Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
IL PROGETTO NON HA POSSIBILITÀ CONCRETA DI DIVENTARE REALTÀ NON SOLO PERCHÉ I CONSERVATORI VERRANNO SCONFITTI ALLE URNE, MA ANCHE PERCHÉ SI TRATTA DI UN “IMPEGNO SENZA COPERTURE” … IL LABURISTA KEIR STARMER È AVANTI DI 27 PUNTI SUL PREMIER
Leva militare obbligatoria di 12 mesi per tutti i diciottenni (o, in alternativa, un weekend al mese dedicato al servizio civile): è la proposta- choc del Primo ministro britannico Rishi Sunak, col quale il governo ha lanciato la campagna elettorale in vista del voto anticipato del 4 luglio.
Va subito precisato che non c’è alcuna possibilità concreta che il progetto diventi realtà: i conservatori di Sunak verranno sicuramente sconfitti alle urne dai laburisti, i quali hanno già bocciato l’idea come un «impegno senza coperture» che finirebbe per costare miliardi alle finanze pubbliche.
E tuttavia l’annuncio del premier di Londra è significativo del clima che si respira in Europa: in un piano confidenziale di 40 pagine, rivelato ieri dal Mail on Sunday , i consiglieri del governo fanno presente che le crescenti minacce internazionali rappresentate da Cina e Russia richiedono di essere affrontate restituendo vigore alle Forze Armate.
Già nei mesi scorsi dai ranghi dell’esercito britannico si erano levate voci a favore del ripristino della leva obbligatoria: intenti che erano stati subito smentiti dal governo, salvo ripensarci adesso in campagna elettorale. Va notato però che i più favorevoli sono gli anziani, elettori naturali dei conservatori, mentre la naja obbligatoria incontra il consenso di appena il 10 per cento dei giovani, che già di loro votano laburista.
(da agenzie)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
LA SPD TEDESCA RIBADISCE IL CONCETTO: “NON LAVOREREMO MAI CON L’ESTREMA DESTRA”. CHE PER LORO COMPRENDE ANCHE FRATELLI D’ITALIA… L’APERTURA DI VON DER LEYEN ALLA SUA AMICA DUCETTA RIMARRÀ LETTERA MORTA: SENZA SOCIALISTI E LIBERALI I POPOLARI NON HANNO I NUMERI, NEMMENO IMBARCANDOSI FASCI, NEO-NAZI E ORBAN VARI
La principale candidata della SPD alle Europee, Katarina Barley, ha ribadito che i socialisti non appoggeranno Ursula von der Leyen per un altro mandato come presidente della Commissione europea se sarà sostenuta anche dagli eurodeputati di destra allineati con il primo ministro italiano Giorgia Meloni.
“Abbiamo rilasciato una dichiarazione di Berlino – tutti i partiti socialdemocratici in Europa – che non lavoreremo mai con l’estrema destra”, dice Katarina Barley al collega Gordon Repinski nell’ultimo episodio del podcast Berlin Playbook di POLITICO.
Un disagio crescente: È l’ultimo segnale di allarme dei partiti di sinistra per l’apertura della von der Leyen a lavorare con il partito della Meloni, Fratelli d’Italia, al Parlamento europeo. Venerdì scorso, anche il Cancelliere tedesco Olaf Scholz ha messo in guardia la von der Leyen dall’alleanza con il partito della Meloni, che siede all’interno del blocco dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR), dopo le elezioni del 6-9 giugno.
L’appello di Scholz: “Quando si formerà la prossima Commissione, non dovrà basarsi su una maggioranza che ha bisogno anche del sostegno dell’estrema destra”, ha detto il cancelliere tedesco. “L’unico modo per stabilire una presidenza della Commissione sarà quello di basarla sui partiti tradizionali… Qualsiasi altra cosa sarebbe un errore per il futuro dell’Europa”.
Il leader socialista fa eco a Barley: “Questa è anche la posizione del presidente”, ha detto un funzionario vicino al presidente del gruppo S&D Iratxe García, riferendosi alla posizione di Garcia sulla questione. “Se la von der Leyen cerca di ottenere il sostegno dell’ECR in Parlamento, non avrà l’appoggio del nostro gruppo”.
All’inizio del mese, García ha avviato una dichiarazione con i leader di Renew, dei Verdi e della Sinistra, riportata per la prima volta da Playbook, in cui i centristi e la sinistra hanno giurato di “non cooperare mai né formare una coalizione con l’estrema destra e i partiti radicali a qualsiasi livello”.
Niente più flirt: Altri funzionari di S&D affermano di volere che la von der Leyen dichiari chiaramente che non negozierà con il campo della Meloni né farà concessioni su politiche progressiste come il Green Deal.
(da agenzie)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
MASSIMO CACCIARI: LE TRAGEDIE SPINGONO ALL’UNITA’ IN POLITICA ESTERA
La svolta che si potrebbe determinare con le prossime elezioni per il Parlamento europeo da una “governance” fondata sulla “grande coalizione” tra socialdemocrazie di vario tipo e forze di centro, a una con la presenza determinante di partiti e movimenti dichiaratamente di destra, dovrebbe invitare a una riflessione di respiro culturale e storico, lontana da ideologismi e tifoserie. È un effettivo pericolo per i destini di Europa e di Occidente il loro eventuale affermarsi? Di quale “destra” si tratta, da quali componenti è formata? Fino a qualche tempo fa sembrava potersi porre un discrimine molto semplice: la destra nazionalista marciava contro l’idea stessa di un’unità politica europea. La sua prassi obbediva a una visione identitaria opposta per natura ai processi di globalizzazione. Le ultime tragedie hanno reso molto aleatorio questo pericolo, proprio nel momento in cui spingono a rimandare pressoché sine die la prospettiva di un’Europa politicamente unita sulla base di un’autonoma strategia. Lo stato di guerra costringe all’unità sul piano sostanziale della politica estera e militare intorno al Paese ancora saldamente leader dell’Occidente. Una destra “al potere” domani in Europa difficilmente potrebbe mutare alcunché sulla linea che oggi si percorre. Le decisioni saranno prese altrove comunque.
Quali differenze reali e quali eventuali pericoli, allora, rispetto alla storia dell’Unione fin qui vissuta può rappresentare e comportare una svolta di “destra”? Esistono certamente al suo interno pulsioni restauratrici-reazionarie. Vengono da lontano, affondano in passati non solo remoti della cultura europea. Un pensiero della “restaurazione”, i cui principi contraddicono quelli illuministici della Grande Rivoluzione, pervade la storia dell’Occidente europeo, e non si limita certo al periodo dei De Maistre, dei Bonald, dei Donoso Cortes. Esso si ripresenta, in forme più o meno esplicite, in ogni critica della democrazia rappresentativa e del regime parlamentare, in quanto dissoluzione di ogni Autorità e incapace strutturalmente di dar vita a élites politiche competenti e stabili. Le osmosi tra questa prospettiva e altre, di segno opposto ma mosse da una critica altrettanto radicale del “parlamentarismo”, sono innumeri. La domanda è: esiste oggi una destra che incarni tale prospettiva? Solo apparentemente – in realtà non si tratta altro che di populismo, opposto in sé a ogni idea elitaria del potere politico. Ci troviamo di fronte a una caricatura di quella critica autenticamente reazionaria della “democratizzazione” propria in particolare di quelle correnti del pensiero europeo novecentesco che sono state efficacemente indicate col termine di “rivoluzione conservatrice”. Il pericolo vero abbraccia oggi l’intero schieramento politico: tutti democratici e nessuno in grado di esprimere riforme serie per far funzionare la democrazia all’altezza delle rivoluzioni e delle sfide in atto.
Ma, si dirà, i “valori” della destra contrastano radicalmente con quell’idea di difesa e sviluppo dei diritti della persona, che è certo immanente alla concezione della democrazia. I “valori” sono tali, però, fin quando valgono, e cioè esprimono un effettivo potere. Si tratta di vedere, dunque, fin dove davvero possano quelli sbandierati dalle destre. Nulla o quasi, poiché qualsiasi reale contrasto da parte loro nei confronti della dominante cultura individualistico-economica si tradurrebbe in una loro disfatta. Lo stesso vale per un certo anti-capitalismo romantico che appare e scompare continuamente nella storia delle destre europee (e anche qui le osmosi con l’ “altra parte” sono innumeri), anti-capitalismo che può assumere i toni aspramente polemici contro il primato anglosassone dell’Economico, quelli di un pensiero tradizionale-esoterico, oppure quelli laico-pragmatici di uno Stato sociale rivendicante il proprio primato contro i “poteri forti”. Nessuno di questi “pericoli” assume oggi una consistenza politica che vada oltre la propaganda di brevissimo periodo.
Il pericolo che coinvolge tutti è l’impotenza a governare i processi di globalizzazione e gli squilibri geo-politici che essi comportano. Ideologie o nostalgie proprie delle destre rendono tale impotenza ancora più grave, ma non la producono certo. Il pericolo maggiore che esse rappresentano è che, nella loro astratta difesa di “identità” valoriali al di fuori di ogni consapevolezza critica, si renda ancora più difficile affrontare con disincanto e realismo la vera questione: che l’Occidente, oggi Occidente americano, non è più strutturalmente in grado di confrontarsi con gli altri Grandi Spazi sulla base di una propria volontà egemonica. Occorre saper “tramontare” da tale volontà, non per sparire, ma, all’opposto, per dar vita a un nuovo Nomos della Terra multipolare, policentrico. Tutti i dati demografici, economici, i movimenti tra i popoli dicono che questa sola è la strategia in grado di evitare la catastrofe e realizzare un mondo che superi l’inferno attuale.
Se un tratto ha invece sempre caratterizzato le destre europee è l’enfasi sulla volontà di potenza. Potenza del proprio Paese, potenza dell’Occidente contro le culture che non ne ammettono la supremazia. Eppure vi è stato un pensiero conservatore, per quanto assolutamente minoritario in queste destre, che si è mosso in una direzione opposta, di riconoscimento pieno della grandezza delle altre civiltà, nel senso della comparazione e dell’approssimarsi reciproco. Queste correnti andrebbero meditate, anche da parte di molte “sinistre”, che mai hanno fatto sul serio i conti con il pensiero “in grande” di certa destra europea.
Tutto alla fine è potenza. Quest’idea va sconfitta, poiché porta l’Occidente alla sconfitta. Tutto è logos, occorre dire. Al principio, sta la parola che accorda e convince, sta il dialogo politico, il riconoscimento della libertà dell’altro. L’Autorità non sta nelle mani di un Capo, né in un Paese né sulla faccia della Terra, ma è la Relazione stessa, sono le norme e le leggi che la stabiliscono e regolano e che tutti riconoscono perché vedono in esse la garanzia della propria stessa pace. Che destre e sinistre lo comprendano, pongano così termine al loro secolare, tragico dissidio, e si possa finalmente iniziare una nuova Politica.
Massimo Cacciari
(da La Stampa)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
TEME DI FARE LA FINE DI RENZI COSTRETTO ALLE DIMISSIONI DOPO LA BATOSTA NEL REFERENDUM DEL 2016
Da «madre di tutte le riforme» a «chissene» il passo è stato breve. Una parabola al ribasso contenuta in una progressione di battute che non sprizzano certo entusiasmo verso la legge a cui Giorgia Meloni voleva legare il suo mandato. La comunicazione è tutto, e la premier lo sa bene, come dimostra l’offensiva mediatica dei video autoprodotti dove dà sfogo al suo istrionismo da social ironizzando sulla Rai ribattezzata «TeleMeloni», e attaccando La7 come «salotto dei radical chic». La prima crepa sul premierato è stata ampiamente percepibile quando, martedì scorso, Meloni ha risposto «o la va o la spacca» a chi le chiedeva dell’esito della battaglia referendaria.
Perché lo sta facendo? Questa la domanda che si fanno in tanti – alleati e oppositori – di fronte a locuzioni che sembrano l’ammissione anzitempo di una sconfitta. Per rispondere bisogna andare indietro di qualche giorno. Al convegno dell’8 maggio, quando in Senato si sono ritrovati, tra gli altri, Pupo, Iva Zanicchi e Filippo Magnini, […] non propriamente campioni di codicilli costituzionali. In quell’occasione Meloni ha ribadito che la legge sull’elezione diretta del premier non riguarderebbe né il suo ruolo a Palazzo Chigi, né l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Poi, la premier ha citato un anno, il 2028, ragionando sull’entrata in vigore della riforma. Non è una data presa a caso. L’indomani dall’interno di Fratelli d’Italia ha cominciato a trapelare un’ipotesi: rinviare il referendum a dopo il voto politico del 2027. Anno in cui, se tutto andrà bene e se la legislatura arriverà al suo termine naturale, Meloni correrà per una riconferma.
La presidente del Consiglio da almeno due mesi ha capito che l’esito della battaglia costituzionale è abbastanza segnato. Il referendum, che è stato subito vissuto come una sfida tra la premier e Mattarella, potrebbe esserle fatale. Meloni ha realizzato che la polarizzazione con un Capo di Stato così amato dagli italiani non funziona. Per questo, il tentativo che assieme ai suoi uomini sta mettendo in atto è di slegare il più possibile il suo destino da quello che sarà l’epilogo sul premierato. Ha timore che la sconfitta al referendum possa trascinare nel baratro anche lei
Lo fa «per non fare la fine di Matteo Renzi», come Meloni stessa ha ammesso più volte In queste settimane ci sono state diverse riunioni della comunicazione, spesso coordinate da Giovanbattista Fazzolari. Il senso che intende trasmettere è che non si dimetterà da Palazzo Chigi, come fece Renzi dopo il referendum perso del 2016. Quello che non aveva calcolato è che le sue parole sarebbero state interpretate come una mancanza di fiducia, la sua per prima, verso il buon esito della riforma.
Un effetto collaterale che però sfrutterebbe per garantirsi una sopravvivenza l’ordine che Meloni ha fatto arrivare a Fratelli d’Italia è di lavorare il più possibile per coinvolgere le opposizioni. Cosa che potrebbe rivelarsi più semplice quando il disegno di legge passerà alla Camera, dove il capogruppo meloniano Tommaso Foti ha più spazi di manovra. La speranza è di riuscire nel miracolo di compattare i partiti e scongiurare un fallimento nella consultazione popolare.
La premier ha tracciato uno scenario probabile sui tempi, più funzionale ai suoi piani di sopravvivenza politica in questa legislatura (e, lei spera, nella prossima).
Mancato l’obiettivo di ottenere prima delle elezioni europee l’ok al ddl costituzionale in prima lettura in Senato, secondo i calcoli di FdI si arriverà all’approvazione in seconda lettura tra la primavera e l’estate del 2026. Le modifiche costituzionali previste dall’articolo 138 della Carta hanno una tempistica lunga e devono passare mesi prima della richiesta, della convocazione e dell’organizzazione del referendum.
Non è impossibile [arrivare a dopo le elezioni, magari proprio nel 2028, un anno prima della scadenza del secondo settennato di Mattarella. Questo vorrebbe dire che per il primo parlamento e il primo presidente della Repubblica che si eleggeranno nella nuova cornice del premierato serviranno altri anni ancora. Sempre che, al voto tra gli italiani, la spunterà Meloni.
(da La Stampa)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
COSI ‘ LE MULTINAZIONALI CONDIZIONANO LE POLITICHE UE… ECCO TUTTI I NOMI DELLE AZIENDE CHE SPENDONO PER INFLUENZARE I POLITICI E I FUNZIONARI EUROPEI
Lo scorso 10 aprile l’Europarlamento ha approvato a larga maggioranza un pacchetto di proposte per rinnovare la legislazione farmaceutica dell’Ue. La riforma – che dopo le elezioni di giugno dovrà essere portata avanti dal nuovo Parlamento – è stata messa in moto a fine 2020 in seguito all’allarme sociale scatenato dalla pandemia di Covid-19: l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere i farmaci più accessibili e convenienti per i cittadini, ma il testo adottato dall’assemblea di Bruxelles è piuttosto deludente.
Ad esempio, alle case farmaceutiche vengono garantiti dai 7 agli 11 anni di esclusiva sui dati relativi ai nuovi medicinali prodotti. Inoltre, l’Europarlamento ha bocciato la proposta di istituire una sorta di “Cern della Salute”, ossia un’infrastruttura pubblica europea per la ricerca e lo sviluppo di farmaci in grado di tutelare l’interesse pubblico rispetto a quello delle aziende private.
Il pacchetto normativo è composto da una direttiva e da un regolamento. La relatrice della direttiva è la deputata danese Pernille Weiss, 56 anni, del Partito popolare europeo: secondo lei, il testo rappresenta invece «un passo avanti verso la realizzazione degli strumenti per affrontare le sfide sanitarie presenti e future».
Ex infermiera reinventatasi imprenditrice nel campo della salute, lo scorso autunno Weiss era finita al centro di un giallo riguardante uno studio scientifico pubblicato e poi misteriosamente rimosso dal sito internet del Comitato europarlamentare Stoa. La ricerca – realizzata da tre accademici italiani – conteneva una serie di analisi e suggerimenti sgraditi all’industria farmaceutica e sottolineava tra le altre cose proprio la necessità di dar vita a «un’infrastruttura pubblica attiva lungo tutto il processo di ricerca e sviluppo dei farmaci». Stando alla versione ufficiale sostenuta dal Parlamento europeo, il lavoro necessitava di alcune integrazioni, ma un’inchiesta di TPI scoprì che il documento era stato cancellato dal web dopo le osservazioni inviate via e-mail da due importanti rappresentanti di Big Pharma a tre membri del Comitato tra cui appunto Pernille Weiss.
Nell’ultimo anno la deputata del centrodestra, in qualità di relatrice della direttiva sulla legislazione farmaceutica, ha avuto 144 incontri con soggetti portatori d’interesse: nell’80% dei casi si è trattato di imprese private o associazioni di categoria, mentre solo il 20% delle riunioni è avvenuta con associazioni dei pazienti.
Lo studio scientifico che era stato rimosso è stato poi ri-pubblicato online e Weiss, che nel frattempo è stata accusata di bullismo da un suo collaboratore, non sarà ricandidata dal Ppe alle imminenti elezioni europee. Non c’è dubbio, tuttavia, sul fatto che anche nella prossima legislatura l’industria farmaceutica saprà trovare nelle stanze dell’Ue i giusti esponenti politici a cui rivolgere efficacemente le proprie istanze.
Un mercato ambito
Bruxelles è la seconda capitale del mondo per attività di lobbying dopo Washington. L’ong Transparency International stima che nella città sede delle istituzioni europee ci siano almeno 48mila persone pagate da organizzazioni che cercano di influenzare le decisioni dell’Ue e che si avvalgono di una potenza di fuoco complessiva da 1,8 miliardi di euro all’anno.
Sebbene politicamente sia ormai un nano rispetto a Stati Uniti e Cina, l’Ue dal punto di vista economico rappresenta ancora il più grande mercato unico del mondo: non c’è da stupirsi quindi se multinazionali, corporazioni, sindacati e associazioni facciano di tutto per promuovere i propri interessi in sede europea.
Il discorso è più complesso, invece, quando a tentare di metter bocca sui processi decisionali dell’Unione sono i governi di Paesi extra-europei. Lo abbiamo visto tutti a fine 2022 con lo scandalo Qatargate, che ha portato alcuni parlamentari europei a essere accusati di corruzione e riciclaggio per aver ricevuto denaro e altri vantaggi da Doha in cambio di posizioni politiche favorevoli all’emiro.
Più di recente è stata la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, a finire al centro di un’indagine della magistratura belga per alcuni sms privati scambiati – e poi cancellati – con l’amministratore delegato di Pfizer nel periodo dei negoziati tra l’Ue e il colosso farmaceutico sui vaccini anti-Covid.
Eppure, ormai dal 2011, le istituzioni europee si sono date una serie di regole che dovrebbero favorire la vigilanza sulle relazioni tra lobby e decisori politici. In particolare, è stato istituito un Registro pubblico di trasparenza al quale chiunque intenda fare attività di «rappresentanza di interessi» è tenuto a iscriversi, mentre – d’altro canto – i membri delle istituzioni devono pubblicare online i dati su tutte le riunioni avute con i portatori d’interessi. Il problema è che, come vedremo dettagliatamente più avanti, questo meccanismo di trasparenza presenta non poche falle.
Al netto della sua vulnerabilità, il Registro costituisce un’utile cartina di tornasole per monitorare le tendenze del lobbying a Bruxelles. A fine 2022 (ultimo dato disponibile) erano 12.425 i portatori d’interesse iscritti, tra i quali 3.500 ong, 3mila imprese e 2.600 associazioni di categoria. Questo numero è rimasto pressoché invariato negli ultimi anni. In compenso, sono notevolmente aumentati gli investimenti per fare pressioni sull’Ue. Secondo il portale Lobby Facts, nel 2015 le cinquanta aziende con il budget maggiore dedicato a questo genere di attività dichiaravano di aver speso complessivamente circa 90 milioni di euro, mentre nel 2022 la cifra era salita a 120 milioni: un aumento del 30% in sette anni.
Tra le aziende dotate di pass d’ingresso per i palazzi del potere dell’Ue, attualmente quella che investe di più in lobbying è Meta: la galassia dei social media di Mark Zuckerberg ha un portafoglio dedicato da 9 milioni di euro all’anno. Al secondo posto sono appaiati un altro gigante dell’informatica statunitense, Microsoft, e la casa farmaceutica tedesca Bayer, entrambi a quota 7 milioni di euro. Completano la top ten altre due big tech a stelle e strisce – Apple e Google –, le due multinazionali della chimica Basf (tedesca) e Dow (statunitense), il player americano dei semiconduttori Qualcomm e le compagnie petrolifere Shell (Regno Unito) ed Exoon (Usa).
Tech power
Fino a pochi anni fa i settori industriali più attivi nel cercare di indirizzare le politiche dell’Unione europea – almeno in termini di stanziamenti economici – erano quelli dei combustibili fossili e della chimica farmaceutica. Oggi il quadro è cambiato: a dominare sono gli “oligarchi” digitali della Silicon Valley, anche se la recente crisi energetica ha dato nuovo vigore al comparto Oil&Gas.
Nel 2015 Apple era al 53esimo posto nella classifica delle aziende che investono di più in lobbying presso l’Ue con un budget di appena 750mila euro. Oggi la società guidata da Tim Cook è quarta con un arsenale pari a 6,5 milioni di euro. Secondo l’organizzazione Lobby Control, nel 2022 l’industria digitale – composta da 651 tra imprese e associazioni – ha speso complessivamente 113 milioni di euro per fare pressioni sull’Ue e più di un terzo di questa spesa (40 milioni) è stata sostenuta dalle prime dieci aziende del settore.
A farla da padrone sono gli Stati Uniti: il 20% delle aziende tecnologiche che fanno lobbying a Bruxelles ha sede negli Usa, mentre un altro 30% è suddiviso in parti uguali tra Germania, Francia e Regno Unito. Le grandi compagnie hi-tech cinesi, invece, sembrano meno interessate a ciò che succede nelle stanze del potere in Europa: il social TikTok investe nel lobbying verso l’Ue meno di 1,5 milioni di euro, mentre il gigante dell’e-commerce Alibaba non arriva a 700mila euro.
È interessante, poi, notare come i tre quarti dei lobbisti accreditati per conto di Meta e Google abbiano precedentemente lavorato per un ente governativo a livello di Ue o di Stato membro: lo ha calcolato la no-profit Corporate Europe, secondo cui in tredici casi il passaggio da funzionario pubblico a “mercenario” della Silicon Valley è avvenuto entro due anni e alcuni rappresentanti del settore sono stati arruolati addirittura nel giro di pochi mesi dopo aver lasciato il loro incarico pubblico.
«Il lobying delle Big Tech diverso da quello di altre società: è caratterizzato da spese eccessive e tattiche aggressive», osserva Alberto Alemanno, professore di diritto dell’Unione europea all’Hec di Parigi e fondatore della onlus The Good Lobby. «Queste aziende sfruttano la propria esperienza mettendo in mostra il loro primato epistemico: il messaggio è “Sappiamo meglio come funziona la tecnologia, ci preoccupiamo noi di noi stessi e promettiamo che vi manterremo protetti”».
Altro che Green Deal
Secondo Corporate Europe, il nuovo dominio della lobby di Big Tech a Bruxelles potrebbe aver subito nell’ultimo anno un controsorpasso da parte delle aziende di idrocarburi, che di fronte alla crisi energetica e agli ambiziosi obiettivi europei sul Clima hanno deciso di alzare il pressing sull’Ue.
Un’indagine condotta dall’Osservatorio della onlus insieme all’Observatoire des Multinationales e all’italiana Recommon ha rivelato che nei primi otto mesi successivi all’invasione dell’Ucraina le major europee dei combustibili fossili hanno goduto di un «accesso senza precedenti ai leader dell’Ue» e «sono state in grado di ritardare e ridurre al minimo un’azione politica decisiva sui mercati energetici». Tra dicembre 2019 e maggio 2022 la presidente della Commissione von der Leyen ha avuto oltre 500 incontri con rappresentanti dell’Oil&Gas. È inevitabile, allora, sospettare che dietro la decisione della Commissione di includere il metano nella tassonomia europea – ossia nell’elenco delle fonti considerate sostenibili – ci siano state le forti pressioni delle lobby degli idrocarburi.
Allo stesso modo, se nei mesi scorsi von der Leyen ha fatto un passo indietro sul regolamento che avrebbe dovuto dimezzare l’uso di pesticidi nell’Ue entro il 2030, è stato non solo per le proteste dei trattori ma evidentemente anche per le spinte esercitate dall’industria chimica farmaceutica, quella che Corporate Europe chiama “Big Toxics”.
«Proprio come in passato l’industria petrolifera ha finanziato i negazionisti del Clima, aziende come Bayer e Basf, i loro gruppi di pressione e gli alleati politici hanno condotto una campagna di lobby assolutamente irresponsabile e scandalosa per bloccare, indebolire e far deragliare la legge sulla riduzione dei pesticidi», attacca Nina Holland, attivista e ricercatrice dell’Osservatorio di Corporate Europe.
Lobby Facts ha calcolato che le prime sette aziende del settore chimico farmaceutico spendono complessivamente oltre 30 milioni di euro per influenzare le politiche dell’Ue. Che possono riguardare i pesticidi ma anche fusioni tra colossi del settore, come quella completata nel 2018 tra Monsanto e Bayer. Ebbene, dopo il via libera al matrimonio da parte della Dg Concorrenza europea, un membro dell’organo antitrust è stato assunto come vicepresidente di Compass Lexecon, una società di consulenza che era stata coinvolta nel processo di fusione.: un probabile caso di “porte girevoli”.
Alla carica
Chi invece storicamente non hai mai investito molto nel fare lobbying a Bruxelles, ma ora sta iniziando a farlo con decisione, è l’industria della difesa. Il gigante statunitense Boeing due anni fa ha arruolato come capo dei lobbisti nell’Ue Liam Benham, ex manager di Ibm e Ford di stanza nella capitale dal belga dal 2009, mentre la svedese Saab ha ingaggiato ex funzionari delle forze armate belghe e tedesche.
Stando ai calcoli della Rete europea del Disarmo, tra il 2019 e il 2023 i rappresentanti delle aziende della difesa hanno avuto 175 riunioni con europarlamentari. Tra i più attivi c’è il colosso aeronautico francese Airbus, con una spesa che sfiora il milione e mezzo di euro all’anno.
«Solo Google ha più incontri di Airbus a Bruxelles», fa notare Bram Vranken, dell’Osservatorio di Corporate Europe. «Questi sforzi danno i loro frutti: il Parlamento europeo ha votato a favore di provvedimenti a sostegno dell’industria degli armamenti, come il Fondo europeo per la difesa e la legge Asap a sostegno della produzione di munizioni».
E se in Italia abbiamo Guido Crosetto, ministro della Difesa dopo essere stato presidente dell’industria italiana delle armi, in Europa spicca il caso del commissario Thierry Breton, presidente della Direzione Industria della Difesa e Spazio, che dal 2009 al 2019 è stato amministratore delegato della francese Atos, multinazionale tecnologica che opera nel campo aerospaziale.
Falle nel sistema
Un altro settore abituato a frequentare quasi quotidianamente le stanze dei bottoni dell’Ue è quello agroalimentare. Lo hanno ben documentato la giornalista Giulia Innocenzi insieme al collega Pablo D’Ambrosi nel film-inchiesta indipendente Food for Profit, grande successo in Italia. Come racconta la pellicola, nell’Europarlamento ci sono deputati che da anni percepiscono alla luce del sole soldi dall’industria del cibo – in primis quella della carne – e che poi sono chiamati a esprimere voti o proposte che interessano quelle stesse aziende.
Anche la Corte dei Conti europei si è accorta che l’attuale meccanismo di protezione rispetto all’eccessivo potere delle lobby è carente. Tra il 2019 e il 2022 i magistrati contabili hanno svolto un’indagine dalla quale è emerso che il Registro per la trasparenza «risente di debolezze e lacune informative che rendono meno trasparenti le attività di lobbying». Ad esempio, è stato osservato che ai lobbisti è richiesta la registrazione solo per incontrare il personale di grado più elevato, mentre non c’è nessun obbligo per i funzionari di livello inferiore. Inoltre l’iscrizione è necessaria per le riunioni pre-programmate ma non per gli incontri spontanei, né per le telefonate non programmate e per gli scambi di e-mail.
«È ampiamente riconosciuto – si legge nella relazione della Corte – che le attività di lobbying sono uno strumento essenziale delle società democratiche, poiché consentono alle organizzazioni e ai singoli individui di contribuire alla definizione delle politiche e al processo decisionale presentando le loro preoccupazioni e idee». Tuttavia, avvertono i magistrati «senza meccanismi che assicurino trasparenza, esse possono portare a influenze indebite, a una concorrenza sleale o persino alla corruzione». La Corte ha elaborato quindi tre raccomandazioni che le istituzioni europee dovranno realizzare entro la fine del 2025.
Enrico Mingori
(da tpi.it)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
FORMIGLI S’INCAZZA: “SBEFFEGGIA E INSULTA MILIONI DI ITALIANI CHE GUARDANO LA NOSTRA RETE” …MENTANA LA PRENDE “CON UN SORRISO”
Sarà per via del “redditometro” da far dimenticare, sarà per qualche segnale che arriva dalla campagna elettorale, ma “scrivi Giorgia” ormai ne fa una al giorno. Dopo l’interpretazione della “premier-anchorwoman” di “Telemeloni” dell’altro giorno, ieri è stata la volta del messaggio elettorale che irride una rete Tv considerata ostile ma, di fatto, anche gli stessi elettori che scelgono di guardare quel canale.
Qualcuno, come Enrico Mentana, la prende «con un sorriso», invitando Meloni al confronto tra i leader da lui organizzato. Altri – come Corrado Formigli – replicano polemici alla scelta della premier.
Lei, nel video autogestito, esordisce con quel sorriso beffardo che ormai è un marchio di fabbrica e con il tono sarcastico che usa quanto cita le critiche che le vengono rivolte. «Cari telespettatori de La7 è un po’ che non ci si vede e però spero di trovarvi rincuorati per lo scampato pericolo della deriva autoritaria, del collasso dell’economia, dell’isolamento dell’Italia a livello internazionale…». Tutti «fantasmi», assicura, evocati da «molti» mentre «noi lavoravamo senza sosta per migliorare le condizioni dell’Italia».
Quindi, un lungo elenco di traguardi, che lei racconta tutti come merito del governo. Fino all’immancabile richiamo finale al «popolo» perché «l’8 e il 9 giugno non sono i salotti radical chic a parlare ma il popolo. E quello del popolo da sempre è l’unico giudizio che ci interessa».
Formigli non ci sta: «È un salto di qualità. Stavolta la presidente del Consiglio non attacca i giornalisti di La7. Va oltre e sbeffeggia e insulta milioni di italiani che guardano la nostra rete. La premier di mezzo Paese che dichiara guerra all’altra metà». E Vittoria Baldino, M5s, commenta: «È diventata lei la radical chic…». Ma per Giovanni Donzelli, uno dirigenti FdI più vicini alla premier, «Giorgia con eleganza e simpatia offre lezioni di pluralismo su La7. Ci dispiace per Formigli che vorrebbe decidere anche i contenuti di un messaggio autogestito da Fratelli d’Italia».
Mentana, peraltro, ieri mattina, al Festival di Dogliani, è tornato sul confronto tv mancato (finora) tra la segretaria del Pd Elly Schlein e Giorgia Meloni: «Non escludo di farlo, non è ancora finito il tempo. Ho un invito aperto per tutti e sei i leader, decideranno cosa fare». Anche se, contestualmente, ha ricordato che i confronti finali «non spostano voti».
(da la Stampa)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
SUCCEDE ALL’OSPEDALE VILLA SCASSI … ALTRI EPOSODI IN ZONA
Cento euro per non abortire. Sono stati offerti a una ragazza che si è presentata all’ospedale Galliera di Genova e lì ha scoperto di essere incinta. E dal quale è stata respinta quando ha chiesto la possibilità di abortire. Perché «qui non ti possiamo aiutare, certe cose non le facciamo».
A Villa Scassi invece la ragazza «è stata avvicinata da due donne che, dopo averle chiesto a malapena chi fosse e dopo aver scoperto che di figli ne ha già tre, le hanno provato a fare la morale sulle ricadute psicologiche di un’eventuale interruzione. E le hanno offerto 100 euro per non farlo». Questo è quanto ha raccontato una sua amica che era con lei a Repubblica. La donna è di origine straniera e ha una storia familiare di vulnerabilità. Ha fatto il test al Galliera in un’ora per scoprire la gravidanza.
I centri per la vita
Poi l’arrivo a Villa Scassi insieme all’amica. E l’incontro con le due attiviste dei Centri per la vita che le hanno promesso soldi. «L’impressione è che volessero approfittare di una situazione di fragilità facendo leva sul lato economico», dice l’amica.
«Non abbiamo perso tempo a capire: siamo andate via», aggiunge. Il marito non sa della gravidanza «e lei non vuole coinvolgerlo». Saranno quindi le amiche a sostenere le spese della gravidanza fino all’eventuale aborto. Villa Scassi, contattata dal quotidiano, fa sapere di non aver autorizzato l’ingresso di rappresentanti di associazioni pro vita. Ma «Sono uscita in lacrime e se non ci fosse stato il mio ragazzo a consolarmi non so cos’avrei potuto fare».
I racconti
I racconti di chi ha ricevuto offerte in denaro si mescolano a quelli di chi si è sentita colpevolizzare: «Il medico ha cominciato a sgridarmi, dicendomi che la cosa era seria, che quello era il mio bambino e aveva un battito cardiaco e che stavo occupando il posto di donne con il cancro quando avrei potuto stare più attenta».
C’è chi si è vista proporre di contattare i Centri per la vita. Per «approfittare della vulnerabilità, pensando di comprare la nostra libertà è quanto di più violento si possa immaginare», dice Federica Di Martino.
E rispetto al caso di Genova, «le donne straniere vivono uno stigma plurimo, soprattutto in ambito riproduttivo. Fare propaganda sui corpi dei più vulnerabili è una politica pericolosissima».
(da La Repubblica)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
I COSTI SONO PASSATI DA 3,9 MILIARDI A 14 E NON FINISCE QUA
Il Ponte sullo Stretto di Messina appare e scompare quasi a ogni cambio di governo. L’ultimo no è di Mario Monti. Nel 2012 la necessità di contenere la spesa pubblica è stringente: il governo rileva gravi carenze nel progetto definitivo del 2011 e chiede di dettagliare gli aspetti finanziari e la sostenibilità generale dell’opera, pena la messa in liquidazione della Società Stretto di Messina (qui legge 221 del 2012). Le integrazioni non arrivano e il governo nomina un commissario liquidatore (qui Dpcm 15 aprile 2013).
2020: riparliamone
Nell’estate 2020 l’esecutivo Conte ripropone l’idea col piano di rilancio delle infrastrutture in Italia inserito nel Pnrr. La ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli nomina una commissione di 16 esperti per esaminare possibili alternative alla campata unica e si stanziano 50 milioni per un progetto di fattibilità. Conte cade nel 2021 e il governo Draghi conferma gli stanziamenti. Del progetto di fattibilità se ne dovrebbe occupare Italferr, società del gruppo Fs per gli investimenti infrastrutturali che, contattata da Dataroom, risponde: «Italferr non ha mai ricevuto alcun incarico per sviluppare uno studio di fattibilità e mai è stata coinvolta in alcuna attività di progettazione del Ponte sullo Stretto di Messina». I 50 milioni rispuntano dopo le elezioni nel 2022 quando Matteo Salvini, nuovo ministro dei Trasporti, decide di usarli per riattivare la società Stretto di Messina spa e l’amministratore delegato di allora: Pietro Ciucci.
Salvini passa all’azione
L’opera figura nel programma elettorale della Lega (qui) che in precedenza si era sempre detta perplessa. Il 29 settembre 2016 ad Agorà Salvini dice «più di una volta la Lega ne ha sottolineato le perplessità» e lo stesso giorno Luca Zaia scrive su Facebook «Con Matteo Salvini sosteniamo la stessa idea: non è un’opera prioritaria per il Paese» (qui). Una volta giunto al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il leader della Lega decide di correre perché «il Ponte è una priorità». Il 31 marzo 2023 il governo emana il decreto (qui), poi convertito in legge, che fissa il termine per il progetto esecutivo al 31 luglio 2024, sulla base di quello definitivo del 2011 (e che va «integrato» da una relazione aggiornata del progettista, qui). Si rispolvera anche il soggetto deputato alla realizzazione dell’opera: il consorzio Eurolink che aveva vinto la gara e ha ancora in ballo una causa con lo Stato da 657 milioni di euro per l’interruzione del 2013, persa in primo grado e ora in appello e che ha promesso di ritirare se ripartono i lavori.
Un progetto già bocciato
Si riparte dunque dal vecchio progetto, con le carenze rilevate dal governo Monti e quelle evidenziate dal ministero dell’Ambiente di allora. Progetto bocciato anche nella sostanza dalla commissione di esperti del Mit ad aprile 2021. Nella relazione finale si legge: occorre studiare soluzioni alternative, quella a unica campata non è la migliore (qui). Il problema posto dai tecnici è che ad oggi non esiste ancora la tecnologia per una infrastruttura di quel tipo. Lo stesso anno le Università di Catania e Kiel (Germania) annunciano la scoperta di una faglia attiva di 34,5 km lungo lo stretto di Messina, mai mappata, che ha deformato il fondale marino e che è in grado di scatenare terremoti di magnitudo 7,1 (qui). Il livello massimo sopportabile dalla struttura (qui). L’aggiornamento del progettista non ne tiene conto. D’altronde i tempi sono troppo stretti: il 29 settembre 2023 c’è la firma tra Stretto di Messina ed Eurolink e il 30 settembre il Consorzio comunica di aver consegnato la documentazione. Il plico finisce al Comitato scientifico indipendente della Stretto di Messina che a febbraio dà parere positivo, ma a patto che siano accolte 68 raccomandazioni (qui l’elenco). Tra queste: nuovi approfondimenti sismici, nuove analisi e previsioni con scenari che tengano conto di eventi estremi e una nuova analisi delle correnti marine e dei venti in relazione alla struttura.
Il Mise: 239 integrazioni
Il 15 aprile si esprime anche il ministero dell’Ambiente: chiede altre 239 integrazioni al progetto (qui). Tra queste la necessità di chiarire se l’Analisi Costi Benefici ha tenuto conto degli studi sui flussi di traffico, se la stima dei costi è stata aggiornata rispetto alle condizioni attuali o se si sono mantenuti i valori indicati nella precedente documentazione, di specificare la tipologia dei costi di manutenzione e gestione dell’opera, di presentare un quando «aggiornato e congruente» degli scenari di rischio sismico e maremoto aggiornati allo stato attuale dei luoghi. Scrive anche il ministero della Cultura: «avevamo già segnalato nel 2012 che la documentazione presentata non era esaustiva» (qui).
Parte l’iter degli espropri
Intanto il 3 aprile la Stretto di Messina avvia l’iter per l’esproprio di terreni e delle aree edificate sulla sponda siciliana e su quella calabra (qui). I cittadini devono rispondere entro il 2 giugno. Si stimano 500 edifici (fra abitazioni e immobili commerciali) e 1500 proprietà terriere, in totale 370 ettari. Ma prima di sottoporre il progetto definitivo al Cipess, il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile che per legge approva i progetti infrastrutturali strategici, occorre acquisire le osservazioni degli enti locali coinvolti attraverso le Conferenze dei servizi. Ma è complicato fornire osservazioni se ancora non ci sono gli adeguamenti richiesti da Comitato scientifico, ministero dell’Ambiente, e ministero della Cultura. E senza l’ok del Cipess non si può procedere con gli espropri e aprire i cantieri. Il 3 maggio prende carta e penna anche l’Ordine degli ingegneri della Provincia di Messina e scrive: «Alla luce della vigente normativa antisismica il progetto definitivo non risulta adeguato» (qui).
Faglia attiva sotto il pilastro
Nelle aree di esproprio alcune situazioni si sono modificate rispetto al 2011: su una c’è la variante ferroviaria, un’altra cade in una zona cimiteriale, su una terza è sorto un villaggio turistico. Ma, soprattutto, secondo lo studio geologico commissionato dal comune di Villa San Giovanni sulle mappe catalogate da Ispra nel 2015, ci sono 5 faglie attive di cui una nell’area del blocco di ancoraggio dei pilastri. Dopo il terremoto di L’ Aquila su quel tipo di aree c’è l’inedificabilità assoluta. La Stretto di Messina dice di esserne a conoscenza e che si eviteranno posizionamenti su faglie attive. Dalle mappe al momento non è chiaro. E intanto da gennaio 2023 il valore di case e terreni è crollato proprio perché hanno il vincolo di esproprio. Anche sulle aree circostanti è piombata l’incertezza: chi vuole acquistare casa non riesce a stipulare un mutuo perché la banca non può mettere l’ipoteca. Mentre le amministrazioni pubbliche, con il vincolo, si vedono bloccati tutti i progetti, inclusi quelli del Pnrr come la riqualificazione dell’area di Forte Beleno a Villa San Giovanni, un forte del 1888 su cui era previsto un investimento di 1,5 milioni di euro.
Stesso progetto, stessi nomi
Non cambia il progetto e nemmeno i nomi. In Eurolink ci sono Webuild (capofila), gli spagnoli di Sacyr, Condotte d’Acqua, la Cooperativa Muratori Cementisti, i giapponesi di IHI Corporation e il Consorzio A.C.I. del gruppo Gavio.
La Sacyr nel 2022 è stata multata in Spagna per 203,6 milioni di euro con le 5 principali imprese di costruzione del Paese: per 25 anni dal 1992 al 2017 hanno eluso la concorrenza, mettendosi d’accordo per spartirsi gli appalti. Del gruppo Cooperativa Muratori Cementisti, invece, fa parte la «Bolognetta scpa» che ha costruito il viadotto Scorciavacche in Sicilia, venuto giù nel 2014 nove giorni dopo l’inaugurazione. Parte un’inchiesta e secondo l’accusa il ponte collassa perché realizzato su un terreno instabile, cosa che sarebbe stata nota sia all’azienda costruttrice sia all’Anas che lo inaugurano tre mesi prima della data prevista di consegna e senza collaudo. Presidente Anas è Pietro Ciucci. Il processo inizia e si chiude nel 2023 per la sopraggiunta prescrizione per nove imputati dall’accusa di attentato alla sicurezza dei trasporti e falso. Rimane in piedi, però, un troncone d’inchiesta alla Procura di Palermo che vede coinvolti ancora oggi Pietro Ciucci e due dirigenti Anas accusati di «induzione a dare o promettere utilità».
Cambiano i costi
Il bando di gara vinto del 2006 prevedeva che l’opera fosse finanziata in project financing: il consorzio vincitore avrebbe dovuto mettere tra il 10 e il 20% del totale e sarebbe rientrato con i proventi dei pedaggi. Dai 3,9 miliardi della gara del 2006 siamo passati ai 13,5 previsti dal documento costi benefici della Stretto di Messina. La legge di bilancio 2024 ne stanzia 11,6 (qui articolo 56). Chi ce li mette gli altri? Eurolink? Difficile.
L’ipotesi di realizzarlo in project financing è già stata bocciata nel 2021 dalla commissione tecnica Mit: «appare evidente che la brevità del percorso di attraversamento e delle relative opere connesse non consente di prevedere un volume di pedaggi a carico degli utenti in grado di consentire una operazione di project financing» (qui pagina 144). Ad oggi, quindi, l’opera non è interamente finanziata, e non è nemmeno certo che costerà 13,5 miliardi, perché sarà la Stretto di Messina, in sede di progetto esecutivo, a definire il prezzo finale. Eppure, nonostante tutti i problemi, il governo tira dritto.
A chiedercelo è l’Europa, sostiene il ministro Salvini, per completare il corridoio TEN-T Palermo-Reggio-Roma-Milano-Berlino-Helsinki. Non è proprio così. Il 26 aprile scorso Pat Cox, coordinatore del Corridoio Sandinavo-Mediterraneo per la Commissione Europea, risponde per iscritto a 3 eurodeputati: «la Commissione è a conoscenza solo del fatto che l’Italia sta conducendo degli studi preparatori» e «potrebbe co-finanziare fino una quota del 50% degli studi di preparazione». Ma «senza conoscere i risultati degli studi preparatori, non è possibile fare ipotesi su un potenziale contributo dell’Ue». Insomma, Bruxelles vuol vedere le carte prima di ipotizzare un aiuto economico.
Chi ha fatto davvero bingo
A ottobre 2022 Salvini su Rete4 dice che il ponte «creerebbe 120 mila posti di lavoro veri» (qui minuto 8’34”). La Società Stretto di Messina ha corretto il dato: negli otto anni necessari a costruire l’opera, si impiegherebbero da 4.300 a 7.000 unità, a seconda degli anni (qui a pagina 14). L’associazione «Invece del Ponte», che ha fatto i conti sul documento costi benefici redatto dalla Stretto di Messina, dice che si arriva a 2.229 all’anno. Si tratta di posti a tempo determinato perché finita la costruzione del Ponte spariranno e andrebbero ad eliminare anche quelli stabili di oggi del collegamento traghetti.
In sostanza il progetto più ampio su cui scommette l’Italia è rimasto quello del 2011 rilanciato per decreto, come pure il consorzio che aveva vinto la gara nel 2006 e l’ad della Stretto di Messina. Quello che è cambiato è il costo: dai 3,9 miliardi di allora ai 13,5 di oggi.
La direttiva europea del 2014 (art.72) impone una nuova gara quando un’opera costa il 50% in più di quella vecchia. Qui le cose si ingarbugliano perché nel 2012 i costi erano già saliti a 8,5 miliardi. Quindi nella migliore della ipotesi non si può sforare di un euro altrimenti si torna a nuova gara. Un dato è certo: il governo Monti aveva chiuso la partita perché le carte non mostravano la sostenibilità finanziaria. Comunque vadano le cose chi ha fatto bingo è l’operatore che è tornato in pista: con l’uscita del decreto il titolo di Webuild si è impennato del 20%.
Domenico Affinito e Milena Gabanelli
(da corriere.it)
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Maggio 27th, 2024 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA AL “CORRIERE DELLA SERA”: “MELONI MENTE QUANDO NEGA I TAGLI ALLA SANITA’, LA SPESA SI CALCOLA SUL PIL”… “NON CE NE FACCIAMO NULLA DI UNA DONNA PREMIER SE LE SCELTE DEL SUO GOVERNO COLPISCONO LE DONNE”… “IN EUROPA SI ACCOMPAGNA CON QUELLI CHE URLAVANO “NEANCHE UN CENTESIMO ALL’ITALIA”
Quello di Meloni è un governo mani di forbice. Mentre la premier è la regina dei tagli. Elly Schlein in un’intervista al Corriere della Sera oggi va all’attacco dell’esecutivo e della presidente del Consiglio: «Quello di Meloni è un governo mani di forbice. Questi tagli sono gravissimi e il criterio è del tutto insensato perché tagliano in proporzione di più ai Comuni che stanno investendo più risorse del Pnrr», dice. Perché «rischiamo che i Comuni che stanno costruendo nidi e case della comunità con il Pnrr poi non abbiamo le risorse per assumere chi ci lavori dentro. Meloni si conferma veramente la regina dell’austerità».
I tagli alla sanità
Sui tagli alla sanità, invece, secondo la segretaria Dem «Meloni mente, la spesa non si calcola in valori assoluti ma sul Pil, e da quando siede a Palazzo Chigi sta scendendo a livelli pre-pandemia. L’unica cosa concreta è stata far entrare gli antiabortisti nei consultori. Non ce ne facciamo un granché della prima premier donna se le scelte del suo governo colpiscono le donne».
Altra battaglia, in Europa, quella «sugli investimenti comuni. Meloni che partecipa ai raduni con i nostalgici del franchismo e gli amici di Trump dice che noi vogliamo cancellare l’identità. Lei si accompagna in Europa con i nemici del nostro interesse nazionale: sono quelli che andavano in giro con i cartelli con su scritto ‘non un centesimo all’Italia’ mentre il suo partito si asteneva sul Next Generation EU».
Telemeloni
Infine, sul caso Toti: «Due pesi e due misure. Quando ci sono state indagini gravi ma che non hanno nemmeno sfiorato il presidente della Puglia, TeleMeloni non ha parlato d’altro per settimane». Meloni dice che se perde il referendum non se ne va: «Sovrapporre la sua traiettoria politica al destino del Paese con questa leggerezza è inaccettabile».
(da agenzie)
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