Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
LEGA E FORZA ITALIA APPAIATE
A un mese quasi esatto dalle Europee (in Italia si voterà l’8 e il 9 giugno) il sondaggio pubblicato da Emg registra un’ulteriore crescita del Partito Democratico.
Il partito di Elly Schlein viene dato al 21,3%, perfettamente a metà tra Fratelli d’Italia (stabile al 27,2%) e il Movimento 5 Stelle (in calo, 15,8%).
Rispetto all’ultima rivelazione aumenta quindi di un punto il divario tra i principali partiti di opposizione con il Pd che cresce dello 0,7% mentre il M5S scende dello 0,3%.
Tra i partiti di governo, è testa a testa tra Forza Italia e Lega, entrambi all’8,5% nelle intenzioni di voto.
Rimane apertissima la sfida tra gli altri partiti per il superamento del 4%, la soglia minima per entrare nel prossimo Parlamento europeo. Secondo Emg, solo la lista di Renzi e Bonino – gli Stati Uniti d’Europa – riuscirebbe nell’intento: sono infatti dati al 5%. Niente da fare per Alleanza Verdi-Sinistra (3,7%) così come per Azione di Carlo Calenda (3,5%).
Il sondaggio di Emg regala ottimismo a Elly Schlein: il Pd supera addirittura il 21% e rosicchia un punto percentuale di distanza da Fratelli d’Italia, primo partito, rimasto stabile al 27,2%. Il Movimento 5 Stelle invece sembra allontanarsi: Emg gli assegna poco meno del 16% delle preferenze. Il partito fondato da Beppe Grillo potrebbe forse pagare l’assenza di grandi nomi nelle proprie liste: Giuseppe Conte è infatti l’unico leader dei principali partiti (oltre a Salvini) a non essersi voluto candidare per questa tornata elettorale.
(da agenzie)
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
“UN SISTEMA CHE RITENEVO, E RITENGO TUTTORA, CORROTTO, CLIENTELARE E DANNOSO. IL TEMPO RESTITUISCE SEMPRE LA VERITÀ, LA RESTITUIRÀ ANCHE QUESTA VOLTA. E MAGARI CAPIREMO CHE PER FARE IL BENE, BISOGNA COLTIVARE IL BENE” … L’ESPOSTO IN PROCURA E IL LIBRO
“Per fare il bene bisogna saper coltivare il male.” messaggio di Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, al mio cellulare nel luglio 2018 quando diedi le dimissioni da Assessore al Comune di Genova per non sottostare ad un sistema che ritenevo – e ritengo tuttora – corrotto, clientelare e dannoso per la il territorio e per la Politica, fatto di appalti e consulenze “organizzate”, regolamentazioni e autorizzazioni ad personam, conflitti di interesse, e spesa pubblica incontrollata.
Seguirono un esposto in procura, il mio libro denuncia, “Fuori dal Comune”, con centinaia di fonti e di nomi (inclusi quelli di soggetti che nessuno aveva il coraggio di menzionare) e molti progetti per la trasparenza nella politica locale.
Queste scelte causarono molti addii e molte ritorsioni e tentativi di ritorsioni sul piano personale, politico e professionale, ma anche tante espressioni di fiducia da parte di chi mi aveva sostenuta e credeva in quello che ho sempre raccontato e denunciato.
Il tempo restituisce sempre la verità, la restituirà anche questa volta, qualsiasi essa sia.
Per il bene della Politica, e per il bene della verità. E magari capiremo che per fare il bene, bisogna semplicemente coltivare il bene.
Elisa Serafini
Giornalista, imprenditrice
Ex Assessore del Comune di Genova
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
COZZANI, L’ASCESA NEL SEGNO DELL’ARANCIONE: DA SINDACO DI PORTO VENERE A BRACCIO DESTRO DEL GOVERNATORE LIGURE
In un certo senso Matteo Cozzani era “totiano” quando Giovanni Toti ancora si affacciava di bianco vestito da villa Paradiso con Silvio Berlusconi, e alla Liguria manco ci pensava.
Nel 2013 l’allora giovanissimo (28 anni) laureando in ingegneria diventava sindaco di Porto Venere, dopo avere lasciato il Pdl e Forza Italia, con una lista civica, approfittando delle divisioni del Pd renziano.
Il simbolo? Scritta blu su sfondo arancione. L’idea piacque all’amico Giacomo Raul Giampedrone che pochi mesi dopo vinse ad Ameglia con lo stesso schema (e gli stessi colori). E da lui l’arancio diventò il colore portafortuna di Toti da presidente della Regione
Giovane politico brillante, sportivo e bon vivant (auto sportive e fidanzamento con una quasi miss Padania), così lo descrivono gli articoli dell’epoca: praticamente da sempre impegnato in politica, ma come lavoro anche nelle società di famiglia, la sua “Comart” (fondata nel 2014) e la “Segnalvara” (del padre), attive nel mercato pubblicitario e dei servizi.
Cozzani da sindaco di Porto Venere si fa notare nel suo primo mandato perché incarna quella rivoluzione del centrodestra ligure slegata dai vecchi big forzisti locali, molto cara a Toti. E lo fa in un pezzo di Liguria che storicamente guardava a sinistra. diventa il partner della Regione nel discusso progetto del Masterplan della Palmaria, l’isola che Toti avrebbe voluto trasformare nella “Capri della Liguria” e che verrà poi sdemanializzata passando in gran parte proprio al Comune di Porto Venere. Nel 2018 la conferma: Cozzani vince le elezioni comunali col 66%.
La trasformazione a factotum politico del Presidente avviene a cavallo delle elezioni regionali del 2020, quando Cozzani, che aveva seguito l’avventura totiana di “Cambiamo!” facendo parte del comitato promotore, diventa il coordinatore politico della lista Toti. In quella veste è sempre lui a rispondere per le rime a Ferruccio Sansa nella campagna elettorale, in più occasioni.
Strategia che evidentemente si rivela efficace visto che la lista del presidente diventa il primo partito in Liguria: Cozzani trasloca – restando sindaco – al quarto piano del palazzo di Piazza De Ferrari, a pochi metri da Toti, nell’inedito ruolo di Capo di gabinetto
Nel ruolo di “chief of staff” all’americana Cozzani segue come un’ombra Toti e non rilascia mai un’intervista né una dichiarazione. Nel suo Comune però l’opposizione contesta il doppio ruolo e lui si difende: «Sono incarichi di lavoro e non politici, quelli in Regione, per cui non sarei nemmeno tenuto ad informare il consiglio. Ritengo strumentale questa richiesta. Svolgo un incarico tecnico amministrativo e non di natura politica, a Genova. Detto questo, ci sono obblighi di trasparenza, per cui c’è un decreto regolarmente pubblicato, tanto che i giornali ne hanno scritto. E non c’è alcun tipo di incompatibilità fra i due incarichi», sostiene. Il compenso? «Il mio stipendio – dichiara – ammonta a 65 mila euro lordi l’anno. Continuo anche a fare l’imprenditore, perché sono una persona che comunque per campare deve lavorare: in quanto al mio impegno da sindaco, non ha perso qualità. Al contrario. È assurdo chiedermi di ridurre l’indennità di 670 euro al mese, una cifra ridicola».
Operativo, silenzioso sulla scena pubblica ma onnipresente in Regione. Soprattutto quando c’è da affiancare il governatore nella materia più importante: la sanità. C’è lui alle riunioni con i direttori generali e con Alisa, gestisce in prima persona tanti tavoli con le categorie sanitarie. E anche per questo il suo nome inizia a circolare come possibile rimpiazzo di Toti quando c’è da lasciare l’assessorato, dopo il flop delle politiche del 2022 per Noi moderati. Alla fine la scelta cadrà su un tecnico come Angelo Gratarola. Ma per Cozzani non è certo una bocciatura: per Toti è una sicurezza e intanto nel 2023 lascia il Comune di Porto Venere, che rimane al centrodestra
(da La Stampa)
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
CLASSE 1963, STUDI TRA FIRENZE E YALE, HA UN LUNGO CURRICULUM COME CAPO DI PARTIMENTO A PALAZZO CHIGI E AL MINISTERO DEI TRASPORTI. POI TORNA NELLA NATIA GENOVA PER GUIDARE IL PORTO… È LÌ CHE L’IMPRENDITORE ALDO SPINELLI LO ABBORDA E, SECONDO LA PROCURA, LO CORROMPE CON SOLDI (15MILA EURO IN CONTANTI) E SOGGIORNI DI LUSSO A MONTECARLO
Alla guida come amministratore delegato di Iren, dove è approdato nell’agosto dell’anno scorso, lo ha voluto a tutti i costi il sindaco di Genova, Marco Bucci. Ma Paolo Emilio Signorini aveva goduto della sponsorizzazione anche del presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, nonostante le critiche mosse al suo curriculum ritenuto da una parte degli azionisti non adatto all’incarico per la poca esperienza nel settore specifico delle utilities.
La sua nomina era apparsa più come una scelta politica interna al centrodestra che non legata alle competenze. Ora, nel terremoto che sta scuotendo la Liguria, con l’arresto del presidente Toti, accusato di corruzione, ci è finito anche Signorini, in quanto ex presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale. Per lui l’accusa della Procura di Genova è di «corruzione per l’esercizio della funzione e per atti contrari ai doveri d’ufficio».
Al centro dell’indagine di quello che sembrerebbe un sistema corruttivo c’è Aldo Spinelli, noto imprenditore portuale. Secondo la procura di Genova, il gruppo degli arrestati e degli indagati aveva messo in piedi un sistema di favori sotto forma di tangenti che avrebbero sostenuto, di fatto, il governo locale.
Tra le varie operazioni ora sotto la lente degli inquirenti, ci sono anche le concessioni di aree portuali. E da qui l’arresto di Signorini, che è stato presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale dal 2016 e fino all’estate del 2023, quando – come detto – ha assunto l’incarico ad Iren.
Il primo fronte corruttivo contestatogli è quello con l’imprenditore portuale Aldo Spinelli. A fronte della promessa di diversi vantaggi, Paolo Emilio Signorini gli avrebbe assicurato l’accelerazione della pratica in comitato di gestione portuale del rinnovo della concessione del Terminal Rinfuse per 30 anni; la concessione di spazi nelle aree dell’ex carbonile Enel e il tombamento di Calata Concenter; oltre alla concessione di un’occupazione abusiva dell’area dell’ex Carbonile lato levante Nord e Sud.
Per questi favori, secondo gli inquirenti, Signorini avrebbe ricevuto inizialmente 15.000 euro in contanti. Poi, Spinelli avrebbe pagato a Signorini 22 soggiorni di lusso a Montecarlo, comprese giocate al casinò, «servizi in camera, massaggi e trattamenti estetici», un posto esclusivo in spiaggia, e l’ingresso al torneo Master 1000 di tennis.
Tra le regalìe anche fiches per il casinò, una borsa Chanel, un bracciale Cartier in oro e la possibilità di disporre di una sua carta di credito durante un viaggio programmato a Las Vegas. Ma non è finita qui: Spinelli avrebbe anche offerto a Signorini «un incarico con retribuzione pari a 300 mila euro all’anno una volta terminato il mandato» da presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mar Ligure Occidentale.
Nato a Genova nel 1963, Paolo Emilo Signorini si è laureato presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze, proseguendo gli studi presso la Yale Law School della Yale University. La sua carriera inizia alla Banca d’Italia e al ministero dell’Economia, per poi approdare con il governo Berlusconi IV, nel 2008, alla presidenza del Consiglio dei ministri come capo del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento delle politiche economiche, dove è rimasto fino al 2013.
In seguito, è stato capo del Dipartimento per le Infrastrutture, i sistemi informativi e statistici al ministero delle Infrastrutture tra il 2013 e il 2015, ovvero sotto il governo Letta e poi Renzi. Come detto, all’Autorità di sistema portuale del Mar Ligure Occidentale approda in veste di presidente nel 2016, carica che detiene per 7 anni, prima di lasciare per Iren
(da La Stampa)
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
“IL SIGNOR ALDO” È DIVENTATO FAMOSO GRAZIE AL CALCIO: PRIMA PRESIDENTE DEL GENOA E POI DEL LIVORNO… IL MEGA-DEPOSITO A SERVIZIO DEL PORTO, LA CONCESSIONE DEL TERMINAL RINFUSE E LE AZIONI NELLA CARIGE
Il commendatore, o scio’ Aldo, il Presidente oppure “Spino” – nel linguaggio sempre poco deferente delle calate – diventa famoso nel 1985, quando compra il Genoa e lo porta dalla serie B alla qualificazione in Uefa: dodici stagioni di cui la meta’ nella massima categoria, per poi vendere nel 1997 e acquistare poco dopo il Livorno, di cui mantiene la maggioranza fino al 2020, portando la squadra tre volte in serie A.
Dietro a lui non c’è alcuna dinastia imprenditoriale, niente patrimoni conservati nei secoli in dimore patrizie, niente uffici in torri di cristallo e niente salotti, al massimo la partita a scopone sopra il ristorante Europa, rito nel corso del quale per decenni i potenti genovesi hanno deciso, o provato a decidere, le sorti della città.
Spinelli è nato a Palmi, in Calabria, nel 1940, ma è cresciuto sin da piccolo a Sampierdarena. Professionalmente nasce come marittimo di macchina, ma sbarca poco dopo la morte del padre, avvenuta in un naufragio.
A 23 anni compra la sua prima ditta, l’Almea, trasporto legnami. Lì forgia la sua vocazione imprenditoriale ed è tra i primi in Italia a capire che il futuro dei porti sono i container, inventati pochi anni prima, e ne diventa uno dei primi trasportatori, così come uno dei primi a usare i semirimorchi lunghi, da 11,5 metri.
Sempre un passo più avanti, negli anni Ottanta Spinelli comincia a creare a terra i centri logistici legati alla ferrovia, nel 2001 arriva la prima concessione in porto, il Genoa Port Terminal. Da buon giocatore di carte, Spinelli vuole controllare tutto il mazzo. La logistica non si fa semplicemente trasportando cassoni o scaricandoli dalla nave, ma gestendo tutto il ciclo. I container sono un business, ma c’è sempre il problema della gestione di quelli vuoti. Spostarli costa, e più i depositi sono vicini alla nave, maggiore è la possibilità di reimpiegarli e risparmiare.
Per questo la vera svolta per Spinelli forse fu l’acquisto nel 1982 delle aree sulla collina degli Erzelli e trasformate in un mega-deposito a servizio del porto, aree poi cedute nel 2006 per fare spazio a quella che sarebbe dovuta essere la cittadella tecnologica della città, ma compensate con una parte della zona portuale un tempo occupata dagli altoforni dell’ex Ilva: direttamente a fianco delle banchine. Aree vantaggiosissime e ambitissime, oggetto di feroci battaglie al Tar a ogni scadenza della loro concessione. Nei progetti di qualche anno fa, già sotto la gestione del porto di Signorini, queste dovevano diventare l’autoparco che sarebbe servito a togliere un po’ di Tir dalla città, ma le cose non sono andate avanti e la concessione è stata prorogata ancora recentemente senza troppa pubblicità
Ed è proprio l’abilità di Spinelli a gestire e ottenere spazi in porto e fuori, anche grazie alla fluidità delle sue relazioni politiche a seconda di chi comanda in quel momento, a renderlo un concorrente temuto e invidiato.
Oltre al Terminal, i Tir, il deposito di container vuoti, i centri logistici nel Nord Italia, c’è anche il Centro Servizi Derna, affidato nel 2006 prima in subconcessione e poi come concessione vera e propria nella divisione delle aree ex Multipurpose, per quale come tutti gli imprenditori del porto fini’ indagato per turbativa d’asta benché tutto si risolse con un nulla di fatto in Cassazione.
Ma è a metà dello scorso decennio che il risiko delle aree esplode, e permette a Spinelli di porre le basi per il suo capolavoro. Con l’ingresso di Msc a Calata Bettolo, la dismissione delle aree Enel con la chiusura della centrale a carbone e la vendita della concessione da parte del gruppo Ascheri del Terminal Rinfuse, si concretizza il progetto di un mega-terminal container sotto la Lanterna, e Spinelli sa di essere nella posizione migliore per trarre vantaggio dalla situazione.
Il Genoa Port Terminal è infatti a fianco della centrale e del Terminal Rinfuse. Stringe un accordo con Msc e Superba, la società dei Depositi chimici, per rilevare le aree, ma dopo poco Superba è tagliata fuori, estromessa anche dall’Autorita’ portuale dall’ottenimento dell’ex carbonile (innescando cosi’ tutta la vicenda sulla ricollocazione dei Depositi da Multedo, aperta ancora adesso). Mentre al contrario Spinelli ottiene via via tutte le aree dismesse dall’Enel, dal 2018 gestisce il Terminal Rinfuse con Msc, in vista di una sua trasformazione in Terminal container.
Quando nel 2022 il fondo Icon esce dalla partecipazione del gruppo Spinelli, tutti si aspettano il matrimonio d’affari con Gianluigi Aponte, e invece o scio’ Aldo fa un’ennesima piroetta e la partecipazione finisce alla compagnia tedesca Hapag Lloyd, concorrente di Msc, ottima cliente di Genova e garante di terzietà rispetto al colosso ginevrino e Psa, i due big che dominano il porto, con cui però Spinelli è anche alleato (nel Terminal Rinfuse con uno, a servizio dell’altro con il Genoa Distripark di Pra’). Tutto mentre la nuova Diga foranea e il nuovo Piano regolatore gli daranno finalmente lo spazio per poter far crescere quelle aree che oggi sono rivendicate con orgoglio come le più sfruttate del porto.
Con 200 milioni di fatturato all’anno, quasi 700 dipendenti e una posizione di potere in porto, nel 2015 Spinelli diventa anche azionista nella Carige partecipata da Vittorio Malacalza, salvo poi aderire tre anni dopo alla cordata tra l’affarista romano Raffaele Mincione (coinvolto nelle speculazioni edilizie a danno del Vaticano) e Gabriele Volpi, principe della logistica del petrolio in Nigeria e presidente dello Spezia Calcio.
(da La Stampa)
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
CRESCIUTO IN MEDIASET, DIECI ANNI FA LA VERTIGINOSA SCALATA DI FORZA ITALIA… POI L’ALLONTANAMENTO DAL CERCHIO MAGICO
Lui, il quid ce l’aveva. E all’improvviso, grazie a una delle frequenti folgorazioni di Silvio Berlusconi, Giovanni Toti salì con un solo balzo quasi l’intera scala gerarchica di Forza Italia, rimpiazzando Angelino Alfano. Dritto dritto sulla poltrona al fianco del Cavaliere: consigliere politico del partito in vista delle elezioni. Era il gennaio del 2014, una vigilia delle Europee. Esattamente come adesso. I due punti estremi della carriera del giornalista di Viareggio.
Che ascesa, quella di Toti, uomo cresciuto in Mediaset – la moglie è la vicedirettrice di Videonews Siria Magri – con le stimmate del predestinato: basti pensare che alla guida del Tg4, nel 2012, aveva preso il posto di Emilio Fede, volto storico graffiato dalle inchieste su Ruby e Lele Mora. Lo sbarco in politica coincide con una serie di roboanti successi elettorali: nel giro di due anni – fra il 2014 e il 2015 – diventa europarlamentare e presidente della Regione Liguria. Sembra essere l’homo novus di Forza Italia, su cui puntare mentre il Cavaliere è nel pieno dei suoi guai giudiziari. È uno dei componenti dell’allora cerchio magico di Arcore, insieme a Mariarosaria Rossi, Francesca Pascale e Debora Bergamini. Toti diventa pure coordinatore nazionale del partito, nel 2019, poi, comincia un graduale allontanamento che non lo porterà però mai fuori dal perimetro del centrodestra.
Nel 2019 nasce l’avventura di Cambiamo!, il movimento dai colori arancioni che cerca di assorbire l’azzurro stinto di FI. “Berlusconi vuole comandare da solo”, dice. Ma lo strappo non riesce.
Nel 2020 viene rieletto alla guida della Regione Liguria, nel 2021 il tentativo di costruire un Terzo polo con il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, prima che ci provino Renzi e Calenda: il gruppo di fuoriusciti da FI si chiama “Coraggio Italia”. Ma anche quest’esperienza politica finisce male, con le dimissioni di Mario Draghi e le nuove elezioni in cui Toti corre in un cartello elettorale assieme all’Udc e a Noi con l’Italia. L’ultimo balzo, nel novembre scorso, lo porta vicino a Maurizio Lupi, nel ruolo di presidente del consiglio nazionale di Noi Moderati, nell’orbita della maggioranza di Giorgia Meloni, mentre si avvicina alla scadenza il secondo mandato da governatore. Sembrava finito in un cono d’ombra, Toti: è una brutta storia di mazzette, adesso, ad accelerare la caduta dell’ex delfino di Berlusconi. E a chiudere per sempre la sua rivoluzione “arancione”.
(da La Repubblica)
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
“TRA PREMIERATO E LIMITI ALLA MAGISTRATURA TEMO CHE SI RIPETA IN ITALIA IL MODELLO ORBAN, CON IL RESTRINGIMENTO PROGRESSIVO DELLA DEMOCRAZIA”… LA BORDATA CONTRO GIAMPAOLO ROSSI, “UN UOMO CRESCIUTO A COLLE OPPIO”
La casa di Corrado Augias è piena di libri e di luce. La sua gatta è nera ed elegante. Il suo rimpianto è la musica. Non averla studiata di più. Non aver suonato di più. NeLa vita s’impara, in uscita oggi per Einaudi, il giornalista e scrittore ripercorre la storia del nostro Paese attraverso la sua biografia.
L’infanzia in Libia, la Liberazione in Italia, la non scelta tra ebraismo e cattolicesimo, gli Einaudi comprati a rate, i convegni del Mondo, le redazioni dell’Espresso e di Repubblica. La Rai, quello che rappresentava quando vinse il concorso ed entrò appena laureato. Quando tra i dirigenti c’erano Ettore Bernabei, Angelo Guglielmi, e ci lavoravano da Andrea Camilleri a Carlo Emilio Gadda.
Lei scrive: «Ho frequentato la Rai per sessant’anni, ho assistito all’ingresso di tutte le ondate, dai socialisti ai berlusconiani, ai grillini. Tutti chiedevano posti e qualche briciola di potere. Gli ultimi arrivati invece non chiedono solo posti, il loro obiettivo è cambiare la narrazione culturale»
«L’ho capito fin dall’inizio. Quando nel 1963 in Rai arrivarono i socialisti, interrompendo il monopolio democristiano, volevano qualche programma, qualche servizio nel tg, farsi vedere. Arrivare, come si diceva allora, nella stanza dei bottoni. Per poi scoprire che i bottoni non c’erano».
Solo loro?
«No, via via tutti gli altri. Quando arrivarono i comunisti la Rai venne parlamentarizzata, la Dc aveva l’uno, i socialisti il 2, i comunisti il 3. Anche Berlusconi, a parte qualche gesto di ferocia come l’editto bulgaro, un gesto di collera “divina”, non chiedeva tanto. I suoi pensavano alle ballerine. Questi no».
A cosa pensano?
«Sono arrivati per imporre una visione del mondo».
Per riscrivere la storia come La Russa con via Rasella?
«Per ricominciare daccapo con una contronarrazione rispetto a quella costituzionale. Ma è una narrazione rozza, infantile, approssimativa. Nata nelle conventicole del Movimento sociale, mentre stavano a rimuginare tra loro pieni di rancore e di frustrazione perché erano stati tenuti fuori».
Li aveva messi fuori la storia.
«C’era l’arco costituzionale che non li prevedeva, questo li ha riempiti di collera. Quando sono andato via dalla Rai non era ancora successo quasi nulla, ma ho visto i segni premonitori».
È stato previdente.
«Un gesto fanatico e stupido come il divieto del monologo di Scurati si spiega solo con lo zelo del funzionario che crede di aver capito che è arrivato il momento di poter fare una cosa del genere, perché il clima lo permette».
E invece?
«Si è sbagliato. È stata una mossa sciocca e controproducente».
Lo sciopero Rai è stato boicottato da un sindacato appena nato per difendere il governo.
«Un sindacato tecnicamente giallo, cioè il sindacato del padrone come c’era alla Fiat nei tempi delle contrapposizioni industriali più dure, alla Rai non c’era mai stato. È incredibile quel che accade».
Le racconto un aneddoto significativo. Per un periodo ho fatto il redattore al tg, c’era stato un terremoto, scrissi la notizia parlando di vittime, case distrutte, strade impraticabili. Il mio caporedattore democristiano la riscrisse».
Come?
«”Tutto è tornato tranquillo a Valdobbiadene dopo la scossa di terremoto che…”».
Non bisognava allarmare.
«Gli interventi erano di questo tipo. Per non dire di Bernabei che quando c’era Tv7 si chiudeva nella moviola di via Teulada a guardare tutti i servizi: questo sì, questo no. Ma poi favoriva programmi culturali di prim’ordine»
Era un’altra cosa?
«Completamente, e si vede riprodotta nel dissidio tra Roberto Sergio e Giampaolo Rossi. Il primo, vecchia scuola dc, cerca di mitigare, di mediare. Rossi va giù dritto, è un uomo nato a Colle Oppio».
Senso di rivalsa?
«Quando sono andato via a una domanda su di me ha risposto, testuale: ho 12mila dipendenti, non mi posso occupare dello stipendio di Augias. Ma nessuno aveva mai parlato di soldi».
Il tentativo di screditare, come con Scurati?
«Il fango. Un argomento specioso per sporcare l’avversario».
Nel caso di Scurati lo ha fatto direttamente la premier.
«Vede, non ho paura che mi aspettino sotto casa per darmi un sacco di legnate… le botte dei fascisti le ho già prese».
Tornando in Italia, questa occupazione di tutti gli spazi quanto può durare?
«Qualunque potere si espande fino a quando non trova un contropotere che lo limita».
Quale può essere il contropotere?
«Può nascere da un trauma economico, non da altro. Gridare al fascismo è inutile e controproducente. È un messaggio che arriva solo a persone che non hanno bisogno di ascoltarlo».
Fa bene Meloni a non dirsi antifascista?
«Certo. Perché non lo è e perché deve arrivare all’8 giugno con il massimo possibile di forza elettorale, dai camerati di Acca Larentia alla borghesia impaurita dall’impoverimento».
L’alternativa com’è messa?
«Male. Non ha la concretezza e la brama di potere che tiene unita la destra. Finché non troverà un equilibrio tra diritti civili e diritti sociali non ce la farà».
Il Pd?
«È troppo diviso. Non sono mai stato comunista, ma ricordo con quale apprezzamento noi liberali di sinistra gobettiani guardavamo il cosiddetto centralismo democratico. Dicevamo: in Italia ci sono tre cose serie, il Vaticano, i carabinieri e il Pci. Forse si salvano i carabinieri».
Ho dimenticato di chiederle di Vannacci.
«Non ne vale la pena».
(da La Stampa)
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
NEL 2015 SCHLEIN LASCIO’ IL PD IN SEGUITO ALLA RIFORMA DEL LAVORO (E CON LEI MOLTI ELETTORI DEL PD DISGUSTATI DALLA DERIVA RENZIANA)
Stupisce lo stupore degli ex renziani del Pd. Che rimproverano alla segretaria Elly Schlein di fare ciò per cui si è candidata alle primarie del Partito democratico. La pietra dello scandalo sarebbe la firma al referendum promosso dalla Cgil per archiviare la discussa riforma del Jobs Act. Cioè la legge con la quale il governo Renzi riuscì, laddove Berlusconi aveva fallito, a cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che sanzionava con la reintegra i licenziamenti senza giusta causa.
Come ci ricorda Giulio Cavalli, nel 2015 Schlein decise di lasciare il Pd proprio in seguito alla riforma del lavoro. Per poi rientrare nel partito, scalando la segreteria, con l’ambizione di cambiarlo. Come sanno i nostri lettori, questo giornale non è mai stato tenero con Elly Schlein. Per essersi più volte dovuta piegare ai diktat della minoranza e scendere a compromessi con i signori delle correnti.
La firma del referendum della Cgil, come pure le candidature di Marco Tarquinio, espressione del pacifismo, e di Cecilia Strada, sostenitrice del superamento del modello Minniti sull’accoglienza, rappresentano tuttavia un primo, importante cambio di rotta rispetto al passato. Oltre a un segnale in funzione delle alleanze future: una chiara apertura ai Cinque Stelle di Conte e un freno alle convergenze con Renzi e Calenda dai quali Schlein sta prendendo sempre di più le distanze. Normale che gli ex renziani siano nervosi. Non erano più abituati a un Pd che dice e fa qualcosa di sinistra.
(da lanotiziagiornale.it)
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Maggio 7th, 2024 Riccardo Fucile
PER FRATELLI D’ITALIA LA CULTURA PUO’ ATTENDERE: POCHE IDEE E UN ORIZZONTE FERMO AL NOVECENTO
In questa pagina un’anticipazione del nuovo libro di Alberto Mattioli, “Destra maldestra. La spolitica culturale del governo Meloni”, edito da Chiarelettere. A partire da oggi, lo troverete anche in tutte le librerie.
“Pronti”, dicevano, anzi gridavano, meglio: strillavano, a caratteri cubitali, i manifesti elettorali di Giorgia Meloni e dei suoi Fratelli d’Italia in vista delle elezioni del 25 settembre 2022. Si usciva dal Covid, dai governi Conte I e Conte II, rispettivamente gialloverde e giallorosso, e da quello Draghi, tecnico, benedetto dalle istituzioni nazionali ed europee e mondiali e forse anche dagli Ufo, dai mercati, dal ceto medio riflessivo, dai giornali seri e/o seriosi, un esecutivo nel complesso eccellente però mancante di quel sano populismo, sbrigativo nelle sue soluzioni prêt-à-penser, palla avanti e pedalare, che piace sempre all’elettore medio: dalla parte della gggente, insomma. E infatti Gggiorgia, madre, donna, italiana e cristiana, come lei stessa si definì in un memorabile comizio, puntualmente stravinse. Dunque, ecco FdI primo partito italiano, 26 per cento, ovviamente primo pure del centro-destra, e Meloni che il 22 ottobre 2022 diventa il primo presidente del Consiglio di destra-centro e, nella storia patria, la prima donna a sedersi su quella poltronissima. Ella ha però più volte ripetuto di voler essere chiamata “il” presidente del Consiglio, alla faccia della sacrosanta battaglia femminile e femminista e di sinistra e politicamente corretta contro il patriarcato, che del resto come tutte le battaglie pol. corr. è così insistita, ripetuta, replicata da diventare noiosissima, un’infinita variazione sul tema, da ribadire anche se si sta parlando del ripieno dei tortellini (e perfino se li impasta lui), che rischia seriamente di provocare degli slogamenti multipli e anche un po’ scomposti della mascella: a furia di sbadigli. Naturalmente, l’avvento del/della primo/a premier post-missino/a suscitò l’ansia per la libertà, la massima vigilanza, la pregiudiziale antifascista, l’allarme per la democrazia. E da lì, di fatto, non ci siamo più schiodati, con la destra che governa (male, ormai si può tranquillamente dirlo) e la sinistra che si lagna non perché la destra governa male ma perché è fascista. Sai che spasso.
In ogni caso, questo libro non parla della politica italiana degli ultimi due anni, per la quale chi l’ha scritto non ha né le competenze né l’interesse. In un momento particolarmente sventurato della mia vita giornalistica, mi sono dovuto occupare di politique politicienne e posso garantire che il batti e ribatti delle dichiarazioni, Tizio che risponde all’intervista di Caio sul discorso di Sempronio, alla lunga ingenera un senso di noia mortale per chi ne scrive e figuriamoci per chi ne legge, e infatti non a caso ha smesso di farlo. Ma sono cose che sanno tutti, a parte forse i direttori dei quotidiani. No: qui si vorrebbe parlare della politica culturale del Meloni I, ammesso che ce ne sia una. Perché, diciamocelo francamente, una volta entrati nella stanza dei bottoni, Giorgia e i suoi Fratelli hanno scoperto, intanto, che in Italia se spingi un bottone di solito succede nulla, e questo “sapevamcelo”, come si dice “quando avviene o è ammessa cosa di facile previsione, da altri negata con arte o frode”, così chiosa il deliziosissimo Dizionario moderno di Alfredo Panzini. E poi che un conto è spararle grosse in campagna elettorale, e poi accorgersi, concesso e non dato che non lo si sapesse, che fra il dire e il fare ci sono di mezzo il diritto internazionale, l’Europa, la politica estera o magari il semplice buonsenso. Vedi il “blocco navale” contro l’immigrazione clandestina, promesso prima delle elezioni e mai promosso dopo averle vinte, un ottimo sistema per prendere i voti dell’elettore medio con proclami più irrealistici di un elettore medio che vola. Infatti Meloni e gli altri faranno anche gaffe e pasticci a ripetizione, ma sui fondamentali sono risultati tutt’altro che rivoluzionari: ortodossia atlantista ed europea all’estero, facendo magari la voce grossa a uso propagandistico, e all’interno nessuna vera Grande Riforma, che poi chissà se si farà davvero.
Insomma, plus ça change, plus c’est la même chose, anche se la combriccola governativa è talmente surreale, fra ministri che fermano treni e ministre che fanno bancarotta, sottosegretari che rivelano segreti d’ufficio ai coinquilini, parlamentari pistoleri, conflitti d’interesse vari, che tutto sommato ci si diverte lo stesso (però, fra parentesi, nel frattempo è stata fatta passare nell’opinione pubblica l’idea che Giorgia sia in gamba, anzi abbia “due palle così” – sempre per restare in ambito patriarcale – ma che purtroppo gli imperscrutabili disegni della Provvidenza l’abbiano circondata di una manica di pittoreschi incompetenti, veri fardelli d’Italia, come se questo Barnum non l’avesse selezionato lei e non fosse composto di camerati, amici, colleghi e talvolta parenti, in qualche caso anche serpenti).
Se c’è un settore dove il governo avrebbe le mani libere è appunto la cultura. In questo campo, è difficile che qualche mossa improvvida possa suscitare la riprovazione dei mercati o di Bruxelles, il severo monito del Quirinale o l’accorato appello del Vaticano (i moniti del Quirinale, si sa, sono sempre severi, e gli appelli papali accorati full time. Si rimpiange una volta di più che Flaubert non abbia avuto a disposizione i giornali italiani…). Annunciare in programmi elettorali e discorsi parlamentari che si vuole puntare sulla cultura è stretto bon ton politico; che qualcuno lo faccia davvero, Dio bon, non succede mai. Nel luogocomunismo nazionale, che poi è la vera ideologia dominante da quando si è deciso che i politici non devono essere meglio dei loro elettori, ma uguali, “proprio uno di noi”, se non peggiori, la cultura è una specie di limbo. È una notte dove tutte le vacche sono nere, dove si oscilla fra due banalità uguali e contrarie, e soprattutto entrambe false: “la cultura è il nostro petrolio” e “con la cultura non si mangia”, quest’ultima di paternità incerta perché l’indiziato numero uno, l’indimenticato ministro dell’Economia di Berlusconi, Giulio Tremonti, ha sempre negato di averla proferita. Dal suo labbro uscì l’empia parola? Chissà, in ogni caso chiunque l’abbia detta ha interpretato il sentire comune, che non necessariamente è il giusto sentire.
La destra-destra è arrivata al potere dopo una lunghissima traversata del deserto. Praticamente, aspettava l’occasione dal 1945, se escludiamo i governi Berlusconi dove però era il socio di minoranza. E, pensavamo noi coeurs simples, avrà accumulato chissà quali progetti, idee innovative e rivoluzionarie, tutta una Weltanschauung da imporre, la riproposizione del suo pensiero tradizionale e tradizionalista rielaborato però alla luce dello Zeitgeist imperante, un rinnovamento di mode culturali e modi di imporle, e che faccio, signo’, lascio? Chissà quanti talenti, quanti pensatori e registi e scrittori e artisti e intellettuali finora ignorati e ghettizzati dall’egemonia culturale della sinistra ci saranno da rivelare, quante giuste ribalte da concedere, che fermento di personalità e di idee cui dare, finalmente, lo spazio così a lungo negato. E Meloni chi ti riceve per primo, a Palazzo Chigi? Pino Insegno. Per carità, eccellente doppiatore e presentatore televisivo dagli esiti più modesti, come poi si è dimostrato, ma insomma non esattamente un intellettuale di riferimento.
E poi su questa questione dell’egemonia culturale bisogna intendersi. Che la cultura del dopoguerra, in Italia, sia stata soprattutto di sinistra è verissimo. Fra i suoi protagonisti, quelli non di sinistra non abbondano, e ad alcuni di non esserlo è anche stato fatto pagare, vedi Franco Zeffirelli. Però Gramsci bisognerebbe leggerlo, non solo citarlo. La sua teoria dell’egemonia culturale, raffinatissima, fu elaborata prima dell’invenzione dello strumento che ha cambiato tutto, la televisione, e molto prima di quello che ha cambiato tutto di nuovo, Internet con i relativi social. In un paese dove si scrive molto ma si legge pochissimo, e la cultura è tuttora tenagliata fra una maggioranza di analfabeti di ritorno e una minoranza di accademici incomprensibili, la vera egemonia culturale l’hanno esercitata prima la Rai, quella democristiana sì bella e perduta, pedagogica e perbenista, divulgativa e, giustamente, ipocrita, perché l’ipocrisia è un vizio privato ma una pubblica virtù, e poi le televisioni berlusconiane, che hanno fatto davvero l’unica rivoluzione culturale italiana, per fortuna meno cruenta di quella cinese benché, a detta della sinistra, altrettanto devastante. Oggi l’egemonia culturale segue altre vie, dato che il pubblico televisivo è ormai composto in maggioranza di diversamente giovani. Sta di fatto che l’elaborazione di una strategia culturale per la conquista del relativo potere passa non solo dai contenuti, ma soprattutto dal medium. E qui direi che se l’alternativa sono i libri di Vannacci o le fiction edificanti, la sinistra, o meglio la sua versione wokista e buonista, insomma il politicamente corretto e corrente, può stare serena, a parte strillare per la lottizzazione sistematica di ogni poltronissima, poltrona, sedia, strapuntino. Ma, in questo caso, dopo aver lottizzato a sua volta per decenni, quindi ancora con una bella dose di ipocrisia, che scandalizza soltanto chi la pratica.
Questo libro cerca di raccontare come la destra-destra non solo non stia facendo alcuna politica culturale, ma non abbia nemmeno alcuna idea di come, eventualmente, la si faccia. Perché ha meno personalità presentabili dei posti che si presentano; perché non ha idee e quelle che ha sono vecchie; perché il suo orizzonte rimane novecentesco, legato alla contrapposizione di ideologie morte e sepolte; perché insiste a pensare alla contemporaneità come a una minaccia e mai come a un’opportunità; e infine perché non sa muoversi, manca di souplesse istituzionale, di savoir faire, di uso di mondo, di garbo, perfino di educazione. Perché, insomma, è una destra maldestra. Lasciamo stare il fascismo, per favore, che è solo l’alibi per evitare di confrontarsi sui fatti, per buttarla in caciara, come direbbe Meloni. Nel giugno 2023 ero attovagliato sulla terrazza del Pressebüro del Festival di Salisburgo, davanti a una magnifica vista sulla città e a un calice di Grüner Veltliner forse troppo freddo, giusto per smentire una volta di più il ministro cognato Lollobrigida, il quale pensa che noialtri giornalisti beviamo soltanto champagne. Quando la conversazione scivolò inopinatamente sull’Italia, due colleghe francesi, una anche inviata di un quotidiano assai autorevole, mi chiesero allarmatissime “des nouvelles” sul fascismo che si era impadronito dell’Italia: chissà, magari pensavano che fossi lì in confino. Dovetti pazientemente spiegare che sì, il governo e le istituzioni erano pieni di fascisti non pentiti né convertiti, e in qualche caso relapsi (se Lollo, improbabile ma possibile, stesse leggendo un libro in generale e questo in particolare, può consultare un dizionario o anche solo googlare per scoprire cosa significa), ma che per ora in Italia c’era ancora la libertà di pensiero. Rimasero perplesse e non convinte, come se io fossi un emissario del Minculpop che faceva un reportage per l’Istituto Luce.
L’ episodio serve non solo ad acclarare la differenza fra chi è radical chic (loro) e chi soltanto chic (io), ma anche a dimostrare come la pervasività della polemica contro il fascismo che non c’è impedisca qualsiasi valutazione oggettiva dell’azione di questo governo, e che poi sarebbe perfino più negativa. Sui giornali è tutto un “Allarmi, son fascisti” che prima era ridicolo e oggi è stucchevole. Come se nottetempo le squadracce meloniane si presentassero a casa, poniamo, di Chiara Valerio o di Corrado Augias come a suo tempo in quella di Benedetto Croce: “Stanotte, alle 4, siamo stati svegliati da un gran fracasso di vetri rotti e di passi affrettati: era una dozzina o quindicina di fascisti, venuti con un camion a devastarmi la casa: hanno rotto tutti i vetri, sfondato quadri, e spezzato vasi e mobili delle stanze per cui sono passati. Gettatomi dal letto, mi sono affacciato dalla stanza per domandare che cosa fosse: mi hanno risposto: ‘Fascisti, fascisti’, e un tale ha aggiunto volgari parolacce”. Però la pagina dei Taccuini è datata 1° novembre 1926, un secolo fa. Strillare tutto il tempo al fascismo non è soltanto grottesco, ma controproducente, perché sposta una volta di più il giudizio politico su un piano ideologico, e ideologico decotto, invece che su quello empirico, della valutazione di progetti e risultati, del rapporto costi benefici, della scelta di personale più o meno presentabile. Stiamo ai fatti, e anche alle omissioni. Sangiuliano and friends non vanno criticati perché forse sono ancora fascisti. Ma perché sono sicuramente mediocri.
(da ilfoglio.i)
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