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IL PIANO DI LOLLOBRIGIDA PRO CACCIATORI: CARABINIERI FORESTALI SOTTO IL SUO CONTROLLO E SANZIONI PER GLI ANIMALISTI

Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile

DALLA TUTELA DELL’AMBIENTE AL SUO SFRUTTAMENTO: IN PIENA SINTONIA CON I POTERI FORTI E INQUINANTI CHE RAPPRESENTANO

Lo aveva promesso due mesi fa e ora il documento è pronto per l’approvazione, già lunedì, in Consiglio dei ministri. Il decreto-legge voluto da Francesco Lollobrigida – le cui bozze sono state visionate da ilFattoQuotidiano.it – ricalca la linea adottata dal governo Meloni, in relazione alla gestione dell’ambiente, già con la prima manovra di Bilancio del 2022: dalla tutela (sancita nell’articolo 9 della Costituzione) si passa allo sfruttamento. E allora ecco che nei 12 articoli di cui è composto il provvedimento c’è l’accoglimento di una delle principali richieste del mondo venatorio: limitare l’attività dei carabinieri forestali. Come? Facendoli passare sotto il controllo del ministero dell’Agricoltura, di cui Lollobrigida è a capo. Non solo: nero su bianco si inserisce una norma ad hoc per colpire gli animalisti. E per contrastare la diffusione della peste suina africana si continua con la strategia fallimentare degli abbattimenti indiscriminati da parte di chicchessia (cacciatori e agricoltori in primis) a cui si aggiunge, grazie al decreto-legge, l’esercito.
SOLDI A PIOGGIA ED ESERCITO
L’articolo 7 del decreto si occupa della peste suina africana. Per l’anno in corso sono previsti cinque milioni di euro e 15 milioni di euro per il 2025. E se all’inizio dell’epidemia (2022) i finanziamenti venivano dati principalmente per la costruzione di barriere fisiche, per proteggere gli allevamenti di maiali e sotto forma di indennizzi per gli operatori della filiera, ora la destinazione non è chiara. Anche perché nel frattempo, con la modifica dell’articolo 19 della legge sulla caccia (157/92), quella che dovrebbe essere un’attività di controllo faunistico – che prevede studi e competenze – è stata aperta a tutti i cacciatori, le cui associazioni venatorie beneficiano già, a partire dall’anno scorso – e sempre grazie al governo Meloni – di 500mila euro di soldi pubblici.
Ma l’articolo 7 sancisce anche l’ingresso dell’esercito nel piano di abbattimento dei suini. In particolare Lollobrigida ha previsto l’impiego di “177 unità del personale delle Forze armate” che sono “autorizzate a svolgere il servizio di cui al comma 1 per un periodo non superiore a dodici mesi, rinnovabile per una sola volta”. Insomma, si ricorre ai militari nonostante i dati di Ispra indichino che la popolazione dei cinghiali, a fronte di circa 300mila uccisioni all’anno, non sia in calo; e nonostante etologi, naturalisti e zoologi dimostrino che la braccata (la tecnica di caccia al cinghiale più utilizzata) abbia effetti contrari rispetto a quelli attesi. In sintesi: più se ne abbattono in maniera indiscriminata e più la popolazione cresce. “C’è bisogno di più scienza, non di fucili – commenta Domenico Aiello, avvocato e responsabile tutela giuridica della natura per il Wwf – questo è un approccio totalmente sbagliato a partire dalle sue basi. Per di più, l’esercito non saprebbe da dove cominciare, serve un approccio scientifico”.
GUERRA AGLI ANIMALISTI
All’esercito sono attribuite anche funzioni di pubblica sicurezza. Su questo punto Lollobrigida ha voluto specificare che si può ricorrere all’identificazione di quanti “possano mettere in pericolo l’incolumità di persone o la sicurezza dei luoghi in cui si svolge l’attività” di prelievo. Così “il personale delle Forze armate accompagna le persone indicate presso i più vicini uffici o comandi della Polizia di Stato o dell’Arma dei carabinieri” e “nei confronti delle persone accompagnate si applicano le disposizioni dell’articolo 11 del decreto-legge 21 marzo 1978”. Tradotto: se un animalista intralcia l’attività di abbattimento dei cinghiali (recentemente è stata la vicenda del rifugio Cuori liberi di Pavia a provocare polemiche) può essere portato in caserma o al comando di polizia per l’identificazione e trattenuto al massimo per 24 ore. “Questo decreto-legge è un’arma di distrazione di massa – continua Aiello – l’intento è quello di annullare la tutela dell’ambiente. Ora il governo, come già fatto col decreto sui Rave party e con la guerra agli attivisti per il clima, vuole colpire gli animalisti. Come se fossero loro la causa del problema”.
LOLLOBRIGIDA VUOLE I FORESTALI
Ma a coronare il sogno dei cacciatori – e dei bracconieri – è l’articolo 10 del decreto. Mentre in commissione Agricoltura alla Camera è in discussione la proposta di legge della Lega – e sostenuta dal centrodestra – per liberalizzare il più possibile la caccia, col provvedimento che approderà lunedì in Consiglio dei ministri Lollobrigida intende finalmente prendere il controllo di chi – insieme alle associazioni ambientaliste e animaliste – semplicemente occupandosi di tutela della fauna selvatica ha messo fino a ieri i bastoni tra le ruote dei cacciatori: i carabinieri forestali. Il reparto Soarda, che si occupa proprio di antibracconaggio, è stato più volte bersaglio della politica, con numerose interrogazioni da parte di parlamentari volte a delegittimarne credibilità e professionalità. Ora, col decreto-legge, il “Comando unità forestali, ambientali e agroalimentari dipende funzionalmente dal Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste”.
(da ilfattoquotidiano.it)

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OPERAZIONE UNIRAI: IL CAVALLO DI TROIA CHE I SOVRANISTI USANO PER PILOTARE LE NEW IN RAI

Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile

UN SINDACATO AL SERVIZIO DI TELEMELONI, PER BOICOTTARE LO SCIOPERO: QUELLO CHE NON SI ERA ANCORA VISTO IN ITALIA SEMPRE PIU’ “MODELLO PUTINIANO”

Il sabotaggio viene deciso venerdì, quando il segretario di Unirai, Francesco Palese, convoca via chat tutti gli iscritti in assemblea. Su google meet si accendono decine di finestre virtuali, cui si affacciano vicedirettori, capiredattori e capiservizio, conduttrici, mezzibusti e inviati, molti dei quali beneficiati dal new deal meloniano che, vuoi per convenienza vuoi per paura di ritorsioni, ormai macina proseliti a passo di carica. La macchina dei telegiornali è in mano loro. Possono mettere a punto le scalette, programmare interviste e controllare gli audio, stabilire quali video mandare in onda: in altre parole, far fallire lo sciopero proclamato dall’Usigrai.
«Ormai siamo più di 350, un miracolo se si considera che siamo nati solo da pochi mesi», fa di conto non per caso il leader dell’organizzazione varata nel dicembre scorso su input di Giampaolo Rossi, il direttore generale cresciuto nella sezione missina di Colle Oppio che per la presidente del Consiglio cura da sempre gli affari interni all’emittente pubblica.
Il burattinaio che nell’ombra tira le fila e dispone — per il tramite di un gruppo di fedelissimi, da lui stesso promossi: il direttore degli Approfondimenti Paolo Corsini, il capo della Comunicazione Nicola Rao, la vicedirettrice del Tg1 Incoronata Boccia — di far crescere e moltiplicare le adesioni a questo nuovo soggetto escogitato per rompere il sindacato unitario tacciato di “sinistrismo”; boicottarne qualsiasi iniziativa dal sapore anti-governativo; fiancheggiare i vertici di Viale Mazzini incaricati da Palazzo Chigi di asservire la Tv di Stato.
Il classico cavallo di Troia introdotto nella cittadella di Saxa Rubra per pilotare l’informazione, ora al suo primo vero banco di prova: boicottare la giornata di astensione dal lavoro indetta contro «l’asfissiante controllo del governo» per delegittimare l’Usigrai e rivelare l’infondatezza della protesta.
Una prova di forza in grado di dimostrare, una volta per tutte, chi comanda in Rai. Il segretario Palese non ci prova nemmeno a dissimulare: «Il nostro sindacato nasce perché in Italia c’è un nuovo clima culturale e chi prima aveva paura di esprimere un’idea diversa da quella dominante, ora si sente incoraggiata a venire allo scoperto», spiega. «Che la Rai sia stata governata da una precisa parte politica non lo scopriamo certo oggi».
Argomenti che smascherano la vera ragione sociale di Unirai. Non solo un sindacato giallo, come denunciano in tanti, che anziché operare a difesa di tutti i lavoratori — mobilitati per difendere la libertà d’informazione — si muove a copertura dei vertici aziendali. Bensì una sorta di format che per composizione, piattaforma, orizzonte strategico e parole d’ordine somiglia molto a una corporazione: da esportare, se dovesse funzionare, in altre società pubbliche ed apparati dello Stato. Capace di rompere l’unità sindacale, creare una sponda a favore del governo, imporre la voce del padrone.
È il senso più autentico della battaglia che si sta combattendo in queste ore. In prima linea, non casualmente, l’intero stato maggiore del nuovo corso Rai. Convinto d’essere a un passo dalla vittoria.
«Da noi si può andare tranquillamente in onda, ci sono i redattori, c’è quasi tutta la line», si è sbilanciata Cora Boccia venerdì in assemblea, anticipando l’esito della ricognizione che si farà stamattina alle 9, quando alla consueta riunione di sommario si conteranno le forze in campo. Lei sa bene che il suo direttore, Gian Marco Chiocci, vuole a tutti costi trasmettere il Tg1, anche in formato ridotto. E lo stesso potrebbe avvenire al Tg2, se solo il direttore Antonio Preziosi si persuadesse a strappare.
D’altra parte sono in maggioranza colonnelli gli iscritti a Unirai. Oltre alla vicedirettrice della testata ammiraglia, fedelissima del dg Rossi, negli elenchi del sindacato di destra compaiono le altre tre vicedirettrici, Vanya Cardone, Grazia Graziadei e Maria Rita Grieco; il caporedattore Angelo Polimeno; i vice Gianni Maritati e Susanna Lemma (moglie di Preziosi); le caposervizio Sonia Sarno e Cecilia Primerano, le conduttrici Barbara Capponi e Laura Chimenti. Per il notiziario cadetto, i vicedirettori Antonio Samengo, Fabrizio Frullani ed Elisabetta Migliorelli; i caporedattori Anna Mazzone, Adriano Monti Buzzetti e Adriano Farné; la vice Federica Corsini (moglie del ministro Sangiuliano); la conduttrice Manuela Moreno. Ma, a sorpresa, avrebbe dato la sua adesione pure Massimo D’Amore, il vicedirettore del Tg2 sponsorizzato dal Pd. E Roberto Gueli, che il M5S ha voluto come terzo condirettore alla TgR. A riprova che il salto sul carro, in Viale Mazzini, resta lo sport più praticato.
Basteranno per mandare in onda i telegiornali? Palese non si sbilancia ma è chiaro quel che pensa: «Se in redazione ci saranno 350 giornalisti non è che possono stare con le mani in mano. Tutto quello che andrà in onda sarà il benvenuto». Soprattutto dal governo.
(da repubblica.it)

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SONDAGGIO DEMOS: TRA I CINQUESTELLE CRESCE LA VOGLIA DI CAMPO LARGO, IL PD GUARDA AL CENTRO

Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile

NEL TERZO POLO RESTA ALTA LA DIFFIDENZA VERSO I GRILLINI

Il “campo largo” continua ad essere un obiettivo “largamente” condiviso fra gli elettori dei principali partiti di opposizione. PD e M5s. Molto meno fra coloro che guardano al cosiddetto “Terzo Polo”. Per ragioni comprensibili, visto il peso limitato che hanno sul piano elettorale. E, dunque, il rilievo “ridotto”, in caso di un’alleanza “larga”. È l’indicazione principale che emerge dal sondaggio recente condotto da Demos.
Rispetto a quanto osservato nella precedente indagine, condotta in febbraio, il sostegno a questa prospettiva appare più ampio tra gli elettori del M5s, che attualmente costituiscono, seppur di poco, la “base più larga” del “campo largo”: 64% di sostenitori.
Nel PD è il 58%. Si tratta di una tendenza interessante. E significativa. Condizionata dagli eventi elettorali avvenuti nel periodo recente. Negli ultimi 3 mesi, infatti, si è votato in 3 regioni. In Sardegna, quindi in Abruzzo e in Basilicata. Con risultati diversi. Infatti, solo in Sardegna l’alleanza di Centro Sinistra ha prodotto esiti positivi, sottolineati dalla vittoria di Alessandra Todde. Candidata espressa dal M5s. Nonostante che in Abruzzo la convergenza del campo sul candidato fosse più ampia. L’orizzonte di questa alleanza, comunque, appare piuttosto buio. Il Terzo Polo non c’è. O meglio, è, a sua volta, un Polo diviso. Anche all’interno, viste le diverse, in parte divergenti, posizioni dei leader. Carlo Calenda, Matteo Renzi ed Emma Bonino. Che si contendono un settore limitato – ma importante – del “mercato elettorale”. Puntando sulla “personalizzazione” piuttosto che sulla “strategia”. Politica. D’altronde, hanno scelto percorsi diversi anche alle Europee.
Confusione al centro
E “la formazione di una nuova formazione”, gli Stati Uniti d’Europa, che aggregano +Europa, Italia Viva e altri soggetti politici minori, non ha semplificato il quadro politico. Semmai, lo ha complicato. Per i partiti e i loro leader. E, quindi, per i cittadini. Così, le alleanze preferite dagli elettori dei “diversi” partiti, secondo il sondaggio di Demos per Repubblica, appaiono “diverse”. Soprattutto quando entra in gioco il Terzo Polo. Poco definito e per questo “sparso” nel “campo politico”. Attratto e, a sua volta, distratto da diverse direzioni. L’intesa con il Terzo Polo, infatti, è considerata con interesse dalla base del PD. Approvata da quasi il 60% dei suoi elettori. Un atteggiamento ricambiato, che indica un buon grado di reciprocità. Questo orientamento, però, nel Terzo Polo non si osserva quando entra in campo il M5s. Tuttavia, è difficile immaginare un campo elettorale effettivamente “largo” senza un’intesa o, almeno: un coinvolgimento “tattico”, con i 5 Stelle.
Le difficoltà della Lega
D’altra parte, “l’altro campo” non sembra particolarmente con-diviso. Dopo le elezioni del (settembre) 2022, infatti, il Centro Destra si è “scomposto” e oggi, praticamente, non esiste. Forza Italia deve fare i conti con la morte del fondatore. Silvio Berlusconi. Ideatore di un “partito personale” che, per definizione, ha perduto buona parte del proprio consenso, con la scomparsa della “persona” che l’ha concepito e costruito. Intorno a sé. Mentre la “Lega di Salvini” è divenuta, a sua volta, un campo di battaglia. Minacciata da soggetti politici esterni, che mirano a occuparne gli spazi politici ormai residuali. E, ancor più, dall’interno. Dalla competizione fra leader vecchi e nuovi. E soprattutto dalla perdita di “terreno”, o meglio, del “territorio”. Che ne aveva costituito le fondamenta. Soprattutto nel Nord. E, negli ultimi 10 anni, si è progressivamente ridimensionato, in seguito alla scelta di Salvini, di allargarlo, attraverso una “Lega Nazionale” (e “personale”), che ha perduto rapidamente identità. “Terreno”. Fino a scendere, in pochi anni, sotto il 10%. Affiancato da Forza Italia. E, nel Centro Destra, lontano dai Fd’I di Giorgia Meloni.
Il ruolo dei leader
Così, si è delineato un “campo di gioco” (politico) dove i concorrenti si formano e (man)tengono intorno al capo. Al(la) leader. Per questo motivo, però, occorre costruire un “territorio largo”. E occorrono leader in grado di presidiarlo. Di allargarne o, almeno, mantenerne i confini. Un’impresa non facile. Al contrario. In particolare, da quando il territorio è divenuto “virtuale”. Creato e riprodotto per via digitale. Mentre è divenuto difficile per un(a) leader mantenere il suo spazio. Affermare e ri-produrre la sua identità. In tempi nei quali lo spazio della politica è stato eroso dall’anti-politica. E ai partiti si sono sostituiti gli anti-partiti. A loro volta guidati da anti-leader. Una tendenza che, negli ultimi anni, ha indebolito soprattutto l’opposizione. “Divisa” fra PD, M5s e Terzo Polo. Senza un(a) leader condiviso(a). Ma come è possibile costruire un “campo largo” solo remando “contro”? Senza confini de-finiti e, soprattutto, senza un orizzonte de-finito non solo da persone, ma da valori … condivisi?
(da La Repubblica)

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