Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
L’ITALIA È L’ULTIMO PAESE EUROPEO PER NUMERO DI COPPIE CON FIGLI DOVE LAVORANO ENTRAMBI I PARTNER. PER IL 50% DEI CITTADINI LA MAMMA CHE LAVORA “FA DEL MALE” AL SUO BEBÈ
Se la mamma lavora, il figlio soffre? Per più di un italiano su due,la risposta è inequivocabilmente sì. Dopo una sfilza di “ma va già all’asilo?” e “ma con chi sta quando vai a lavoro? Ma poverino!” chi ha un figlio tra gli zero e i sei anni, insomma in età prescolare, il sentore l’aveva già avuto.
Con la ricerca “Donne, Lavoro e Sfide Demografiche. Modelli e strategie a sostegno dell’occupazione femminile e della genitorialità”, realizzata da Fondazione Gi Group e Valore D, ora ne abbiamo la statistica certezza: nel nostro Paese stereotipi e maternità vanno a braccetto
Nei racconti dei genitori spunta spesso il pediatra che sconsiglia di portare il bimbo al nido, che poi si ammala troppo spesso, o di conoscenti che non riescono a trattenersi dal commentare quando e come la mamma decide di rientrare al lavoro. Se decide di rientrare, perché troppo spesso il conto tra asilo e baby sitter e lo stipendio nemmeno torna.
Nella sua lunga intervista nel podcast di Diletta Leotta “Mamma dilettante”, la premier Giorgia Meloni si dilunga sulla sua complicata gestione di lavoro e maternità, compreso quel misto di senso di colpa e consapevolezza di star facendo la cosa giusta.
Sentimento complesso, e vagamente opprimente, in cui tantissime donne italiane si possono senza dubbio riconoscere. Me la premier nemmeno una parola spende sui cambiamenti strutturali che il suo governo potrebbe mettere in piedi per rendere l’Italia un paese un pelo più a misura di mamma.
Il nostro è l’unico Paese in cui più della metà dei rispondenti (54,1%) si dice d’accordo con l’affermazione che una madre che lavora “danneggia” i figli in età prescolare, contro una media europea del 30%. E siamo anche il Paese con la più alta percentuale di accordo con l’affermazione per cui «se c’è poco lavoro è giusto vada data priorità agli uomini», il 25,4%, rispetto a una media europea dell’11,4%.
L’Italia è anche l’ultimo paese per numero di coppie con figli dove lavorano entrambi i partner (51,1%). All’estero avviene nel 63,2% dei casi in Spagna, nel 69% in Germania, nel 69,2% in Francia, nel 78% in Olanda e nel 78,9% in Svezia.
Non stupisce nemmeno il record italiano di inattività femminile, il più alto in Europa (31%, rispetto a una media UE del 18,2%) e la più ampia quota di donne che lavora in part-time involontario: il 51,7%, oltre 30 punti percentuali sopra la media europea del 19,6%.
(da La Stampa)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
I SONDAGGI DANNO DA MESI L’OPPOSIZIONE LABURISTA DI KEIR STARMER IN NETTO VANTAGGIO SUI CONSERVATORI, AL POTERE DA 14 ANNI
Il primo ministro Tory britannico Rishi Sunak ha deciso di avviare le procedure per lo scioglimento della Camera dei Comuni, indicando la data del 4 luglio per le elezioni politiche nel Regno Unito: la cui convocazione è anticipata così di circa 6 mesi rispetto alla scadenza naturale della legislatura.
Lo anticipa Sky News, mentre è in corso un consiglio dei ministri ad hoc. I sondaggi danno da mesi l’opposizione laburista di Keir Starmer in netto vantaggio sui conservatori, al potere da 14 anni.
Secondo i calcoli dei commentatori, Sunak dovrebbe annunciare lo scioglimento del Parlamento nel giro di due o tre settimane al massimo, se volesse giocarsi la carta di un voto a luglio, tenuto conto dei 40 giorni di campagna elettorale prescritti dalla legge. Altrimenti se ne riparlerà dopo la pausa estiva dei lavori di Westminster, vale a dire non prima di ottobre (in caso di convocazione entro metà settembre) o di novembre.
(da agenzie)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL PRIMO FIRMATARIO E’ UN SENATORE DI FDI, CASUALMENTE IMPRENDITORE NEL SETTORE COSMETICO
Tra gli atti parlamentari depositati a Palazzo Madma, spunta un disegno di legge dedicata agli acconciatori, termine ombrello che raggruppa le professioni di barbiere, parrucchiere e – non ne vogliano i puristi dell’italiano – hair stylist.
Il primo firmatario è Renato Ancorotti, senatore di Fratelli d’Italia che ha fatto la sua fortuna imprenditoriale nel settore della cosmetica. Lo raccontano come amico personale della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Insieme ad altri esponenti della maggioranza, Ancorotti vuole dare una delega al governo affinché istituisca, presso il ministero delle Imprese del Made in Italy, il registro nazionale degli acconciatori. La proposta, si legge, «intende porre in rilievo e riconoscere la qualità professionale degli acconciatori nonché garantire il cliente rispetto ai servizi prestati dagli stessi professionisti».
I senatori firmatari sottolineano che parrucchieri e barbieri, oggi, svolgano «un ruolo fondamentale per la salute dei clienti poiché, rientrano nelle loro attività non solo la prestazione di trattamenti tricologici complementari, ma anche l’utilizzo di prodotti cosmetici». Prodotti su cui Ancorotti ha basato la sua carriera professionale.
Nel testo, a mo’ di esempio, si parla di coloranti e decoloranti per capelli. Ma spesso i parrucchieri si occupano anche del make-up dei propri clienti. «Da tale esigenza discende la necessità, non più procrastinabile, di istituire un registro degli acconciatori professionali». Tuttavia, è lo stesso disegno di legge a stabilire che l’iscrizione la registro non costituisce una condizione vincolante per lo svolgimento del lavoro di acconciatore, «ma rappresenta un elemento di riconoscimento e di affidabilità su cui fondare l’attività professionale».
Il sodalizio di Meloni con il mondo della cosmetica
A Bologna, ogni anno, si tiene il Cosmoprof: è una delle fiere più conosciute al mondo per l’industria della cosmetica e della bellezza professionale. Meloni ne è una fedele frequentatrice.
Tra i personaggi più noti che vi partecipano c’è Ancorotti: il senatore è tra i leader del settore in Italia, essendo proprietario di aziende di cosmetica che producono trucchi per conto di moltissimi marchi internazionali. All’ultima edizione della fiera, Meloni ha avuto come cicerone personale proprio Ancorotti. Nel suo ruolo di imprenditore, è stato nominato due volte presidente dell’associazione di categoria, Cosmetica Italia. Parallelamente, Ancorotti ha racimolato diverse esperienze politiche: consigliere provinciale di Cremona con Forza Italia, assessore e consigliere comunale a Crema con il Popolo della libertà e nel 2022, infine, è riuscito a centrare il seggio al Senato nelle file di Fratelli d’Italia. Tra le attività a Palazzo Madama di Ancorotti, si segnalano due emendamenti all’ultima legge di Bilancio, affinché si applicasse l’esenzione dell’Iva agli interventi di chirurgia estetica.
(da Open)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
“NON SI PUO’ PLAUDIRE AL MANDATO DI ARRESTO PER PUTIN E CONDANNARE QUELLO PER NETANYAHU, LA MELONI HA UNA CONCEZIONE DISTORTA DEL RUOLO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE CHE GUARDA SOLO AI FATTI E A CHI LI HA COMMESSI”
Per Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International, la richiesta di mandato d’arresto internazionale nei confronti di Netanyahu, Gallant e dei leader di Hamas è ineccepibile. “La giustizia deve essere terza e imparziale, non politica – dice a Fanpage – e quindi ciò che va condannato sono i crimini di guerra, non importa chi li abbia commessi”. Da sempre Amnesty guarda con favore al ruolo della Corte Penale Internazionale e ha spesso sollecitato tutti gli Stati a rafforzare quello che considera “l’unico strumento di giustizia a disposizione di milioni di vittime di crimini di guerra”. La pronuncia della Corte è invece stata discussa dal presidente americano Joe Biden e dal Governo italiano (“È inaccettabile che si mettano sullo stesso piano Hamas e Israele”, ha detto Tajani). Secondo Noury, non accettare la decisione della Corte sarebbe “un problema di reputazione gigantesco”. E l’Italia, avendo ospitato l’atto fondativo della Corte, lo Statuto di Roma, “ha un dovere morale in più di appoggiarla”.
Amnesty International ha più volte lanciato l’allarme sulla crisi umanitaria in corso a Gaza. La decisione della procura della Corte Penale Internazionale vi soddisfa?
Sono soddisfatto perché l’indagine compiuta dal Procuratore Khan è molto accurata. Fa riferimento a fatti incontestabili che riguardano quasi un’ammissione di colpevolezza degli stessi autori. Esistono infatti moltissime prove e video realizzati proprio da chi ha compiuto i crimini di guerra, che rendono ineccepibile la richiesta di mandato d’arresto. Ora mi auguro che la richiesta venga convalidata. L’importanza della decisione del Procuratore sta nel fatto che finalmente non si fa nessuna gerarchia dei crimini di guerra. Si guarda ai fatti e non alle persone: non è possibile indignarsi se un crimine viene compiuto da un terrorista e poi però voltarsi dall’altra parte quando a commetterli è un Capo di Stato o un esercito nazionale.
Secondo lei questa decisione può cambiare davvero lo scenario della guerra?
Innanzitutto è un segnale: nessuno è al riparo dalla giustizia. È ovvio poi che la sua efficacia dipende dalla collaborazione dei 124 Stati che riconoscono l’autorità della Corte Penale Internazionale. La Corte non ha delle proprie forze di polizia che possano arrestare le persone che condanna. Spetta agli Stati fermare e far processare coloro che sono oggetto di un mandato d’arresto internazionale se capitano nel loro territorio. Non farlo sarebbe un gigantesco problema di reputazione. Se passasse l’idea di Joe Biden per cui la giustizia serve a punire i nemici ma deve salvare gli amici, si tratterebbe di un’apertura all’idea di una giustizia politica, che non va bene. La giustizia invece deve essere terza e imparziale e basarsi esclusivamente sulla realtà.
L’Italia è uno degli Stati parte della Corte penale internazionale. Dal governo però non è arrivato nessun appoggio alla pronuncia del Procuratore Khan e anzi Tajani ha parlato di un”assurdo parallelismo” tra Israele e Hamas.
Questa è una concezione distorta del ruolo della Corte Penale Internazionale. La Corte non fa nessun parallelismo, semplicemente guarda ai fatti e a chi li ha commessi. Aggiungo poi che l’atto di nascita della Corte Penale Internazionale è lo Statuto di Roma. Noi siamo il Paese che ha ospitato e visto nascere questo organismo così importante e quindi ritengo che abbiamo un dovere morale in più nel dare seguito alle sue pronunce. Le dichiarazioni di chi ha dimostrato di rispettare il lavoro della Corte, come hanno fatto i governi di Francia e Germania, sono importanti. Mi auguro che su questo tema la comunità internazionale non si divida. Plaudire al lavoro della Corte quando impone un mandato d’arresto per Putin e invece condannarlo quando fa lo stesso per Netanyahu integra un doppio standard che non può essere giustificato. Aggiungo che il Procuratore Khan ha dichiarato che la sua indagine andrà avanti. Ci aspettiamo quindi altre pronunce e soprattutto che si allarghi la platea delle persone per cui verrà richiesto il mandato d’arresto.
Il blocco dei finanziamenti all’Unrwa (l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, ndr) imposto dall’Italia è un ostacolo ulteriore alla risoluzione della crisi umanitaria a Gaza?
So che ci sono alcune voci sul fatto che il Governo ci stia ripensando. Di certo sarebbe fondamentale sbloccarli. I palestinesi sono già privati di molti diritti, non possono essere privati anche degli aiuti. Capisco la cautela necessaria imposta dalla presunta complicità, peraltro ancora da chiarire, di alcuni membri dell’Unrwa nell’attacco del 7 ottobre. Questo però non può voler dire bloccare gli aiuti a un’organizzazione che in Palestina fa un lavoro egregio che dà assistenza a 6 milioni di persone.
Cosa pensa di come il Governo italiano sta gestendo le proteste di studenti e cittadini che solidarizzano con la questione palestinese, accusati spesso di favorire l’antisemitismo?
Questa è una narrazione fallace. Un conto è condannare l’antisemitismo, che non è certo iniziato il 7 ottobre, ma è anzi un fenomeno che ciclicamente riemerge dalle fogne. Anzi, è persino in aumento e questo è molto preoccupante. Ma chi sovrappone l’antisemitismo e le azioni di Hamas con la solidarietà al popolo palestinese compie un’esperienza criminalizzante. Chiedere un cessate il fuoco a Gaza e contestare l’operato della comunità internazionale è un esercizio di critica legittimo e che va preservato. Così come è necessario battersi per la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas, come che Amnesty ha sempre fatto. Ma mischiare quel mostro della Storia che è l’antisemitismo con legittime richieste di pace significa avvelenare i pozzi.
(da Fanpage)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL PIZZINO ALL’ITALIA: “IL NUOVO PATTO DI STABILITÀ VA APPLICATO, LA SITUAZIONE DI BILANCIO DI ALCUNI PAESI DEVE MIGLIORARE”… SUL PNRR: “MI CHIEDO PERCHÉ CI VOGLIA COSÌ TANTO TEMPO PER REALIZZARE I PROGETTI”
Joachim Nagel si è convertito alle raffinate cravatte napoletane sotto l’influenza di Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia e suo vicino al tavolo della Banca centrale europea. Ma in un giorno non particolarmente solenne il presidente della Bundesbank incontra il «Corriere», «El Mundo», «Handelsblatt» e «Les Echos» con il colletto della camicia aperto.
I tempi sono cambiati in Europa e non solo per le mode: Nagel per esempio è un banchiere centrale che rivendica di aver partecipato a manifestazioni contro l’estrema destra. Ma non prima di aver parlato della sua missione primaria.
È giusto pensare che un taglio dei tassi della Bce a giugno sia quasi cosa fatta?
«Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco – risponde, invitando a tradurre in italiano con la massima di Giovanni Trapattoni -. Se l’ultima valutazione del Consiglio direttivo sarà confermata dai dati e dalle nostre prossime proiezioni, è plausibile che vedremo il primo taglio a giugno. Ma anche fosse così, ciò non significa che li ridurremo di nuovo nelle successive riunioni. Non viaggiamo con il pilota automatico. L’incertezza sugli sviluppi futuri dell’economia e dei prezzi è ancora alta, decideremo di volta in volta […]».
Crede che l’inflazione stia andando in modo sostenibile verso l’obiettivo del 2%?
«È possibile che ci saranno mesi in cui l’inflazione riprende un po’ perché alcuni prezzi tendono a fluttuare, in particolare dell’energia. Nel complesso, mi aspetto che continui a scendere verso il nostro obiettivo del 2% e che lo raggiunga nel 2025. Ma dobbiamo restare cauti. Non dobbiamo tagliare i tassi affrettatamente e mettere a rischio i risultati raggiunti».
Donald Trump, se eletto, vuole licenziare il presidente della Federal Reserve Jay Powell e sottoporre la banca centrale a un maggiore controllo politico. Quali possono essere le conseguenze per l’Europa?
«Jay Powell è un eccellente banchiere centrale e sta facendo un grande lavoro. Non commenterò le elezioni americane. Sono però profondamente convinto che una banca centrale indipendente possa adempiere al meglio al mandato di stabilità dei prezzi. A prescindere da ciò che accadrà negli Stati Uniti, noi in Europa dobbiamo fare i nostri compiti. Già da un po’ il contesto globale si sta facendo più difficile. In Europa, dobbiamo aumentare la nostra resilienza e in generale migliorare le nostre capacità economiche, in modo da essere pronti ed equipaggiati in caso di necessità. In un contesto molto particolare, la Germania ha imparato questa lezione ruvidamente quando la Russia ha interrotto le forniture di gas. Questa è la conclusione che traggo dagli ultimi due anni e mezzo».
Quindi non dovremmo dipendere dagli Stati Uniti come non dovremmo dipendere dalla Russia?
«No, gli Stati Uniti sono nostri amici e partner, e certo non paragonerei questi due Paesi. Quello che voglio dire è che per molti anni il tema delle dipendenze economiche non è stato nei nostri programmi. Ma ora il mondo è cambiato, in molti modi. Potremmo assistere a una maggiore frammentazione, forse addirittura a una deglobalizzazione. Dunque dovremmo concentrarci su come rendere l’Unione europea più resiliente. Non credo che dovremmo contare sul fatto di avere molto tempo per farlo».
Le nuove regole di bilancio sono state appena approvate eppure vediamo la Francia rinunciare al suo aggiustamento di bilancio per il 2024, l’Italia che già chiede di «interpretare». In che misura la situazione di questi Paesi indebitati la preoccupa?
«Finanze pubbliche sane sono un prerequisito per la stabilità dei prezzi nel lungo periodo. Negli ultimi tre anni ci siamo resi conto quanto sia importante la stabilità dei prezzi. I capi di Stato hanno concordato il nuovo Patto di stabilità e crescita. Ora gli Stati membri e la Commissione devono applicarlo, in modo da ridurre gli elevati oneri del debito. Spero che ciò abbia un’alta priorità nell’agenda della nuova Commissione dopo le elezioni europee. A mio avviso, la situazione di bilancio di alcuni Paesi deve migliorare. La politica di bilancio non deve alimentare pressioni sui prezzi in area euro. Dobbiamo evitare che la politica di bilancio renda più difficile per la Bce salvaguardare la stabilità dei prezzi. Altrimenti, potrebbe essere necessario avere tassi di interesse più alti rispetto a una situazione senza tali complicazioni. Livelli sostenibili di deficit e di debito dovrebbero essere nell’interesse di ogni Paese».
Teme una situazione in cui deficit e debito vadano fuori controllo?
«Non direi che la situazione stia andando fuori controllo, adesso. Ma non dimentichiamo da dove veniamo. La crisi finanziaria e la crisi del debito sovrano sono una lezione per noi in Europa. Ci ricordano quanto possa essere pericoloso se le politiche di bilancio non sono solide. Credo che tutti i Paesi si stiano rendendo conto che la solidità di finanza pubblica è importante».
È soddisfatto di come viene attuato il Recovery Plan? Non è troppo opaco o complesso?
«Mi chiedo perché ci voglia così tanto tempo per creare progetti che si qualifichino per i finanziamenti nell’ambito di NextGenerationEU (il Recovery Plan, ndr). È un esempio perfetto di come in Europa dobbiamo accelerare e snellire i nostri processi. Se si fa un confronto con l’Inflation Reduction Act (Ira) degli Stati Uniti, ci sono molte differenze. Ma un aspetto spicca: negli Stati Uniti le domande (di erogazione, ndr) si fanno rapidamente, e così i versamenti. Le aziende possono trasformare le loro idee e i loro progetti in realtà ».
Il populismo di destra sembra in crescita alle prossime elezioni europee. La preoccupa? La Ue, e quindi l’euro, sono in pericolo di vita come dice Emmanuel Macron?
«I cittadini devono andare a votare alle europee. La possibilità di votare liberamente è un privilegio che molte persone in tutto il mondo non hanno o per cui stanno lottando. Ciò che mi preoccupa sono le tendenze antidemocratiche. Per quanto riguarda la Germania, lasciatemi dire che ci sono persone che lavorano contro l’Europa e contro la nostra concezione di democrazia e di società libera. Per questo, per la prima volta in vita mia, ho partecipato a una manifestazione per la democrazia, qui a Francoforte in gennaio. La Bundesbank ha anche partecipato a un evento pubblico a sostegno dell’Europa il 9 maggio, al quale ho preso parte anch’io. Un’Europa democratica è un traguardo prezioso, è giusto lottare per preservarlo. È un tema a cui tengo davvero molto».
La Commissione europea sta valutando nuovi dazi più alti sulle auto elettriche cinesi. Che ne pensa?
«È chiaro che quando si parla di scambi commerciali tra l’Unione europea e la Cina è necessario garantire condizioni di parità. Ma non sono sicuro che le tariffe annunciate dagli Stati Uniti la scorsa settimana siano una soluzione economicamente valida. Le tariffe sui prodotti stranieri tendono a rendere più costose le importazioni, facendo aumentare i prezzi all’interno e danneggiando i consumatori. Inoltre, la Cina penserà sicuramente a come fare una ritorsione. La Cina è un partner commerciale molto importante per la Ue e la Ue lo è per la Cina. Le regole e i negoziati potrebbero essere un’alternativa a un’escalation di dazi».
C’è troppo autocompiacimento in Europa?
«Siamo a un punto di svolta. Come evolverà l’economia europea nei prossimi anni? Possiamo pensare che il mondo giri intorno a noi, ma non è così. Guardiamo il potenziale di crescita di altre regioni del mondo, come l’India: 1,4 miliardi di persone, un tasso di crescita vicino all’8% e la rupia digitale. Negli ultimi anni si sono lanciati in molte innovazioni digitali. Dovremmo prendere spunto da loro. Credo che l’Europa abbia un grande potenziale. La nostra ricca varietà di idee, background e prospettive è un punto di forza reale. Ci aiuta a trovare nuove soluzioni».
(da agenzie)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
PARTITI SEMPRE PIU’ POVERI E FONDAZIONI PERSONALI SEMPRE PIU’ RICCHE
«È tutto tracciato», insisteva il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti anche quattro anni fa con Repubblica, che gli chiedeva conto dell’interesse manifestato dalla Banca d’Italia per alcune operazioni transitate attraverso la sua Fondazione Change. E poi spiegava: «Tutti i versamenti a Change superiori ai 500 euro sono regolarmente registrati alla Camera dei deputati e da quando è entrata in vigore la legge anche sul sito. È accessibile».
La pagina web della Fondazione-Comitato Change, in effetti, è accessibile. Sulla homepage c’è scritto che «il Comitato Change risulta chiuso a decorrere dal 7 giugno 2021». Incidentalmente, un anno dopo che era scattata la verifica di Bankitalia. Il presidente della Fondazione si chiama Nicola Boni ed è un avvocato, ex presidente di FuoriMuro, una società di servizi ferroviari nel porto di Genova. Ha preso il posto di un suo collega (e amico) che è fra i fondatori di Change. Il suo nome, Pietro Paolo Giampellegrini, già capo di Gabinetto di Toti e poi segretario generale della Regione: dal giugno 2019 è nel Consiglio di amministrazione di Iren, la municipalizzata quotata in Borsa di cui il Comune di Genova è il principale azionista con il 23 per cento, nonché presidente della controllata Iren Mercato. Ma anche il tesoriere di Change, Cristiano Lavaggi, è nel Consiglio di Iren spa oltre a occupare la presidenza di Iren Laboratori: dal maggio del 2021 è stato anche amministratore unico di Liguria Patrimonio, società di real estate controllata dalla Regione a guida Toti. Terza figura nel consiglio direttivo Marcella Mirafiori, stretta collaboratrice della giunta Toti in Regione. Insomma, una specie di cerchio magico.
Quanto a trasparenza sui conti, ci sono i bilanci. Dal 2016 al 2019 la Fondazione-Comitato Change ha incassato contributi da centinaia di soggetti. Ma è possibile conoscere appena quattro nomi, ovvero quelli che hanno versato i denari nei tre mesi da maggio a luglio del 2019. La Moby del gruppo Onorato (100 mila euro), la Black Oils della famiglia Costantino (50 mila), la Diaspa srl (30 mila) e la Innovatec del gruppo Waste presieduta dall’ex presidente delle Ferrovie all’epoca di Berlusconi, Elio Catania (20 mila).
Perché solo questi? La ragione è che nel 2019 è entrata in vigore una legge voluta dal Movimento Cinque Stelle allora al governo con la Lega di Matteo Salvini, battezzata «Spazzacorrotti», che ha formalmente sottoposto le fondazioni politiche ai medesimi obblighi dei partiti. Nel 2020, l’anno successivo, il Comitato Change non ha dichiarato alcun contributo, e poi è stato chiuso.
La morale? Questa storia rende lampante l’impellenza di ripensare seriamente le regole del finanziamento della politica se si vuole restituirle credibilità.
Il pasticcio comincia con la legge che nel 2014 abolisce i rimborsi elettorali. Al governo c’è Enrico Letta e la spinta è impetuosa. La sostengono tutti i partiti, convinti di frenare l’onda su cui sta planando il Movimento Cinque Stelle. I rimborsi elettorali vengono sostituiti dal 2 per mille, ma con un tetto massimo di 28,5 milioni di euro l’anno. Poi ci sono i contributi privati, certo. Ma anche per quelli c’è un giro di vite micidiale: nessuno potrà dare a un partito più di 100 mila euro l’anno. La motivazione è etica. I soldi però sono briciole, in confronto a prima. I contribuenti disposti a dare il proprio 2 per mille dell’Irpef ai partiti sono fra il 3 e il 4 per cento. E poi non sono nemmeno quelli più facoltosi. Nel 2022 dichiarano mediamente 28.553 euro, contro un reddito medio nazionale di 23.650 euro. I più ricchi sono i contribuenti di Azione di Carlo Calenda (46.588 euro di reddito medio); i più poveri quelli di Sud chiama Nord diCateno De Luca (11.500 euro). Chi contribuisce al Pd sta poco sopra i 30 mila euro, contro i 28.585 euro dei finanziatori di Fratelli d’Italia e i 25.320 dei tifosi di Matteo Salvini.
La toppa a un sistema ormai degenerato si rivela così peggiore del buco. Pochi soldi dal 2 per mille, e ancor meno dalle imprese private, per una ragione ovvia. Perché finanziare un partito, tanto più con il limite di 100 mila euro, quando si può finanziare la fondazione di un singolo politico, magari il leader di quel partito, raggiungendo direttamente il bersaglio senza sprecare inutilmente risorse? Considerando, per giunta, che fino al 2019 i finanziamenti alle fondazioni politiche erano praticamente coperti da segreto?
Il caso di Giovanni Toti dice tutto: i denari che ha raccolto la Fondazione Change in quattro anni sono pari a più di cinque volte la somma incassata da tutti i partiti nei quali Giovanni Toti ha militato dopo aver lasciato Forza Italia: da Cambiamo! a Italia al Centro, fino a Noi con l’Italia. Un milione 260.645 euro contro 236.052. Mica male.
Con la legge del 2019 tutto sarebbe dovuto cambiare. Ma è cambiato solo sulla carta. La legge ha affidato la sorveglianza delle fondazioni politiche alla commissione di Garanzia degli Statuti dei partiti istituita dopo il 2012, che però non ha le risorse per occuparsene. Una ricerca di Openpolis ha calcolato che i soggetti potenzialmente di sua competenza sono 108. E appena 8 pubblicavano di regola l’elenco dei finanziatori. Fra questi, una sola fondazione riferibile a un leader di partito: Open di Matteo Renzi, ma con la clausola che nell’elenco compariva solo chi aveva autorizzato la pubblicazione del proprio nome. I componenti della commissione avevano denunciato in una relazione fin dall’inizio l’impossibilità di operare. Senza che nessuno abbia dato loro ascolto. Basta andare nel sito della commissione per verificare come le fondazioni siano ancora un oggetto di fatto sconosciuto.
Il risultato? Se Enrico Berlinguer nella famosa intervista del 1981 con Eugenio Scalfari ammoniva che i partiti erano diventati macchine di potere e clientela, quella funzione si è trasferita ora sempre più a potentati personali. Che spesso dispongono di risorse finanziarie enormemente superiori a quelle del loro partito. È l’inverno della democrazia parlamentare. Dove tutto forse è davvero tracciabile, come avverte ancora oggi Toti per dire che tracciabilità è di per sé sinonimo di regolarità dei rapporti. Quando purtroppo non è sempre così. All’inizio degli anni Novanta i bilanci dei partiti pubblicati sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana riportavano anche allora le liste dei finanziatori privati, con accanto le cifre. Tutto tracciato, cristallino. Peccato che le inchieste di “Mani Pulite” dimostrassero come molti di loro fossero implicati in Tangentopoli. La verità? Non c’è mai stata la garanzia che chi paga un partito o un politico poi non si aspetti qualcosa in cambio.
Si dirà che le democrazie funzionano tutte così, ed è vero. Ma ci vogliono anche regole serie. Negli Stati Uniti c’è una rigida regolamentazione delle lobby che finanziano i partiti o i singoli politici. In Germania esiste una disposizione per cui chi riceve un contributo rilevante da un privato è obbligato a renderlo pubblico ai cittadini via Web con immediatezza. E non a babbo morto, come capita qui.
Mancano regole fondamentali, in una ipocrisia di fondo che non ha affatto intralciato la corruzione. Manca una legge sulle lobby. Manca una trasparenza reale. Mancano controlli seri, prima che arrivino i magistrati. Manca soprattutto, però, il coraggio dei partiti. Se ne dovrebbe discutere apertamente con i cittadini: organizzare gli stati generali del finanziamento alla politica con un dibattito pubblico aperto alle proposte di tutti, dalle singole persone alle parti sociali, perfino agli esperti, dovrebbe essere interesse di tutti i partiti. L’alternativa? Continuare a difendersi dietro foglie di fico come la tracciabilità, mentre si telefona al funzionario dallo yacht dell’amico facoltoso imprenditore che ha chiesto un favore. E finendo ai domiciliari mentre sempre più italiani disertano le urne.
(da lespresso.it)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL DIPARTIMENTO DI STATO USA AVEVA CHIESTO SOBRIETÀ. SCOPPIA UN CASO DIPLOMATICO CHE METTE A RISCHIO I DOSSIER FUTURI
Chico Forti è stato trasferito in Italia «per scontare lì il resto della sua pena». È molto chiaro il commento che il Dipartimento di Stato rilascia a Repubblica, e quindi le aspettative del governo americano, dopo l’accoglienza a cui ha partecipato la premier Giorgia Meloni.
E dire che gli Usa erano stati chiarissimi, nel corso delle laboriose trattative per riportarlo a casa. La richiesta era stata: sobrietà. Meglio: serietà. Capiamo il valore simbolico del rientro – era il senso del messaggio – ma è necessario mantenere un basso profilo, per tenere assieme esigenze diverse, se non contrapposte, tra i due Paesi.
Un conto è insomma concedere il ritorno in patria di un condannato per omicidio, altro farne la bandiera di un successo politico. Ecco perché la gestione di Palazzo Chigi del caso Forti ha provocato, si apprende ora da fonti italiane, un vero e proprio caso diplomatico.
Tre “incidenti” hanno contribuito ad accrescere il risentimento degli americani. Il primo: la scelta di far ricevere Forti dalla premier. Una decisione forte, controversa, inaspettata. E per nulla scontata, tanto da contenere un giallo nel giallo
E qui si arriva al secondo errore: lo scatto che ha ritratto Meloni con Forti nella saletta di Pratica di Mare. Un’immagine che, si apprende dalle stesse fonti, le autorità statunitensi avrebbero preferito non vedere.
Per non parlare di un’altra foto, terzo sgarbo diplomatico: quella che immortala il deputato meloniano eletto negli Usa, Andrea Di Giuseppe, sorridente e al fianco del detenuto nel carcere veronese. Una mossa, quella del parlamentare, che avrebbe provocato l’ira di Palazzo Chigi, che alcune ore prima aveva già ricevuto le prime lamentele dall’alleato.
La gestione ha irritato gli americani. E, si apprende sempre da fonti italiane di massimo livello, avrebbe provocato una reazione. Attraverso i canali diplomatici che portano a Palazzo Chigi, sarebbe stato fatto presente che gli accordi erano diversi. Tradotto: è stato ignorato un impegno informale fondato sulla fiducia reciproca e questa condotta potrebbe comportare conseguenze in futuro, con una gestione più rigida di dossier simili.
Repubblica ha chiesto un commento al Dipartimento di Stato, che ha evitato di entrare nel merito politico della vicenda, ma è stato netto sul piano giudiziario: «Il primo marzo 2024, lo Stato della Florida ha accolto la richiesta di Enrico Forti di trasferirsi in Italia, suo paese d’origine, per scontare lì il resto della sua pena, ai sensi delle disposizioni della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate del Consiglio d’Europa, di cui sono parti sia gli Stati Uniti che l’Italia. In conformità alla Convenzione, anche il Dipartimento alla Giustizia degli Usa ha approvato la richiesta di trasferimento del signor Forti. Successivamente, il Dipartimento alla Giustizia ha collaborato col Governo italiano e lo Stato della Florida per effettuare il trasferimento». La frase chiave è «scontare lì il resto della sua pena».
(da La Repubblica)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL DEPUTATO MELONIANO ANDREA DI GIUSEPPE È ANDATO A TROVARE FORTI IN CARCERE A VERONA, MA È SCOPPIATO UN PUTIFERIO PER IL LORO SELFIE… LA CONSIGLIERA COMUNALE DEL PD A VERONA, ALESSIA ROTTA: “INACCETTABILE CHE SI FACCIA UNA FOTO DEL GENERE DOVE È PROIBITO USARE I CELLULARI” – IL CONCERTO CHE BOCELLI VUOLE ORGANIZZARE PER FORTI
L’ultimo, in ordine di tempo. Quello che, fra i 597 detenuti delcarcere di Montorio, sta monopolizzando le cronache e la curiosità degli altri reclusi. Ma su di lui è un catalizzarsi anche di polemiche, dalla sua «accoglienza» all’arrivo in Italia fino a quella nel carcere di Verona.
Arrivato domenica pomeriggio, accolto dall’applauso degli astanti ristretti, dopo due ore aveva già ricevuto la prima visita. Quella del deputato di Fratelli d’Italia – eletto nella circoscrizione estero – Andrea Di Giuseppe che da sempre segue il suo caso. A Verona Chico Forti è arrivato per un motivo «logistico». È quella più vicina a Trento, vale a dire alla sua famiglia, la casa circondariale di Montorio.
Ma il primo a incontrarlo nella sua detenzione veronese è stato l’onorevole Di Giuseppe. «L’ho visto domenica pomeriggio verso le 16,45. Era arrivato da un paio di ore. L’ho trovato energico, positivo e molto battagliero», racconta. Lui – che sta seguendo le vicende di altri 2.300 italiani detenuti all’estero – di Chico Forti è diventato amico negli anni. Domenica si sono incontrati mentre Forti stata eseguendo le visite mediche d’ordinanza per i nuovi ingressi in infermeria.
Poi insieme sono andati nella sezione dove Chico è detenuto. Racconta «radio carcere» che della visita di Di Giuseppe Forti sia stato contento. Tanto da preannunciare prossimi incontri con politici e con quello che è uno dei suoi migliori amici. Quell’Andrea Bocelli che, stando a quanto avrebbe detto Chico, «mi sta preparando un concerto in Arena, in cui racconterà la mia vicenda».
Ma intanto quell’incontro con il deputato Di Giuseppe, immortalato da una foto tra le mura del carcere postata sulla pagina Facebook del parlamentare, scatena polemiche. Soprattutto per quello scatto.
«Inaccettabile che si faccia una foto del genere all’interno di un carcere, dove è proibito usare i cellulari», ha commentato infuriata l’ex deputata del Pd e attuale consigliera comunale a Verona Alessia Rotta. Che della cosa ha informato la responsabile Giustizia dei Dem Debora Serracchiani.
E mentre Forti passa i suoi giorni da recluso a Verona, il caso di quella foto è destinato ad arrivare a Roma.
(da Il Corriere della Sera)
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Maggio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
“NUMEROSI ELEMENTI PROVANO LA SUA COLPEVOLEZZA”… E IL GOVERNO STENDE IL TAPPETO ROSSO A UN CRIMINALE
Era sul luogo del delitto, aveva acquistato una pistola e ha mentito a sua moglie. Tre dei tanti elementi che, secondo Marco Strano, ex ufficiale dei carabinieri, ex Sisde ed ex tecnico della polizia oggi in pensione, criminologo e psicologo, provano la colpevolezza di Chico Forti.
Il 65enne, condannato all’ergastolo negli Stati Uniti perché giudicato colpevole di omicidio, è tornato in Italia il 18 maggio scorso dopo 24 anni di detenzione in Florida. Finirà di espiare la pena in Italia, a Verona, come prevede una Convenzione internazionale del 1983. Secondo Strano, che sulla vicenda ha scritto Cherry Picking. La strategia di un assassino. Analisi criminologica del caso Chico Forti, gli elementi che provano la sua colpevolezza sono tanti e chiari: «Forti va a prendere la vittima all’aeroporto, Dale Pike doveva essere ospitato a casa sua, gli aveva comprato anche il biglietto dell’aereo, ma non ci arriverà», spiega al Fatto Quotidiano.
«Ha mentito a sua moglie»
«Forti dice che lungo la strada, l’australiano deve comprare le sigarette, si ferma in un’area di servizio che è in tutt’altra direzione rispetto alla sua abitazione, Pike scende e gli dice “ho cambiato idea, accompagnami al Rusty Pelican”, il ristorante vicino alla spiaggia di Key Biscayne in cui sarà trovato ucciso con due colpi calibro 22 alla nuca. Dice che Pike ha fatto una telefonata, ma non ce n’è traccia. Mente», spiega Strano. E mente «quando la polizia già sospetta di lui e quando ci torna. Ma mente – continua l’ex ufficiale – anche a suo moglie: le dice che non ha visto Pike. Ma quando la chiama, alle 19:16 di quel 15 febbraio 1998, è ancora vicino alla spiaggia: lo dice la cella telefonica che aggancia. E Pike è morto in un orario compatibile».
La pistola e l’hotel di Ibiza
Ma non solo: Forti acquista la pistola e la intesta a un altro, «un truffatore che Forti poi accuserà del delitto», dice. E poi c’è il movente: «Forti era pieno di debiti e voleva approfittare della demenza di Tony Pike (il padre di Dale, ndr) per farsi cedere l’hotel Pikes di Ibiza promettendo un pagamento futuro. Forse voleva darlo in garanzia alle banche. E il figlio va a Miami per rimediare ai danni del padre».
Secondo l’inchiesta della polizia di Miami, Forti stava cercando di comprare l’albergo dal padre di Dale, Tony Pike, approfittando della condizione di demenza di quest’ultimo.
(da agenzie)
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