Febbraio 26th, 2024 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE EMERITO DELLA CONSULTA: “IL COLLE VIGILA PER ASSICURARE IL RISPETTO DELLA CARTA”
La Costituzione garantisce il diritto di manifestare, possono essere previsti divieti o restrizioni solo per «comprovati motivi di pubblica sicurezza o incolumità pubblica» e anche l’uso della forza in caso di violazioni della legge o delle indicazioni delle questure deve essere assolutamente «proporzionato».
Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, spiega che non basta una semplice deviazione dal percorso stabilito a giustificare il ricorso alle maniere forti, a meno che i manifestanti non intraprendano azioni chiaramente violente, perché il diritto a manifestare va garantito. E il capo dello Stato, aggiunge, è intervenuto proprio in quanto «primo garante della Costituzione».
Professore, quindi dal punto di vista della Costituzione la reazione della polizia è stata esagerata?
«L‘azione della polizia può certamente arrivare allo scioglimento della manifestazione, se vi è un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica. Ma qui entra in gioco il principio di proporzionalità: la risposta deve essere adeguata rispetto alla situazione e non sfociare in un eccesso nell’uso della forza. Non a caso spesso c’è un’azione di reciproca persuasione, gli organizzatori anche sulla piazza dialogano con chi ha la responsabilità dell’ordine pubblico e chi ha responsabilità dell’ordine pubblico magari tollera alcune irregolarità per garantire lo svolgimento pacifico della manifestazione».
Quindi non basta dire – come fanno il vice-premier Matteo Salvini e come ha fatto Fdi in una nota – che se un corteo non rispetta le regole è giusto manganellare?
«No, certo. Si interviene per comprovate ragioni di sicurezza. Tanto che a volte si ha l’impressione che ci sia anche una reciproca e non espressa azione di tolleranza: la polizia sopporta che ci sia una piccola rottura dei cordoni dei contenimento pur di consentire lo svolgimento comunque ordinato della manifestazione. Certo, altra cosa è se nella manifestazione spuntano bastoni, o se partono sassaiole. Ma se non c’è un’azione violenta, l’essenziale è che sia garantito il diritto di manifestare».
Questo vale anche se il corteo non era autorizzato o aveva deviato il percorso
«La Costituzione stabilisce chiaramente il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. È un principio fondamentale, fa parte delle garanzie democratiche. E per riunirsi non è necessario nessun preavviso, se si tratta semplicemente di un luogo aperto al pubblico (un luogo privato a cui si accede a determinate condizioni, per esempio un cinema o un teatro, ndr). Quando la riunione avviene in un luogo pubblico (piazze, vie, ndr) non è che deve essere autorizzata: deve essere dato preavviso all’autorità, che non può sindacare. Ci possono essere divieti – e non autorizzazioni! – solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica. Le forze dell’ordine devono garantire sia il diritto costituzionale di manifestare – perché potrebbero esserci contro-manifestazioni che tentano di impedire il corteo – sia la sicurezza di tutti gli altri cittadini. E normalmente si svolgono anche delle trattative, il questore può dare indicazioni sul percorso e via dicendo, proprio per garantire l’incolumità e la sicurezza che dicevamo. Ovviamente a condizioni che non siano riunioni non pacifiche o armate».
Sulle manganellate è intervenuto addirittura Sergio Mattarella. Un fatto senza precedenti.
«Il Capo dello Stato è il primo garante della Costituzione. Perciò è attento anche ai rischi, alle deviazioni, alle ferite che possono avvenire rispetto all’esercizio dei diritti fondamentali. In questo caso ha proprio sottolineato la funzione che la polizia deve avere: i ragazzi possono avere sbagliato, ma se vi è un eccesso nell’uso dei manganelli significa che qualcosa non ha funzionato. Non è stato colto l’obiettivo che si deve avere in questi casi. Senza mettere in stato d’accusa nessuno. È una constatazione. È fondamentale che anche chi dissente fortemente dal contenuto della manifestazione rispetti lo svolgimento di un corteo. È una forma di manifestazione collettiva del pensiero».
L’opposizione mette sotto accusa tutta la politica di sicurezza del governo, ricorda le norme anti-rave, il ddl sicurezza… C’è il rischio di una deriva autoritaria?
«Possiamo ritenere che l’opposizione svolge il suo ruolo, nel senso che è anche una sentinella del rispetto dei principi costituzionali. Ma non riterrei che ci si avvii verso uno stato autoritario, perché vi sono anticorpi nel sistema: le garanzie costituzionali e finanche giurisdizionali».
Ma le garanzie costituzionali non verrebbero indebolite con la riforma del premierato? Avremmo un capo dello Stato eletto dal Parlamento e un presidente eletto dai cittadini, che peraltro controlla il Parlamento stesso
«Certamente ci sarebbe un indebolimento del presidente della Repubblica. Ma su questi temi il contrappeso maggiore dovrebbe essere il Parlamento, e con questa riforma il capo del governo avrebbe il potere di sciogliere le Camere sostanzialmente a suo arbitrio: l’essenziale è che non si inverta il rapporto tra governo e Parlamento, le Camere non possono diventare come dei consigli comunali. In questo senso al limite è migliore il semi-presidenzialismo francese, che ha portato in qualche caso anche ad avere un Parlamento con una maggioranza diversa da quella che ha eletto il presidente e alla coabitazione tra le due cariche istituzionali».
(da La Repubblica)
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Febbraio 26th, 2024 Riccardo Fucile
PIU’ SBARCHI, PIU’ MORTI E SCAFISTI SEMPRE LIBERI
Sull’edizione odierna, il quotidiano offre un suo fact cheking
arrivando a conclusioni affatto lusinghiere per l’attuale esecutivo che – lo ricordiamo – da quell’episodio trasse input per varare l’omonimo decreto che puntava a una stretta sull’immigrazione irregolare, ad ampliare gli ingressi per lavoro per i cittadini di Paesi che organizzano una formazione ad hoc.
Nell’articolo firmato da Alessia Candito si legge: “Il governo giurava di volerli evitare (i lutti, ndr) arginando le partenze, scoraggiando gli arrivi e «dando la caccia agli scafisti lungo tutto il globo terracqueo». Copyright Giorgia Meloni, che a Cutro ha dribblato i familiari delle 94 vittime del naufragio, ma ha lanciato la sua battuta di caccia internazionale. Un anno, quattro decreti, un maxi disegno di legge sulla sicurezza e un accordo con la Tunisia dopo, i numeri dicono che i morti sono aumentati“.
Rep cita dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), secondo i quali tremila persone sono morte nel Mediterraneo, più di 2.300 solo sulle rotte che partono da Libia e Tunisia.
“Le persone costrette ad affrontare la traversata in mare per raggiungere l’Europa invece non hanno fatto altro che aumentare. Al 31 dicembre, se ne contavano più di 155 mila, circa il 47% in più dell’anno precedente, ma mai come nel 2016.
E i rimpatri, da sempre grande cavallo di battaglia della destra di governo? A stento 4 mila e molti ne hanno pagato il prezzo sulla propria pelle. Un ragazzo trattenuto fino a dicembre al Cpr di Milo, spedito in Tunisia a dispetto di una richiesta di sospensiva pendente — spiega la sua legale, Claudia Nicotra — è stato subito sbattuto in carcere e condannato a dieci anni per un reato d’opinione“.
Inoltre, non bisogna dimenticare la situazione disastrosa dei Centri di permanenza e rimpatrio per i migranti (Cpr) che esplodono.
“Piove a Crotone. Una donna afgana con il volto consumato da età e dolori si paralizza quando su uno striscione nota il volto della figlia. Lo accarezza, poi in lacrime dice: «Vogliamo sapere perché non sono stati soccorsi». Del governo, non c’è nessuno che risponda”, conclude la Candito.
(da agenzie)
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Febbraio 26th, 2024 Riccardo Fucile
94 MORTI TRA CUI 34 BAMBINI E 11 DISPERSI, MA UNA VERITA’ ACCERTATA ANCORA NON C’E’
Il tempo sembra essersi fermato a quel 26 febbraio di un anno fa. Erano le 4 del mattino, quando sulla spiaggia di Steccato di Cutro si schiantò il caicco Summer Love partito due giorni prima dalla Turchia. 180 tra afghani e iraniani, fuggiti dai rispettivi regimi, alla ricerca di una seconda possibilità. Nell’ultimo miglio dalla terraferma morirono 94 persone, tra cui 34 bambini. I corpi di 11 migranti non furono mai trovati, risucchiati dalle acque gelide del Mediterraneo. A un anno da quel tragico giorno, con le famiglie delle vittime e i sopravvissuti riunitosi a Cutro, le cose sembrano non essere cambiate. Non si è arrivati a un verità giudiziaria, dopo 365 giorni le domande rimangono ancora senza risposta. Nella conferenza stampa seguita al Cdm speciale svolto a Cutro il 9 marzo scorso, la premier Giorgia Meloni minacciò gli scafisti di tutto il «globo terraqueo» mentre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi colpevolizzò i migranti poiché «anche se fossero disperati, non dovrebbero partire». Il governo garantì però anche il ricongiungimento e i corridoi umanitari per i famigliari. Promesse tradite, almeno per ora. Degli 81 sopravvissuti, alcuni hanno scelto di rimanere a Cutro. Nel comune della provincia di Crotone vivono circa 9mila persone, 300 sono stranieri.
«Il naufragio poteva essere evitato»
Dopo la visita di Piantedosi di due giorni fa alla tomba di Alì, la più giovane vittima della tragedia, stando a quanto scrive Repubblica, la questura di Crotone avrebbe consegnato ai sopravvissuti un modulo per chiedere la rivalutazione della richiesta di protezione internazionale al fine di concedere loro la protezione sussidiaria al posto di quella speciale.
Quest’ultima, proprio per effetto del decreto Cutro, non è infatti convertibile in un altro documento. Anche l’ambasciatore dell’Afghanistan a Roma ha assicurato che «con l’esecutivo si sta lavorando per consentire i ricongiungimenti familiari».
Ciò che chiedono i parenti delle vittime e i sopravvissuti è «giustizia e verità» e la possibilità, garantita dall’esecutivo, di potersi ricongiungere con le proprie famiglie. Lo hanno urlato a gran voce al corteo organizzato oggi dalla «Rete 26 febbraio», al quale ha partecipato anche la segretaria dem Elly Schlein. La loro posizione è unanime: «Vogliamo denunciare lo Stato italiano». Per non aver salvato i loro cari. Per aver lanciato l’allarme troppo tardi, per non essersi presi le responsabilità di quell’ennesima tragedia. «Il naufragio poteva essere evitato», raccontano all’Ansa due sopravvissute ventenni, Nigeena Mamozai e sua cognata, Adiba Ander. «Il governo italiano sapeva della presenza della nostra barca. Abbiamo visto un elicottero circa sette ore prima del naufragio. E lo hanno visto anche altri sopravvissuti». Ma a che punto siamo con le indagini?
L’iter giudiziario
Un anno dopo la strage le tre inchieste aperte dalla magistratura procedono a velocità differenti. Quella della procura di Crotone, giunta a processo, si è occupata dei presunti scafisti. Per la magistratura sono cinque le persone che hanno provocato la morte dei 94 migranti. Una è annegata durante lo schianto del caicco, gli altri quattro sono finiti a giudizio. Il ventinovenne turco, Gun Ufuk – che durante la confessione di inizio febbraio si è descritto come «rifugiato politico e capro espiatorio» – dovrà scontare 20 anni di reclusione e pagare una multa di circa tre milioni di euro. Secondo i giudici è responsabile di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio colposo e morte in conseguenza di altro reato».
Al termine del rito abbreviato, il giudice per le indagini preliminari lo ha anche condannato al risarcimento di alcune parti civili: i parenti delle vittime, il ministero dell’Interno e la Regione Calabria. Gli altri tre presunti capitani, Sami Fuat, anch’egli turco di 50 anni, Khalid Arslan, di 25, e il ventiduenne Ishaq Hassnan, entrambi pachistani, sono invece a processo davanti al Tribunale che li sta giudicando con il rito ordinario. Durante l’udienza, il sostituto commissario della Polizia di Crotone, che ha condotto l’indagine sul naufragio, ha precisato come dagli esami dei cellulari degli imputati e delle conversazioni via Whatsapp sia emersa l’esistenza di una rete di trafficanti di uomini che organizza i viaggi dalla Turchia verso l’Europa. Su quest’ultima vicenda è stata aperta un’inchiesta parallela della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, tuttora in corso.
«La Guardia Costiera sapeva, ma non era sul posto»
I primi a precipitarsi in spiaggia per salvare le persone migranti dal mare furono tre pescatori: Vincenzo Luciano, Gabriel Curca e Ivan Paone. Il 14 febbraio scorso Curca e Paone hanno testimoniato in aula, confermando le falle e i ritardi nel sistema dei soccorsi. «Quando ho chiamato la Guardia costiera (alle 4.34, ndr) per avvisarla della presenza di una barca in pericolo, mi hanno detto che sapevano già dell’imbarcazione naufragata, ma sul posto, in quel momento, non c’era ancora nessuno: né loro e neppure i carabinieri», la risposta di Paone nel corso dell’udienza davanti al Tribunale di Crotone. «Abbiamo tirato fuori dall’acqua persone vive e tanti morti – ricorda il pescatore -, tutti quelli che potevamo, ma eravamo soli su quella spiaggia».
L’inchiesta procede, ma a un anno di distanza i tre pescatori non riescono a dimenticare quelle tragiche immagini: «Ci vengo ogni mattina. I ricordi restano. Vengo qui e penso… qui ne ho trovato uno, qui ne ho trovato un altro…», racconta Luciano, intervistato dai media in occasione della tre giorni di commemorazione a Cutro. «C’è gente che ancora non è riuscita a fare un bagno al mare, io non ce la faccio – conclude -. Ho messo i piedi in acqua e mi vengono in mente quei bambini con gli occhi aperti». Nella stessa udienza contro i presunti scafisti anche il vicebrigadiere dei carabinieri Gianrocco Chievoli ha confermato la testimonianza dei pescatori. «Da quando avevo preso servizio, da mezzanotte, nessuno ci aveva avvertito che stava per arrivare una barca di migranti. Appena arrivati sulla spiaggia ci siamo resi conto della gravità della situazione ed abbiamo chiesto rinforzi – sottolinea -. La prima pattuglia di colleghi di Botricello l’ho vista circa 40 minuti dopo». Il processo è stato aggiornato al 10 aprile per sentire tre dei superstiti che si trovano ora ad Amburgo e che verranno ascoltati, con rogatoria internazionale, in videoconferenza.
I mancati soccorsi, il ritardo e il rimpallo di responsabilità
Nel frattempo, la chiusura delle indagini relative al secondo filone, quello sui presunti ritardi nei soccorsi al caicco in difficoltà dopo la segnalazione arrivata la sera prima da Frontex, è attesa entro un mese. Nel registro ci sono sei nomi: tre finanzieri in servizio a Vibo Valentia, Taranto e Crotone e tre coperti da omissis, ma che stando a fonti informate potrebbero essere militari della guardia costiera. Le accuse a loro carico sono «naufragio colposo, rifiuto e omissione di atti d’ufficio e omicidio colposo». Al vaglio degli inquirenti il lasso di tempo tra le 22.26 del 25 febbraio quando la Summer Love è stata avvistata dall’aereo Eagle One dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera e le 4.15 del 26 febbraio 2023, l’ora presunta del naufragio. Perché le operazioni di soccorso in mare non sono partite? E perché, una volta avvenuto lo schianto, sono arrivati in ritardo?, si chiedono da più parti. L’agenzia Ue e le autorità italiane (guardia di finanza e guardia costiera) si sono rimpallate fin da subito le accuse sul mancato soccorso.
Nei giorni scorsi è stato rivelato un particolare: la notte della tragedia nella control room di Frontex a Varsavia – scrive Euractiv, che ha visionato un documento del 17 novembre scorso – c’erano due ufficiali italiani, «che avrebbero sottovalutato il pericolo».
Il Fundamental right office (Fro), che monitora l’attuazione degli obblighi di Frontex in materia di diritti fondamentali, ha scritto nel report che casi come questo «possono degenerare rapidamente in un’emergenza» e che «un attento monitoraggio, o addirittura l’assistenza da parte delle autorità italiane in tali casi è imperativo». Il ruolo di Frontex è però ancora tutto da accertare: il 6 settembre scorso, i periti interpellati dalla Procura di Crotone per stabilire cosa accadde nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, evidenziarono come le informazioni diffuse dall’Agenzia agli interlocutori istituzionali fossero «molto approssimative, se non fuorvianti». Fatto sta che dalle indagini, dalle dichiarazioni e testimonianze raccolte emerge, a distanza di un anno dalla tragedia, un quadro con molte circostanze da chiarire. E a spese, ancora una volta, di chi rischia la vita per un futuro (migliore).
(da Open)
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Febbraio 26th, 2024 Riccardo Fucile
ALCUNI ATTIVISTI SI SONO SDRAIATI SEMINUDI DAVANTI ALLA STRUTTURA DI VIA CORELLI COSI’ COME FATTO DUE SETTIMANE FA DA ALCUNI DETENUTI
Sei attivisti dell’Associazione Enzo Tortora – Radicali Milano si
sono sdraiati seminudi questa mattina davanti al Centro di permanenza per rimpatri (Cpr) di via Corelli a Milano. Un’azione di protesta e sensibilizzazione alle condizioni durissime in cui sono costretti a vivere i migranti detenuti in quello milanese come negli altri Cpr distribuiti sul territorio nazionale. «Vogliamo rendere evidente a una Milano apatica cosa succede nel suo cuore – hanno detto gli attivisti spiegando il senso del loro gesto – Perché nessuno e nessuna abbia più alibi, nella necessità di portare le voci di chi sta dentro all’esterno, per riempire il silenzio e l’opacità aggressiva che la Prefettura continua a stendere sulla struttura. Le condizioni di degrado a cui sono sottoposti i trattenuti, note da tempo, sono vergognose e inaccettabili».
Il flashmob dei Radicali ha ripreso d’altronde il linguaggio del corpo usato da due degli stessi detenuti del Cpr, che lo scorso 10 febbraio si erano denudati nel cortile della struttura, restando in mutande sotto la pioggia.
Una protesta estrema contro le condizioni indegne della loro detenzione, in particolare per quanto riguarda cibo e cure sanitarie. Da Milano, la richiesta degli attivisti è netta: la chiusura dei Cpr in tutto il Paese. Iniziativa che chiede il governo assuma anche il consigliere comunale Pd Daniele Nahum, unitosi al presidio, cui hanno aderito anche i gruppi locali di Europa Verde e di Azione U30.
(da agenzie)
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Febbraio 26th, 2024 Riccardo Fucile
GLI AGRICOLTORI APPICCANO ROGHI, FORZANO BLOCCO DELLA POLIZIA E ASSEDIANO PALAZZI UE… MA NON ESSENDO STUDENTI O ECOLOGISTI NESSUNO OSA CONTRASTARLI
A quasi un mese dalla prima protesta degli agricoltori che ha bloccato gran parte di Bruxelles, oggi sono tornati nella capitale con i loro trattori per una nuova manifestazione. Centinaia di veicoli hanno raggiunto la capitale belga in concomitanza con il Consiglio Agricoltura che dovrà esaminare le proposte della Commissione europea per alleggerire gli oneri fiscali e burocratici a carico della categoria.
Gli agricoltori sono impegnati da diverse settimane in una campagna contro le norme ambientali europee troppo rigide e chiedono all’Unione Europea di ritirarsi dagli accordi di libero scambio e, in particolare, all’accordo Mercosur con i Paesi del Sud America. Il trattato tra l’Ue e il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay e il Paraguay sarà discusso oggi a Bruxelles e mira a consentire l’ingresso di prodotti a basso costo nei rispettivi mercati e gli agricoltori vogliono fermare definitivamente i negoziati su questo accordo.
Gli aggiornamenti della protesta
Stamani l’obiettivo dei manifestanti è arrivare proprio davanti alla sede del Consiglio, nel Quartiere europeo. Si attendono 1500 trattori provenienti da ogni angolo del Belgio, ma anche da Olanda, Germania e Francia. Le forze dell’ordine hanno blindato tutta la zona. Sono stati chiusi quattro tunnel, arterie vitali del traffico. Così come sono state bloccate le stazioni metro di Schuman e Maelbeek, quelle prossime alle sedi delle Istituzioni europee.
Nel frattempo decine di trattori hanno invaso il centro storico, penetrando fino all’iconica Grand Place. La manifestazione è stata organizzata da Fugea (la Federazione degli allevatori belgi), Fwa (la Federazione vallone dell’agricoltura) e da Fja, la Federazione dei giovani agricoltori. Al sit-in di fronte al Parlamento europeo sarà presente anche una delegazione di Coldiretti. Mentre Confragricoltura terrà oggi a Bruxelles la sua assemblea.
Da quasi quattro ore novecento trattori hanno preso d’assedio il quartiere europeo, provando a forzare i posti di blocco della polizia attorno alle sedi Ue alla rotatoria Schuman. Tra fischi, sirene e clacson, i manifestanti hanno incendiato dei copertoni e una barriera di sicurezza, la polizia ha aperto gli idranti per spegnere gli incendi.
La folla ha provato a forzare anche il blocco su rue Froissart, uno degli ingressi della sede del Consiglio Ue di Justus Lipsius, lanciando lacrimogeni e petardi contro gli agenti. Le forze dell’ordine di supporto sono accorse al varco, sbarrandolo con camionette e grossi mezzi con gli idranti.
Su rue de Pascal, gli agricoltori sono riusciti a scavalcare la polizia dapprima con alcuni partecipanti entrati a piedi e poi direttamente con i trattori, per riversarsi in una via interdetta alla protesta: Chaussee d’Etterbeek. La polizia ha azionato gli idranti e lanciato lacrimogeni. In risposta gli agricoltori stanno lanciando vari oggetti, come uova o lattine facendo salire ulteriormente la tensione.
Altri sono riusciti ad avanzare all’incrocio tra Avenue d’Auderghem e Rue Belliard, utilizzando i trattori e gettando letame sugli agenti, costretti a retrocedere. I dimostranti hanno gettato uova sull’edificio Lex, che ospita il servizio di traduzione del segretariato generale del Consiglio Ue, secondo quanto riporta Le Soir. Sotto il suono dei clacson, alcuni manifestanti continuano a lanciare petardi, uova e arance.
Dall’alba sono state intraprese ingenti le misure di sicurezza attorno alle sedi Ue, la polizia non sta lasciando passare nemmeno i giornalisti e i dipendenti delle istituzioni. Per le proteste il briefing della Commissione delle 12 si svolgerà in modalità online.
Presenti anche migliaia di agricoltori italiani, che in un corteo, guidati dal presidente nazionale di Coldiretti Ettore Prandini, stanno raggiungendo i pressi del Parlamento europeo.
La manifestazione in Italia sabato 2 marzo
«Sabato in piazza a Roma con gli agricoltori». Giuliano Castellino annuncia che “Ancora Italia” sarà alla manifestazione indetta dal Cra a piazza SS Apostoli. «La lotta intrapresa dagli agricoltori è una lotta popolare e nazionale – aggiunge – Per questo da tempo stiamo con Danilo Calvani ed il Cra. Abbiamo sostenuto i presidi e siamo scesi in piazza a Circo Massimo. Sabato 2 marzo saremo ancora al fianco dei nostri contadini e allevatori. A pochi passi dalla sede del Parlamento europeo, a pochi metri dal Parlamento italiano. Tra i palazzi del potere, simboli dell’oppressione per gridare ‘Lavoro, Libertà e Futuro!’».
Poi conclude: «Popolo e agricoltori uniti contro le guerre della Nato, l’usura di Bruxelles, le follie di Davos! Innalziamo il tricolore, simbolo di resistenza, dissenso e unità popolare».
(da agenzie)
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Febbraio 26th, 2024 Riccardo Fucile
IL MEDIATORE ERA ABRAMOVIC, POI PUTIN DECISE DI FAR UCCIDERE NAVALNY
Il 15 febbraio c’era l’accordo per scambiare Navalny più due
americani (tra cui Evan Gershkovich) con l’assassino russo Krasikov. Abramovic mediò, poi Putin decise invece di liquidarlo
La notizia, comunicata dalla direttrice del Team Navalny, è dirompente: il 15 febbraio mattina era di fatto stato raggiunto un accordo per scambiare Alexey Navalny, più due cittadini americani, con Vadim Krasikov, una spia russa del Fsb che Putin considera «un patriota» e che è in realtà l’assassino di un ribelle ceceno-georgiano nel Tiegarten di Berlino.
Maria Pevchik racconta che i soci di Navalny si erano assicurati ormai della decisione di scambiare Alexey con Krasikov, che sta scontando l’ergastolo per omicidio in Germania. Le trattative sono durate due anni, forse ci sarebbe voluto molto meno, ma è andata così, dice Pevchik, e il 15 mattina il team ha ricevuto la conferma dello scambio. Il 16 febbraio Navalny è morto. Assassinato.
La proposta di scambiare Navalny era stata recapitata a Putin dall’oligarca Roman Abramovich. E qui entriamo nella storia inquietante dell’omicidio di Navalny.
«Putin è stato chiaro», spiega Pevchik. «L’unico modo per prendere Krasikov è scambiarlo con Navalny. “Oh, sì, deve aver pensato Putin. Non tollererò Navalny libero. E poiché sono pronti a cambiare Krasikov in linea di principio, dobbiamo semplicemente eliminare il tema della contrattazione”».
In sostanza, Putin voleva fortissimamente Krasikov, l’aveva fatto sapere agli americani da mesi, Washington però in linea di principio, spiega una fonte di intelligence occidentale, lavorava almeno all’inizio per riavere Gershkovich, il giornalista del Wall Street Journal fatto arrestare da Putin con accuse inventate di spionaggio. Anche perché Navalny era russo, e gli americani non erano intitolati a trattare per la liberazione di un cittasino russo. In realtà – l’idea venne a Christo Grozev – esiste una legge che consente di scambiare prigionieri politici con spie russe.
La proposta arrivata a Puti da Abramovich ha creato una specie di corto ciruito: Putin non poteva dire di no, ma lui NON voleva lasciare Navalny a piede liberto. Unica soluzione, poco problematica per un uomo che «ha ammazzato decine di migliaia di persone», spiega Pevchik, era a quel punto assassinare Navalny.
Nella celebre “intervista” al propagandista americano pro Trump e pro Putin, Tucker Carlson, Putin aveva spiegato già – a una precisa domanda su Gershkovich – come considerava Krasikov. «Non ha senso tenere in prigione – sostenne Putin – una persona che, per senso di patria, ha fatto fuori un bandito in una delle capitali europee».
Poi aggiunse, inquietante e sibillino: «Che l’abbia fatto di sua volontà o meno, è un’altra questione» (peraltro negando che l’assassinio berlinese fosse stato ordinato da Mosca). Krasikov, giova ripeterlo per chi non ricordasse la storia, in realtà non è un “patriota”, ma è l’assassino dei servizi russi che nell’agosto del 2019 ammazzò a colpi d’arma da fuoco nel Tiegarten di Berlino l’esule georgiano Zelimkhan Khangoshvili, che aveva combattuto a fianco dei ribelli ceceni.
(da agenzie)
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