Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
“LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA HA FALLE EVIDENTI, TROPPI LAVORATORI NON SONO RAPPRESENTATI E SOLO IL 10% E’ ISCRITTO AL SINDACATO”
Il giorno in cui si celebra la Festa dei lavoratori è il momento adatto per riflettere sul presente che viviamo, fare un bilancio sul passato e ipotizzare nuove prospettive per il futuro. Come stiamo affrontando le problematiche nel cuore del mercato del lavoro, dalla precarietà alla contrattazione collettiva? Cosa possiamo cambiare per garantire un futuro più roseo e meno incerto alla vasta platea di giovani inattivi? Lo scenario economico nazionale si sta evolvendo nella direzione giusta? Abbiamo cercato le risposte a questi interrogativi rivolgendoci a un esperto: l’economista Tito Boeri, direttore del nuovo mensile di economia Eco, edito da Enrico Mentana, che ha visto la luce lo scorso 13 aprile. Il primo numero si concentra proprio sulle due facce del mercato del lavoro in Italia: da un lato il boom di nuovi occupati, dall’altro le buste paga sempre più leggere. E proprio da qui prende le mosse la nostra conversazione di oggi con il professore Boeri.
Oggi è il 1 maggio, la festa dei lavoratori. Chi sono i lavoratori nel 2024?
«Nel 2024 sono aumentati gli occupati e i lavoratori dipendenti, e anche i contratti a tempo indeterminato. Parliamo di circa mezzo milione in più rispetto a un anno fa. Il rovescio della medaglia, però, è che i salari si mantengono sempre più bassi: gli italiani oggi vengono pagati meno, le loro retribuzioni si sono ridotte molto più di quanto avvenuto in altri Paesi con la recrudescenza dell’inflazione. Non hanno tenuto il passo con l’aumento dei prezzi».
E perché?
«La prima ragione è che il nostro sistema di contrattazione collettiva ha delle falle evidenti. Esclude una quota crescente di lavoratori. Questo per svariati motivi: per esempio, i contratti vengono rinnovati con forte ritardo, talvolta persino dopo due o tre anni. Inoltre, molti lavoratori che sulla carta sono coperti dalla contrattazione collettiva si ritrovano ad avere salari inferiori a minimi tabellari, perché i contratti non vengono rispettati. Crescono inoltre i contratti pirata, siglati tra datori e alcune organizzazioni sindacali minori, che praticano ribassi sui minimi fissati con i confederali. Le riduzioni possono essere consistenti: arrivano a sfiorare il 40%. E anche se questi accordi riguardano solo una fetta di lavoratori, finiscono per trascinare tutti verso il basso. Infine, bisogna dire che i sindacati sono meno presenti e forti di quanto si creda. Se si guardano i dati campionari, si scopre che il tasso di sindacalizzazione si attesta su un misero 10%».
Questo può dipendere anche dal fatto che le organizzazioni tradizionali non sono state al passo con le mutazioni del mercato del lavoro?
«Sicuramente. I sindacati non sono riusciti a coprire i nuovi protagonisti del mercato: i giovani e le donne. Il ritardo è dunque sul piano generazionale e delle lotte di genere. Queste categorie tendono a passare frequentemente dall’occupazione alla non occupazione, sono più precarie e vulnerabili. Senza considerare, nel caso delle donne, i contraccolpi derivanti dalla maternità. Un problema troppo spesso trascurato, come per anni è stato ignorato il tema del lavoro temporaneo. C’è poi un altra questione che mi preme segnalare: le clausole di non concorrenza, che impediscono ai dipendenti di cambiare azienda nel caso in cui dovessero riscontrare di essere pagati troppo poco, o per altre ragioni. Queste clausole sono state messe al bando negli Usa. In Italia sono spesso presenti, anche per lavoratori con retribuzioni basse, però non se ne parla».
La contrattazione collettiva è proprio ciò su cui ha fatto leva il Cnel per affossare il salario minimo. Ieri Pd, Avs e 5 Stelle hanno presentato in Cassazione una proposta di legge popolare sulla misura. Lei si era espresso a favore, evidenziando però alcune criticità: quali?
«Bisognerebbe innanzitutto rispondere al parere del Cnel mettendo in luce ciò che il Cnel non dice. Ovvero che la contrattazione collettiva è molto meno efficace di quanto erroneamente si pensa. In secondo luogo, la scelta della soglia del salario minimo non andrebbe individuata a priori, ma demandata al governo. Sulla base del parere di una commissione tecnica che analizzi approfonditamente qual è il livello giusto. Perché un livello troppo basso non ha effetti, mentre troppo alto riduce l’occupazione. E su questo bisognerebbe partire subito».
Il governo nel frattempo ha approvato, con il 13esimo decreto legislativo della riforma fiscale, il bonus una tantum che prevede un’aggiunta di 100 euro lordi sulla tredicesima mensilità per i lavoratori a basso reddito. Che ne pensa?
«L’ennesimo intervento estemporaneo. Documenta tra l’altro come la situazione dei nostri conti pubblici sia veramente difficile: non si sono riusciti a trovare nemmeno 100 milioni, si è dovuto rimandare la misura al 2025. La cosa fondamentale quando si fanno questi interventi, invece, è dare una continuità: solo questo può davvero migliorare le condizioni salariali e incentivare le persone a entrare nel mercato del lavoro. Il grosso tema adesso è se verranno rinnovati i tagli al cuneo fiscale del 2024 anche nel 2025».
Nel Def è stata rivista al ribasso la crescita del Paese. È plausibile, come dichiarato da Giorgetti, che la frenata sia imputabile solo al «quadro internazionale e geopolitico complicato»?
«Sicuramente queste cose a cui ha fatto riferimento il ministro sono giuste. Tra l’altro la riduzione è inferiore a quella prevista dalle altre organizzazioni internazionali. Non voglio dare colpe al governo. Ma credo che debba essere realistico nelle previsioni di crescita, forse eccede in ottimismo».
In estate ci dobbiamo aspettare una procedura di infrazione per deficit eccessivo?
«Mi sembra abbastanza scontato. E a quel punto dovremo ridurre il disavanzo di circa lo 0.5% del Pil. Questo è sostenibile se teniamo il disavanzo allo stesso livello del Def. Ma così, mi chiedo come sarà possibile rinnovare il taglio al cuneo fiscale. Delle due l’una: o il governo ha mentito all’Europa, dicendo che il disavanzo sarà quello del Def presentato, e invece vuole aumentarlo (violando le regole europee). Oppure ha mentito agli italiani e ha deciso che non rinnova il taglio del cuneo fiscale. In entrambi i casi, è preoccupante: tenere lavoratori e imprese in attesa significa vanificare gli sforzi di quest’anno. Se i tagli alle tasse non possono essere duraturi non hanno effetto».
A proposito di tagli alle tasse: con il nuovo decreto Primo maggio il governo Meloni ha annunciato che lancerà sconti fiscali per chi assume, soprattutto giovani e donne. Secondo lei è la strada giusta per aiutare le assunzioni?
«Erano misure già previste nelle politiche di coesione, è solo il decreto attuativo di una misura già annunciata. C’è da dire che in questo momento il problema cruciale sia quello di permettere ai salari di salire e coprire l’inflazione. Le imprese inoltre fanno spesso fatica a trovare i lavoratori, c’è un problema di carenza di personale che lamentano: forse varrebbe la pena intervenire più sulla qualità del lavoro che sulla quantità. Le risorse potrebbero essere piuttosto impiegate per tagliare in modo stabile il cuneo fiscale».
Non c’è il rischio che con la defiscalizzazione la collettività si sobbarchi i costi che altrove competono alle imprese?
«Bisognerebbe più che altro agevolare il compito delle imprese nel momento del reclutamento. Si può intervenire facilitando l’incontro tra domanda e offerta, mobilizzando lavoratori che sono un po’ ai margini. Questa è l’idea delle politiche attive del lavoro: la riforma era contemplata nel Pnrr, ma è rimasta al palo».
Secondo i dati Istat diffusi ieri, il Pil italiano è in crescita. Come commenta questo dato? È stabile, va bene, si poteva fare di più?
«È lo stesso trend registrato anche negli altri Paesi. Siamo reduci dall’inasprimento della politica monetaria. Tutti temevano che sarebbe iniziata una recessione, invece questo non è avvenuto, né nei Paesi Ocse né in Italia. Su questo bisognerebbe riflettere, perché è un fatto relativamente nuovo: probabilmente l’innalzamento molto rapido dei tassi ha evitato di avere contraccolpi più duraturi del tempo. E questa dovrebbe essere una lezione. Adesso però il problema è come ridurre ulteriormente l’inflazione: c’è l’ultimo miglio da superare. Per questo motivo, la Fed non taglierà i tassi a giugno. E anche la Bce, dopo gli ultimi dati sull’andamento dei salari in Germania, rischia di rimandare l’operazione all’autunno».
Ha già espresso preoccupazione nei confronti di un fenomeno, quello dei Neet. I giovani che non studiano e non lavorano. Perché i dati sulla platea dei giovani inattivi sono così alti?
«Questa è una bellissima domanda. Ci sono tante ragioni alla base del fenomeno. Innanzitutto, le storture nel mondo educativo portano molti giovani a uscire dal sistema scolastico, senza avere però prospettive occupazionali. Le scuole professionali, inoltre, purtroppo falliscono spesso nel mettere direttamente le persone nel mercato del lavoro. Gli studenti sono chiamati a scegliere troppo presto l’indirizzo per i loro studi, e si rendono conto troppo tardi che non è quello che davvero volevano. E si ritrovano in un vicolo cieco».
Come risolvere questa situazione?
«Innanzitutto attenzionando meglio la situazione, purtroppo sottovalutata. Poi, sicuramente, bisognerebbe insistere sulla formazione professionale, e fare in modo che i trienni universitari siano effettivamente autosufficienti, efficaci nel preparare al mondo del lavoro. E, infine, risolvere il problema degli abbandoni scolastici».
(da Open)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
QUESTA SAREBBE LA “DESTRA DEL POPOLO”: AL SERVIZIO DEI POTERI FORTI E DEGLI SPECULATORI
Chi manca dal lavoro per cinque giorni senza spiegazioni sarà licenziato senza diritto alla Naspi, e i contratti a tempo determinato potranno essere rinnovati senza causale per due o tre anni, invece di uno.
Sono alcune delle misure contenute in due disegni di legge in lavorazione in Parlamento da tempo, ma che nelle ultime settimane – proprio con l’avvicinarsi del Primo maggio – hanno visto un’accelerata.
Uno è alla Camera, è di iniziativa del governo Meloni e in particolare della ministra del Lavoro Calderone, ed è nato dal ddl Lavoro che il governo aveva presentato il Primo maggio dello scorso anno.
Questa proposta è a buon punto, gli emendamenti sono già stati presentati e la discussione in commissione procede. L’altro testo è al Senato, con la prima firma dalla senatrice di Fratelli d’Italia Paola Mancini. È stato presentato ad aprile 2023, ma di recente l’iter si è sbloccato: il 7 maggio sarà l’ultimo giorno per depositare gli emendamenti.
I due ddl hanno delle parti molto simili, e nei prossimi giorni la maggioranza dovrà mettersi d’accordo sugli articoli che saranno cancellati da una parte per tenerli dall’altra.
È possibile che si arriverà a un solo testo condiviso, un nuovo ddl Lavoro che contenga le misure più importanti di entrambe.
La sostanza, in ogni caso, resterà la stessa: molti passaggi riducono le tutele attuali per i lavoratori. Non a caso, sia la Cgil che la Cisl (tradizionalmente più ‘morbida’ con il governo) hanno trovato parecchio da ridire nelle loro audizioni sulle proposte. Orfeo Mazzella, capogruppo del Movimento 5 stelle in commissione Lavoro al Senato, ha commentato a Fanpage.it: “La maggioranza continua nella sua opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Su contratti a termine, licenziamenti e sicurezza sul lavoro il ddl Mancini fa fare un terribile salto indietro al nostro Paese”.
Via libera ai contratti precari rinnovabili per due anni
Una proposta nel ddl della senatrice Mancini consentirebbe di fare contratti a tempo determinato senza causale per un periodo di due anni, invece di uno solo come previsto adesso. Infatti, si potrebbe arrivare a sei proroghe ed eventuali quattro rinnovi con la stessa azienda, per un periodo complessivo di 24 mesi. Non solo, ma in più sarebbe permesso anche “un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di dodici mesi”, se previsto da specifici accordi sindacali. Tre anni in tutto, quindi. L’ultima parte dell’articolo, poi, riduce il tempo disponibile al lavoratore per fare ricorso e impugnare il contratto a tempo determinato: solo 120 giorni, invece di 180.
Chi è assente al lavoro senza giustificazione dà le dimissioni in automatico (senza Naspi)
Tutti e due i testi intervengono anche sulla materia delle dimissioni, sfavorendo i lavoratori che si assentano dal lavoro senza giustificazione. Il testo di Mancini è meno ‘severo’: chi non si presenta al lavoro per almeno venti giorni consecutivi senza alcuna giustificazione si considera automaticamente dimesso, non per giusta causa: nessun diritto alla Naspi, quindi. L’intenzione, si legge nella relazione, è di evitare le “condotte opportunistiche dei lavoratori che, avendo deciso di dimettersi volontariamente dal posto di lavoro, si assentano ingiustificatamente al solo fine di provocare il licenziamento per motivi disciplinari” e quindi maturare la Naspi.
Il motivo per cui questa norma è la meno severa delle due è anche anche nel ddl Calderone c’è un articolo simile, ma il limite è di appena cinque giorni. Chi si assenta dal lavoro per meno di una settimana e non fornisce giustificazioni avrà sostanzialmente dato le dimissioni in bianco. Si salva solo chi, nel suo contratto collettivo, prevede un limite più alto di giorni per casi simili: in quel caso si applica comunque il numero maggiore di giorni di assenza prima che scattino le dimissioni volontarie.
Più spazio anche ai contratti di somministrazione
Tra i diversi punti condivisi ci sono quelli sui contratti di somministrazione. Attualmente, un’azienda può prendere solo un certo numero di lavoratori in somministrazione o a tempo determinato: al massimo il 30% dei dipendenti a tempo indeterminato che ha già. Questo limite non vale per alcune categorie specifiche di lavoratori, per facilitare il loro inserimento lavorativo: ad esempio, chi è disoccupato da parecchio tempo.
Il ddl che porta la prima firma della ministra del Lavoro Marina Calderone allarga questa eccezione, includendo anche tutti coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato con l’agenzia di somministrazione. Il ddl Mancini, invece, prevede regole diverse per i contratti a tempo indeterminato e quelli di somministrazione. Il risultato, come ha commentato anche la Cgil, è che la somministrazione diventerebbe praticamente “incontrollabile” e questo porterebbe a “precarizzare ulteriormente i rapporti di lavoro”.
La legge ad hoc per nominare pensionati dirigenti della Pa
Spicca un passaggio del ddl Mancini che sembra scritto ad hoc per permettere l’assunzione di qualcuno di specifico. L’articolo consentirebbe di conferire incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione anche a pensionati o lavoratori vicini alla pensione. Una cosa che oggi non è possibile, a causa della legge Madia del 2015. L’intervento della proposta Mancini durerebbe solo per due anni, dando ancora di più l’impressione che si tratti di una deroga scritta con delle persone in mente.
Le altre proposte: meno sanzioni per le aziende, Cig più rigida
I ddl intervengono poi su ambiti molto vari. Nella riforma di Calderone, ad esempio, c’è anche una norma che dà il via libera al lavoro con meno controlli per i pensionati. Infatti, dal 2016 chi ha un rapporto di collaborazione continuativa ma di fatto è un dipendente deve essere inquadrato come lavoratore dipendente. Questo comporta anche una serie di controlli e tutele in più. Invece la proposta di legge prevede che questa norma non si applichi a chi prende la pensione anticipata o di vecchiaia. Liberalizzati così i contratti di collaborazione con i pensionati, cosa che permetterebbe alle aziende di continuare a pagare anche i propri ex dipendenti (per esempio) senza assumere nuovi lavoratori.
C’è poi la cassa integrazione. Oggi, chi trova un contratto da sei mesi o più breve subisce una sospensione della Cig, che poi continua a essere erogata (recuperando anche gli arretrati) quando questo contratto finisce. Il ddl Calderone prevede che chi trova un altro contratto mentre è in Cig perda del tutto diritto al trattamento, per il periodo in cui lavora.
La proposta della ministra Calderone, infine, aiuta i datori di lavoro che non hanno versato i contributi Inps e Inail, facendo sì che dal 2025 possano mettersi in regola pagando fino a sessanta rate mensili. Il ddl Mancini stabilisce che le aziende possono ottenere il Durc (cioè l’attestato che dimostra che i pagamenti a Inps e Inail sono in regola) anche se hanno versato meno contributi del dovuto, entro i 10mila euro. Un altro articolo dimezza la multa minima per chi non paga fino a 10mila euro di ritenute previdenziali: 5mila euro invece di 10mila, mentre il massimo sale da 50mila a 100mila euro.
Orfeo Mazzella, capogruppo del Movimento 5 stelle in commissione Lavoro a Palazzo Madama, ha dichiarato a Fanpage: “La maggioranza continua nella sua opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Su contratti a termine, licenziamenti e sicurezza sul lavoro il ddl Mancini fa fare un terribile salto indietro al nostro Paese, annullando ciò che di buono è stato fatto negli anni passati. Non manca, poi, il solito favoritismo agli ‘amici degli amici’, laddove si prevede una deroga alla legge Madia per attribuire incarichi di consulenza nella Pa a soggetti in pensione. A Palazzo Madama la nostra opposizione sarà dura”.
(da Fanpage)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
LA RABBIA DEI RESIDENTI ALL’ESTERO: “SIAMO DISCRIMINATI”… 21 PAESI UE HANNO INVECE TROVATO LA SOLUZIONE
Sono oltre mezzo milione gli italiani residenti nel Regno Unito che non potranno votare alle elezioni europee di giugno. O meglio, che potranno farlo solo recandosi a proprie spese nel loro ultimo comune di residenza in Italia. Una novità dovuta a Brexit, dato che alle scorse elezioni del 2019, quando il Regno Unito era ancora nella fase transitoria dell’interruzione della propria permanenza nell’Ue, il problema non era ancora sorto. Eppure da allora sono passati cinque anni, otto dal voto che ha sancito la dipartita del Paese dall’Unione, e l’Italia è tra i pochi Paesi europei a non consentire di votare al di fuori dei Paesi Ue, lasciando senza alternative milioni di cittadini, compresa la nutrita comunità di chi vive negli Usa. Con 527 mila presenze registrate all’Aire, il Paese oltre la Manica è il terzo per numero di cittadini italiani residenti all’estero – dopo Svizzera e Germania – ma l’Italia non è tra i 21 Stati dell’Ue che consentono di votare fuori dall’Unione.
Come fanno gli altri Paesi
Per posta, in consolato, per procura, telematicamente. A non offrire nessuna di queste opzioni, oltre all’Italia, sono solo Slovacchia, Malta, Repubblica Ceca e Bulgaria, Irlanda. Le ultime due – fa notare Antonello Guerrera su Repubblica – perché vietano di votare a chi non ha vive nell’Ue. A spiegare il motivo specifico è il sito del consolato italiano: «Ai sensi del Decreto-legge 24 giugno 1994, n. 408, possono votare all’estero per l’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo i soli cittadini italiani residenti in uno Stato membro dell’Ue. I cittadini italiani residenti nel Regno Unito potranno votare esclusivamente recandosi presso il Comune di iscrizione elettorale in Italia, così come previsto per tutti i cittadini italiani residenti in un Paese non membro dell’Ue». Chi decide di tornare può godere di alcuni sconti sui trasporti solo in patria.
Ci sentiamo discriminati
Così, da settimane, al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari arrivano messaggi di connazionali sconfortati, confusi, arrabbiati, e in certi casi determinati a non arrendersi. «Sono residente a Londra da 14 anni e ho sempre potuto votare in ogni elezione. Stavolta no. Mio marito tedesco invece alle europee potrà tranquillamente votare per posta. Mi sembra veramente inaccettabile perdere questo diritto in un’elezione così importante», scrive Giulia Gentile, insegnante all’Università dell’Essex, a Londra dal 2015. E aggiunge: «Ho scritto alla Commissione Europea per riportare questa situazione ed evidenziare che si tratta di fatto di una violazione del diritto fondamentale al voto per le elezioni europee protetto dall’Articolo 39 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali. Si può rintracciare anche una violazione del diritto a non essere discriminati».
Crisanti: «La maggioranza è contraria perché ci perderebbe»
Aggiunge Gentile: «Coloro che sono incapaci a viaggiare per ragioni economiche o fisiche sono di fatto esclusi dall’elettorato. Tuttavia la Commissione non ha dato seguito alla mia domanda». Commenta la situazione anche il microbiologo ed senatore del Partito Democratico per la circoscrizione estero Europa Andrea Crisanti: «È un’ingiustizia e un pregiudizio verso gli italiani all’estero da parte di questo cosiddetto “governo dei patrioti”». Crisanti fa notare che in questi mesi ho presentato un disegno di legge e due emendamenti in Aula. Ma non c’è stato verso di convincere l’esecutivo, nonostante l’imbarazzo degli stessi esponenti di Fratelli d’Italia. Una rigidità che può essere giustificata solo dal fatto che molti elettori all’estero sono immuni dalla propaganda di governo. Difatti, nella circoscrizione Europa al Senato nel 2022, il 42% degli elettori votò per il Pd».
(da agenzie)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
PRIMA DEL VOTO 2 SU 3 INCHIESTE CHE LO VEDONO COINVOLTO ANDRANNO A CHIUSURA
Altro giro, altra corsa. Passata la buriana, Vittorio Sgarbi è pronto a riveder le stelle e che stelle! Conta di sbarcare al Parlamento europeo grazie a una candidatura offerta in dono da Fratelli d’Italia nello stesso giorno in cui il partito di Giorgia Meloni, alle latitudini della provincia di Trento, dà il via libera anche per la sua riconferma al Mart di Rovereto. E la bufera che lo ha costretto a mollare la poltrona di sottosegretario alla Cultura? Tutto è perdonato. Sgarbi non lascia ma anzi raddoppia, a conferma del già noto sin dai tempi di Berlusconi: è una “riserva della Repubblica”, a dispetto dei tanti guai con la giustizia, nuovi e vecchi.
I guai più recenti sono tre indagini che dovrebbero chiudersi prima delle elezioni di giugno. L’inchiesta giudiziaria sul famoso Manetti La Cattura di San Pietro avviata dalla Procura di Macerata sulla scia di quella del Fatto è in fase di deposito delle consulenze tecniche, due o tre settimane e si chiude. L’accusa è di riciclaggio di beni culturali. Il tema è se quello di Sgarbi messo in mostra a Lucca nel 2021 sia lo stesso rubato al Castello di Buriasco nel 2013.
La Procura di Imperia ha chiuso il fascicolo per esportazione illecita a carico anche della compagna del critico Sabrina Colle e del mercante d’arte Gianni Filippini. Si attende a giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Al centro dell’inchiesta il presunto Valentine de Boulogne “Concerto con bevitore”, dipinto caravaggesco del 600. Lo compra all’asta la Colle, per la Procura il vero acquirente era Sgarbi che si sarebbe sottratto così dall’onorare il debito con l’Agenzia delle Entrate per 715 mila euro. La Procura di Roma a metà marzo ha chiesto il rinvio a giudizio del critico-politico con l’accusa di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Stavolta per “Il giardino delle fate” di Vittorio Zecchin del 1913. L’opera andò all’asta e se l’aggiudicò Sabrina Colle nel 2020 per 148 mila euro. Per la Procura il reale acquirente era il critico, che pure aveva un debito col Fisco di 715 mila euro, ragion per cui ritiene sia stato un escamotage per assicurarsi l’opera evitando di saldare le pendenze con l’Agenzia delle Entrate.
I guai antichi? Dal 1996 è un pregiudicato per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, avendo riportato una condanna definitiva a 6 mesi e 10 giorni di reclusione e 700 mila lire di multa. Malato o comunque messo assente giustificato come dipendente della Soprintendenza di Venezia, ma sanissimo per lavorare in tv o ovunque fosse necessaria la sua presenza. Poco male: la sua carriera anziché registrare una battuta di arresto si era vieppiù arricchita di incarichi e poltrone e, per la verità, anche di querele: da ultimo è stato condannato in primo grado per aver diffamato l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi da lui paragonata a Vito Ciancimino, sindaco del “sacco” di Palermo. Ma è la coda di una sequenza di querele ancora da definire in tribunale mentre altre son già arrivate in Cassazione come quella che gli è valsa la condanna nel 2019 per aver insultato via tubo catodico un magistrato, Rosario Lupo, già giudice per le indagini preliminari di Firenze. Con Di Pietro ha fatto meglio: ha perso la bellezza di undici cause ma non è il solo. Per giustificare il debito monstre con il fisco, di cui si dirà appresso, Sgarbi ha serenamente ammesso di aver avuto molte spese, sempre a causa della sua boccaccia. “Ho pagato Scalfari 150 mila euro, ho pagato Travaglio 80 mila euro, ho pagato Di Pietro 300 mila euro”. Sarà per questo che Sgarbi va premiato con un seggio a Bruxelles. Dove dovrà sottomettersi a un codice di condotta a garanzia dell’impegno a non recare disdoro all’istituzione. Poco male. In cambio della promessa di ossequiare il galateo europeo, agguanterà lo scranno che vale l’immunità parlamentare che lo terrà al riparo per tutta la legislatura. Uno scudo analogo a quello che vale per i parlamentari italiani che, come noto, non possono essere sottoposti a intercettazione, sequestro di corrispondenza, perquisizioni e meno che mai l’arresto senza il via libera della Camera di appartenenza.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
QUANDO ERA SGRADITO… ORA INVECE FDI LO CANDIDA IN EUROPA PER GARANTIRGLI L’IMMUNITA’ DAI PROCEDIMENTI CE LO COINVOLGONO
Vittorio Sgarbi l’impresentabile, quello che supera “il limite della decenza”, Vittorio Sgarbi il “sessista”. Che fine ha fatto? Chi lo sa. Ogni volta con Sgarbi si riparte da zero: la destra lo candida o lo nomina a qualcosa, poi scopre all’improvviso di aver premiato un soggetto capace di gettare nell’imbarazzo governi e partiti e dunque lo caccia, con tanto di indignazione. Passa qualche mese e però tutto è dimenticato, si torna al punto uno.
Succede anche stavolta, con la candidatura del critico d’arte alle Europee con FdI.
Strano, perché appena qualche mese fa era stato proprio il partito di Giorgia Meloni a prendere più volte le distanze da Sgarbi (fino alle dimissioni da sottosegretario), sommerso dalle polemiche non solo per le inchieste del Fatto, ma pure per le sue follie a Report (voleva abbassarsi la patta dei pantaloni in video e augurò la morte a un giornalista) e le altre sparate in libertà.
Forse giova allora rinfrescarsi la memoria. Tra i più severi con Sgarbi c’era il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che più volte lo ha scaricato. Un anno fa, l’ex sottosegretario viene invitato a una serata al museo Maxxi e straparla di sesso, lasciandosi andare a volgarità in serie. Sangiuliano (peraltro memore di quando, alla Camera, Sgarbi riempì di insulti sessisti Mara Carfagna) lo attacca: “Sono da sempre lontano dalle manifestazioni sessiste e dal turpiloquio. Le istituzioni culturali devono essere plurali, ma lontane da ogni forma di volgarità e chi le rappresenta deve mantenere un rigore più alto degli altri”.
Quando il Fatto rivela alcuni affari privati che Sgarbi svolge – illecitamente secondo l’Agcm – mentre è al governo, Sangiuliano si confida col nostro giornale: “Sono indignato. Non l’ho voluto io e anzi, cerco di tenerlo a debita distanza e di rimediare ai guai che fa in giro”. Poi Sgarbi pensa bene di prendersela con Ignazio La Russa, paragonato ad Amadeus per aver portato in Senato Gianni Morandi per celebrare i 75 anni del Senato: “è stato inquietante”, chiosa Sgarbi. Da FdI gli risponde, furioso, mezzo partito: “Ha perso un’occasione per stare zitto e ha passato il limite della decenza” (Antonella Zedda); “È in cerca di visibilità” (Salvo Sallemi). Col medesimo La Russa le cose non erano andate meglio sul tema abbattimento di San Siro, su cui a un certo punto il presidente del Senato lo liquida: “Nessuno nel governo ha mai sostenuto che ci sia la possibilità di apporre il vincolo all’abbattimento di San Siro. Sgarbi non ha una delega per farlo. Sgarbi è Sgarbi, lo conosciamo tutti”.
Sgarbi viene persino spernacchiato quando Miss Italia decide di escluderlo dalla giuria. Il deputato Fabio Petrella lo tratta come un concorrente di un talent show: “Per lui Miss Italia finisce qui”. E che dire di quando – eravamo nella scorsa legislatura – il meloniano Federico Mollicone sfiorò la rissa con uno Sgarbi particolarmente su di giri che, in commissione, gli contestava alcune innocue considerazioni su Leonardo da Vinci: “Capra! Non capisci un cazzo! Picchiatore fascista”. E Mollicone: “Prenditi un sedativo, sei patetico!”. Seduta sospesa con tanto di onorevoli impegnati a separare i due litiganti.
Ma a essere stufi di Sgarbi non erano mica solo gli esponenti di FdI. Anche gli alleati hanno dovuto più volte smarcarsi dalle peggiori uscite del critico. Dopo la sfuriata contro Report, la vice-capogruppo di FI alla Camera Rita dalla Chiesa parlava così al Fatto: “La scenata di Sgarbi non è compatibile con il suo ruolo, non è compatibile con nessuna carica, non è compatibile con l’educazione familiare. Non c’è spazio per cadute di stile come questa”.
Persino un bonario Maurizio Gasparri, capogruppo in Senato, pur definendosi “amico personale” di Sgarbi, non poteva non ammettere che la soluzione migliore fosse tenerlo lontano dalla politica: “Io gliel’ho detto tante volte: fai il critico d’arte. Invece lui vuol fare il sindaco, l’assessore, tutte queste cose che gli portano guai. Non mi ascolta”. Tutti lo conoscono, eppure in qualche modo se lo ripigliano. E lui ringrazia pensando già al prossimo stipendio.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
PASSA DA UNA RESIDENZA ESCLUSIVA ALL’ALTRA, OGGI DUBAI IERI MONTECARLO, DOVE NEL 2010 SFRECCIAVA IN FERRARI (DA 200 MILA EURO)… TULLIANI JR PROVA A DIFEDERSI: “FACEVO LOBBYING, NON RICICLAGGIO”
«Giancarlo ha esaurito il credito», dice l’avvocato Manlio Morcella, che dal momento della lettura della sentenza, intorno a mezzogiorno, non ha più smesso di parlare con Dubai. La comunicazione, perciò, s’interrompe di colpo. Ma Giancarlo Tulliani un attimo prima era affranto.
Il cognato di Fini non si aspettava la condanna a 6 anni, anzi fermamente credeva nell’assoluzione piena: «Io ho fatto lobbying, non riciclaggio», la sua delusione scaturiva limpida dal vivavoce dell’avvocato.
Sono anni che Tulliani jr vive a Dubai da latitante: «Se viene in Italia, l’arrestano — dice Manlio Morcella —. Eppure vorrebbe». Qui ci sono la mamma Francesca, 77 anni, e il padre Sergio, 81, funzionario dell’Enel in pensione, anch’egli ieri condannato (a 5 anni). Ma Tulliani jr esclude per ora di consegnarsi per raccontare finalmente come andarono le cose.
Malgrado la nostalgia preferisce restare uccel di bosco, con la sua vita dorata, piuttosto che rientrare alla base a rivedere gli anziani genitori. E intanto tempesta di telefonate il suo legale e pure l’altro avvocato, Silvana Semeraro, che cura gli aspetti civilistici dell’ingente patrimonio immobiliare sequestrato e in parte confiscato alla famiglia: diversi appartamenti a Val Cannuta (Roma, zona Aurelio-Boccea) ora dati in affitto.
Un cinico sentimentale, si direbbe, che passa da una residenza esclusiva all’altra, oggi Dubai ieri Montecarlo, dove nel 2010 sfrecciava in Ferrari (F458 da 200 mila euro) e faceva vita da copertina, quando abitava in boulevard Princesse Charlotte 14 (c’era il suo cognome sul citofono), la casa acquistata nel 2008 — secondo Elisabetta Tulliani— all’insaputa di Gianfranco Fini.
Era l’appartamento lasciato in eredità ad Alleanza Nazionale «per continuare la buona battaglia» — così scrisse nel testamento — dalla contessa Annamaria Colleoni, devota al partito, alla sua morte, avvenuta nel 1999.
Il nipote della contessa, Paolo Fabri, era sicuro che finisse con l’assoluzione di tutti. Invece, ora, si dice «soddisfatto» e vuole portare un fiore sulla tomba della zia, fermandosi a pregare nel piccolo cimitero di Monterotondo: «Le dirò che la buona battaglia, grazie alla giustizia, non è stata ancora persa del tutto — si sfoga l’erede della contessa Colleoni- Magari in appello saranno tutti assolti o i reati andranno prescritti, ma intanto la sentenza di primo grado ha stabilito, nonostante il grosso sconto di pena rispetto alle richieste del pm, che Fini è colpevole. Ma io dico di più: viveva in casa con Elisabetta Tulliani, non ci credo per niente che fosse all’oscuro di tutto quando autorizzò la compravendita dell’immobile. Ma comunque va bene così».
(da Corriere della Sera)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO MAI CHIUSO CON ELISABETTA TULLIANI E L’ENDORSEMENT PER LA MELONI
Si può parlare per ore con Gianfranco Fini, ma non dirà mai quello che ha deciso di non dire. E quindi, poco dopo la sua condanna a due anni e 8 mesi per aver autorizzato la vendita di «quella maledetta casa a Montecarlo», non c’è un’accusa ai giudici: «No, non è stata una sentenza politica. È stato un processo politico, questo sì. Perché io ero il leader di un partito, ho avuto alti incarichi, e per la cornice politica in cui quei fatti si svolsero e proseguirono».
Che differenza c’è?
«Non c’è stato accanimento. Sono stato assolto per tutti i casi di accusa che implicavano il reato di riciclaggio».
Quindi cosa pensa di questa condanna?
«È stato un processo paradossale con una sentenza illogica. Paradossale perché è durato 10 anni tra il primo avviso di garanzia e questa sentenza, e nel frattempo dal giudizio è uscito per prescrizione l’imprenditore Corallo, che diede a Giancarlo Tulliani i soldi per comprare l’appartamento. E ne è uscito il suo factotum, Laboccetta, che non ha ripetuto in aula le sue dichiarazioni contro di me».
Lei è stato condannato perché autorizzò la vendita. Perché è una sentenza «illogica»?
«Perché sono stato assolto da tutti i reati collegati agli effetti di quella vendita. Per tutti i fatti che la procura mi addebitava, è stato deciso che o non costituissero reato, o non li avevo commessi. Quindi quale sarebbe la mia colpa? Non aver previsto nel 2008 quello che sarebbe poi successo nel 2015?»
I giudici avranno pensato che, trattandosi della sua compagna, di suo cognato e di suo suocero, lei sapesse?
«Ma io non sapevo. Non esiste una prova, una dichiarazione, un fatto che testimoni l’opposto. Se ci fosse stata, la condanna doveva essere per tutti i capi di imputazione. Ma non c’è nulla. C’è anche la dichiarazione di Elisabetta Tulliani che lo attesta, oltre a quello dello stesso fratello Giancarlo, pur latitante. Attendo le motivazioni. E naturalmente conto che in appello arrivi quell’assoluzione piena che già c’era stata quando in un primo procedimento sugli stessi fatti venni prosciolto».
Come avete vissuto in famiglia questi anni?
«È stato doloroso. Al processo e in privato, quando Elisabetta mi ha detto: “Se continuo a difendere mio fratello finisco per danneggiare te. E non lo farò”».
Lei avrebbe potuto rompere i rapporti con la sua compagna, «salvarsi». Non l’ha mai fatto.
«Io sono convinto che anche lei sia stata vittima del comportamento del fratello. Sono fratelli, è difficile entrare nelle dinamiche così strette. Lei ha sofferto per quello che ha fatto Giancarlo, e ha sofferto per me. In un rapporto, anche se provi dolore, prevale quello che percepisci. E io so che lei è stata sincera quando mi ha parlato. Poi, tutti possono sbagliare».
Teme l’arresto per i suoi familiari?
«Ma no. Essendo venuta meno l’ipotesi di riciclaggio transnazionale, questo processo può andare in prescrizione in uno o due anni».
Lei ha smesso di fare politica attiva negli ultimi anni: a causa del processo?
«Sì e no. Ho sempre pensato che la compagna di Cesare dovesse essere al di sopra di ogni sospetto. Mi dava intima sofferenza chi magari mi accusava conoscendomi — Storace lo fece, ora siamo tornati amici — e chi ha cavalcato la tigre della delegittimazione, e lo hanno fatto soprattutto in ambienti di destra. Poi io ho votato convintamente Meloni, e convintamente ho deciso di lasciare la politica attiva».
Avrebbe detto lo stesso oggi se fosse stato assolto?
«Sì, avrei continuato a fare quello che facevo prima, conferenze, dare consigli non richiesti… Ritengo che ci siano stagioni nella vita, anche nella politica. Oggi tocca ai giovani portare avanti il Paese»
Non tutti alla sua età lo pensano.
«E allora vorrà dire che ho il pregio dell’eccezione…».
Chi le è rimasto amico, chi l’ha chiamata?
«Tantissimi mi sono stati vicini, il mio telefono non smette di squillare. Militanti, amici, persone di destra e no. Non dico i nomi, non dico i buoni e i cattivi».
Il suo grande avversario, a tratti nemico, fu Berlusconi, i cui giornali cavalcarono lo scandalo della casa. Vi siete mai chiariti?
«No, non ci siamo più né visti né sentiti. Ma quando è morto, ho scritto quello che pensavo, al di là dei rapporti personali: era un uomo di grande umanità. Le nostre madri si spensero nello stesso periodo: mi fu molto vicino».
Come esce Gianfranco Fini da questa giornata?
«Cito le parole del mio avvocato Sarno, che con Grimaldi ringrazio molto: “A un cliente qualsiasi avrei detto abbiamo stravinto, ma siccome sei Fini sono furioso, perché ne va di mezzo la tua onorabilità”. Ma io sono certo che arriverà presto il momento della verità».
(da corriere.it)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
SALVINI E VANNACCI, LA SOLITUDINE DEL LEADER LEGHISTA ABBANDONATO DAI BIG
In un pomeriggio romano caldo, dolcissimo, tra giapponesine con gli ombrellini e biondi americani gonfi di birra, finiamo dentro al Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, per sentire e vedere da vicino questo famoso Vannacci, questo generale fan di Benito Mussolini — «Per me, resta uno statista» — questo capopopolo arrivato da un mondo brutale e oscuro, che a molti quando parla fa spavento e che a Matteo Salvini invece piace, da subito ne è rimasto politicamente sedotto e adesso spera sia il personaggio giusto per rosicchiare qualche voto a Giorgia Meloni. A destra, molto a destra. Proprio laggiù, dove tutto è nero. E la Lega non c’è mai stata.
Salvini ha candidato il generale alle Europee. E, tra poco, con la scusa di parlarci del suo libro («Controvento – L’Italia che non si arrende»), ce lo presenterà.
Intanto: bolgia, telecamere già accese, talk tv in diretta. Chi c’è, in platea? Stavolta, la domanda è poco fru fru. Perché l’idea di ritrovarsi il generale in lista ha scatenato un inferno nel Carroccio. Lo sguardo scorre allora tra le colonne e lì compare Andrea Crippa, il vicesegretario della Lega, un monzese di 37 anni considerato il più autorevole interprete del Salvini pensiero, pure lui come il capo tutto braccialetti e camicie attillate, però più secco, più tonico, il fisicaccio sotto un sorriso alla Jim Carrey, che ha fatto innamorare Anna Falchi (lui, sobrio e riservato, dette l’annuncio a Radio Libertà, diretta da Giovanni Sallusti, che oggi modera).
Poi ecco pure Laura Ravetto e, dietro, l’attore Antonio Zequila detto «er mutanda» («Sono un grande amico di Matteo», già). Il senatore Claudio Borghi, opportunamente, resta in piedi. Dicono sia arrivato anche Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, ras delle — poche — tessere leghiste dell’Agro Pontino, perché nato a Latina, dove avrebbe voluto eliminare la dedica di un parco pubblico a Falcone e Borsellino, per ripristinare la vecchia: ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Il tipo che, con aria fosca, appare dietro al banchetto dei libri (non sembra vadano esattamente a ruba) è Mauro Antonini, ex capo di Casapound del Lazio.
Di botto, parapiglia. Sono arrivati Salvini e Vannacci? No: c’è Antonio Angelucci, il deputato più ricco di Montecitorio che, però, è anche quello che lavora meno, il più assenteista. Ex portantino dell’ospedale Forlanini, oggi possiede un piccolo impero: dal gruppo Tosinvest, enorme polo della sanità privata, a tre quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo), cui dicono stia per aggiungere anche l’agenzia di stampa Agi, la seconda del Paese. Indossa un abito gessato con, sotto, una maglietta nera (anche questo colore, diciamo così, torna abbastanza). La gente si inchina, uno gli cede la sedia, un altro cerca di baciargli la mano. Spunta il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Francesco Storace trova posto dall’altra parte, proprio mentre parte l’applauso.
Eccoli: Salvini avanti e il generale dietro. Il generale, un sorriso largo con tanti denti, è in abito blu, e blu è pure la cravatta (elegantissimo, altroché la vestaglietta con cui si fece fotografare dopo quel tuffo nel mare di Viareggio, che scatenò il web e divenne icona dei siti gay-friendly).
Salvini presenta a Vannacci la sua fidanzata — Francesca Verdini indossa vezzosi occhiali da sole e una minigonna di pelle rossa (dopo tanto nero, un lampo di allegria) — e poi insieme salgono sul piccolo palco.
Il capo leghista cerca di fare lo spiritoso al momento della photo-opportunity — «Siamo una coppia luciferina per la sinistra» — ma si vede che è teso, nervoso. Nemmeno mezzo sguardo, sulla platea. Sa già tutto, gliel’hanno appena detto: Matteo, ci sono solo i nostri. I fedelissimi. Mancano i due capigruppo di Camera e Senato: Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Non c’è l’ex ministro Gian Marco Centinaio («Matteo, su Vannacci, ripensaci»). Non c’è il ministro Giancarlo Giorgetti (al suo «Il generale non è della Lega», Vannacci ha già risposto sprezzante: «Non mi interessa cosa pensa Giorgetti»). Dei governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, nemmeno a parlarne: la loro ostilità nei confronti del generale è nota da settimane.
La presentazione del libro comincia con Salvini che appare solo. Plasticamente solo. Una solitudine politica, e umana. Secondo l’opinione di numerosi osservatori, l’assenza dell’intero establishment leghista gli spedisce, più o meno, questo messaggio: il generale l’hai voluto tu, e adesso ti assumi tutta la responsabilità di una scelta tanto estrema.
La faccenda, messa così, rischia di portare a due possibili, complessi scenari: se l’operazione che ha architettato non dovesse assicurare quei due, tre punti necessari per evitare il sorpasso di Forza Italia (nei sondaggi, per ora, dato quasi per certo), la colpa della sconfitta resterebbe comunque tutta di Salvini.
Se, al contrario, dovesse essere la presenza del generale a garantire un colpo di coda, è chiaro che Vannacci assumerebbe una forza inedita, capace di spostare il Carroccio in acque nerastre.
Su questo, si ragiona.
I due, sul palco, cincischiano.
I cronisti aspettano che la presentazione finisca, per chiedere al generale cosa pensi davvero dei disabili. E se gli danno così fastidio.
(da corriere.it)
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Maggio 1st, 2024 Riccardo Fucile
DECINE DI MIGLIAIA DI PATRIOTI (QUELLI VERI, NON QUELLI FARLOCCO) IN PIAZZA: SCONTRI FINO ALL’ALBA TRA MANIFESTANTI E POLIZIA
Sleepless Georgia. Così il Paese caucasico viene definito da centinaia di cittadini che pubblicano sui social i video delle proteste contro la legge sulle “interferenze straniere” al vaglio del Parlamento in questi giorni.
Nella scorsa notte, i cortei e le barricate contro il provvedimento simile a quello varato in Russia per poter reprimere il dissenso, si sono protratti fino all’alba.
Nella capitale Tbilisi, decine di migliaia di persone sono scese in strada e si sono radunate all’entrata del Parlamento affrontando la repressione da parte della polizia che ha usato cannoni ad acqua, gas lacrimogeno, manganelli, granate stordenti e altre misure anti-sommossa per disperdere i manifestanti, decine dei quali hanno riportato ferite e contusioni.
Tra questi anche Levan Khabeishvili, leader del partito di opposizione Movimento nazionale unito (Unm) nonché una delle 63 persone fermate o arrestate. Nelle foto da lui pubblicate sul proprio profilo X, sono evidenti i segni degli scontri sul volto sfigurato.
Il sogno europeo
Si tratta della terza settimana consecutiva di proteste in Georgia contro la legge che allontanerebbe il Paese dal blocco europeo, tanto che la Commissione Europea ha già messo in allarme contro il provvedimento fortemente voluto dal partito di governo Sogno Georgiano.
Da dicembre dello scorso anno, infatti, la Georgia è ufficialmente candidata a entrare nell’Unione Europea, ma il processo non compirà passi avanti finché il Paese sul Mar Nero non riformerà i suoi sistemi giudiziari ed elettorali, rafforzerà la libertà di stampa e limiterà il potere degli oligarchi.
Solo dopo questi interventi potranno iniziare i negoziati. Intanto, però, il governo sembra aver imboccato un’altra strada: il provvedimento è al varo del Parlamento – che ieri lo ha esaminato in seconda lettura – dal 9 aprile. Questo è già il secondo tentativo. Il primo era stato nella primavera dello scorso anno, ma non andò a buon fine proprio a causa della sommossa popolare. D’altro canto, la volontà popolare è chiara e stasera anche i manifestanti delle altre grandi città della Georgia confluiranno a Tbilisi per ribadirla.
(da Open)
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