, avrebbero ricevuto ricchi appalti: il valore totale delle gare vinte dalle società dei quattro imprenditori supera i 200 milioni di euro. Alcuni di questi affidamenti sono arrivati da Rete Ferroviaria italiana quando Salvini era già ministro: Se.Gi di Cicchiani nel 2023 ha avuto commesse per quasi 3 milioni di euro.
(da editorialedomani.it)

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LA TRAMA DI DENIS VERDINI, TRA CONDANNE E POTERE: QUANDO LA PASCALE GLI MISE LE MANI ADDOSSO PER CACCIARLO

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

DALLA CORTE DI BERLUSCONI AI “GIOCHI” PER RENZI

«Ma tu chi ca…oooo sei? Come ca…oooo ti permetti a parlarci così?». La crudezza del linguaggio ingiustamente associata dall’immaginario collettivo alla figura del macellaio, che tra l’altro era stato il suo primo lavoro, esplose in Denis Verdini nell’ottobre del 2013, in una delle nottate più tragicomiche dell’epopea berlusconiana.
Comica perché al Senato, con una giravolta rimasta nella storia parlamentare, il Cavaliere aveva accordato, dopo averlo negato in mille salse, l’ultimo voto di fiducia al governo guidato da Enrico Letta; e tragica perché qualche ora dopo, a Palazzo Grazioli, lo stato maggiore di Forza Italia si leccava le ferite, col «capo» appena azzoppato da una condanna passata in giudicato e un partito senza leadership o prospettive. Francesca Pascale, all’epoca compagna di Berlusconi, trovandoli riuniti a tarda notte dopo essere tornata da una pizzata in centro, era impazzita: «Fuori da casa mia, subito!». Gli altri erano rimasti ammutoliti, compresi molti pezzi da novanta. Verdini no: «Ma tu chi ca…oooo sei?».
Raccontano che a dividerli quasi fisicamente (per alcuni senza «quasi») era dovuto intervenire Silvio Berlusconi in persona.
L’uomo per il quale nella seconda metà degli anni Novanta Verdini — che alla scalata alla guida operativa del ramo «partito» del vastissimo impero berlusconiano era arrivato dopo essere stato socialista, repubblicano, candidato del Patto Segni — aveva maturato una fascinazione tale da richiedere una spiegazione a margine, come sempre ripulita da giri di parole improntati al politicamente corretto: «Fascinazione, sì. Anche se non vorrei che, oltre che sono massone, di me si dicesse che sono gay».
Ora che il numero di procedimenti giudiziari ha abbondantemente superato quello delle dita di due mani (alcuni conclusi anche con un’assoluzione «perché il fatto non sussiste», come per l’accusa di violenza sessuale rivoltagli da una cliente del Credito cooperativo nel 2001), ora che alla maledizione delle condanne in via definitiva s’è aggiunta la storia che vede lui indagatoe il figlio Tommaso agli arresti domiciliari, qualcuno ricorda il sorriso maligno che alcuni colleghi parlamentari avevano rivolto a Verdini il giorno del 2012 in cui era passata la legge sul traffico d’influenze. «Denis, mi sa che ce l’hanno con te…».
Traffici e influenze, d’altronde, sono orgogliosamente parte del suo Dna, un cocktail impazzito in cui Verdini ha fuso quarti di bue e libri di ingegneria costituzionale, regolamenti parlamentari e trame ultrapartisan, lezioni di Giovanni Sartori e obbedienza (mai cieca) a Silvio Berlusconi, il Partito repubblicano e il Popolo delle libertà. Quasi sempre, almeno fino a un certo punto, accompagnato dalla convinzione che se fosse rimasto vivo uno, in qualsiasi battaglia, quello sarebbe stato lui. Tipo Christopher Lambert in Highlander.
Quando scoppiò lo scandalo della P3, nel 2010, uscì dall’interrogatorio con i magistrati e fece l’unica cosa che gli avevano consigliato di non fare: convocare una conferenza stampa. Alla domanda su come mai ben tre Procure lo indagassero, rispose caustico: «Perché è la 3P!». Qualche minuto prima, aveva riscritto parte della storia degli anni più bui della Repubblica, quando lui era ancora a Firenze a fare il consigliere di quartiere per il Psi e a qualche centinaio di chilometri di distanza la Finanza metteva sottosopra gli uffici di Licio Gelli: «Ricordate la P2? Era panna montata, l’inchiesta si è conclusa con l’assoluzione di molte persone…».
A ragione o a torto, viene considerato non tanto un grande vecchio, quanto il diabolico inventore di piccoli congegni che hanno scritto in parte la storia contemporanea. A destra, certo, come nella ricerca dei «responsabili» che consentirono al governo Berlusconi IV di salvarsi dall’opa ostile di Gianfranco Fini. Ma anche a sinistra. Renzi vince a sorpresa le primarie per il sindaco di Firenze nel 2009? «C’è l’aiutino di Verdini». Lo sfidante di Renzi per Palazzo Vecchio è un peso leggero come Giovanni Galli? «C’è la manina di Verdini». Renzi va in gran segreto ad Arcore nel 2010? «Ha organizzato tutto Verdini».
Sul patto del Nazareno, quello appunto tra Renzi e Berlusconi, le sue impronte Verdini le aveva lasciate ben visibili. La brama di potere, le accuse di essere da sempre (e pericolosamente) troppo vicino al denaro, quelle non l’avrebbero abbandonato mai. I due cavalli su cui aveva scommesso a un certo punto li ha persi: con Berlusconi rompe per rimanere dentro la maggioranza di Renzi e Renzi non lo riporta in Parlamento alle elezioni del 2018, lasciandolo senza immunità. Si è ritrovato, per un giro incredibile, un Salvini in famiglia. La propensione a non rimanere lontano dai guai, quella, a quanto pare, sopravvive.
Tommaso Labate
(da il corriere.it)

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DIRIGENTI, CARRIERE E PROMOZIONI: TUTTI I CONFLITTI DEL “COGNATO” SALVINI

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

LE INTERCETTAZIONI: IL SOCIO DI VERDINI PARLA DI MANAGER PUBBLICI TUTTORA IN CARICA NEI SETTORI DI COMPETENZA DEL MINISTERO DI SALVINI

Le intercettazioni dell’indagine su Tommaso Verdini e Fabio Pileri raccontano bene perché secondo i pm gli imprenditori pagavano la società dei due e i manager di Anas erano così gentili con loro. Il 6 dicembre 2022 Fabio Pileri (socio di Tommaso Verdini nella Inver Srl) è infuriato con l’imprenditore Angelo Ciccotto, finito anche lui ai domiciliari come Verdini jr e Pileri per corruzione e turbativa d’asta.
Ciccotto da luglio 2021 pagava 7.500 euro al mese più Iva alla Inver srl ma scrivono i pm “dopo la perquisizione subita a luglio 2022 aveva manifestato dubbi sul rinnovo del contratto al punto di evitare incontri, e, successivamente – una volta nominato Ministro, l’on. Salvini, vicino ai Verdini – si era riavvicinato per rinnovare il contratto”. Pileri sbotta: “forse rifanno il contratto … guarda caso stasera è arrivato l’invito a cena … gli ho detto a Tommaso di non andarci. (…) guarda caso arrivano dopo che Salvini s’è insediato. Eh che tempistica ragazzi! Vergognoso!”.
Per i pm gli imprenditori pagavano Verdini jr e Pileri per vincere appalti Anas e i funzionari erano così gentili con i due e le imprese da loro raccomandate perché speravano in aiuti per la carriera. Il dirigente Anas Domenico Petruzzelli per esempio per i pm “indebitamente riceveva da Tommaso e Denis Verdini e da Fabio Pileri utilità consistite nel loro intervento in sedi politiche ed istituzionali (tra gli altri presso l’avv. Federico Freni, sottosegretario al Mef, presso Massimo Bruno, Chief Corporate Affair Officer di Ferrovie dello Stato, presso Diego Giacchetti, neo direttore delle risorse umane e gestione del personale di ANAS) per la conferma in posizioni dirigenziali di ANAS…”.
Al di là della questione penale c’è una questione politica grande come una casa: Matteo Salvini è allo stesso tempo il ministro delle infrastrutture competente in materia e il ‘cognato’ (compagno della sorella Francesca) di Tommaso Verdini nonché il leader della Lega, partito del sottosegretario Freni, non indagato. Insomma un potenziale conflitto di interessi. A dire che c’è un comportamento ‘vergognoso’ delle imprese e che la nomina di Salvini aumentò nel 2022 l’appeal della società di consulenza del ‘cognato’ Tommaso è il socio di Verdini jr, non un passante. Non solo. Pileri parla di molti manager pubblici, tutti non indagati, che però sono tuttora in carica nel settore di competenza del solito ministro Salvini. Quindi, se è vero che il ministro non c’entra nulla con i fatti dell’indagine che coinvolge il ‘cognato’, dovrà occuparsene politicamente.
L’attuale Ad di Anas Aldo Isi è stato nominato nell’era del Governo Draghi. La sua conferma o rimozione sarà decisa tra pochi mesi e i ministri delle infrastrutture e dell’economia, entrambi leghisti, il solito Salvini e Giancarlo Giorgetti, avranno un peso. Il 21 novembre del 2021 secondo la sintesi del brogliaccio della Guardia di Finanza: “Pileri parla del nuovo AD di ANAS Isi come un ‘carissimo amico’ tenendo a precisare che si tratta di un “amico, amico, amico, amico, amico, amico, amico, amico” (ripete otto volte la parola “amico”)”. L’Ad Isi potrebbe essere vittima di millanteria e in altre conversazioni Pileri lo dipinge come un tecnico per bene che ‘non conosce le dinamiche’. Il Fatto ha chiesto a Isi mediante l’ufficio stampa se davvero fosse amico di Pileri ma l’Ad ha preferito non commentare.
Diego Giacchetti invece è il direttore delle risorse umane di ANAS. Secondo i pm, “il 22 febbraio si è verificato un incontro presso il ristorante Pastation tra Tommaso Verdini, Pileri, Diego Giacchetti e Federico Freni. Il giorno successivo Pileri ha riferito a Omar Mandosi (allora funzionario Anas International, Ndr) di aver difeso Petruzzelli, di aver parlato bene di Veneri (Paolo, dirigente Anas indagato, Ndr) e che Freni aveva dato loro mano libera. Lo stesso giorno Pileri ha informato anche Veneri dell’oggetto dell’incontro, comunicandogli di aver consegnato al Giacchetti una ‘lista’ (io ho sempre fatto la lista … ) di persone da ricollocare o confermare”. Pileri al capo del personale appena nominato non raccomanda però solo Petruzzelli e Veneri, entrambi indagati. Al suo amico Omar Mandosi, allora distaccato ad Anas International Entreprise, racconta la cena della sera prima: Giacchetti “è uno sveglio, simpatico, fino a 19 anni faceva karate viene da una famiglia umile, ci ha raccontato la storia, amo parlato di tante cose, amo parlato pure de te”. A cena, a detta di Pileri, Giacchetti avrebbe confidato le sue mosse future in ANAS. In quel clima Pileri aveva raccomandato Mandosi. “Poi ho parlato de te”. Quando Mandosi gli chiede come aveva preso il discorso, Pileri spiega “dopo aver difeso Petruzzelli, dopo aver parlato bene de Veneri, gli ho detto… davanti Freni che ci ha dato mano libera, ma lui, Giacchetti l’incontro con Freni gli interessa tantissimo perché siccome voi c’avete sempre il problema dei soldi… del bilancio (…) poi con Freni c’hanno compagni universitari insomma … vecchi amici e via dicendo. Allora si sono presi benissimo, poi diciamo Freni è molto amico di Bruno (Massimo Bruno, il capo delle relazioni istituzionali di FS, Ndr) e quindi gli ha detto ‘guarda io sono qui Massimo lo sa’ dice ‘sì, sì, sì, Massimo mi ha chiamato’ e via dicendo (…) poi gli ho detto ‘un nostro altro grande amico’ gli ho fatto ‘che penso te ne avrà parlato anche Massimo Bruno’ (…) gli ho detto ‘è Omar Mandosi’”. Giacchetti però alla richiesta di Pileri di inserirlo nella sua direzione, quella sera rispose picche. Mandosi alla fine sintetizza: “secondo me non me da spazio, però non mi purga nemmeno, sapendo che ..”. Pileri concorda. Mandosi il suo spazio poi lo ha trovato grazie a Pietro Ciucci: è stato nominato nel 2023 direttore delle risorse umane di Stretto di Messina Spa. Il 31 maggio del 2022 Pileri gli spiegava così la sua idea di Anas: “le gare le vinco con i marescialli non le vinco con loro eh! Sappi questo, ho vinto, pure adesso un accordo quadro importante, 60 milioni, le gallerie, quindi a me non me ne frega un cazzo… centro Italia, sto bene, per i prossimi 10 anni, te la dico però… a me chi cazzo me sente al telefono non me ne frega un cazzo, cioè non le vinci con i Simonini, gli Isi (ex ed attuale Ad di Anas, Ndr), Giacchetti, le vinci con il marescialletto eh! Lo sai come funziona? Eh.. .lo sai bene”.
Massimo Bruno, citato quella sera a cena, sempre secondo Pileri, è il capo delle relazioni istituzionali di Ferrovie dello Stato. Il 9 giugno 2022, scrivono i pm “è stata captata una conversazione tra Verdini, Pileri e Ciccotto (l’imprenditore finito agli arresti domiciliari che si è aggiudicato gare per un centinaio di milioni di euro, Ndr) in cui è stato ancora una volta ricordato l’impegno profuso per Luca Cedrone” (dirigente Anas indagato con l’accusa di aver aiutato l’impresa di Ciccotto, Ndr). Poi il pm riporta le parole di Pileri: “Quando abbiamo conosciuto qui è venuto il capo del personale Giacchetti, la prima cosa, vabbè a parte conoscerce a noi, c’ha tirato fuori la scheda de Luca Cedrone, che gli aveva dato Bruno”. Abbiamo cercato un commento di Mandosi e Bruno, contattati attraverso gli uffici stampa di FS e Stretto di Messina Spa, senza successo.
(da ilfattoquotidiano.it)

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IL GOVERNO MELONI HA DICHIARATO GUERRA AI POVERI

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

CHI TRA LORO L’HA VOTATO E’ STATO USATO E TRADITO… QUESTA NON E’ MAI STATA UNA “DESTRA SOCIALE”, LO DENUNCIAMO DA ANNI PERCHE’ LI CONOSCIAMO BENE, POI OGNUNO E’ LIBERO DI FARSI PRENDERE PER IL CULO

Uno dei tratti distintivi del governo Meloni, dalla sua elezione a oggi, è stato sicuramente quello di voler dichiarare guerra ai poveri: non tanto alla povertà come condizione di diseguaglianza sociale, ma più propriamente a tutte quelle donne e uomini che si trovano nell’impossibilità di soddisfare i propri bisogni primari.
Per questo governo la povertà non è un ostacolo che lo Stato deve rimuovere affinché le persone possano godere dei diritti riconosciuti dall’ordinamento, ma una colpa di cui vergognarsi, e che in qualche modo deve essere espiata individualmente.
Con ciò non vogliamo sostenere che la povertà dilagante in Italia (secondo i dati Istat nel 2022 i poveri erano 5.600.000, circa il 10% della popolazione residente) sia imputabile al solo governo in carica, né che questo approccio ideologico nei confronti della povertà sia esclusivo del nostro paese: per comprendere quanto il binomio povertà-colpa sia diffuso è sufficiente osservare l’atteggiamento di sostanziale chiusura nazionalistica degli altri paesi europei nei confronti del fenomeno migratorio.
Prima di entrare nel merito della politica di governo in tema di lavoro e welfare, occorre chiarire chi sono oggi i poveri in Italia.
Nella categoria rientrano diverse figure: disoccupati, lavoratori informali e tutti coloro che sono privi di forme autonome di sostentamento, ma anche molte lavoratrici e lavoratori regolarmente assunti, i cui contratti collettivi non sono in grado di soddisfare i requisiti minimi previsti dall’art. 36 della Costituzione.
In Italia, come testimoniano numerose sentenze dei tribunali territoriali e da ultimo la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 27711/2023; n. 27713/2023; n. 27769/2023; n. 28320/2023; n. 28321/2023; 28323/2023), in molti casi le lavoratrici e i lavoratori assunti percepiscono stipendi al di sotto della soglia di povertà relativa. In altre parole queste persone, pur lavorando regolarmente, non sono in grado di garantire a se stessi un’esistenza libera e dignitosa.
La necessità di salvaguardare retribuzioni “adeguate” non è soltanto una prerogativa della nostra Costituzione, ma trova un sostegno etico e politico-istituzionale di rilievo continentale nella direttiva Ue 2022/2041 e nell’art. 6 dell’European Social Pillar (anche se non di applicazione diretta) sulla determinazione di un salario minimo decoroso.
Ma la situazione attuale non è una novità dei nostri giorni: come rilevato dall’Ocse, da ormai circa 30 anni i salari delle lavoratrici e dei lavoratori italiani sono fermi, sebbene la produttività sia cresciuta; l’esplosione inflazionistica degli ultimi due anni ha contribuito a un’ulteriore erosione del potere d’acquisto.
Di fronte a tale scenario, le scelte legislative dell’ultimo anno e mezzo non lasciano dubbi su quale sia la volontà del governo: abrogazione del reddito di cittadinanza e la sua “sostituzione” con l’assegno di inclusione (AdI) e il supporto per la formazione e il lavoro; la flat tax a favore del lavoro autonomo, a discapito del lavoro subordinato e delle tutele che da tale rapporto derivano (contribuzione, malattia, maternità, ecc.); opposizione politica e ideologica alla legge sul salario minimo; riduzione delle tutele introdotte con il Decreto Dignità relative ai contratti a termine; promozione del cosiddetto lavoro gratuito di pubblica utilità attraverso vari interventi che rientrano nella definizione di politiche attive sul lavoro; introduzione di forme di welfare di natura familistica.
Molto si è già detto sull’abrogazione del reddito di cittadinanza, così come sugli effetti che essa avrà sulla vita di milioni di cittadini.
Al riguardo ci preme ribadire ancora una volta che la legge sul Reddito di Cittadinanza, per quanto fosse fortemente lacunosa e imperfetta, ha comunque rappresentato un primo passo verso una forma di welfare volta non solo a garantire un reddito minimo di sussistenza, ma soprattutto a sottrarre le lavoratrici e i lavoratori al ricatto salariale da parte dei datori di lavoro. Questa misura ha permesso ad alcune lavoratrici e lavoratori di rifiutare contratti di lavoro iniqui e sottopagati.
Quanto alla flat tax, abbiamo già avuto modo di rilevare come questa misura abbia una doppia finalità: da una parte garantisce esclusivamente la classe media riducendo l’imposizione fiscale (il 15% di ritenuta fino ad un massimo di 85 mila euro), dall’altra mira a favorire il lavoro autonomo a danno del lavoro subordinato, limitando le garanzie che da esso dovrebbero discendere (maternità, contribuzione, malattia, ferie). Con l’estensione del regime forfettario, a parità di reddito imponibile – ad esempio 35.000 € annui – l’imposta Irpef di un lavoratore autonomo sarà pari a 5.250 €, mentre per un dipendente sarà di 9.659 €, il 45,64% in più.
Veniamo ora alla proposta di legge sul salario minimo che il governo Meloni ha combattuto fin dall’inizio. Occorre precisare che l’introduzione del salario minimo, per quanto necessaria, non è in grado di riequilibrare da sola i rapporti di forza fra lavoro e impresa: oggi infatti il lavoro è sostanzialmente precario, come sono precarie le vite stesse delle lavoratrici e dei lavoratori, indipendentemente dalla forma contrattuale applicata.
Per poter svolgere effettivamente la propria funzione sociale, il salario minimo dovrebbe essere accompagnato da una serie di ulteriori interventi di natura sistemica, come la riforma complessiva delle misure di welfare oggi presenti nel nostro ordinamento.
In particolare, sarebbe opportuno procedere a una razionalizzazione dell’attuale sistema, eliminando le misure di carattere particolare e di natura contingente, che non possono funzionare come dispositivi di garanzia sociale, a favore di un’unica misura di carattere universalistico e incondizionata come il reddito di base.
La legge sul salario minimo non dovrebbe limitarsi a individuare un importo a cui la contrattazione collettiva deve allinearsi, ma dovrebbe piuttosto prevedere un meccanismo di proporzionalità che permetta un innalzamento complessivo dei salari.
Le tabelle retributive dei contratti collettivi sono suddivise in livelli e inquadramenti che vanno dal più basso al più alto in base alle mansioni svolte. Una volta introdotto il salario minimo occorre, in ragione del principio di proporzionalità sancito dall’art. 36 della Costituzione, che le retribuzioni previste per gli ulteriori livelli contrattuali siano aumentate proporzionalmente.
Quanto all’importo di € 9,00 lordi indicato nella proposta di legge presentata in Parlamento, va detto che tale importo sarebbe “sufficiente” solo nel caso in cui non fossero compresi elementi quali la 13a e la 14a, o altre indennità previste dalla contrattazione, ad esempio l’indennità di cassa o indennità di gravosità per le mansioni specifiche.
Un altro indice che chiarisce la posizione di questo governo sulle politiche del lavoro e di welfare è l’introduzione di misure di natura prettamente familistica, che contrappongono la famiglia con figli al resto della società e condizionano così le scelte di carattere personale che non dovrebbero rientrare nelle prerogative di uno Stato; ci riferiamo a tutti quegli incentivi volti a favorire la natalità esclusivamente in ambito famigliare.
A questo punto resta da chiedersi, visto che ormai è solo questione di tempo: quando si accorgeranno i milioni di lavoratrici e lavoratori, disoccupati e inoccupabili, che hanno votato questo governo di essere stati usati e traditi?
E in che modo si potrà coinvolgere e far convergere il resto del Paese astensionista in un polo per l’alternativa possibile, ancora tutto da immaginare?
(da Il Fatto Quotidiano)

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BUSTA PAGA, ALTRO CHE AUMENTI RECORD: NEL 2024 STIPENDI FERMI, PER I REDDITI BASSI MENO DI 5 EURO AL MESE

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

LA RIFORMA DELL’IRPEF PORTERA’ UN BENEFICIO IN BUSTA PAGA QUASI NULLO

L’aumento in busta paga sarà quasi impercettibile. La tanto sbandierata riforma dell’Irpef, che il Consiglio dei ministri ha approvato e che partirà da gennaio, avrà effetti molto limitati sugli stipendi dei lavoratori dipendenti.
La riforma dell’Irpef, con la riduzione da quattro a tre aliquote, porterà solamente tra i 4 e i 20 euro in più in busta paga al mese. E poco cambierà anche con la conferma del taglio del cuneo fiscale per il 2024 (solo per un anno al momento): si tratta semplicemente di una proroga, il che vuol dire che gli stipendi resteranno semplicemente uguali.
Un rapporto di Prometeia stima gli effetti delle due riforme: il guadagno medio, considerando l’aumento pieno del taglio del cuneo fiscale (e ignorando quindi il fatto che da gennaio non cambierà nulla) e la nuova Irpef, sarà di 544 euro annui. Con un’incidenza media sul reddito del 2,3%.
Ma per il cuneo fiscale, in realtà, non c’è alcun vantaggio rispetto agli stipendi attuali. Si tratta solamente della conferma della riduzione di sette punti degli sgravi contributivi per chi ha una retribuzione mensile fino a 1.923 euro, ovvero 25mila annuali. La riduzione è di sei punti percentuali per chi ha un reddito fino a 35mila euro, cioè tra i 1.923 e i 2.692 euro.
Diverso il discorso per l’Irpef, con il taglio da quattro a tre scaglioni: viene abolita l’aliquota al 25% e tra i 15mila e i 28mila euro scende al 23%. Per un risparmio massimo di 260 euro annui. L’altra novità riguarda la detrazione da lavoro dipendente per chi ha redditi fino a 15mila euro: passa da 1.880 a 1.955 euro.
Come detto, la riforma dell’Irpef comporterà un beneficio massimo di 260 euro l’anno e un beneficio medio di 164, secondo i calcoli di Prometeia. Per un’incidenza media sul reddito netto ridotta allo 0,7%.
Qualche calcolo era stato effettuato anche dalla Uil, che sottolinea come per i redditi intorno ai 15mila euro, quelli più bassi, l’aumento mensile è solamente di 4 euro. Si arriva a circa 5 euro per chi ne guadagna 20mila l’anno e a 16 euro mensili per chi è poco al di sotto dei 28mila euro. Il beneficio massimo mensile è di 20 euro per chi ha redditi tra 28mila e 50mila euro.
A fronte di una riforma costata oltre 4 miliardi di euro, si registreranno risparmi che nella maggior parte dei casi non superano i 10 euro al mese. Tra l’altro i maggiori benefici in busta paga, contrariamente a ciò che dice il governo, li avranno coloro i quali hanno redditi medio-alti, sopra i 30mila euro, mentre chi guadagna meno avrà solamente 3-4 euro in più al mese. Praticamente nulla.
(da lanotiziagiornale.it)

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MANOVRA, NIENTE FONDI PER L’EBRI DI LEVI MONTALCINI, CHIUDERA’.IL PRESIDENTE CATTANEO: “DECISIONE GRAVE”

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

DEL CENTRO EUROPEO PER LA RICERCA SUL CERVELLO VOLUTO DAL NOBEL, UNA ECCELLENZA SCIENTIFICA ITALIANA AL GOVERNO SOVRANISTA NON FREGA NULLA

Niente fondi per l’Ebri, il centro europeo per la ricerca sul cervello voluto dal Nobel Rita Levi-Montalcini.
Nella Legge di Bilancio quest’anno non c’è nulla e quello che era stato il sogno della più celebre scienziata italiana è destinato a chiudere.
La prima a rimarcarlo, in aula, è stata la leader del Pd Elly Schlein. «L’ambizione delle donne deve essere quella di diventare come Rita Levi Montalcini, non di vedervi tagliare le risorse alla ricerca».
È «una decisione grave, della quale il Governo deve assumersi la responsabilità», dice il presidente della Fondazione Ebri, Antonino Cattaneo. «Questo segnale di sordità e di assoluta indifferenza delle Istituzioni verso un piccolo gioiello della ricerca italiana mi dà profonda amarezza e tristezza – aggiunge – e metterebbe chiunque di fronte alla gravissima decisione di interrompere il sogno di Rita Levi-Montalcini di avere in Italia un centro di ricerca sul cervello di livello internazionale, non potendo contare sull’apporto delle Istituzioni».
Per Cattaneo, che di Rita Levi Montalcini è stato anche uno dei più stretti collaboratori scientifici, il mancato finanziamento «determina l’impossibilità di proseguire le ricerche e di sostenere i costi strutturali e la implementazione e manutenzione dei laboratori e delle sofisticate apparecchiature». Fra le conseguenze del mancato rinnovo dei finanziamenti, Cattaneo indica «la restituzione di finanziamenti competitivi ricevuti dall’estero, l’interruzione di collaborazioni con prestigiose università e centri di ricerca nazionali e internazionali, nonché di sperimentazioni cliniche in corso».
La mancanza di fondi rischia di vanificare anche i risultati finora ottenuti, dalle ricerche sul funzionamento del cervello a quelle sui meccanismi alla base di molte malattie neurologiche. Risultati, osserva Cattaneo, che sono «alla base di future innovative terapie per gravi malattie del cervello e dell’occhio che oggi non hanno cure adeguate, tra le quali malattia di Alzheimer e altre gravi malattie neurodegenerative, sclerosi multipla, epilessia, malattie neuropsichiatriche, glaucoma e neuropatie ottiche». La mancanza di fondi impone quindi uno stop anche alle sperimentazioni cliniche di farmaci sviluppati all’Ebri e alle ricerche su tecnologie d’avanguardia, basate su ingegneria proteica, terapia genica, intelligenza artificiale, imaging ottico, registrazioni elettrofisiologiche multiple. «Oggi lo Stato italiano ha deciso che le ricercatrici e i ricercatori dell’Ebri non possono contribuire, con la loro sapienza ed entusiasta abnegazione, alla ricerca verso la cura di malattie oggi ritenute incurabili», dice ancora Cattaneo. «Ci rimboccheremo le maniche come abbiamo sempre fatto, lavorando – conclude – a nuovi piani per valorizzare la ricerca dell’Ebri».
(da La Stampa)

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FINITE LE ARMI DI DISTRAZIONI DI MASSA, LA MELONI DOVRA’ FARE I CONTI CON LA VERA EMERGENZA DEL PAESE: L’ECONOMIA E IL LAVORO

Dicembre 30th, 2023 Riccardo Fucile

IL 34% DEI LAVORATORI TEME DI PERDERE IL POSTO A CAUSA DELLA CRISI ECONOMICA

Più di un lavoratore su tre (il 34%) non si sente sicuro del proprio posto di lavoro: teme che una nuova crisi economica e il rallentamento dell’economia possano portare la propria azienda a licenziamenti.
Lo afferma un sondaggio di People at Work 2023 dell’Adp research institute, condotto su oltre 32.000 lavoratori in 17 Paesi (2mila in Italia). Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i timori sono maggiori negli uomini (38%) e inferiori nelle donne (30%).
I sentimenti di precarietà sono più alti nella fascia 35-44 anni (37%), segue la generazione Z, ovvero quella che va dai 18 ai 24 anni con il 36%.
Dai 24 ai 34 anni è seriamente preoccupato il 34% del totale, mentre dai 45 ai 54 anni il 33%. Solo il 26% degli over 55 teme di perdere il proprio posto di lavoro.
“I tempi sono difficili, è normale che i lavoratori si sentano preoccupati per il proprio lavoro, temendo la perdita del posto per motivi economici ma anche con l’introduzione dell’intelligenza artificiale, che presumibilmente potrebbe sostituire alcune mansioni”, commenta Marcela Uribe, general manager Adp Southern Europe.
“Le aziende dovrebbero fare di più per rassicurare i propri dipendenti, mostrando loro che gli sforzi sono riconosciuti e che le prospettive di carriera sono effettive”, conclude Uribe.
(da agenzie)

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