Destra di Popolo.net

NUOVA TEGOLA SUL “REMIGRATION SUMMIT”, LA KERMESSE DI SVALVOLATI SOVRANISTI CHE VUOLE L’ESPULSIONE FORZATA DI MILIONI DI STRANIERI, ANCHE SE CON LA CITTADINANZA

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

PRIMA SI DOVEVA FARE A MILANO MA, DOPO LE PROTESTE, SI SONO SPOSTATI IN PROVINCIA DI VARESE, MA PURE LI’ SONO STATI RIMBALZATI DALL’HOTEL PRESCELTO CHE TEMEVA DISORDINI… ORA LA CILIEGINA SULLA TORTA: UNO DEI QUATTRO PRINCIPALI ORGANIZZATORI, IL NAZIONALISTA BELGA ED EX DEPUTATO DRIES VAN LANGENHOVE, RISCHIA DI FINIRE IN GALERA (IL POSTO DOVE DOVREBBERO ESSERE TUTTI)

C’è una nuova tegola sul Remigration summit, la kermesse suprematista dell’estrema destra con al centro l’idea dell’espulsione forzata di milioni di stranieri, anche se con la cittadinanza. Si doveva tenere a Milano il 17 maggio, poi dopo le proteste di sindaco e sinistra i promotori hanno deciso di spostarsi in provincia di Varese – vicino a Malpensa, un po’ per poter dire di averla fatta comunque a “Milano” – ma l’albergo prescelto, temendo disordini, ha disdettato l’evento.
Ora, ciliegina sulla torta, uno dei quattro principali organizzatori, il nazionalista belga ed ex deputato Dries Van Langenhove, rischia di venire mandato in galera dalla Corte d’appello del suo Paese esattamente il giorno prima.
“Vogliono distruggermi ma col vostro aiuto noi distruggeremo loro”, promette lui su X, seguendo il classico schema vittimista delle destre europee, descrivendosi come “sotto attacco dal regime” e fautore del “free speech”. Quale libertà di parola? L’anno scorso è stato condannato per incitamento alla violenza e per negazionismo della Shoah.
Non solo, nelle loro conversazioni private il terrorista norvegese Anders Breivik, che nel 2011 sull’isola di Utøya uccise 77 giovani militanti laburisti, veniva considerato un modello. Si trattava di “scherzi” tra amici in “gruppi
privati”, rimane la versione di Van Langenhove Con “remigrazione” – che sta diventando parola d’ordine anche della Lega – si intende la deportazione forzata di migranti, non importa se regolari o meno, oltre alla privazione dei diritti civili per i cittadini europei “non assimilati”, cioè non bianchi.

(da agenzie)

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DOPO L’AFFONDO DI MARINA BERLUSCONI CONTRO TRUMP (CHE NASCONDEVA UN SILURO A GIORGIA MELONI, CHEERLEADER DEL TYCOON) SCATTA L’ALLARME NEL CENTRODESTRA

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

SE IL 30 GIUGNO PROSSIMO NON SI TROVERA’ UN ACCORDO SUI DAZI, TRA WASHINGTON E BRUXELLES INIZIA LA GUERRA, E MELONI SI TROVERÀ COL CERINO IN MANO: SE SCEGLIESSE TRUMP, FORZA ITALIA POTREBBE SENTIRSI LEGITTIMATA A USCIRE DAL GOVERNO – SE INVECE, COME E’ PROPABILE, MELONI RESTERA’ AL FIANCO DELL’EUROPA, COME LA PRENDERA’ SALVINI?

Marina Berlusconi ha agitato i sonni di Palazzo Chigi con una mossa da “j’accuse diplomatico”: critica esplicita a Trump, proprio mentre a destra si fa a gara a chi è più servile con il tycoon della Casa Bianca.
Meloni e Salvini irritati (eufemismo), ma – si racconta – neanche troppo sorpresi: da settimane Mediaset sta lavorando ad un progetto mediatico europeo
con respiro transnazionale, e per farlo serve un asse solido con l’Europa.
Ecco il sospetto che gira tra i meloniani più svegli: l’attivismo antitrumpiano della figlia del Cav non è un errore di posizionamento, ma una precisa operazione “pro-Europa”, utile per tenere porte aperte con chi conta davvero a Bruxelles e Berlino.
Il problema? Il countdown lanciato da Trump sulla gestione dei dazi con l’Europa: 90 giorni per scegliere da che parte stare. Se salta l’accordo con l’UE, Meloni si troverà col cerino in mano: Washington o Bruxelles? E se scegliesse Trump – come il suo cuore politico suggerirebbe – Forza Italia potrebbe sentirsi legittimata a uscire dal governo, con tanto di motivazione “europeista”.
A Palazzo Chigi la parola d’ordine è “minimizzare”. Ma sotto traccia, la tensione è altissima. Un big di centrodestra off the record spiega: “Se davvero Giorgia dovrà scegliere tra Trump e Bruxelles, il governo rischia di saltare. Marina non parla mai a caso. E stavolta ha parlato chiaro.”
Tradotto: la Berlusconi ha lanciato un avviso ai naviganti. E a Palazzo il mare comincia a farsi mosso.
(da ilgiornaleditalia.it)

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ADDIO A JOSE’ MUJICA, IL PRESIDENTE-CONTADINO DELL’URUGUAY CHE RINUNCIO’ AL 90% DEL SUO STIPENDIO

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

ATTIVISTA, GUERRIGLIERO E PRIGIONIERO: STORIA DI UN RIVOLUZIONARIO… “NON SONO POVERO, POVERI SONO QUELLI CHE HANNO BISOGNO DI MOLTO PER VIVERE”

È morto Josè “Pepe” Mujica, ex presidente dell’Uruguay, all’età di 89 anni. Da tempoera malato di tumore all’esofago e si stava sottoponendo a cure palliative. Proprio nelle scorse ore la moglie, Lucia Topolansky, aveva commentato la malattia definendola «in fase di stallo» e ammettendo che il marito era «vicino alla fine».
Mujica è stato presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015 dopo una lungo trascorso nel governo di Montevideo, di cui è stato anche ministro dell’Agricoltura.
L’annuncio del presidente Orsi: «Grazie di tutto, ci mancherai caro»
Ad annunciare la morte è stato l’attuale presidente uruguaiano, Yamandú Orsi, cresciuto sotto l’ala protettrice dello stesso Mujica. «È con profondo dolore che annunciamo la scomparsa del nostro collega Pepe Mujica», ha scritto in una nota ufficiale. «Presidente, attivista, riferimento e leader. Ci mancherai tanto, caro. Grazie per tutto ciò che ci hai dato e per il tuo profondo amore per il tuo popolo».
Chi era Josè Mujica: la famiglia povera, la prigionia e l’umiltà presidenziale
Figlio di un padre basco e di una madre con lontane radici italiane, per la precisione liguri, è rimasto nella memoria del suo Paese e di tutto il mondo per il suo stile di vita sobrio e il suo profondo senso etico. Contadino ed ex guerrigliero del movimento dei Tupamaros, trascorse dodici anni in carcere,
spesso in isolamento, dopo essere stato arrestato in un’operazione delle forze armate uruguaiane. Liberato nel 1985 grazie a un’amnistia, diventò poi una delle figure politiche più rispettate e amate del Sud America.
Durante il suo mandato presidenziale, fu il principale promotore di riforme fondamentali: dall’aborto legalizzato, alla libera unione tra persone dello stesso sesso fino alla depenalizzazione dell’uso della marijuana. Rinunciò al 90% del suo stipendio e visse in una modesta casa di campagna girando per le strade di Montevideo a bordo di un vecchio Maggiolino Volkswagen. «Non sono povero», ha ripetuto più volte. «Poveri sono quelli che hanno bisogno di molto per vivere».
(da agenzie)

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NIENTE DI SERIO SOTTO IL SOLE

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

LA BRUTTA FIGURA DI TRUMP SUI DAZI ALLA CINA

Abbiamo tutti, o quasi, la tendenza (brutta) a far prevalere le nostre opinioni politiche rispetto al giudizio sui fatti. E dunque dobbiamo stare in guardia, e diffidare di noi stessi. Però non bisogna neanche fare l’errore contrario: quando i fatti confermano le nostre opinioni politiche (per esempio, che Trump non sia una persona seria, e lo dico con un eufemismo), dobbiamo prenderne serenamente atto. Non è colpa nostra, se pensiamo male di lui. È tutto merito suo.
La vicenda dei dazi non ha niente, proprio niente di serio e di rispettabile, forse nemmeno di razionale. Alla luce dei fatti, sono numeri a vanvera, instabilità emotiva spacciata per forza contrattuale, impreparazione, indecisione e improvvisazione al potere.
C’è uno che grida “Basta! Adesso vi sistemo io! Dazi al cento per cento!”. E c’è uno (la Cina) che gli risponde impassibile: non se ne parla neanche. E allora lui risponde: “Va bene, allora facciamo dieci per cento”. E sui suoi buffi social,
ormai assimilabili per linguaggio a quelli del più scalcinato influencer, spaccia questa figura ridicola, perfino umiliante, come un trionfo diplomatico.
(da repubblica.it)

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ECCO PERCHE’ I DITTATORI FANNO SEMPRE UNA BRUTTA FINE

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

DA POL POT A GHEDDAFI, DA SADDAM A DADA, DA CEAUSESCO A MILOSEVIC

Freddati da raffiche di Ak-47, traditi e vilipesi, suicidi per non cadere in mani nemiche, processati o esiliati, i dittatori fanno sempre una brutta fine. Proprio loro che credettero di «essere la meraviglia del proprio tempo», come il Macbeth di Shakespeare, saranno dannati e banditi dalla Storia. Così passano i tiranni.
E così passarono Benito Mussolini e Hitler, e anche Josif Stalin. Dopo la caduta dell’Urss furono rimosse le statue e rinominate le vie a lui dedicate. La Seconda guerra mondiale doveva essere lo spartiacque per l’Europa e il mondo. Mai più massacri, dittature, gulag e oppressione dei popoli. E invece.
Pol Pot
Il generale cambogiano Pol Pot ammira la Rivoluzione francese e il marxismo. Da giovane viaggia in Europa, ottiene una borsa di studio a Parigi, lavora in Jugoslavia. Tornato in Cambogia, all’inizio degli anni Cinquanta nel quadro delle rivolte anti-francesi nei territori dell’allora Indocina, è tra i fondatori del Partito rivoluzionario del popolo Khmer con il quale vive una lunga latitanza fino alla salita al potere dell’aprile 1975. Nel 1978 a 53 anni ha compiuto la rivoluzione agraria della Kampuchea Democratica. Così il regime comunista ed etno-nazionalista dei Khmer rossi ha rinominato la Cambogia. Svuotate le città
e deportata la popolazione nelle campagne, smantellati ospedali e proprietà privata, scomparsi in quattro anni quasi due milioni di persone su sette. Eliminati nelle esecuzioni di massa, sterminati nei campi di lavoro, abbattuti dalle carestie. Un genocidio durato fino al 1979, quando le truppe vietnamite invadono il Paese e insediano il nuovo governo. Nel 1997 Pol Pot è un’ombra nella giungla, sopravvissuto ad anni di guerriglia, malato e braccato dalla paura di essere tradito dai fedelissimi che non esita a far fuori. Nell’ultima intervista al giornalista americano Nate Thayer appare inerme e perso nell’estremo tentativo di autoassolversi: «Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per il mio Paese. Ero solo inesperto. Le sembro una persona violenta?». Il «Fratello numero uno» muore a 72 anni il 15 aprile 1998, ufficialmente colpito da infarto. Per Thayer, quel giorno con lui nel villaggio vicino al confine thailandese dove il dittatore scontava i domiciliari, è stato suicidio: un cocktail di tranquillanti e antimalarici per non essere consegnato agli americani.
Idi Amin Dada
Del dittatore ugandese Idi Amin Dada non si conosce con certezza la data di nascita, 1924 o 1925. Non è sicuro che «Dada» sia un clan o un soprannome, né è noto il numero dei figli: 40 ufficiali da 7 matrimoni, in totale forse una sessantina. Tutto si sa della fine: in esilio, stroncato da un’insufficienza renale il 16 agosto 2003 all’ospedale Re Faisal di Gedda, nel Regno Saudita ultimo rifugio dorato dopo Libia e Iraq. Abilità e fanatica megalomania lo portano a diventare, da assistente cuoco nell’esercito coloniale britannico, comandante delle forze armate dell’Uganda indipendente e lo aiutano poi a barcamenarsi tra potenze occidentali e Unione Sovietica trovando amici in Israele e Nord Africa come nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, nel Regno Unito o in Germania Est. Nella vertigine d’onnipotenza si autoproclama «Signore di tutte le bestie della terra e dei pesci dei mari, Conquistatore dell’Impero britannico in Africa, Re di Scozia senza corona».
Non è dato sapere il numero preciso delle vittime di persecuzioni etniche e uccisioni sommarie negli otto anni della sua presidenza, dal colpo di Stato del 1971 al disastroso tentativo di conquistare la Tanzania. Le stime variano tra 100 e 300 mila. La prima grave crisi internazionale nel 1976 quando autorizza
l’atterraggio del volo Air France da Tel Aviv a Parigi dirottato da terroristi palestinesi e tedeschi: nel blitz israeliano per liberare gli ostaggi, l’Operazione Entebbe, muore il comandante delle forze speciali Yonathan Netanyahu, fratello maggiore dell’attuale premier Benjamin. L’attacco alla Tanzania del ’78 precipita l’Uganda in una lunghissima fase di instabilità e vendette, con nuovi padroni e nuovi orrori come i bambini-soldato dell’Esercito di liberazione del Signore fondato da Joseph Kony nel 1987. Amin è lontano, forse già dedito alla dieta fruttariana ossessione degli ultimi anni. È passato alla storia con il nome di «Machete, Macellaio d’Africa, Hitler nero».
Nicolae Ceausescu
Ceausescu diventa segretario generale del Partito comunista della Romania nel 1965; dal ’74 è presidente della Repubblica socialista. Industrializzazione intensiva e piani di rieducazione: il Paese è lanciato in un progresso forzato che riesce solo in parte a spezzare le antiche radici contadine, mentre il regime cerca un’autonomia mal sopportata a Mosca. Controllo sociale capillare attraverso la terribile polizia segreta, la Securitate. Vietati aborto e qualsiasi forma di contraccezione al motto «Il feto è proprietà dello Stato», premi alle «madri eroine». Culto ossessivo della personalità del capo: Ceausescu arriva ad auto-conferirsi uno scettro spiazzando anche Salvador Dalí che invia un telegramma di congratulazioni (ironia surrealista fraintesa, sarà preso per un omaggio vero). A Bucarest si fa costruire una colossale Casa del popolo, il palazzo più pesante del mondo, oggi sede di Parlamento e Corte costituzionale. Le proteste studentesche del dicembre 1989, nel sentimento di svolta che si diffonde da un Paese all’altro del blocco comunista, convincono infine il Conducator a lasciare la capitale con la moglie Elena. Fermati nella rocambolesca fuga tra le campagne dove sono nati, del processo sommario restano le immagini a colori riprese con una Panasonic M7 nella caserma di Târgoviște. Sembrano due anziani contadini spaventati, spogliati del potere e stretti in cappotti troppo pregiati per quelle stanze misere come il Paese, che lui aveva ridotto alla fame con il razionamento alimentare. È il 25 dicembre 1989, meno di un’ora davanti alla corte marziale, la fucilazione improvvisata che la videocamera non ha il tempo di filmare passerà alla storia come la fine
dell’unica rivoluzione violenta contro i sistemi comunisti nell’Europa centro-orientale. Hanno 73 e 71 anni, le mani legate. Mentre a Bucarest cospiratori e fazioni s’avventano sulle spoglie del regime lei grida «Andate all’inferno», lui canta l’Internazionale. Questo il racconto ufficiale. Anni dopo, uno dei tre paracadutisti incaricati quel giorno di imbracciare i kalashnikov ricorderà di aver incrociato lo sguardo di Ceausescu nell’attimo in cui diventava chiaro che non ci sarebbe stato appello. Finiva lì, e Nicolae pianse.
Milosevic
Slobodan Milosevic è il leader autoritario che in nome della Grande Serbia accende l’odio etnico nei Balcani degli anni Novanta. Nato sotto l’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale, comincia come funzionario comunista nella Jugoslavia di Tito prossima all’implosione, e diventerà agitatore nazionalista. Lungo il cammino si presenta come uomo di pace firmando con il croato Franjo Tudman e il bosniaco Alija Izetbegovic gli Accordi di Dayton che nel 1995 chiudono la guerra di Bosnia ed Erzegovina: eppure nel conflitto ha appoggiato attivamente le forze serbo-bosniache del presidente Radovan Karadzic e del comandante dell’esercito Ratko Mladic che hanno pianificato e condotto le operazioni di pulizia etnica contro la popolazione musulmana. Tre anni dopo insieme all’ultranazionalista Vojislav Seselj cavalca l’escalation che porta alla nuova guerra del Kosovo. Anni di discorsi infuocati e giganteschi patrimoni personali accumulati, anche grazie alle sanzioni, da un gruppo di potere che tiene dentro politica, banche, apparati di sicurezza e gerarchie militari. Finisce con l’arresto e l’estradizione all’Aja, dove il Tribunale Onu per la ex Jugoslavia lo chiama a rispondere di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Croazia, Bosnia, Kosovo: tre atti d’accusa, uno per ciascuna guerra. La sentenza non arriverà mai. Quando la mattina dell’11 marzo 2006 lo trovano immobile nel letto, Milosevic è morto da ore. Fatalità o ultimo sfregio, la fine per infarto a un passo dal verdetto è una sconfitta per l’intero sistema di giustizia penale internazionale. Il processo più importante estinto tra ipotesi di avvelenamento e suicidio mai confermate dalle indagini. A 64 anni «Slobo» è solo nella sua cella del carcere di Scheveningen con le ombre di milioni di profughi e centomila morti.
Saddam
Inaugura la scalata con il colpo di Stato con i nazionalisti arabi del partito Baath nel 1968, per arrivare alla conquista della presidenza nel 1979. L’era di Saddam Hussein sull’Iraq è segnata da torture e stragi, dalla persecuzione delle minoranze, dallo sterminio dei curdi, dalla guerra all’Iran, l’invasione del Kuwait, la prima guerra del Golfo, e l’odio per gli Stati Uniti. Il 9 aprile Bagdad cade, s’apre il palazzo con i bagni in marmo e oro, cade dall’alto piedistallo in piazza Al Firdos la statua del raìs: una tra le tante nel Paese disseminato di immagini grandiose, diventerà il simbolo della dissoluzione del regime. Il 13 dicembre le truppe americane scovano Saddam in una buca nel terreno di una fattoria poco lontano dalla sua Tikrit. La barba lunga e impolverata, i capelli arruffati, lo sguardo perso. Di quelle ore ricordiamo le immagini diffuse dai vincitori: il dittatore non oppone resistenza, apre docile la bocca e tira fuori la lingua per i controlli sanitari, sfila con i polsi legati nelle foto ricordo dei soldati. Tre anni dopo, dicembre 2006, il tribunale speciale formato da cinque giudici iracheni respinge l’appello: la condanna per crimini contro l’umanità commessi nel massacro degli sciiti di Dujail nel 1982 è definitiva. Gli Stati Uniti (che nel 2011 si ritireranno dal Paese mai pacificato, avviato a nuovi conflitti e all’ascesa dei fondamentalisti del sedicente Stato islamico) vorrebbero rinviare l’esecuzione di un paio di settimane ma il nuovo Iraq ha fretta di chiudere. La data fissata è il 30 dicembre. Saddam Hussein ha 69 anni. In qualità di ex comandante in capo ha chiesto la fucilazione, negata. Il video ufficiale si ferma quando gli sistemano il cappio intorno al collo, qualcuno continua a filmare e il mondo sentirà le grida e gli insulti, vedrà il patibolo di legno e il buio intorno.
Le sue colpe tuttavia non bastano a lavare la coscienza dell’Occidente che nel marzo 2003 invade l’Iraq in cerca di inesistenti armi di distruzione di massa.
Gheddafi
Artefice del colpo di Stato che travolge la monarchia di re Idris, nel 1969, Muammar Gheddafi proclama la Repubblica araba di Libia. Impone da subito un regime autoritario che punta a costruire una forte identità nazionale in un Paese diviso in tribù: rientrano in questo disegno l’espulsione dei 20 mila
italiani residenti e la persecuzione di tutti i gruppi non arabi, dai berberi agli ebrei. Il Colonnello gioca la carta del nazionalismo e della rivoluzione anti-imperialista, anti-occidentale e anti-israeliana. Nel 1977 proclama la Grande Giamahiria-la Repubblica delle masse «socialista e popolare», scrive un Libro Verde sul modello del Libretto Rosso di Mao Zedong. Migliora alfabetizzazione e sanità, promuove riforme sociali improntate alla sharia (la legge islamica). Intorno alla sua famiglia un sistema di potere cleptocratico che si difende con restrizioni delle libertà civili, detenzioni arbitrarie, sparizioni, uccisioni sommarie. È accusato di finanziare il terrorismo internazionale. Le indagini di britannici e americani sulla strage del volo Pan Am 103 con 259 persone a bordo, fatto esplodere con una bomba nei cieli sopra la cittadina scozzese di Lockerbie nel 1988, accerteranno le responsabilità di due cittadini libici, che Gheddafi rifiuta di estradare. Le conseguenti sanzioni decise dall’Onu lo costringeranno a dichiararsi responsabile come capo del governo (non ad ammettere di aver dato l’ordine) e risarcire le famiglie delle vittime. Nell’ottobre 2011, già incriminato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità, l’uomo che da 42 anni domina incontrastato sulla Libia, che ha in giro per il mondo beni e conti correnti per 200 miliardi di dollari, che agli incontri con i leader si presentava scortato da amazzoni e vestito alla beduina, è in fuga nel deserto. La rivolta sul vento delle primavere arabe è sfociata in guerra civile portandosi dietro l’intervento dei Paesi Nato trascinati dalla Francia e sotto l’egida dell’Onu. Da mesi Gheddafi ha lasciato Tripoli per Sirte, sua città natale, dov’è rimasto asserragliato man mano che le forze del Consiglio di transizione avanzavano. Il convoglio è bloccato dai ribelli, il Colonnello tenta di nascondersi in una tubatura di drenaggio. Sarà brutalizzato con indicibile violenza e finito con un colpo di pistola alla testa.
E oggi?
Nella Russia di Putin, nella Cina di Xi Jinping, nella Corea del Nord di Kim Jong-un il dissenso è perseguito e punito anche con la morte. Il dittatore siriano Bashar Assad ha trovato rifugio a Mosca. Sul premier israeliano Netanyahu pende il mandato d’arresto della Corte dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità. Nella grande democrazia americana il presidente Donald Trump
caccia chiunque non approvi le due decisioni e punisce chi ha idee diverse.
Nella stessa Europa ci sono leader che promuovono apertamente politiche illiberali. Anziché progredire sulla strada del diritto e della democrazia come avevamo giurato dopo le ultime guerre, il mondo torna a farsi sedurre da modelli autoritari e dittatoriali. Sappiamo com’è andata a finire tutte le altre volte.
Milena Gabanelli e Maria Serena Natale
(da corriere.it)

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LA LUNGA MARCIA DI ARIANNA MELONI VERSO LA CANDIDATURA IN PARLAMENTO

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

LE MOSSE DELLA SORELLA DELLA PREMIER, ORMAI DIRIGENTE APICALE DI FDI… “SI STA ALLENANDO PER L’ULTIMO SALTO”

Nessuno nel partito può dirle di no e lei, da politica navigata, si schermisce e forse schernisce gli altri: “Faccio quello che mi dice il partito”. Tuttavia, seppur con passo da maratona, l’idea che Arianna Meloni si candidi alle prossime politiche è data, da chi le sta vicino, come “più che possibile”. D’altronde la sorella maggiore della premier ed ex compagna del ministro Francesco Lollobrigida dopo una ventennale gavetta dietro le quinte, negli ultimi due anni ha fatto un notevole salto nel cerchio di fuoco. La svolta nell’agosto 2023: quando, come rivelò il Foglio, diventò responsabile della segreteria politica e del tesseramento. Da quel momento, sconfiggendo la proverbiale timidezza, Ary è uscita allo scoperto. Nell’aprile dello scorso anno, a Viterbo, il debutto in un comizio per le europee e poi via a tutto gas: tour elettorali, panel ad Atreju,
convegni, fino alle uscite di sabato a Firenze per parlare di cultura e destra e lunedì a Verona.
Quando Arianna si muove fa titolo. Quando non c’è Giorgia, ma c’è lei i militanti – che la conoscono – la prendono bene: “Andate avanti e salutatecela tanto!”. Come chi? Lei. Nel mercato elettorale la sua figurina vale un Urso e trequarti, tre Malan, tre sottosegretari messi insieme, cinque viceministri. Per un direttore, un suo virgolettato è un’apertura di pagina e un’intervista, poi, finisce dritta dritta in prima. Dunque nel nuovo Parlamento che eleggerà il futuro capo dello stato ci saranno due Meloni al prezzo di una? In Via della Scrofa – dietro la promessa dell’anonimato per non finire in una risaia nelle Filippine – annuiscono: regolare, bambolo, ma io non ti ho detto nulla. E fanno ragionamenti di questo tipo: l’attivismo pubblico di Arianna porterà a questo scenario, e non c’è niente di strano vista la selezione degli altri partiti, ormai è uno sbocco naturale. Magari con una legge elettorale con le preferenze sarebbe ancora meglio: un’ulteriore legittimazione contro le accuse di familismo.
La sorella d’Italia, si sa, è discreta quanto influente nelle logiche interne di FdI e nelle relazioni esterne (per pranzi di emergenza c’è sempre un tavolo riservato in una saletta in fondo al ristorante Laganà in via dell’Orso o alla Campana del deputato Paolo Trancassini).
Sulla carta Arianna Meloni non amerebbe la ribalta, ma si sta allenando per questa. E soprattutto, secondo una vulgata nota dentro FdI, ricopre un ruolo dirigenziale fondamentale e non sostituibile, poco compatibile con altri impegni. Dal suo ufficio, che fu quello di Giorgio Almirante, rappresenta come, nel romanzo di Gogol’, il naso di Giorgia. Ma anche le orecchie e soprattutto gli occhi, anche davanti all’intraprendenza di dirigenti storici della generazione Atreju.
Si parla di Arianna Meloni perché nel partito si parla già, nei capannelli, delle prossime candidature, nonostante manchi un’èra geologica alla fine della legislatura: due anni, appunto. L’ipotesi voto anticipato resta una chiacchiera da Transatlantico senza appigli nella realtà. Di sicuro però Meloni, Giorgia, sa che il prossimo giro sarà fondamentale perché dalle urne uscirà la maggioranza che potrà dare le carte per eleggere il nuovo capo dello stato (il cui secondo
mandato termina nel 2028). Non è mistero che la premier ambisca a un nome che spunti del suo humus politico. Il toto-Quirinale può sembrare impertinente e prematuro, tuttavia è già iniziato tra Roma e Bruxelles.
In questo caos calmo ecco la lunga marcia di Arianna che potrebbe risolversi in un vertice a tre. In una chat, questa sì interessante e fatale, che si chiama “Io, mammete e tu”. Giorgia, Arianna e la mamma Anna.
(da ilfoglio.it)

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“ALMASTRI LO PROCESSIAMO NOI”: IL TRUCCO DEL GOVERNO LIBICO PER FARSI CONSEGNARE IL TORTURATORE, CON LA COMPLICITA’ DEL GOVERNO ITALIANO

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

C’ERA UN MANDATO D’ARRESTO “IMMEDIATAMENTE ESECUTIVO” MA NESSUNO IN ITALIA GLI HA DATO SEGUITO

Nell’esile carteggio che Tripoli ha spedito a Roma il 20 gennaio scorso per convincere l’Italia a liberare al più presto Almasri “in nome dei comuni obiettivi”, c’è un dato che salta all’occhio. E che avrebbe dovuto far dubitare anche il più sprovveduto dei funzionari: Tripoli rivendica il diritto di procedere in via prioritaria contro il comandante libico perché oggetto di un mandato di cattura emesso dalla procura della capitale, immediatamente – almeno stando a quanto si legge – esecutivo.
Il documento c’è, è stato allegato alla lettera inviata al “gentile ministro Antonio Tajani” nei giorni dell’affaire Almasri e il governo non ha avuto pudore nell’inserirlo nello scarno dossier inviato alla Cpi, per tentare di difendersi dall’accusa di aver tradito il trattato di Roma e i suoi obblighi, a partire da quello che implica l’assicurare un ricercato internazionale alla giustizia. Consta esattamente di 14 righe.
Da Tripoli comunicano che l’ex comandante della Rada “ha avuto un ruolo di comando nelle violenze scoppiate nel quartiere di Abu Salim a Tripoli il 14 agosto 2023” e che “le azioni condotte sotto la sua autorità hanno provocato numerose vittime civili e distruzioni di beni”. Senza fornire ulteriori dettagli, il procuratore aggiunto Mohamed Al Muqaryef chiede di “arrestare l’imputato ovunque si trovi, assicurarlo alla giustizia libica per essere processato secondo le leggi in vigore, collaborazione con le autorità giudiziarie italiane per l’identificazione, detenzione provvisoria e la consegna”.
Ma c’è soprattutto un elemento che stona. Anzi, due. E fanno ragionevolmente pensare a un pasticcio messo insieme ex post neanche troppo ben congegnato.
Primo, la data di emissione del mandato. Stando al documento allegato, quell’ordine sarebbe stato emesso dalla procura di Tripoli il 12 novembre 2024, cioè mesi prima dell’esecuzione del mandato di cattura spiccato dalla Cpi. Peccato che in quei mesi, il comandante libico non si sia affatto nascosto.
Da capo della polizia giudiziaria, che opera – anzi, operava dopo le purghe di ieri – alle dirette dipendenze funzionali della magistratura e dello stesso Procuratore generale nazionale, Sadiq Al-Sur, da novembre a gennaio quando è stato arrestato in Italia non si è certo reso latitante. Ha partecipato a innumerevoli riunioni, convegni, conferenze stampa, protetto dai suoi uomini, non ha mai smesso di girare per Tripoli, né di farsi vedere in uffici pubblici e palazzi di governo. Per arrivare in Europa insieme a cinque compari, ha attraversato i varchi, presidiati dalle forze dell’ordine, dell’aeroporto di Mittiga. Di più: ha mostrato un passaporto, il suo nome è stato inserito nei database degli aeroporti. Perché non lo hanno arrestato?
Secondo elemento: in punta di diritto, l’Italia ha potuto espellerlo, ma non avrebbe mai potuto estradarlo. La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra contro la tortura e per questo Roma, che sì l’ha sottoscritta, ha l’obbligo di non respingere soggetti che nel proprio Paese potrebbero essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Certo, con Almasri non c’era assolutamente il rischio.
I festeggiamenti, come ha rivelato Repubblica organizzati con grande anticipo, per il suo ritorno in Libia non sono stati interrotti da nessun arresto in flagranza. E la fantomatica inchiesta non ha avuto esito alcuno: tre giorni dopo il suo ritorno in Libia a bordo di un Falcon di Stato dell’Italia, la Procura generale si è limitata a comunicare che “le accuse nei suoi confronti sono destituite di ogni fondamento”.
“L’ambasciatore libico in Italia nella missiva di trasmissione del mandato di arresto indirizzata al ministro Tajani chiedeva al Ministro degli esteri di seguire l’iter della procedura ‘al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni’. Alla fine l’obiettivo comune è stato raggiunto: Almasri è libero di torturare ed uccidere in Libia”, commentano dall’associazione Baobab, che da tempo supporta e segue Lam Magok, uno dei principali testimoni d’accusa nel
procedimento instaurato contro il comandante libico e altri presso la Cpi.
Il suo regno però negli ultimi mesi ha iniziato a scricchiolare. E il terremoto iniziato con l’omicidio del potentissimo capo delle Ssa, Gheniwa, ha finito per travolgere anche lui. Con un tratto di penna, il premier Aldabaiba ha cancellato il dipartimento di polizia giudiziaria che lui comandava e affidato al ministero della giustizia il compito di sparpagliare il personale tra diversi apparati e divisioni. Al comandante Almasri nelle note ufficiali neanche un cenno. E secondo alcuni analisti potrebbe essere diventato tanto ingombrante da candidarsi al ruolo di prossimo obiettivo.

(da La Repubblica)

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IL REPORT: “ABUSI SESSUALI E SCARICHE ELETTRICHE, A GAZA USO SISTEMATICO DI TORTURA DA PARTE DELL’ESERCITO ISRAELIANO”

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

CENTINAIA DI CASI DOCUMENTATI… LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE HA I NOMI DEI RESPONDABILI… IL GOVERNO DI ISRAELE GODE DELL’IMMUNITA’ DI DELINQUERE, NEL SILENZIO OMERTOSO DELL’OCCIDENTE “CIVILE”

Arresti di massa di civili in ospedali, scuole, strade. Detenuti sottoposti a pressioni psicologiche e fisiche fra cui percosse, scariche elettriche, mutilazioni, privazioni del sonno. Abusi sessuali. Trattamenti disumani e degradanti. Dal 7 ottobre 2023 a oggi, migliaia di detenuti palestinesi di Gaza, molti dei quali ancora imprigionati, sarebberi stati sottoposti dai soldati dell’Idf e dai militari attivi nei centri di detenzione israeliani a pratiche giuridicamente qualificabili come torture.
“Contro i palestinesi uso indiscriminato e sistematico della tortura”
Mentre Hamas bussa alla corte di Donald Trump, sperando di dare nuovo slancio alle trattative con la liberazione dell’ostaggio statunitense- israeliano Edan Alexander, e il premier israeliano Benjamin Netanyahu annuncia “entreremo a Gaza con tutte le nostre forze”, nuove pesanti accuse vengono portate all’attenzione della Corte penale internazionale. Le mette insieme il Palestinian Center for Human Rights (Pchr), una delle più antiche e internazionalmente riconosciute ong palestinesi, in un rapporto di 129 pagine basato sulle testimonianze di oltre cento persone, incluse donne, bambini e anziani arrestate a Gaza dal 7 ottobre 2023 e sulle ispezioni dei legali del team.“Da questo rapporto – si legge nella premessa – emerge che il trattamento riservato ai palestinesi di Gaza equivale a tortura e che tale tortura è parte integrante del genocidio in corso contro il popolo palestinese”.
Nuovo materiale per i procedimenti in corso alla Cpi e alla Cig
Per il giurista Triestino Mariniello, ordinario di diritto internazionale all’Università di Liverpool e insieme al fondatore del Pchr Raji Sourani rappresentante legale delle vittime di Gaza e dei loro familiari nella causa che ha portato all’emanazione dei mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant da parte della Corte penale internazionale, si tratta di “documento devastante che raccoglie e analizza decine di testimonianze dirette che non solo raccontano abusi gravissimi, ma costituiscono anche prove fondamentali per i procedimenti in corso presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale”. Ma soprattutto, spiega, “è un atto di coraggio civile. In mezzo
bombardamenti, assedi e repressione, la società civile palestinese continua a documentare, denunciare e rivendicare giustizia. Crede ancora nella forza del diritto internazionale come strumento per fermare le atrocità”.
“Procedura standardizzata di disumanizzazione”
Le testimonianze raccolte sono dettagliate, precise, circostanziate, spesso confermate da mutilazioni e invalidità permanenti riportate dagli ex detenuti. “Ho perso tutto – dice un uomo di 43 anni, sopravvissuto alla detenzione – la mia casa, mio fratello, i miei amici, le memorie di mio padre e me stesso, il mio vecchio me. Cosa rimane a un uomo se perde se stesso?”. Le pratiche di disumanizzazione – si afferma nel report – sono parte di un processo sistematico e sistematizzato di gestione dei detenuti che segue quasi sempre un identico copione: arresti indiscriminati, detenzione in centri militari, impossibilità di comunicare con l’esterno, mancata formalizzazione delle accuse dunque nessuna possibilità di assistenza legale o di rivolgersi a un giudice, abusi fisici e psicologici ripetuti. Standard anche le condizioni di detenzione: celle sovraffollate e in pessime condizioni igieniche, cibo e acqua scarsi e spesso deteriorati, zero assistenza medica.
“Fai a farti curare da Sinwar”
“Ho chiesto aiuto a un dottore perché dopo essere stato pestato avevo dolori ovunque. Ma il medico mi ha detto ‘Vai a farti curare da Sinwar’”, è la testimonianza di un trentenne palestinese. “Una volta – spiega invece un 43enne – ho chiesto di vedere un medico e me ne sono pentito. L’unica ragione per cui [il soldato] mi ha portato in clinica sono state le mie urla per il dolore agli occhi causato dalle percosse continue. Ogni volta che menzionavo il dolore, mi picchiavano sempre di più”. I pochi ricoverati in spartane infermerie, sono stati obbligati a rimanere bendati e legati ai letti anche per dieci giorni, senza neanche il permesso di andare in bagno o lavarsi. Fascette e bende sugli occhi – emerge dal report – sono usate regolarmente anche durante gli interrogatori, che “possono durare da 15 minuti fino a quattro giorni con pause” con i detenuti spesso denudati o costretti a stare “in posizioni stressanti: in piedi, in ginocchio, seduti sul pavimento mentre venivano calpestati, costretti a sedersi su una sedia molto piccola o con mani e/o piedi legati a una sedia”. E giù botte
Pestaggi, botte e scariche elettriche
“Durante l’interrogatorio, sono stato preso a calci e picchiato con violenza e con una spranga di ferro e il calcio del fucile sulla testa, sui piedi, sulle mani e su tutto il corpo – racconta un uomo di 57 anni, detenuto prima in una casa privata, poi in un centro vicino Khan Younis – I soldati mi hanno anche inserito le dita nelle orecchie. È estremamente doloroso. Mi hanno legato le mani dietro la schiena, le hanno sollevate e mi hanno preso a calci molto forte su entrambi i lati della vita finché non ho sentito più il respiro”. Alcuni ex detenuti spiegano di essere stati chiusi per ore in stanze con musica a volumi insopportabili, altri di essere stati drogati e poi sottoposti a elettroshock. “L’investigatore ripeteva parole specifiche come ‘arma-Hamas-ostaggi-gallerie-7 ottobre’, e quando non rispondeva o non gradiva la mia risposta, mi dava la scossa”.
“Eravamo appesi al soffitto come animali macellati”
Sono tecniche di tortura note, negli anni hanno portato alla condanna di diversi esponenti di dittature militari che ne hanno fatto largamente uso, come ‘l’Angelo biondo’ Alfredo Astiz sotto Videla in Argentina per questo condannato anche in Italia, espressamente vietate da leggi e convenzioni internazionali. Come lo è quella che tra i gazawi è nota come “Shab”, con la persona che viene lasciata per giorni appesa per le braccia a metri da terra con le mani legate. “Mi hanno appeso per le mani, legate a una recinzione di filo spinato, e i miei piedi non toccavano terra. Il dolore era insopportabile, soprattutto perché peso 136 chilogrammi e tutto il peso gravava sui polsi”, riporta uno dei testimoni. Altri raccontano invece che per ore o giorni sono rimasti appesi con le mai legate dietro la schiena “eravamo legati a ganci, come si fa con le mucche o gli animali dopo che sono stati macellati”.
Nudità forzata, palpeggiamenti, insulti: il catalogo “sottodimensionato” degli abusi sessuali
Innumerevoli, ma “sottodimensionati a causa della normale riluttanza delle vittime nel fornire informazioni tanto sensibili” sono i casi abusi sessuali: dalla nudità forzata di fronte a militari di entrambi i sessi o altri detenuti, palpeggiamenti, perquisizioni personali invasive. Per il team dei legali del Pchr, “dolore e questa sofferenza sono stati intenzionalmente inflitti da funzionari
pubblici, in particolare membri delle Forze di Difesa Israeliane (Idf, dei servizi segreti israeliani e del Servizio di Protezione Civile (IPS), mentre le vittime erano sotto la loro custodia”. E quasi certamente succede ancora.
Centinaia di palestinesi arrestati e spariti nel nulla
Dal 9 agosto 2024, l’ong ha lanciato una piattaforma online che consente ai palestinesi di Gaza di segnalare i casi di scomparsa e detenzione dei loro familiari dal 7 ottobre 2023. Ad aprile 2025, ne erano arrivate circa mille, di cui centinaia rimangono al momento senza riscontro. Carceri, centri di detenzione formali e informali rimangono spesso inaccessibili anche ai legali, spesso oggetto di pressioni e intimidazioni, tanto che negli ultimi mesi, spiegano dal Pchr, due avvocati hanno deciso di interrompere la loro collaborazione per timore di ritorsioni. E dall’unico difensore riuscito a “bucare” il muro dei centri di detenzione è arrivata solo una conferma: “le condizioni di detenzione e i maltrattamenti rimangono invariati, in linea con i resoconti forniti dai 100 ex detenuti”.
La Cpi intervenga
Per il Palestinian Center of Humans Right, si tratta giuridicamente di atti di tortura in tutto e per tutto, commessi “deliberatamente e metodicamente” contro i palestinesi “solo sulla base della loro identità”. E per questo – si sottolinea nel report – costituiscono “atti di genocidio, vale a dire ‘causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo’ e ‘infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita volte a provocarne la distruzione fisica, totale o parziale’”. Alla Cpi, cui è stata trasmessa anche una lista di nominativi di ufficiali e soldati responsabili, si chiede di “assumere determinazioni urgenti nei confronti degli ufficiali israeliani” e “aggiungere la contestazione di genocidio a quelle già contenute nei mandati d’arresto spiccati contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant”. E agli Stati tutti di procedere contro questi crimini in nome della giurisdizione universale, che – al meno sulla carta – permette di perseguire i responsabili anche in Paesi diversi da quelli in cui i reati contestati sono stati commessi. Sempre che ci sia la volontà.
(da La Repubblica)

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IL FRATELLO DI PAPA LEONE XIV, LOUIS PREVOST, E’ UN TRUMPIANO DI FERRO, SESSISTA, NO VAX E COMPLOTTARO: EX MILITARE DELLA US NAVY, SOSTENITORE DEL MOVIMENTO “MAKE AMERICA GREAT AGAIN” (MAGA), SUI SOCIAL HA PARAGONATO TRUMP A GESU’ CRISTO E BIDEN A HITLER, HA ESALTATO JD VANCE E MUSK PRENDENDO DI PETTO LA LEADER DEMOCRATICA NANCY PELOSI (“VECCHIA UBRIACONA”) E “I FOTTUTI LIBERAL” CHE SI LAMENTANO DEI DAZI

Maggio 14th, 2025 Riccardo Fucile

LA BATTUTA SUL FRATELLO: “CAVOLO, SEMBRAVA IERI, LO STAVO BUTTANDO GIÙ DALLE SCALE. E ORA È PAPA. SARA’ UN PO’ PIÙ CONSERVATORE DI FRANCESCO”

Nessun argine «sacro» alla tracotanza di Donald Trump, piuttosto una sana convivenza tra leader. A rivisitare i rapporti futuri tra Papa Leone XIV e il presidente degli Stati Uniti è il fratello del Pontefice, Louis Prevost. Ex militare della Us Navy (come il padre del Papa, che partecipò allo sbarco in Normandia), il più grande dei tre «adolescenti» del South Side di Chicago è un sostenitore del Make America Great Again (Maga) e non ha mai fatto mistero delle sue viscerali antipatie per i democratici.
Posizioni che lo mettono in antitesi con il fratello, primo Pontefice statunitense, che pur avendo votato tre volte alle primarie repubblicane (è registrato tra gli elettori del Gop), non ha lesinato critiche all’attuale amministrazione Usa.
In un’intervista dalla sua casa di Port Charlotte, in Florida, il 73enne Louis ha dichiarato al New York Times che l’elezione di Robert è stata uno choc: «Cavolo, sembrava ieri, lo stavo buttando giù dalle scale. E ora è Papa!».
Toni scherzosi, ovviamente, un po’ meno quelli del profilo Facebook. In un post ha condiviso un video di Pelosi nel 1996, con la didascalia: «Questi fottuti liberal che si lamentano dei dazi sono semplicemente assurdi».
Dopodiché ha preso di petto l’ex presidente della Camera Nancy Pelosi:
«Ascoltate cosa ha da dire questa vecchia ubriacona (“drunken cunt” epiteto utilizzato per descrivere in maniera offensiva l’organo sessuale femminile) a metà degli Anni 90, molto prima che suo marito iniziasse a frequentare Grindr». In altri post sui social, ha chiesto l’arresto dei Democratici per tradimento dopo aver incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. E ha suggerito agli Usa di tornare a una politica isolazionista, lasciando che l’Europa «segua la sua strada verso il socialismo completo e, in ultima analisi, il comunismo».
A differenza di Robert, 69 anni, il più anziano Prevost è un fan di J.D. Vance, definito, dopo il dibattito elettorale contro il governatore Tim Walz, «fenomenale, molto competente e con un’ottima orazione.
Sarà un ottimo vicepresidente e, poi, un ottimo presidente». Si è spinto financo ad accostare Trump a Gesù Cristo: «Un uomo incredibile. Non lo paragonerei a Cristo, ma entrambi sembrano subire lo stesso trattamento da parte dei maligni».
Altri post includono meme pro-Elon Musk, contenuti anti-vaccinazione, paragoni tra Biden e Hitler, e post che mettono in discussione i risultati delle elezioni del 2020, riecheggiando la retorica dei rivoltosi del 6 gennaio.
I messaggi, ben inteso, sono tutti precedenti alla nomina del fratello a San Pietro, dalla quale sul suo profilo Fb regna il silenzio. Interrotto solo dall’augurio consegnato al NY Times dove dice che suo fratello sarà «un po’ più conservatore» di Papa Francesco, e da Santo Padre farà un «lavoro fantastico».
(da agenzie)

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