Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
“LA GUERRA IN UCRAINA HA DIMOSTRATO CHE UN ESERCITO PROFESSIONALE NON REGGE A LUNGO”… “MOBILITAZIONE O GUADIA NAZIONALE INIZIANO AD AVERE UN SENSO”
Se la Russia dovesse sfondare la linea del fronte in Ucraina un invio di truppe occidentali a sostegno di Kiev non potrebbe essere escluso. A dirlo in un’intervista rilasciata all’Economist due giorni fa il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, che già nei mesi scorsi aveva apertamente evocato l’ipotesi di un intervento diretto del suo Paese contro la Russia.
Ma la Francia sarebbe in grado di sostenere da sola un impegno in Ucraina contro Mosca? Quale potrebbe essere il ruolo della NATO in questo scontro? E soprattutto, qual è lo stato delle forze armate italiane nello scenario che si è delineato dopo il 24 febbraio 2022? Fanpage.it ne ha parlato con il generale Paolo Capitini, Docente alla Scuola Sottufficiali dell’Esercito di Viterbo, nonché reduce da missioni all’estero (Somalia, Bosnia, Kosovo, Ciad, Repubblica Centro Africana, Haiti e Libia).
Macron ha dichiarato che se la Russia dovesse sfondare la linea di difesa ucraina non esclude l’invio di truppe francesi.
Ci sarebbero molte cose da dire. Quelle parole, pronunciate dal Presidente della Repubblica francese in riferimento a una possibile evoluzione della situazione operativa in Ucraina, hanno un peso molto importante: la Francia sta dicendo che considera possibile l’ipotesi di inviare propri soldati in caso di sfondamento russo del fronte ucraino. A questo punto le domande che sorgono sono molteplici: la Francia si schiererebbe da sola o come membro della NATO? E cosa metterebbe a disposizione? Mezzi, equipaggiamenti, armamenti di alta gamma oppure addestratori e, perché no, unità di combattimento? Inoltre: siamo sicuri che la Francia si sia predisposta, anche numericamente, ad affrontare in Ucraina un tet-à-tet con l’Esercito russo in un combattimento di tipo classico? Intendo fatto di artiglierie, carri armati e reggimenti di fanteria che si affrontano direttamente sul campo.
A quest’ultima domanda come risponde?
Che sappiamo che la Russia ha già schierati nel solo fronte ucraino circa 300mila uomini, già reduci da oltre due anni di combattimenti reali e durissimi: è il doppio dei soldati di cui dispone l’intero esercito francese, anche nell’inverosimile ipotesi che venissero tutti mandati a combattere per Kiev.
Quello di Macron potrebbe essere stato un modo per indicare a Putin un limite da non superate? Come dire: il Donbas ormai è andato, ma non ci si spinga oltre.
Certo, è possibile, ma per sostenere un bluff del genere la Francia dovrebbe avere un adeguato peso militare almeno rispetto all’Armata di Putin. Mi spiego: se fossero gli Stati Uniti a schierare qualche corpo d’armata dietro il fiume Dnepr come a dire “Vladimir, adesso basta!” la faccenda avrebbe un certo significato. Se a farlo è invece la sola Francia c’è il rischio che Putin decida di “vedere” il bluff. E a quel punto che si fa? Rispetto agli altri Paesi europei Parigi non è certo nuova a uscite del genere: penso all’impresa del canale di Suez del 1956 insieme agli inglesi, come a tutte le diverse campagne nella Françafrique, dal Ciad al Mali, ma si tratta di tempi e di teatri molto, molto diversi da quanto si potrebbe trovare in Ucraina. Rimane in piedi un’ultima ipotesi, quella in cui Macron voglia gettare in avanti la palla non pensando davvero al combattimento, ma per dare una scossa agli altri paesi europei che, a parte la Polonia e gli stati baltici, non condividono con Parigi lo stesso entusiasmo nel vedersi direttamente coinvolti nel conflitto russo-ucraino.
E che succede se dei soldati francesi vengono uccisi dai russi? Verrà considerato un attacco alla solo Francia o a tutta la NATO? E potrebbe scattare l’intervento di altri Paesi dell’Alleanza?
Una delle prime cose che insegnano nelle scuole di guerra è che quando è in atto un conflitto nessuna risposta è mai automatica: nessun Paese scende “automaticamente” in guerra, ma lo fa sempre dopo una lunga e complessa valutazione dei rischi da correre, dei vantaggi che potrebbe eventualmente ottenere e degli obblighi che non potrebbe eludere. Detto ciò, se soldati francesi venissero uccisi dai russi in una missione decisa dalla sola Francia e concordata bilateralmente con Kiev non credo ci sarebbero i presupposti per far scattare un intervento della NATO, che ricordo essere una alleanza difensiva che pone al centro l’integrità del territorio degli stati membri aggrediti da una potenza nemica.
Perché?
Primo: l’Ucraina non è un Paese della NATO, quindi non dovrebbe scattare il famoso “articolo cinque”. Secondo: quella di mandare truppe sarebbe un’iniziativa esclusivamente francese, che attualmente non sembra essere concordata con altri Paesi dell’Alleanza Atlantica e neppure con la NATO in quanto tale. Come è già accaduto in passato in Ciad, in Mali o in Libia, quando i soldati transalpini sono stati attaccati non è mai scattato l’intervento NATO, e aggiungerei giustamente. C’è una sola eccezione, ma si tratta di un caso puramente teorico: vale a dire se la Russia, prendendo a pretesto la presenza di truppe combattenti francesi in Ucraina e magari rinforzando il concetto con le prove che queste stanno direttamente intervenendo contro truppe russe, decidesse in risposta di attaccare una nazione della NATO. Una piccola azione di ritorsione sarebbe certamente nelle capacità operative di Mosca. Tutt’altra cosa invece pensare di iniziare un conflitto, anche se localizzato e limitato con la NATO. È infatti innegabile che malgrado i proclami iniziali e le minacce attuali Mosca sta facendo una gran fatica a domare la resistenza ucraina e la possibilità di arrivare a un pari è tutt’altro che esclusa. Immaginarsi di rilanciare continuando la guerra in Ucraina e contemporaneamente aprire anche un fronte – anche se limitato – con la NATO. Ci sono modi migliori per suicidarsi.
Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello ha dichiarato, in un’intervista al Corriere, che le forze armate italiane hanno bisogno di un rinnovamento radicale. Il nostro esercito sarebbe pronto ad affrontare un conflitto convenzionale?
No. E il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito ha pienamente ragione su tutto: ha detto finalmente in pubblico quello che nell’Esercito si dice da molti anni, cioè che il mondo in cui credevamo di vivere che non esiste più. Il mondo della globalizzazione, quello, cioè, del “secolo americano” in cui si sarebbero dovute affrontare solo crisi locali, tra paesi falliti o signori della guerra. Quelle per le quali non si doveva neppure impegnare la parola “guerra”, ma la più tranquillizzante definizione di “operazioni per il mantenimento della pace”. Ebbene oggi anche l’uomo della strada si è accorto che il clima è completamente cambiato; il mondo unipolare non è mai nato e si sta pian piano manifestando un magmatico presente multipolare dove emergono potenze come la Cina, l’India, i BRICS e dove altre potenze, come la Federazione russa, lottano per mantenere o riguadagnare un posto di primo piano. Il Gen. Masiello ha solo ricordato a tutti che questo mondo impone a ogni Paese di poter contate su un sistema di difesa militare adeguato, pronto, reattivo e credibile. Per questo è indispensabile muoversi in direzioni diverse; verso la tecnologia, certo, con gli investimenti, sicuro, ma anche e soprattutto rimettendo l’uomo, il soldato, al centro
Cosa intende?
Occorre ripensare alla necessità di disporre di artiglieria, carri armati, blindati, sistemi contraerei e altro, ma soprattutto bisogna costruire un esercito che abbia soldati, non geometri, geologi, cuochi… servono uomini e donne addestrati al combattimento. Masiello, da primo responsabile dell’efficienza dell’esercito ha parlato di questo, indicando anche le vie da percorrere e i tempi ristretti che si hanno a disposizione. Un discorso chiaro, onesto, bilanciato e ineludibile che personalmente ho molto apprezzato.
Se è vero che all’Italia servono soldati potrebbe tornare l’obbligo di leva, inattivo dal 2005?
No, non credo. Ma la guerra in Ucraina ha dimostrato che in caso di un conflitto simmetrico e convenzionale un esercito professionale non regge a lungo. In questa prospettiva ripensare a parole antiche come “mobilitazione”, o “guardia nazionale” iniziano ad avere un senso non solo teorico. Credo che l’Italia oggi, in tempo di pace, debba e possa organizzarsi per avere un piccolo esercito professionale e una riserva composta da una sorta di “guardia nazionale” all’americana. L’unica alternativa sarebbe la reintroduzione della leva obbligatoria: ma sarebbe un suicidio politico che è davvero troppo chiedere.
Come si troveranno decine di migliaia di soldati disposti a far pare di una riserva?
Prima di tutto si devono definire le esigenze organiche di questo “esercito di riserva” e quindi stabilire le modalità di reclutarlo senza necessariamente ricorrere all’obbligo. È quindi inevitabile parlare di incentivi economici, di vantaggi professionali o di premi per chi si arruola nella “riserva”, ad esempio con punteggi preferenziali per i concorsi nella Pubblica Amministrazioni o incentivi previdenziali o facilitando l’accesso ai prestiti bancari per la prima casa o cose del genere.
Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello parla anche di “valori”…
Anche in questo caso c’è da dire “Era ora”! Fino ad oggi il concetto di difesa in Europa è stato interpretato in modo esclusivamente economico: paghiamo ed otteniamo in cambio sicurezza. Si tratta di un paradigma falsato e pericolosa: i soldi sono necessari, certo, ma non sono sufficienti. Occorre che la collettività rifletta davvero sui valori che la tengono insieme, valori come democrazia, solidarietà, libertà e pluralismo e che quindi si chieda quanto è disposta a pagare per preservarli e non parlo solo di denaro, ma di difenderli anche, se necessario, combattendo. D’altra parte è questo che indica la costituzione quando definisce “sacro” il dovere di ogni cittadino di difendere la Patria.
(da Fanpage)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
CALA LA FIDUCIA NEL GOVERNO… LA LEGA SOTTO L’8%
Diminuisce, seppur di poco, la percentuale di chi ha fiducia nell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Il governo, perdendo uno 0,1%, si attesta al 39,5%. È quanto emerge da un sondaggio Dire-Tecnè con interviste effettuate il 2 maggio. Il 53,5% degli elettori non ha fiducia nell’esecutivo, percentuale in aumento dello 0,2% rispetto a una settimana fa. La quota degli indecisi scende al 7,0% (-0,1%).
Fratelli d’Italia in calo ma sempre stabilmente in testa nelle preferenze degli italiani. Segue il Partito democratico, in crescita rispetto a una settimana fa. Lieve calo per il Movimento 5 Stelle, stabile Forza Italia/Noi moderati.
Il partito della premier si attesta quindi al 27,3% (-0,2% rispetto a una settimana fa). Resta a distanza il Pd, staccato di sette punti al 20,3% ma che comunque cresce di 0,3 punti. Completa il podio M5s al 15,9%, in calo di 0,1 punti. Al quarto posto FI+Nm stabile al 10,2%, posizione invariata rispetto a una settimana fa. Sotto c’è la Lega, al 7,8% .
Seguono Stati Uniti d’Europa al 4,6% (-0,2), Verdi e Sinistra al 4% (+0,1%) e Azione al 3,8% (invariata). Concludono la classifica Libertà al 2,1% (-0,1) e Pace, Terra e Dignità all’1,5% (-0,1). Gli altri partiti complessivamente sommano il 2,5% (+0,2%)
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
PER RESTARE ALLA CASA BIANCA, BIDEN DEVE SPUNTARLA IN TRE STATI IN BILICO (PENNSYLVANIA, MICHIGAN E WISCONSIN) DOVE NEL 2020 VINSE PER POCHE MIGLIAIA DI VOTI… DECISIVO SARA’ IL COMPORTAMENTO DELLE COMUNITÀ NERE DI FILADELFIA, DETROIT E MILWAUKEE
Da qualche settimana Joe Biden sta recuperando nei sondaggi, ma Trump è sempre in testa. Per il presidente l’elemento cruciale potrebbe essere il voto dei neri. Gli afroamericani sono stati i grandi protagonisti della sua elezione del 2020: prima capovolgendo a suo favore le primarie democratiche a partire dal South Carolina, poi aiutando a prevalere nel testa a testa con Trump, soprattutto in Georgia, Pennsylvania e Michigan.
Quattro anni fa Trump conquistò l’8% del voto nero. Oggi i sondaggi gli danno molto di più: 20-22% (la Fox addirittura 26).
Autorevoli analisti giudicano queste previsioni poco significative: avvertono che ci si basa su campioni di elettori troppo limitati e ritengono impossibile che un difensore dei suprematisti bianchi, un sostenitore del «razzismo al contrario», quello degli afroamericani contro i bianchi (cita di continuo l’esempio dei procuratori di colore che lo stanno processando a New York), possa arrivare a una performance elettorale mai vista prima. In realtà nel 1960 il repubblicano Richard Nixon (sconfitto da John Kennedy) ottenne il 32% del voto nero.
Se, come sostengono molti sondaggisti, Georgia e Arizona, due Stati del Sud conquistati da Biden per un soffio nel 2020, torneranno a Trump, il presidente si giocherà la rielezione negli altri tre Stati «in bilico»: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.
Per restare alla Casa Bianca deve spuntarla in tutti e tre. Nel 2020 vinse per poche decine di migliaia di voti rispetto a milioni di elettori andati alle urne. Stavolta potrebbe essere decisivo il comportamento delle comunità nere di Filadelfia, Detroit e Milwaukee (Wisconsin). La loro mobilitazione 4 anni fa fu determinante.
(da Il Corriere della Sera)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
NEL PAESE COMUNITARIO GIÀ SEGNATO DALLA PIÙ SCANDALOSA DISEGUAGLIANZA INTERNA, OGNI ANNO OLTRE 75 MILIARDI DI RICCHEZZA SI SPOSTERANNO DAI TERRITORI PIÙ INDIGENTI A QUELLI PIÙ BENESTANTI. DI FATTO: LA SECESSIONE DEI RICCHI E LA FINE DELL’UNITÀ E DELLA SOLIDARIETÀ NAZIONALE. TORNARE INDIETRO SARÀ TECNICAMENTE IMPOSSIBILE. CE NE PENTIREMO AMARAMENTE
L’Autonomia Differenziata è invece un fronte caldissimo qui ed ora. Stiamo parlando di una legge ordinaria, che segue l’iter normale e non passerà per nessun vaglio del popolo sovrano. Il testo del ministro Calderoli — sempre noto per aver firmato il Porcellum e aver dato dell’orango a Kyenge — è già stato licenziato al Senato, ed è appena approdato alla Camera. Martedì la conferenza dei capigruppo fisserà le sedute successive. Una settimana fa, in Commissione Affari Costituzionali, si è già avuta la prova di come le destre marcino in orbace, sui regolamenti parlamentari e sulle opposizioni politiche.
La maggioranza era stata battuta su un emendamento dei Cinque Stelle. Ma il presidente della Commissione, il fido Nazario Pagano, l’ha fatto rivotare con il pretesto di un’irregolarità formale. Una decisione grave e senza precedenti, che dimostra due cose: la spregiudicatezza di questa coalizione, ma anche la sostanziale tenuta del patto scellerato tra Fratelli d’Italia e la Lega, che scambiano il premierato con l’Autonomia differenziata.
Dunque, subito dopo le Europee l’Italia potrebbe ritrovarsi di fronte al fatto compito, cioè al varo a tappe forzate di una legge dello Stato che distrugge lo Stato. Perché questo è il risultato di quelle norme: le Regioni del Nord avranno competenza esclusiva su 23 materie, dalla salute all’istruzione, dall’ambiente ai beni culturali. Nel Paese comunitario già segnato dalla più scandalosa diseguaglianza interna, ogni anno oltre 75 miliardi di ricchezza si sposteranno dai territori più indigenti a quelli più benestanti.
Di fatto: la secessione dei ricchi e la fine dell’unità e della solidarietà nazionale. Un viaggio negli inferi, oltre tutto di sola andata: una volta approvata la “riforma” e trasferite le materie esclusive agli enti locali, tornare indietro sarà tecnicamente impossibile.
Diventerà “la nostra Brexit”. E ce ne pentiremo amaramente, ma inutilmente, tra una decina di anni. Cioè quando sarà troppo tardi, perché il danno al Sud si sarà già prodotto.
La constatazione più triste è che questo misfatto si sta consumando nell’inconcludenza delle sinistre e nell’indifferenza delle opinioni pubbliche. Comprese quelle meridionali: per “votare Giorgia”, saranno soprattutto loro a pagare il prezzo di questa ignavia.
(da La Repubblica)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
LE AGENZIE DI RATING SI MOSTRANO ATTENDISTE, IL MOMENTO DELLA VERITÀ SARÀ FRA IL 18 OTTOBRE E IL 22 NOVEMBRE, QUANDO IL GOVERNO DOVRÀ USCIRE ALLO SCOPERTO SULLE SCELTE DI POLITICA ECONOMICA CON LA COMMISSIONE EUROPEA. FINO AD ALLORA IL MINISTRO GIORGETTI DOVRÀ CHIEDERE SOSTEGNO PER RIFINANZIARE L’ENORME MOLE DEL DEBITO ITALIANO: 2.870 MILIARDI DI EURO
Ci sono le promesse di bonus in busta paga, gli aiuti al mondo agricolo, gli sgravi a chi assume, e la dura realtà dei numeri. In campagna elettorale i freddi comunicati del Tesoro italiano sull’andamento della liquidità passano più inosservati del solito. L’ultimo «conto disponibilità» presso la Banca d’Italia – di fatto le riserve per le emergenze di spesa – dice che a aprile lo Stato aveva a disposizione 13,842 miliardi di euro. Un anno fa in quello stesso conto c’erano 26,267 miliardi. Due anni fa, due mesi dopo l’invasione russa in Ucraina, erano più del triplo: 83,445 miliardi.
Lo scorso marzo abbiamo toccato il livello più basso da dicembre 2017: 7,022 miliardi. Tralasciamo le ragioni tecniche di queste fortissime oscillazioni, che non hanno a che vedere con la solidità dell’emittente Italia. Ma questi numeri rendono plasticamente un fatto difficilmente contestabile: i conti pubblici sono in affanno, e il governo, presto o tardi, dovrà spiegare agli italiani dove intende reperire le risorse per la prossima legge di Bilancio, e come rimettere il debito in una traiettoria discendente dopo il disastroso conto degli incentivi edilizi.ù
Per il momento le agenzie di rating si mostrano attendiste, disposte a concedere tempo e fiducia[…] Ieri è stata la volta di Fitch, il 31 maggio toccherà a Moody’s. L’opinione prevalente fra gli analisti è che fino all’autunno non ci saranno scossoni. Il momento della verità sarà fra il 18 ottobre e il 22 novembre, quando il governo dovrà uscire allo scoperto sulle scelte di politica economica con la Commissione europea. Fino ad allora il ministro Giancarlo Giorgetti dovrà continuare a chiedere sostegno a coloro che tutti i giorni comprano e vendono l’enorme mole del debito italiano: 2.870 miliardi di euro.
La prossima settimana il Tesoro lancerà la quarta edizione di Btp Valore, l’emissione dedicata ai risparmiatori italiani. È la cosiddetta strategia della “giapponesizzazione” del debito: più è sottoscritto dentro i confini nazionali, più è bassa la probabilità di una crisi di fiducia. Nel 2023 i residenti italiani – famiglie e imprese – hanno aumentato il portafoglio di titoli pubblici da 741 a 790 miliardi di euro. Per il prossimo collocamento il governo punta a raccogliere circa dieci miliardi, ma secondo gli analisti di Citi potrebbero essere almeno quindici.
C’è un però, l’altra faccia della medaglia di quella che dovrebbe essere una buona notizia. Il calo dei tassi di interesse – il primo taglio della Banca centrale europea sarà a giugno – ridurrà il costo del debito, ma lo potrebbe rendere meno appetibile. […] E poiché nel frattempo il debito riprenderà a salire, per restare appetibili i rendimenti dei Btp a dieci anni «dovranno mantenersi sopra il 3,5 per cento». Il tasso del prossimo collocamento del “Valore” dovrebbe attestarsi al 3,35 per cento per i primi tre anni, al 3,9 nei successivi tre.
Citi vede per il futuro problemi con i grandi investitori per «la complessità del mercato dei titoli italiani» e «la concentrazione delle emissioni verso i risparmiatori più piccoli».
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
L’EX SINDACA POTREBBE ANDARE AL MINISTERO DELL’UNIVERSITA’ CON ANNA MARIA BERNINI DIROTTATA AL TURISMO DA CUI SLOGGERA’ DANIELA SANTANCHE’… MELONI E’ SCONTENTA DEI MINISTRI FORZISTI, GLI IMPALPABILI PICHETTO, ZANGRILLO, BERNINI
Tra i tanti che affollavano la platea del teatro Manzoni di Milano, il 21 aprile, il giorno del famoso balletto con Ivana Spagna, c’era chi già sapeva del patto tra Antonio Tajani e Letizia Moratti. Tajani ha ricalibrato la campagna elettorale, puntando sempre più sul Nord, dove si è recato tantissimo
Lo ha fatto incontrando imprenditori e ceti produttivi per consolidare un consenso che era altissimo per Silvio Berlusconi, nelle terre a più alto reddito d’Italia. Lo ha fatto poggiandosi sull’ex sindaca di Milano, sulla sua rete di contatti in quei mondi, sulla sua voglia di rientrare nella scena nazionale della politica dopo tanti anni.
Moratti, Donna Letizia si è goduta i riflettori nuovamente addosso, con il volto di chi quel giorno aveva già incassato una promessa da Tajani e indirettamente dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Moratti correrà per le Europee ma ha chiesto di entrare nel governo come ministro.
Uno scenario che lei stessa non ha smentito in un’intervista lo scorso fine febbraio. Ci aveva già provato, insistentemente, quando il centrodestra stava componendo la squadra dell’esecutivo e il suo nome spuntò per la Sanità.
Al tempo era ancora vivo Berlusconi, Moratti non era rientrata in Forza Italia, e il partito era preda dei veleni di corte. A Tajani, ma anche ad amici e colleghi azzurri, Moratti ha detto di considerarsi più utile qui, in Italia, che a Bruxelles.
Ed è lei che, alla fine, potrebbe portare al domino di caselle per un mini-rimpasto. Meloni, confermano fonti di Fratelli d’Italia, non sarebbe contraria anche alla luce del caso di Daniela Santanché. Se sarà rinviata a giudizio, la ministra del Turismo in quota FdI si dimetterà.
Questo è l’accordo con la premier. Tutto è rinviato a dopo le Europee. La procura di Milano ha confermato che l’udienza che deciderà sull’imputazione o meno di Santanché non ci sarà prima del voto. Se poi Forza Italia farà davvero un buon risultato, sopra l’8,1% del 2022, magari superando anche la Lega, allora diventerà quasi scontato riequilibrare la presenza dei partiti della maggioranza nel governo.
E sono proprio i ministri forzisti quelli, ormai da tempo, maggiormente sotto osservazione. Gilberto Pichetto Fratin (Ambiente), Paolo Zangrillo (Pubblica amministrazione), Anna Maria Bernini (Università): Moratti ha puntato a quest’ultimo ministero. […] Moratti è stata alla guida di un ministero che ancora accorpava Istruzione e Università. Un settore dove si sente a suo agio
L’ingresso di Moratti nel governo garantirebbe certamente una presenza di maggiore carisma e di maggiore peso nella truppa forzista, considerata anche dalla premier un po’ più impalpabile delle altre (per risultati e performance). Toccherà a Tajani, d’intesa con Meloni, decidere il destino dei ministri di FI, tenendo conto anche dei contraccolpi che ci saranno sulla Lega di Matteo Salvini dopo il voto.
Non è escluso che Bernini possa trasferirsi al Turismo e lasciare l’Università a Moratti. Ma a quel punto i rapporti di forza esigeranno di trovare un altro ministero per FdI, a meno che la compensazione – per gentile concessione della presidente del Consiglio – non avvenga a livello di viceministri e di sottosegretari.
(da la Stampa)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
LA PREMIER CHIEDE IL PLEBISCITO CON DUE OBIETTIVI, UNO PIU’ INQUIETANTE DELL’ALTRO
Il “Vota Giorgia” — versione moderna del “Vota Antonio” di Totò — è molto più che uno slogan. È un manifesto politico. Parafrasando McLuhan: la leader è il messaggio. Tutto il resto non conta o viene dopo, come l’intendenza di De Gaulle che, inevitabilmente, “seguirà”. I guai giudiziari di Santanchè e i tazebao culinari di Lollobrigida, le stroncature di Reporters sans Frontières sulla libertà di stampa e le bocciature della Commissione Ue sui conti pubblici, le censure della Rai e le abiure del fascismo, le bordate di Capitan Salvini e le boiate del Generale Vannacci. Piccoli equivoci senza importanza, per un’aspirante Statista che si sente già a un passo dalla Grande Storia.
Potremmo chiamarla la Svolta di Pescara, e segna un prima e un dopo: Meloni capolista ovunque, candidata alle elezioni del 9 giugno non per andare a Strasburgo ma per capire se a Roma, dopo un anno e mezzo di governo, “la gente è ancora con me”. Una mossa furba ma bugiarda, annunciata da una donna fortemente populista, oggettivamente popolare e orgogliosamente popolana, che finge di non essere élite pur essendo stata parlamentare da cinque legislature, ministra per quasi quattro anni e ora premier da diciotto mesi.
È lei, così, a compiere il destino della destra post-berlusconiana, portandone a compimento la parabola “capocratica”. All’epoca il Cavaliere di Arcore fu il primo a scrivere il suo cognome nel simbolo di Forza Italia. Adesso l’Underdog della Garbatella chiede ai cittadini di scrivere il suo nome sulla scheda. Berlusconi, col sole in tasca, diceva agli italiani: io sono miliardario, ma vi regalo il sogno di diventare come me. Meloni, con l’elmetto in testa, dice agli italiani: mi chiamano “borgatara”, ma io sono fiera di essere come voi.
Dunque chiamatela Giorgia, e votatela per questo. E già che c’è, per convincervi meglio a due passi dal seggio vi fa pure trovare un bel Bonus Befana, versato in busta paga presumibilmente a gennaio 2025 ma annunciato casualmente in questi giorni: 100 euro lordi, grosso modo pari agli 80 euro netti con i quali Renzi — altro raffinato epigone dell’Unto del Signore — sbancò alle Europee del 2014. Al contrario della mancetta dell’astuto Matteo, questa è una tantum, non è automatica, la prendi solo se hai figli a carico e disponi di un reddito tra i 12 e i 28 mila euro lordi.
Ma tutto fa brodo, nella sbobba acchiappa-voti che la politica ci propina in questo sciagurato menù elettorale condito da nani, ballerine e figurine capaci di parlare di tutto meno che dell’Europa morente — come dice Macron — e del posto che l’Unione vuole avere in un mondo squassato da due guerre e schiacciato tra un’America che aspetta Trump e una Russia che si inchina a Putin.
Dietro l’artificio mediatico c’è un evidente maleficio politico. Meloni chiede il plebiscito con due obiettivi, uno più inquietante dell’altro. In Europa, la presidente del Consiglio ha cambiato schema e ha spiegato che non si schiererà mai con la famiglia dei socialisti: questo lascia temere che, archiviata l’idea di fare squadra con una Von der Leyen indebolita dal Pfizer-gate, ora voglia ritentare l’alleanza innaturale tra i Popolari e i Conservatori, «per spostare a destra l’asse dell’Ue» (come ha detto lei stessa), o comunque «per prenderne il controllo dall’interno» (come ha scritto il New York Times).
È un disegno ambizioso: la premier potrebbe approfittare di quello che persino Fareed Zakaria, commentando sulla Cnn, ha definito «Momento Meloni» nel Vecchio Continente, dove le sue posizioni sui migranti e sulla transizione ambientale hanno fatto breccia anche al di là del perimetro dei sovranisti di Visegrad. Ma è anche un disegno pericoloso: può ricompattare l’onda nera dell’ultradestra che va dai polacchi di Legge e Giustizia ai francesi di Reconquête, il partito di Maréchal Le Pen che torna a invocare il fronte unico di una “Europa civilizzatrice” chiamata a sostituire “l’Europa tecnocratica”.
In Italia, la capocrazia meloniana fa perno sulle due pseudo-riforme che ribaltano l’assetto costituzionale e istituzionale della Repubblica. L’elezione diretta del premier è una mina innescata sotto un Quirinale ridotto a ufficio notarile. Il «presidenzialismo all’italiana» — come lo ha battezzato con ironia involontaria la ministra Casellati — conferisce i pieni poteri a Palazzo Chigi, sottraendoli al Parlamento ridotto a votificio e a una Consulta svilita a cinghia di trasmissione dell’esecutivo, attraverso la nomina dei membri “laici”.
Combinato a una legge elettorale ancora da scrivere — ma già ispirata a un super premio di maggioranza che ricorda la Legge Acerbo grazie alla quale Mussolini occupò i due terzi delle Camere — il premierato è una battaglia di durata medio-lunga: dovrà passare per la doppia lettura dei due rami del Parlamento, con i canonici tre mesi di distanza l’una dall’altra, e poi affrontare le forche caudine del referendum confermativo, sul quale caddero proprio Berlusconi nel 2006 e Renzi nel 2016.
L’Autonomia Differenziata è invece un fronte caldissimo qui ed ora. Stiamo parlando di una legge ordinaria, che segue l’iter normale e non passerà per nessun vaglio del popolo sovrano. Il testo del ministro Calderoli — sempre noto per aver firmato il Porcellum e aver dato dell’orango a Kyenge — è già stato licenziato al Senato, ed è appena approdato alla Camera. Martedì la conferenza dei capigruppo fisserà le sedute successive.Una settimana fa, in Commissione Affari Costituzionali, si è già avuta la prova di come le destre marcino in orbace, sui regolamenti parlamentari e sulle opposizioni politiche. La maggioranza era stata battuta su un emendamento dei Cinque Stelle. Ma il presidente della Commissione, il fido Nazario Pagano, l’ha fatto rivotare con il pretesto di un’irregolarità formale. Una decisione grave e senza precedenti, che dimostra due cose: la spregiudicatezza di questa coalizione, ma anche la sostanziale tenuta del patto scellerato tra Fratelli d’Italia e la Lega, che scambiano il premierato con l’Autonomia differenziata.
Dunque, subito dopo le Europee l’Italia potrebbe ritrovarsi di fronte al fatto compito, cioè al varo a tappe forzate di una legge dello Stato che distrugge lo Stato. Perché questo è il risultato di quelle norme: le Regioni del Nord avranno competenza esclusiva su 23 materie, dalla salute all’istruzione, dall’ambiente ai beni culturali. Nel Paese comunitario già segnato dalla più scandalosa diseguaglianza interna, ogni anno oltre 75 miliardi di ricchezza si sposteranno dai territori più indigenti a quelli più benestanti.
Di fatto: la secessione dei ricchi e la fine dell’unità e della solidarietà nazionale. Un viaggio negli inferi, oltre tutto di sola andata: una volta approvata la “riforma” e trasferite le materie esclusive agli enti locali, tornare indietro sarà tecnicamente impossibile. Diventerà “la nostra Brexit”. E ce ne pentiremo amaramente, ma inutilmente, tra una decina di anni. Cioè quando sarà troppo tardi, perché il danno al Sud si sarà già prodotto.
La constatazione più triste è che questo misfatto si sta consumando nell’inconcludenza delle sinistre e nell’indifferenza delle opinioni pubbliche. Comprese quelle meridionali: per “votare Giorgia”, saranno soprattutto loro a pagare il prezzo di questa ignavia.
(da repubblica.it)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
IL DIBATTITO POLITICO E’ MIOPE, IL WELFARE STATE SI STA CORRODENDO
Il dibattito politico è per sua natura miope. Tende a concentrarsi su lievi fluttuazioni di variabili come il Pil, il tasso di occupazione ed il debito pubblico; mentre spesso vengono ignorati quei trend di lungo periodo che stanno corrodendo il welfare state e minacciando il corretto funzionamento della nostra democrazia. Mi riferisco soprattutto alle diseguaglianze economiche.
Secondo i dati del World Inequality Database, dal 1980 al 2022 in Italia, la quota del reddito lordo che è andata all’1% della popolazione più ricco è più che raddoppiata (dal 6,2% al 13,6%). Anche il 10% più ricco ha visto un netto incremento (dal 28,4% al 39,1%). A farne le spese è stata sia la metà più povera (dal 21,3% al 15,7%), sia la classe media (dal 50,3% al 45,3%). Per chi come fonte di entrate possiede unicamente il proprio stipendio, le brutte notizie non finiscono qui. La percentuale del reddito che va a remunerare il lavoro è scesa drasticamente a favore della quota che remunera il capitale (in forma di dividendi, plusvalenze, interessi etc). Una pubblicazione accademica stima una diminuzione addirittura dal 66,9% al 50% dal 1970 al 2018.
Questo trend è continuato negli ultimi tre anni, come attesta l’analisi Oxfam, recentemente pubblicata, sull’andamento dei dividendi delle grandi società italiane in relazione a quello del salario reale medio. In pratica, i lavoratori devono competere sempre più aspramente per rientrare in una fascia di reddito agiata e comunque la fetta di torta che si contendono è sempre più piccola.
Questi trend sono dovuti a diversi fattori, che concorrono alla stagnazione del reddito del lavoratore comune e contemporaneamente rendono l’ambiente propizio per quei pochi che possono contare su rendite derivanti dal possesso di immobili, asset finanziari e partecipazioni societarie. Ne riporto alcuni. La contrattazione collettiva portata avanti dai sindacati ha perso la sua efficacia, ostacolata da politiche che hanno sdoganato il lavoro a termine e il subappalto. E’ dovuta intervenire la Cassazione nel 2023, per provare a porre rimedio a quei casi in cui il Ccnl non garantisce i principi dell’articolo 35 della Costituzione.
La terziarizzazione, fenomeno che si è verificato in tutte le economie avanzate, in Italia è stata particolarmente negativa. L’occupazione si è spostata da settori industriali ad alto valore aggiunto e capaci di sviluppare progresso tecnologico, come l’automotive e il siderurgico, a settori del terziario a basso valore aggiunto, come turismo e ristorazione, che crescono grazie al contenimento del costo del lavoro.
Va evidenziato il fallimento del sistema scolastico, che, sotto-finanziato, si è dimostrato incapace di fornire un’educazione universale di qualità, ma ha deciso di investire unicamente in piccole nicchie. Da un lato in Italia solo il 28% dei giovani raggiunge un titolo di educazione terziaria, uno dato anni luce lontano dalla media europea. Dall’altro, il Miur spende il 60% delle risorse destinati alle infrastrutture universitarie per gli istituti di merito (la più famosa la Normale di Pisa), dove ci sono meno dell’1% degli studenti universitari.
Ad accentuare ancora di più queste dinamiche concorre il sistema fiscale, scaricando gli oneri principali sul lavoro e applicando aliquote agevolate ai redditi da capitale, che inoltre godono delle liberalizzazione che ne hanno aumentato la possibilità di movimento negli ultimi decenni.
Questi scenari implicano la necessità di misure che ad alcuni potrebbero sembrare “radicali”. A partire da una riforma del fisco che riporti progressività, tassando i grandi patrimoni e le rendite; passando per politiche che portino ad una diffusione degli utili anche ai dipendenti di una società. Fondamentale è anche un intervento pubblico che reindirizzi l’economia verso settori che possano garantire la competitività internazionale e stipendi dignitosi. Dato il contesto, di “radicale” in realtà c’è soltanto il continuare ad ignorare queste tematiche.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Maggio 4th, 2024 Riccardo Fucile
L’EUROPARLAMENTARE MATTHIAS ECKE, 41 ANNI, HA PERSO CONOSCENZA E DOVRA’ ESSERE OPERATO PER VARIE FRATTURE… QUANDO SI CAPIRA’ CHE LE FOGNE RAZZISTE VANNO BONIFICATE SENZA PIETA’ SARA’ SEMPRE TROPPO TARDI
L’europarlamentare tedesco dell’Spd Matthias Ecke è stato aggredito ieri sera a Dresda mentre attaccava manifesti per la campagna elettorale del suo partito.
Ecke, 41 anni, è il capolista dell’Spd in Sassonia per le Europee di giugno. Secondo quanto riferito alla Bild dal segretario dell’Spd in Sassonia, Henning Homan, tre o quattro persone sarebbero spuntate all’improvviso e avrebbero iniziato a insultare lui e alcuni altri militanti socialdemocratiche che erano impegnati nell’attacchinaggio.
Dopo gli insulti a carattere omofobo, sarebbe scattato il pestaggio. Ecke è rimasto ferito in modo serio, perdendo anche conoscenza. Avrebbe diverse ossa rotte e dovrà ora essere operato. L’identità degli aggressori è al momento ignota, ma si sospetta possano essere attivisti di estrema destra.
Secondo la polizia di Dresda, pochi minuti prima, un gruppo di quattro persone aveva aggredito anche un militante 28enne dei Verdi mentre faceva attacchinaggio. L’ipotesi, ora al vaglio degli inquirenti, è che si tratti degli stessi picchiatori.
Le reazioni politiche
Mentre si attende l’esito delle indagini sull’identità degli aggressori, fioccano in Germania le reazioni politiche all’agguato contro l’europarlamentare socialdemocratico. I leader Spd in Sassonia hanno parlato di un «segnale d’allarme impossibile da ignorare per chiunque in questo Paese: la serie di attacchi da parte di criminali contro i militanti di partiti democratici rappresenta un attacco alla fondamenta della nostra democrazia».
E il partito evoca la matrice di ultradestra dell’agguato scrivendo su X che «la violenza e l’intimidazione contro i democratici sono i metodi dei fascisti». Il ministro dell’Interno Nancy Faeser, lei stessa dell’Spd, ha messo in guardia contro la «nuova dimensione di violenza anti-democratica» nel Paese. Mentre il primo ministro del Land di cui Dresda è capitale, Michael Kretschmer, della Cdu, si è detto «scioccato» dell’accaduto, osservando come le aggressione contro gli avversari politici siano qualcosa che rievoca «i periodi più neri della nostra storia».
(da agenzie)
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