Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
IL PD CHIEDE LE SUE DIMISSIONI, SDEGNO IN CITTA’; “VERGOGNATI, E’ UN BAMBINO”
A Mantova, il segretario della Lega, Cristian Pasolini, è finito al centro di una bufera mediatica per un commento razzista pubblicato su Facebook. Pasolini ha descritto un bambino di colore presente a una cerimonia di taglio del nastro come “negroide”.
Il post, che includeva la foto del sindaco dem Mattia Palazzi con i bambini della scuola locale, ha suscitato immediate reazioni di indignazione.
Il Partito Democratico (PD) locale e regionale ha prontamente chiesto le dimissioni di Pasolini, definendo il commento una “vergogna” e un’offesa razzista nei confronti del bambino.
Numerosi utenti di Facebook hanno condannato il post, con commenti come “Vergognati, sono bambini” e richieste affinché la Lega e Matteo Salvini prendano le distanze dall’accaduto.
Pasolini, difendendosi dalle accuse, ha tentato di giustificare il suo uso del termine, sostenendo che si trattava di una corretta espressione scientifica. Tuttavia, questa spiegazione non ha placato le critiche, e la sua posizione nel partito è ora in discussione. Il segretario del PD di Mantova ha dichiarato che Pasolini non può restare al suo posto dopo un simile episodio e ha chiesto un intervento immediato da parte della Lega per risolvere la situazione. La questione potrebbe avere ripercussioni significative per la carriera politica di Pasolini e per l’immagine della Lega a livello locale e nazionale. L’episodio a Mantova rappresenta un episodio grave di razzismo che ha sollevato forti reazioni da parte del pubblico e della politica.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
L’ENNESIMO DISASTRO DEI MELONIANI IN UN EVENTO IN CUI L’ITALIA E’ OSPITE D’ONORE
La lista dei 100 partecipanti alla Fiera del Libro di Francoforte il prossimo ottobre, dove l’Italia è ospite d’onore, sta perdendo pezzi (importanti).
Dopo l’esclusione di Roberto Saviano, che sarà ospite delle case editrici tedesche, arriva anche la presa di posizione di altri autori di primo piano. L’ultimo in ordine di tempo: Francesco Piccolo, che ha declinato l’invito della delegazione guidata da Mauro Mazza, commissario straordinario del governo per il coordinamento delle attività relative alla Fiera. «Ritengo che l’Italia non possa non essere rappresentata anche dall’autore di Gomorra, un libro tradotto in tutto il mondo (e a seguire tutti i suoi altri). Non mi sento legittimato a rappresentare un gruppo di lavoro se manca qualcuno che evidentemente doveva esserci», ha scritto Piccolo in una lettera pubblicata da La Repubblica.
Anche Paolo Giordano ha fatto sapere su X che non sarà presente in Germania. «La prima cosa che ho fatto dopo aver ricevuto l’invito alla Buchmesse è stata chiedere a Saviano se fosse inviato: no. Quindi mi sono fabbricato un impegno alternativo anch’io (c’ho judo)», si legge nel tweet.
Si defila anche il poeta Franco Buffoni, sempre in solidarietà con l’esclusione di Saviano: «Rinuncio all’invito che mi è stato rivolto dal Commissario governativo Mauro Mazza in data 12 aprile 2024», scrive sui social.
Prima di loro, anche Sandro Veronesi ha declinato l’invito, rispedendolo direttamente al mittente (Mazza) per le «ragioni balorde e ridicole con cui ha giustificato l’esclusione di Saviano». Per il due volte Premio Strega continua «la pratica di ingerenza del Presidente del Consiglio e dei suoi più fidati collaboratori, accompagnata da “putiniana ipocrisia” su decisioni che non devono seguire logiche politiche».
Tra gli altri nomi che risultano assenti nella lista della delegazione italiana, ci sono quelli di Antonio Scurati, reduce dalla censura Rai a CheSarà di Serena Bortone dove avrebbe dovuto recitare un monologo sull’antifascismo. Il premio Strega per M – invitato anch’egli dagli editori tedeschi – «ha declinato l’invito mesi fa». Assente anche Alessandro Piperno che ha, invece – stando alle parole del commissario del governo Meloni – «altri impegni».
Il filo conduttore della 76esima Fiera del Libro, in programma dal 16 al 20 ottobre, sarà Radici nel futuro.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
RESTA AI DOMICILIARI, PROSEGUONO LE INDAGINI… TRA I TESTIMONI VERRAANO SENTITI NON SOLO BUCCI E APONTE MA ANCHE TRE TESTOMONI CHIAVE CHE AVEVANO POSTO DUBBI SULLA LEGITTIMITA’ DELL’OPERAZIONE
Lo aveva annunciato il giorno dell’interrogatorio di garanzia davanti al giudice per le indagini preliminari. Oggi, si apprende in ambienti politici, Matteo Cozzani si è ufficialmente dimesso da capo di gabinetto in Regione Liguria. L’ex sindaco di Portovenere, ai domiciliari dal 7 maggio, è accusato di corruzione dalle procure di Spezia e Genova. Dai pm del capoluogo ligure è anche accusato di voto di scambio aggravato dall’aver agevolato la mafia. Era diventato uomo di fiducia di Giovanni Toti a cavallo delle regionali del 2020.
Il voto di sfiducia nei confronti del governatore sarà il 4 giugno
È ufficiale la data del 4 giugno per la mozione di sfiducia contro il presidente della Regione Liguria sospeso Giovanni Toti agli arresti domiciliari per corruzione dal 7 maggio. Andrà al voto in Consiglio regionale nella seduta di martedì prossimo. Lo ufficializza l’ufficio stampa dell’assemblea legislativa inviando la sintesi dell’ordine del giorno della prossima seduta. Il documento è firmato dai gruppi d’opposizione Pd, Lista Sansa, M5S e Linea Condivisa. Si tratta della mozione 109 intitolata “Sfiducia nei confronti del presidente della Giunta regionale”.
“Valutato lo scioglimento del Consiglio Regionale e lo svolgimento di nuove elezioni l’unica strada possibile per restituire dignità alle istituzioni, – recita – per evitare una situazione di stallo della Regione e garantire un governo regionale che operi nella piena legittimazione democratica e politica, sfiducia ai sensi dell’articolo 124 del Regolamento interno il presidente della Giunta regionale Giovanni Toti”.
Inchiesta in Procura: a breve riprende la sfilata dei testimoni
Riprenderanno nelle prossime ore gli interrogatori delle persone informate dei fatti nell’ambito dell’inchiesta sulla corruzione che ha terremotato la regione Liguria e portato, dal 7 maggio, agli arresti domiciliari il presidente Giovanni Toti. Il primo a essere sentito, forse già venerdì, dovrebbe essere Andrea La Mattina, membro del comitato portuale in quota Regione.
Secondo l’accusa lui e Giorgio Carozzi (membro per conto del Comune) avrebbero subito pressioni per cambiare il loro parere e votare a favore della proroga a 30 anni per il rinnovo della concessione del Terminal Rinfuse a favore di Aldo Spinelli.
Altro interrogatorio atteso è quello della manager Ivana Semeraro, del fondo Icon Infrastructure, che si sarebbe rifiutata con Spinelli di finanziare per 40 mila euro il comitato elettorale di Giovanni Toti, perché a suo avviso “questi pagamenti possono essere visti come corruzione”.
La sua testimonianza servirà a capire il perché di quelle perplessità riguardo all’azione dell’imprenditore. Davanti ai pm verranno convocati anche il sindaco Marco Bucci, che avrebbe a sua volta fatto pressioni a Carozzi per cambiare idea sul Terminal Rinfuse, e l’armatore Gianluigi Aponte. E, ancora, saranno presto convocate in procura tre testimoni chiave per la vicenda del tombamento di Calata Concenter.
Si tratta di Annamaria Bonomo, ex Avvocato dello Stato a Genova e consulente (a titolo gratuito) della Struttura Commissariale per la ricostruzione post Morandi guidata da Bucci; Lucia Cristina Tringali, dirigente e responsabile dell’anticorruzione interna di Autorità Portuale, e l’architetta Cristina Bartolini, Soprintendente alle Belle Arti di Genova. Tutte e tre, nel 2022 avevano espresso dubbi di legittimità sull’operazione.
(da Il Secolo XIX)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
LEI SI DIFENDE DICENDO CHE NON C’È NULLA DI ILLECITO E MICCICHÈ INSISTE: “NON SONO STATO IO A CHIEDERE UN CONTRATTO PER LUI”
L’inchiesta della Guardia di finanza e della procura sull’auto blu di Gianfranco Miccichè sta svelando dettagli alquanto colorati sui collaboratori dei politici siciliani. L’ex presidente dell’Assemblea regionale aveva ingaggiato il suo collaboratore domestico; la senatrice Daniela Ternullo, invece, arrivata a Palazzo Madama grazie alla rinuncia di Miccichè, si è avvalsa della collaborazione di un pescivendolo di Cefalù. Il fidato pescivendolo di Miccichè che proprio a Cefalù ha il suo buen retiro.
«Non c’è nulla di illecito — dice a Repubblica la forzista siracusana — non è stato pagato con risorse del Senato, ha avuto per qualche mese un incarico personale, l’ho pagato coi miei soldi, attraverso un regolare contratto». Ma per fare cosa? «Serio si è impegnato per il partito», mette le mani avanti pure Miccichè, che oggi si trova indagato per peculato e truffa nell’ambito della vicenda dell’auto blu. «E non sono stato io a chiedere a Daniela il contratto per Serio». Miccichè insiste: «Salvatore ha portato un contributo importante come consulente quando Daniela si è occupata di questioni relative alla pesca».
Intanto, anche Serio è finito nelle intercettazioni. Qualche tempo fa, chiamò l’autista dell’esponente di FI, per chiedergli di andare a prendere un’amica all’aeroporto. Era già scoppiata la polemica sulla vettura di servizio di Miccichè e soprattutto sui viaggi con tanto di lampeggiante per comprare qualche dose di cocaina.
«In questo momento non posso venire», disse l’autista del politico. Il pescivendolo insisteva: «Serve alle sette di sera».L’autista ribadì: «Ti dico di no, hanno gli occhi puntati su di me».
Miccichè e Serio avevano un rapporto di grande confidenza.
Il pescivendolo ha anche postato un selfie col suo amico politico su Facebook. In un’altra foto è ritratto con tanto di tesserino in una sede istituzionale.
Pure Serio faceva da “factotum” a Micciché: una volta per fargli avere dei farmaci, un’altra volta non è chiaro per cosa si davano appuntamento. È stato invece assunto nel suo staff parlamentare un altro collaboratore di Miccichè, Giancarlo Migliorisi, che nei mesi scorsi si è dovuto dimettere dalla segreteria tecnica dell’Ars perché sorpreso dalla polizia a comprare cocaina.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
LA MISURA, CHE AVEVA FATTO INCAZZARE I SINDACI, SARÀ RIPROPOSTA SOLO DOPO IL 9 GIUGNO. ANCHE PERCHÈ IN UN MUNICIPIO SU DUE IL VOTO EUROPEO SARÀ AFFIANCATO DAL RINNOVO DEGLI ORGANI LOCALI
Il governo ripone le forbici nel cassetto. Del resto, ci sono le elezioni. E quindi stop al decreto che rende operativa la spending review imposta a Comuni, province e Città metropolitane con l’ultima legge di Bilancio. La pausa durerà un paio di settimane, il tempo di superare il voto per le Europee, che in più di un municipio su due sarà affiancato dal rinnovo degli organi locali.
I tagli possono aspettare, anzi devono. Nelle ultime ore il rischio per il centrodestra di perdere voti si è fatto più forte, sulla scia delle proteste dei sindaci, soprattutto di quelli “amici”. Di fronte ai tagli che mettono a repentaglio servizi educativi e sociosanitari, dagli asili nido alle strutture per l’accoglienza dei disabili, i Comuni non sentono ragioni.
Ma allo stesso tempo il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti non è intenzionato a retrocedere rispetto allo schema del decreto che ha sforbiciato 250 milioni all’anno, dal 2024 al 2028: il 50% delle risorse sarà prelevato dalla spesa corrente, mentre l’altra metà in proporzione ai fondi Pnrr incassati dagli enti locali. L’inquilino di via XX settembre non ha cambiato idea nonostante le critiche del Pd e dei sindaci.
E anche il coautore del provvedimento, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, la pensa come lui. Ecco perché le forbici resteranno coperte giusto un po’, per poi essere ritirate fuori e utilizzate. Ad attivare la “pausa elettorale” è stato Piantedosi. Di fronte al pressing della maggioranza ha preferito non forzare la mano sul passaggio propedeutico alla pubblicazione del decreto interministeriale sulla Gazzetta ufficiale.
Nei piani del governo anche solo un esame preliminare del decreto sarebbe un azzardo: lo stesso comma della Finanziaria che fa riferimento al passaggio in Conferenza Stato-città prevede anche che «in caso di mancata intesa entro venti giorni dalla data di prima iscrizione all’ordine del giorno della proposta di riparto delle riduzioni, il decreto è comunque adottato».
Non tutti, dentro al governo, la pensano come Giorgetti e Piantedosi. Il ministro Raffaele Fitto, che ha la delega al Pnrr, ha lasciato aperta la porta, anche se la disponibilità a un confronto è tale da tre giorni, ma senza concretizzarsi in una convocazione. Per ora basta una pausa. Del resto, ci sono le elezioni.
(da agenzie)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE DI KLUBRADIO: “OTTO MILIONI DI EURO DAI NOSTRI SUPPORTER”
Nonostante la repressione del pluralismo informativo da parte del governo, ci sono media indipendenti che continuano ad allargare i confini della libertà d’informazione: ecco le loro storie e voci
La libertà di stampa è sotto attacco in Ungheria. Lo scrive Human Rights Watch nell’ultimo report «I can’t do my job as a journalist». I media statali – spiega l’autrice Lydia Gall – hanno smesso di fingere di essere imparziali già da tempo. Quelli indipendenti sono stati gradualmente smantellati o riconvertiti a mezzi filo-governativi a partire dall’ascesa al potere di Viktor Orbán. Le campagne diffamatorie contro i giornalisti e la concentrazione dei media privati nelle mani di oligarchi vicino all’esecutivo rivelano – secondo il report – una sistematica compromissione dell’indipendenza e del pluralismo, pilastri fondamentali di una società democratica. Eppure, di voci indipendenti che resistono ce ne sono. Si sono reinventate.
Nel 2020 Szabolcs Dull, caporedattore del sito di informazione indipendente ungherese Index, viene licenziato. Oltre settanta giornalisti rassegnano le dimissioni e scendono in strada a manifestare. «In Ungheria lo spazio per la libertà d’informazione è diventato sempre più piccolo negli ultimi anni», dice a Open Dull, giornalista e analista politico. Nonostante ciò «molti reporter indipendenti riescono ancora a lavorare, i loro articoli vengono pubblicati – continua -. Io sono attualmente libero di scrivere una newsletter politica e di pubblicare qualsiasi informazione politica: è una questione di quanto ampio sia il pubblico che raggiunge le informazioni reali». Un anno dopo Klubrádió, l’ultima radio libera del paese, è costretta a lasciare per sempre l’etere. Ma András Arató, direttore e proprietario dell’emittente, non si dà per vinto e inizia a trasmettere sulla piattaforma internet, mandando in onda l’Inno alla Gioia, l’inno ufficiale dell’Unione europea. «Oggi abbiamo più ascoltatori di prima», dice a Open Arató. Ma come siamo arrivati a questa erosione della libertà di stampa in Ungheria?
Il 24 luglio del 2020 più di 80 giornalisti della testata Index, all’epoca una delle poche realtà indipendenti e la più autorevole nel Paese, hanno rassegnato le dimissioni per protestare contro le interferenze della proprietà del giornale filo-governativa nelle scelte editoriali. La mossa dei giornalisti è arrivata dopo il licenziamento in tronco del caporedattore Szabolcs Dull da parte di Miklos Vaszily, l’oligarca vicino a Orbán in possesso del 50 per cento della piattaforma e proprietario della televisione TV2 e del sito Origó. Da tempo Dull denunciava nei suoi editoriali le crescenti pressioni del governo sul mondo dell’informazione, avvertendo che quel che restava della libertà di stampa in Ungheria era in grave pericolo. A distanza di 4 anni, il giornale è ancora online. Ma ha cambiato faccia: «Il problema che il governo e Orbán avevano con il mio giornale era che noi trattavamo argomenti scomodi – spiega il giornalista -. Facevamo domande a cui non rispondevano, ma volevano controllare il contenuto e il funzionamento di Index. Quello che una volta era un giornale indipendente ora è un giornale influenzato dal governo, ma il nome e la grafica sono gli stessi. Fanno finta che non sia cambiato nulla, ma certe notizie sgradite al governo non compaiono».
I giornalisti devono affrontare tutt’oggi molti ostacoli: «I membri del governo, i ministeri e i leader ungheresi non rispondono alle domande, rendendo difficile ottenere informazioni equilibrate», sottolinea. «Siamo spesso trattati come nemici e contro di noi vengono condotte campagne di discredito. Io stesso ne sono stato oggetto: dopo il mio licenziamento un media online influenzato dal governo ha pubblicato dettagli dei miei tabulati telefonici». Il premier ungherese considera i media come attori politici e «vuole essere in grado di influenzarli – spiega Dull -. Quelli che non controlla sono chiamati dal governo “media del dollaro”, mentre i reporter indipendenti “giornalisti della sinistra del dollaro”. Ciò significa che per l’esecutivo servono interessi stranieri e sono pagati dagli Stati Uniti. Orbán non ha intenzione di punire questi media, semplicemente non vuole che molte persone li leggano o li guardino».
Quello ungherese non è, però, un fenomeno isolato: in molti Paesi dell’Unione sempre più leader politici cercano di controllare, con ogni mezzo, l’informazione. E nonostante l’Ue abbia adottato la sua prima legge sulla libertà dei media, l’European Media Freedom Act, in molti Stati gli esecutivi continuano a schiacciare e ridurre lo spazio di manovra per il giornalismo. È ciò che emerge dal rapporto di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa. «Alla politica piace sempre avere un’influenza sui media, non è insolito. Ma è compito dei giornalisti stabilire i limiti e comunicarli chiaramente ai lettori – afferma Dull -. È importante, ad esempio, che i giornalisti italiani segnalino in cosa non si lasceranno coinvolgere. Non devono finire a servire gli interessi di un politico, invece degli interessi dei lettori. Anche la solidarietà è importante: i giornalisti devono sostenersi a vicenda quando un media viene attaccato», conclude.
L’erosione della libertà di stampa in Ungheria
A Budapest l’erosione della libertà di stampa ha subìto un notevole peggioramento a partire dal 2010 quando Fidesz e il Kdnp (il partito popolare cristiano democratico), dopo 8 anni di governo socialista, hanno conquistato la maggioranza in Parlamento. La coalizione ha rivisto la legge ungherese sui media aprendo, di fatto, la strada al controllo dell’intero settore attraverso l’istituzione di una Media Authority i cui membri vengono nominati e sorvegliati dal governo. Secondo la tesi ufficiale, si tratta di una stretta di «importanza strategica nell’interesse pubblico». Tale controllo governativo è stato rafforzato con la creazione nel 2018 della fondazione privata Central European Press and Media Foundation (Kesma).
Poco dopo la sua formazione, gli editori dei mezzi d’informazione, oligarchi e imprenditori vicini al governo, hanno trasferito le loro proprietà a Kesma, che ora controlla più di 470 media. «Questa concentrazione mina il pluralismo, distorce il mercato dei media e impedisce alle persone di accedere a informazioni indipendenti», dice a Open Lydia Gall, ricercatrice di Human Rights Watch per l’Ungheria. Secondo la studiosa, Orbán e i suoi hanno voluto espropriare la popolazione ungherese di uno strumento indispensabile alla democrazia, mettendo a tacere tutte le voci dissenzienti. «Controllando il messaggio, le notizie che arrivano agli ungheresi sono distorte e incomplete. Ciò non consente loro di avere le informazioni necessarie per fare scelte consapevoli», precisa Gall.
La battaglia di Klubrádio
Era il 14 febbraio del 2021 quando Klubrádio salutava i suoi radioascoltatori sui 92,9 MHz delle frequenze nazionali. Dopo 12 anni di messa in onda, 500mila ascoltatori e una redazione di circa 100 giornalisti l’emittente radiofonica indipendente chiudeva i battenti. «Siamo riusciti a sopravvivere in questa nicchia finché non ci siamo trovati nel mirino della “democrazia illiberale” di Orbán», racconta a Open il direttore e proprietario dell’emittente, András Arató. Il garante, nominato del governo, l’ha privata della licenza. Per l’Autorità che controlla i media, Klubrádio – che ha visto respinto il suo ricorso dalla Corte di giustizia di Budapest – non avrebbe notificato in tempo i contenuti trasmessi. Secondo l’opposizione a Orbán sarebbe stata, invece, messa a tacere per motivi politici. Anche la Commissione Ue si è esposta più volte sulla chiusura, invitando l’Ungheria a mantenere in onda l’emittente. «Nonostante ciò – continua Arató -, trasmettiamo via Internet, come esempio di resistenza contro gli attacchi ai media» in un Paese dell’Unione europea.
Per il giornalista, gli ostacoli alla libertà di stampa in Ungheria sono sostanzialmente due: «istituzionale e finanziario». Per quanto riguarda il primo, «tutti i media statali sono nella mani del cerchio magico di Orbán». Mentre dal punto di vista economico, «i mezzi d’informazione non possono andare avanti senza soldi. Ma il problema principale – sottolinea – è che il più grande finanziatore è lo Stato, che non sovvenziona i media indipendenti. E i privati hanno paura di investire perché potrebbero perdere contratti statali o ricevere, ad esempio, controlli mirati e inaspettati». Per sopravvivere online, l’emittente ha raccolto fondi con campagne di crowdfunding. «Abbiamo anche racimolato smartphone in una libreria di Budapest per regalarli alle persone che non avevano accesso a Internet. Così non abbiamo perso il nostro pubblico». Anzi,«oggi abbiamo più ascoltatori di prima», afferma Arató. Per compensare invece la perdita di introiti pubblicitari, la radio è passata a una forma di abbonamento con cui, in questi anni, «i sostenitori hanno raccolto circa 8 milioni di euro per mantenere viva la voce di Klubrádió». L’obiettivo di Orbán di svuotare il concetto di libertà dei media in Ungheria, per Arato, è stato ignorato per troppo tempo dall’Ue. «Finanziare un esecutivo che viola i valori fondanti non è una cosa molto democratica e l’Unione ha finanziato Orbán per 14 anni. È stato un grande errore», conclude il giornalista.
«Le fonti hanno paura di parlare»
In Ungheria è sempre più difficile per le testate indipendenti accedere alle informazioni che riguardano le “stanze del potere”. «Quando vengono pubblicate inchieste riguardanti l’esecutivo nei pochi canali online liberi, non succede nulla. Tutto viene insabbiato dalla propaganda governativa», spiega la ricercatrice di Hrw. «I giornalisti devono anche fare i conti con la possibilità di essere sorvegliati: molti professionisti ungheresi sono stati presi di mira dallo spyware Pegasus. E lo spyware non è stato necessariamente utilizzato contro i giornalisti, bensì contro le loro fonti. In generale, le persone hanno paura di parlare con i giornalisti per timore di ripercussioni di vario tipo (ad esempio, la perdita del posto di lavoro)», sottolinea. «Ho perso delle fonti dopo l’incidente di Pegasus – spiega uno dei reporter in forma anonima, sul cui telefono è stato individuato il software – Ora è più difficile lavorare perché le persone hanno paura di parlare. Incontrarmi adesso comporta dei rischi extra». Ma il controllo governativo non si è fermato ai cosiddetti media tradizionali. Nell’ultimo periodo, il premier magiaro – anche in vista delle Elezioni europee 2024 – ha sguinzagliato la macchina della propaganda del suo partito Fidesz sui social media. «Sembra che gran parte della propaganda di Orbán si concentri sui social network, utilizzando (e pagando con i soldi dei contribuenti) gli influencer per ripetere i messaggi dell’esecutivo e diffamare i media indipendenti e i politici dell’opposizione».
L’eterna lotta contro Bruxelles
Secondo la relazione del Parlamento europeo, la repressione della stampa fa parte della più ampia erosione dello stato di diritto in Ungheria, uno dei valori fondanti dell’Unione. Nel settembre 2018, il Parlamento europeo aveva chiesto per la prima volta al Consiglio di determinare – ai sensi dell’articolo 7 del trattato sull’Ue – se vi era stato un rischio di violazione di tali valori da parte dell’Ungheria. Al 2022 risale lo stop dei circa 22 miliardi di euro che Budapest avrebbe dovuto ricevere dai cosiddetti fondi strutturali del bilancio pluriennale. In quell’occasione, l’Eurocamera aveva sollevato una serie di preoccupazioni riguardo al funzionamento delle istituzioni del Paese, fra cui la scarsa indipendenza della magistratura, corruzione, conflitti d’interesse, un pluralismo dei media svuotato e una ripetuta violazione di diritti delle persone Lgbt+, delle minoranze etniche e dei richiedenti asilo. Ma una parte di tali finanziamenti (10 miliardi circa) erano stati, poi, sbloccati nel 2023, nonostante le polemiche sulla mancata adozione delle norme richieste dall’Ue.
Negli ultimi mesi le relazioni tra Bruxelles e Budapest si sono ulteriormente inasprite a causa delle preoccupazioni sul perseguimento di una politica estera da parte dell’Ungheria favorevole alla Russia, minando l’unità occidentale a sostegno dell’Ucraina. In una risoluzione votata nel gennaio 2024, i deputati hanno, infatti, espresso nuovamente la loro preoccupazione per l’erosione della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali. Il voto è arrivato come risposta immediata alla legge sulla «protezione della sovranità nazionale»recentemente adottata dal Parlamento ungherese e a seguito dell’ultima mossa di Orbán in Europa per bloccare la decisione-chiave sulla revisione del bilancio a lungo termine dell’Unione, compresi gli aiuti a Kiev. «Ora che l’European Media Freedom Act è stata adottata, l’Ue dovrebbe avviare una procedura di infrazione contro l’Ungheria per violazione della legge – spiega la ricercatrice di Human Rights Watch -. E dovrebbe, inoltre, sottolineare i legami esistenti tra erosione della libertà di stampa e minaccia alla democrazia e allo stato di diritto nei procedimenti in corso ai sensi dell’articolo 7 del Trattato dell’Ue. La Commissione dovrebbe, infine, sostenere i giornalisti indipendenti in Ungheria e pronunciarsi pubblicamente contro gli attacchi alla libertà dei media. Ma finché ci sarà l’attuale governo – conclude Gall -, sarà difficile ottenere un cambiamento».
(da Open)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
IL MINISTRO DEGLI ESTERI-CAMOMILLA DA MERLUZZO E’ DIVENTATO DELFINO
Da ciambellone della Buonanima, Antonio Tajani s’è fatto ciambellano. C’è la terza guerra mondiale alle porte, vabbè, ma lui ha altro da fare. Ha eredito l’intero malloppo di Forza Italia – il potere e i malumori, i debiti e le lupe – e ancora non ci crede di essere creduto. Perciò avanza dondolando verso le prossime elezioni europee. E spera che il ricordo di Silvio scaldi ancora un po’ gli spalti: gli basterebbe avere un voto in più di Salvini, il Capitan Fracassa, che da anni gli disturba il sonno del dopopranzo.
Per compiere l’impresa Antonio Il Grigio compare ogni giorno nei tg – un minutino anche a cena – impastando parole inoffensive (“Bisogna riflettere, prima di decidere”) come fossero rivelazioni e poi resta lì, in sospensione, guardando il lontanissimo mistero della sua esistenza transitata indenne dalla Prima alla Terza Repubblica.
E dunque: “Toti deve dimettersi? Dipende da lui e dalla magistratura”. “Meloni ha esagerato con l’abbraccio a Chico Forti? Ma no, è convinta della sua innocenza. Si è persuasa come persona, non come presidente”. “In Medio Oriente la situazione è complicata, ma noi non dobbiamo demordere”. “Con la Russia dobbiamo evitare l’escalation”. “Il salario minimo? È una cosa da Unione sovietica”. “Più tasse? Sono contrario”. “Ilaria Salis? Abbassiamo i toni”.
Diventato con gli anni un autentico bosone della politica, capace di creare una massa dal vuoto, Antonio si è convinto che il tono faccia il contenuto. Per questo ha adottato quello profondo di Robert De Niro quando fa il duro. E quello di Bettino Craxi quando faceva le pause. Riuscendogli il prodigio di dire senza dire. Ipnotizzando il suo interlocutore, cioè noi, il popolo sovrano, che finiamo per concentrarci sul mistero del suo viso che negli anni si va allargando, sul naso che di stagione in stagione cresce e sugli occhi che misteriosamente arretrano.
Li aveva belli tondi e spampanati nell’anno 1994 quando il Silvio Padrone lo volle ai suoi ordini nell’avventura politica intrapresa per salvarsi la pelle dai debiti e dai misfatti. All’epoca transitava nel Transatlantico come cronista politico del Giornale, con la cattiva compagnia di Guida Paglia, il suo capo, ex Avanguardia Nazionale, che era banda di fascistoni in purezza.
Poco o nulla si sapeva di questo allampanato romano di Ciociaria, Tajani con la “j” della “pajata”, nato nel 1953, figlio unico, padre generale di fanteria, madre generalessa di latino e greco. Adolescenza spesa tra i Parioli e Parigi, poi il liceo Tasso di Roma, in guerra con le zecche comuniste guidate dal conte Paolo Gentiloni Silveri di Filottrano, il futuro Moviolone, Commissario europeo all’Economia che ha impiegato tre anni – cioè fino a ieri l’altro – a svelarci che non fu il Conte-2 a conquistare il jackpot da 209 miliardi di euro per le vuote casse d’Italia, ma un algoritmo, tanto valeva mandare solo matematici a Bruxelles.
Fu il solito Gianni Letta a pescare Antonio dalle modeste carte romane del Giornale e a spedirlo in missione permanente dal Dottore che lo accomodò per mesi nella foresteria del villone di Arcore, letto a una piazza, come era già accaduto con Marcello Dell’Utri e come accadrà con Sandro Bondi, il poeta, tutti argini alla sua paura del buio e della solitudine, cioè della morte.
A quell’epoca Tajani era monarchico, stravaganza che tutti immaginavano estinta come certi lepidotteri del Giurassico, e che invece sopravvive tra le rughe e l’argenteria nei tetri palazzi della nobiltà romana nullafacente. In lui fino al dettaglio di preferire Amedeo d’Aosta a Vittorio Emanuele, forse per le differenti pettinature.
Trombato alle prime elezioni in Italia, nel ’94 sbarca in Europa. Sembra un parcheggio. Ci resterà per una ventina d’anni, durante i quali coltiva l’obbedienza e le lingue, parla l’inglese, il francese, lo spagnolo, ma continua a dare del lei al Dottore e ad alzarsi quando entra. Due volte diventa Commissario europeo. La prima nel 2008, dicastero dei Trasporti, si occupa di Alitalia e di Tav, fabbricando danni che ancora ci riguardano. Poi nel 2010, all’Industria, dove si scorda di vigilare sulle emissioni diesel delle auto. Ma dove anche si guadagna encomi per avere difeso una fabbrica a Guijon, regione spagnola delle Asturie, 250 posti di lavori a rischio delocalizzazione, una strada intitolata a suo nome.
Galleggiando laggiù, ogni tanto emette dei bip che segnalano la sua esistenza in vita. Contro l’euro burocrazia dice: “La nostra Europa non è quella dei burocrati”. Contro l’euro razzismo dice: “La nostra Europa non è quella del razzismo”. Sull’immigrazione la prende alla lontanissima: “La nostra storia comincia alle Termopoli, quando i Greci hanno respinto l’invasione dei Persiani”. Magnifico. Al punto che lo fanno presidente dell’europarlamento, 2017-’19, per la gioia della sua migliore amica Angela Merkel e nostra.
Quando Silvio s’incapriccia e lo rivuole, torna in patria, festeggiato da tutti gli invidiosi del partito che ai cronisti sibilano: “Da merluzzo è diventato delfino”. Primeggia negli anni del Grande Declino. E recita anche nell’ultima commedia umana, illudendo il Capo che voleva ascendere al Quirinale un po’ prima del paradiso.
La Provvidenza spettina i piani, sbriga il funerale magno, spalanca il regno di Giorgia che a sua volta ha bisogno delle multiple incoronazioni di Antonio il Pompiere: vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, plenipotenziario del Partito popolare europeo. E quando l’intera baraonda di Forza Italia lo elegge all’unanimità segretario, 24 febbraio scorso, lui si inchina alla benevolenza di Giorgia – “saremo alleati fedeli” – ma specialmente al Fondatore, evocandolo: “Il nostro caro presidente ci sta guardando in streaming da lassù”.
Imbracciato il partito lo sgombera con gentilezza dall’ex infermiera Licia Ronzulli destinandola a tagliare nastri per conto del Senato. Silenzia le afflizioni di Marta Fascina, ignorandole. Corteggia la nuova cassaforte di Letizia Moratti, candidandola alle Europee. E quella vecchia (di cassaforte) di Marina B. che omaggia insieme con Letta all’ora di pranzo, ogni volta che c’è da spolverare la Ditta. Fa campagna elettorale affidandosi ai sondaggi e alla foto del Defunto. Su quell’ombra galleggia. Non sarà bello per l’amor proprio, ma funziona. E se funziona, perché smettere?
(da ilfattoquotidiano.it)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
LA RITROVATA SINTONIA PER FAR FUORI LA PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA È BEN VISTA ANCHE DA MOLTI POPOLARI (COME TUSK) CHE NON POSSONO ALLEARSI CON FRANCHISTI (VOX), PUTINIANI (ORBAN) E NEMICI INTERNI (IL PIS POLACCO)
I rapporti con la premier Giorgia Meloni mettono a rischio la candidatura di Ursula von der Leyen a un secondo mandato alla guida della Commissione europea.
Lo scrive il Financial Times in un articolo in cui ricostruisce gli avvertimenti di Socialisti e Democratici (S&D) e di Renew sul “flirt di von der Leyen con Fratelli d’Italia di Meloni”, avvertimenti che negli ultimi giorni “si sono fatti più duri”.
Olaf Scholz minaccia di mollare Ursula von der Leyen. Finora il cancelliere socialdemocratico si era volutamente astenuto dal fare una campagna elettorale contro la candidata di punta della rivale Cdu e del Ppe alle Europee – è pur sempre una tedesca che corre per la riconferma alla presidenza della Commissione europea.
Soprattutto: il perno della coalizione che reggerà il prossimo governo a Bruxelles sarà quasi sicuramente, di nuovo, una grande coalizione tra i Popolari e i Socialisti, allargata ai Liberali. E il gruppo più robusto sarà prevedibilmente il Ppe che può sperare, appunto, nella riconferma della sua candidata.
Ma, nei desiderata della Spd e di Scholz, la nuova maggioranza che la sosterrà non dovrà essere assolutamente ampliata a destra, e tantomeno a Giorgia Meloni. Piuttosto, i socialdemocratici tedeschi vogliono arricchirla con i Verdi.
La campagna elettorale si sta inasprendo, anche dopo il cantiere a destra aperto dalla cacciata dall’Afd dagli Identitari e l’apertura di Marine Le Pen a Giorgia Meloni. E alla luce delle ambivalenze della premier italiana, che flirta platealmente con tutti, e delle smaccate aperture di von der Leyen alle destre europee e in particolare alla capa di Fratelli d’Italia, Scholz sta cominciando a tirare una vistosa linea rossa. E lo sta facendo in perfetta sintonia con il presidente francese e leader dei Liberali, Emmanuel Macron, secondo una autorevole fonte della Spd.
Tanto che le prime indiscrezioni che stanno emergendo a Berlino su malumori crescenti e un deciso altolà del cancelliere in direzione di von der Leyen arrivano – non a caso – durante una celebratissima visita di Stato di tre giorni di Macron in Germania.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’insistenza di von der Leyen nel proporre una coabitazione con pezzi dei Conservatori e Meloni.
Anche ieri la capa dell’esecutivo brussellese ha avuto parole di elogio per la leader di Fratelli d’Italia: «Ha consolidato la propria posizione tra i capi di Stato e di governo».
Insieme a Macron, leader dei Liberali, Scholz ha tracciato dunque una linea Maginot a partire da un articolo per il Financial Times scritto ieri a quattro mani con il capo dell’Eliseo
Nel commento, i due leader di Germania e Francia chiedono un rafforzamento della sovranità europea, ulteriori integrazioni e convergenze e puntano moltissimo sul Green deal, che per i sovranisti, ma anche per un pezzo del Ppe, è diventato dichiaratamente un dito nell’occhio. Ieri sera, alla conferenza stampa congiunta a Schloss Meseberg, Scholz ha ricordato che Germania e Francia «trovano sempre un accordo».
L’eventuale “nein” di Scholz rischia seriamente di porre fine alle ambizioni di von der Leyen. Come spiega Nils Schmid, responsabile Esteri della Spd, «i sociademocratici non vogliono che Fratelli d’Italia conquisti peso nella prossima Commissione, nel Parlamento e nel Consiglio europeo».
Un conto «sono i rapporti cordiali che il cancelliere Scholz ha con la premier Meloni nel Consiglio europeo . Un conto sono le logiche di partito e le combinazioni che dovranno imprimere una traiettoria all’Europa nella prossima legislatura». E lì Scholz sta segnalando che non vuole dare spazio a Meloni né ad altri esponenti dei Conservatori: «Il cancelliere punta a una maggioranza centrista, costituita da forze pro europee». Ed è convinto che si possa ottenere.
Cinque anni fa von der Leyen aveva messo insieme una maggioranza talmente variegata, che spaziava dai socialisti ai populisti ai 5Stelle, da essere stata ribattezzata “maggioranza Ursula”. Una scelta dovuta, dinanzi al rischio colossale di essere bocciata dal voto segreto.
La differenza, però, è che allora l’ex ministra tedesca era stata tirata fuori dal cilindro da Macron e Merkel, dopo che lo spitzenkandidat del Ppe era stato Manfred Weber. Stavolta von der Leyen […] corre ufficialmente per una ricandidatura e si è “sporcata le mani” in campagna elettorale. E secondo Nils Schmid «questo le potrebbe garantire molte meno defezioni», anzitutto tra i Socialisti. Una dote non da poco.
(da La Repubblica)
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Maggio 29th, 2024 Riccardo Fucile
L’OPERATORE POSTALE BRITANNICO, DA TEMPO IN DIFFICOLTÀ FINANZIARIA, HA ACCETTATO L’OFFERTA DA 4,2 MILIARDI DI EURO FATTA DAL MILIARDARIO CECO DANIEL KRETINSKY… L’UNICO CHE HA APERTO BOCCA, CHIEDENDO GARANZIE PER I LAVORATORI, È STATO KEIR STARMER, LEADER DEI LABURISTI FAVORITO ALLE PROSSIME ELEZIONI: MA I “PATRIOTI” NON ERANO I CONSERVATORI?
Royal Mail, lo storico operatore postale britannico con oltre 500 anni di storia alle spalle, è pronto a passare nelle mani di un acquirente straniero dopo aver accettato l’offerta da 3,6 miliardi di sterline (4,2 miliardi di euro) fatta dal miliardario ceco Daniel Kretinsky, a capo di EP Corporate Group. Il consiglio di amministrazione di International Distributions Services (Ids), società madre di Royal Mail da tempo in difficoltà, ha definito l’offerta del gruppo EP da 370 pence per azione “giusta e ragionevole”.
L’acquisizione di Ids, che comprende oltre a Royal Mail anche il corriere Gls e impiega complessivamente più di 150.000 persone, verrà ora sottoposta agli azionisti. Intanto il titolo della società sulla borsa di Londra è aumentato di oltre il 3% in mattinata.
Come si legge sui media del Regno Unito il governo conservatore di Rishi Sunak teoricamente potrebbe opporsi all’accordo in base al National Security and Investment Act, che regolamenta le acquisizioni di attività nazionali considerate strategiche da parte di gruppi stranieri.
In merito comunque si era già espresso il cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt, secondo cui l’esecutivo non intendeva opporsi in linea di principio. Preoccupazioni erano state espresse dall’opposizione laburista di Keir Starmer, grande favorito in vista delle elezioni politiche del 4 luglio, che pur accogliendo positivamente l’interesse per Royal Mail aveva sollecitato “garanzie” da Kretinsky sui livelli occupazionali e sull’intenzione di mantenere nel Regno la gestione del servizio e di non trasferire attivita’ all’estero.
Fondate a Londra nel lontano 1516, le Poste Reali britanniche, orgoglio e punto di riferimento dell’isola per molti secoli, cessarono di essere un monopolio per essere esposte alla concorrenza a partire dal 2006: sullo sfondo di un’ultima fase di privatizzazioni di servizi pubblici varate sotto i governi del New Labour, dopo le ondate della stagione Tory thatcheriana.
Nel 2011 fu poi completata la privatizzazione del 90% delle sue azioni, culminata con la quotazione alla borsa di Londra nel 2013, all’epoca dell’esecutivo di coalizione fra conservatori e liberaldemocratici guidato da David Cameron: processo sfociato tuttavia in una situazione d’instabilita’ endemica
(da agenzie)
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