Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
OLTRE A QUELLO DEL TRENTINO, MAURIZIO FUGATTI): GLI ASSESSORI DEL CARROCCIO E DI FORZA ITALIA LASCIANO LE DELEGHE PER PROTESTA CON FDI … FEDRIGA È PRONTO ALLA BATTAGLIA: “LE REGIONI A STATUTO SPECIALE HANNO UN’AUTONOMIA ESCLUSIVA SULLE COMPETENZE ELETTORALI”
Colpo di scena. A meno di 24 ore dal prevedibile impallinamento in Consiglio dei ministri del terzo mandato per i governatori delle Regioni autonome, in Friuli-Venezia Giulia gli assessori della Lega, della lista Fedriga e di Forza
Italia hanno restituito le deleghe.
Se non è crisi, ci manca un soffio: il governatore Massimiliano Fedriga si è preso 48 ore di riflessione, in attesa di incontrare domani a Venezia la premier Giorgia Meloni. La vicenda nasce da una polemica sull’ospedale di Pordenone, inaugurato in ampio anticipo sull’effettiva apertura.
Cosa che ha spinto il ministro Luca Ciriani di FdI, da Pordenone, a una dura intervista che è stata il casus belli. I leghisti smentiscono categoricamente, ma è difficile non vedere un nesso con la legge trentina per il terzo mandato del governatore che oggi potrebbe essere impugnata dal governo sbarrando la strada anche a Fedriga.
La possibilità per il governo di impugnare la legge sul terzo mandato dei governatori delle Regioni a Statuto speciale scade proprio oggi. E, ed ecco un altro motivo di curiosità, il provvedimento dovrebbe essere presentato nientemeno che da Roberto Calderoli nella sua veste di ministro per gli Affari regionali e le Autonomie.
L’uomo che è il simbolo e l’incarnazione di tutte le stagioni autonomistiche della Lega, dovrebbe accompagnare al patibolo una legge di una Regione autonoma come il Trentino, proposta per giunta da un governatore leghista come Maurizio Fugatti.
Il problema è che gli alleati di governo sono arcinemici del terzo mandato. Già respinto per le Regioni ordinarie, con bocciatura confermata dalla Corte costituzionale. L’ostilità di Forza Italia ai «governatorati a vita» è sempre stata detta a chiare lettere
Per Fratelli d’Italia, ieri lo ha ribadito Galeazzo Bignami: «Nella proposta di legge sul premierato – ricorda il capogruppo alla Camera – abbiamo introdotto il limite di due mandati e la Corte Costituzionale ha affermato che si tratta di un principio fondamentale». E, vista appunto la sentenza, «ritengo che il limite debba essere applicato in tutte le Regioni».
Simmetricamente opposta l’opinione di Fedriga: «Penso che le Regioni a Statuto speciale abbiano un’autonomia esclusiva sulle competenze elettorali. L’autogoverno delle speciali, e anche l’organizzazione dell’autogoverno è decisa dalla Regione. Mi pare l’interpretazione più corretta della sentenza della Consulta».
Fatto sta che da giorni tutta l’attenzione era concentrata su Roberto Calderoli. In molti si attendono per oggi un colpo ad effetto del machiavellico ministro. Il quale, fino a ieri, sull’argomento non ha proferito una sillaba.
In realtà, a Venezia dove tutti i governatori sono riuniti per il Festival delle Regioni, il ministro si è limitato a dire che in Cdm porterà la sua «linea difensiva. Per cui il Trentino, come tutte le Regioni a Statuto speciale, può definire il numero dei mandati. E lo Stato non può intervenire».
Insomma, la miccia è accesa. I maliziosi osservano che Fedriga, non avendo raggiunto la metà del secondo mandato, se cadesse oggi potrebbe ricandidarsi. Ma c’è chi precisa: «Solo se fosse sfiduciato».
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL 51,9% DEGLI INTERVISTATI CONFIDA CHE IL PONTIFICATO DI PREVOST SIA IN CONTINUITÀ CON QUELLO DI BERGOGLIO. E IL 46,9% REPUTA FAVOREVOLMENTE L’ELEZIONE DI LEONE XIV … PIÙ SCETTICI I GIOVANI: QUASI IL 60% RITIENE CHE UN PONTEFICE STATUNITENSE POSSA RAPPRESENTARE UNA COLONIZZAZIONE CULTURALE DELLA CHIESA DA PARTE DEGLI USA TRUMPIANI
Con la messa in San Pietro, ieri è cominciato il pontificato di Papa Leone XIV.
L’intronizzazione segna l’inizio ufficiale del nuovo Pontefice. Un italiano su due confida che il suo incarico sia in continuità con quello di Francesco (51,9%
È interessante osservare il dato politico che vede gli elettori della Lega, in controtendenza con tutti gli altri, posizionarsi in maggioranza (46,7%) sull’attesa di un mandato di rottura rispetto all’operato del suo predecessore.
Tra i più giovani emerge una certa resistenza nell’indicare una preferenza tra un pontificato in continuità o in discontinuità con Papa Bergoglio. Molti studi indicano che le nuove generazioni tendono ad avere un rapporto più personale, spirituale e meno dogmatico con la fede. Per loro ciò che conta principalmente è l’autenticità della persona più che la linea ideologica e risultano meno inclini a schierarsi con le categorie classiche interne alla gerarchia della Chiesa. […]
Nel complesso, considerando l’attuale scenario geopolitico internazionale, la scelta di eleggere l’americano Robert Francis Prevost ai vertici del Vaticano per un italiano su due (46,9%) è stata un’opzione corretta. E ancora una volta i più giovani del campione, sondato da Only Numbers per La Stampa, si dimostrano in pieno dissenso (56,1%).
Questo contrasto non è necessariamente una dimostrazione esplicitamente ideologica o teologicamente fondata, ma sembra invece inserirsi in una sensibilità più generazionale che osserva con sospetto a certe forme di potere e influenza.
Il rischio percepito che emerge dai numeri è che un Papa statunitense possa rappresentare – anche simbolicamente – una colonizzazione culturale dell
Chiesa da parte di una potenza politica ed economica – guidata oggi da un presidente molto discusso.
Quasi il 60% dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni si dimostra diffidente sulla possibilità che la nazionalità americana potrà agevolare i rapporti internazionali con Donald Trump. Il timore quindi potrebbe essere quello che la spiritualità possa dimostrarsi subordinata alla geopolitica e che la Chiesa possa perdere la sua capacità di essere una voce autonoma, libera, profetica e globale.
In effetti, solo il 28,9% del campione nazionale intervistato è convinto che le origini di Papa Leone XIV possano essere una carta utile nei rapporti internazionali con il tycoon made in Usa.
I più persuasi da questa lettura, con la media del 43%, risultano essere concentrati in maggioranza tra le file dei partiti del centro destra di governo.
Alto è il tasso di coloro che non hanno saputo o voluto rispondere nel merito (36,1%). Del resto, il dubbio che può nascere è forte, perché la figura del Pontefice nel nostro Paese è vista più come un testimone morale e non come “un’arma” nel confronto geopolitico internazionale.
E proprio la pace è stata al centro dei primi discorsi pubblici da neo eletto Papa. Tre cittadini su quattro (74,1%) hanno ampiamente apprezzato la scelta di metterla al centro del suo discorso di saluto al popolo.
Tuttavia, ancora una volta sono i più giovani che si dimostrano in totale controtendenza rispetto al sentire comune. Ben il 53,7% di loro, pur dimostrandosi all’interno dell’ampio questionario molto sensibili al tema, non ha condiviso la scelta del neo Pontefice. È vero che siamo in un periodo in cui “pace” è una parola stra-usata da tutti, anche da leader che poi promuovono guerre
Forse il rischio potrebbe essere quello di una generale percezione di retorica vuota, alla ricerca di coerenza tra parole e azioni per dare maggiore forza al messaggio. In un mondo dove i conflitti si moltiplicano, dove la comunicazione è spesso polarizzata e la sofferenza è normalizzata, dire pace può suonare vuoto se non ci si interroga su che tipo di pace vogliamo, per chi, e a quale prezzo.
Usare la parola pace è oggi sicuramente necessario, tuttavia, forse non è più sufficiente da sola, deve essere rinnovata, riempita, incarnata. Non basta nominarla: bisogna viverla.
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
“QUALORA I NEGOZIATI CON GLI USA SI RIVELASSERO INFRUTTUOSI, LA REAZIONE DELL’UE DEVE AVERE UN IMPATTO FORTE. SIGNIFICA CHE L’UNIONE DEVE AVER GIÀ INDIVIDUATO I SETTORI E LE REGIONI PER LE MISURE DI RITORSIONE DISPONIBILI”
Prima le parole, ma se queste non dovessero bastare che l’Unione passi subito ai fatti. E con decisione. La presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, non lascia spazio a fraintendimenti nello snocciolare, senza indugi, il proprio punto di vista su come l’Ue dovrebbe posizionarsi di fronte alle minacce di dazi di Donald Trump.
«L’Unione deve negoziare (con gli Stati Uniti, ndr) », ha spiegato la governatrice europea in una lunga intervista al quotidiano economico francese, La Tribune Dimanch
Valutare il margine di manovra, comprendere le esigenze della controparte e capire se sia possibile raggiungere un accordo».
E se così non fosse, il polso deve restare fermo: «Qualora i negoziati si rivelassero infruttuosi, la reazione dell’Ue dovrebbe avere un impatto forte: significa che Bruxelles deve aver già individuato i settori, le regioni, gli importi e le percentuali pertinenti per poter determinare le misure di ritorsione disponibili».
Il ritorno di Trump ha rimescolato le carte sullo scenario internazionale, ma con un filo di ottimismo Lagarde vede in questo «un’opportunità » per l’Europa per rafforzare i suoi legami interni e «liberarsi dalle dipendenze energetiche, militari e finanziarie in cui si è ingenuamente cullata».
In parte lo ha già fatto, diversificando le sue fonti di approvvigionamento energetico. «E dovrebbe ridurre ulteriormente le forniture di gas provenienti dalla Russia», ha ribadito.
La numero uno della Bce non ha potuto tacere sugli attacchi sferrati da Trump alla Federal Reserve e al suo presidente, Jerome Powell. «Non è mai finita bene quando una banca centrale si è trovata sotto il giogo di un’autorità fiscale», ha ricordato con fermezza. Una situazione simile potrebbe verificarsi anche nel Vecchio continente? No, ha risposto secca. «L’indipendenza della Banca Centrale Europea è garantita dai Trattati»
Così è su questo lato dell’Atlantico e così dovrebbe essere dovunque, perché «l’indipendenza di una banca centrale è fondamentale affinché un Paese, o un gruppo di Paesi, possa avere un sistema monetario e finanziario sano».
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
I DUE 50ENNI, UNA VOLTA FINITA LA LORO SCENETTA, SONO STATI MULTATI DAI VIGILI, CHE HANNO ASPETTATO CHE GLI SPOSINI USCISSERO – SE FOSSE SUCCESSO IN QUALUNQUE ALTRO PAESE LA COPPIA SAREBBE STATA ARRESTATA
«Stretti stretti, core a core, co’ le mani in mano». Proprio così, come nella versione di
«Sotto er cielo de Roma» cantata Dean Martin (con tenero accento straniero), una coppia di innamorati qualche sera fa si è calata nelle acque cinematografiche della Fontana di Trevi, più bella che mai dopo il recente restauro.
Due turisti cinquantenni, abbracciati, felici ed elegantissimi – lei in abito rosso e lui in completo scuro – l’11 maggio verso le due di notte si sono immersi in perfetto stile «Dolce Vita» e hanno iniziato a ballare un romantico lento, noncuranti dei vigili urbani che gli chiedevano di uscire dalla fontana (loro sì in perfetto romano, con un sonoro «Aò»).
Ma chi può fermare l’amore? Non certo un fischietto della municipale o una multa (che è puntualmente arrivata), avrà pensato la coppia, che sorridente si è presa gli applausi e il coro di «Bravi!» dei presenti, vivendo il proprio sogno d’amore «sotto er cielo de Roma». E oggi le immagini di quel ballo e dei baci bagnati stanno facendo il giro del web.
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL GOVERNATORE USCENTE E’ CONSIDERATO UN CANDIDATO DEBOLE, L’OPPOSIZIONE GIA’ DECISA AD ACCORDARSI
Ci sono anche le Marche tra le sei regioni italiane che, nell’autunno 2025, saranno chiamate alle urne per eleggere un nuovo presidente e rinnovare il Consiglio locale. Un appuntamento politico importante, in una terra che per decenni è stata considerata un baluardo del centrosinistra. Poi la rottura nel 2020: a tre mesi dalla fine del lockdown, Francesco Acquaroli, candidato di Fratelli d’Italia, vinceva le elezioni regionali, segnando la fine di un’epoca. Le Marche archiviarono così una lunga stagione progressista, affidando per la prima volta la guida della Regione alla destra. Un risultato che per Giorgia Meloni rappresentò la conferma della crescita di Fratelli d’Italia sul territorio, dopo il successo in Abruzzo con Marco Marsilio nel 2019. Oggi, a cinque anni di distanza, Acquaroli è pronto a correre per un secondo mandato, mentre nel centrosinistra i riflettori sono puntati su Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro e
oggi europarlamentare del Partito Democratico. In tanti lo danno già per favorito. Viene quindi da chiedersi: la partita è ancora aperta?
Rinviare le elezioni al 2026?
Il primo nodo da sciogliere riguarda le tempistiche. E già su questo punto, all’interno del centrodestra, le posizioni non sono del tutto allineate. Un decreto che fissi ufficialmente la data della tornata elettorale ancora non c’è, ma Acquaroli, che ha il potere di indire le elezioni regionali ha già specificato: «Orientativamente si può votare dal 5 settembre al 21 di novembre, quindi siamo in quel lasso di tempo». Election day con le altre regioni chiamate al voto (Campania, Toscana, Puglia, Veneto e Val d’Aosta) o appuntamento singolo? In un’ottica nazionale, staccare il voto dagli altri appuntamenti potrebbe infatti servire ad attenuare l’impatto di un’eventuale sconfitta. Lo confermano alcune fonti ad Open. Delle sei regioni chiamate alle urne, almeno due sembrano già orientate verso il centrosinistra: Toscana e Puglia. È su questo scenario che parte del centrodestra starebbe ragionando. C’è chi, all’interno della stessa coalizione, spinge per tornare al voto già a settembre, replicando la tornata del 2020, quando Acquaroli vinse le regionali.
Il candidato di centrodestra
Il presidente in carica, Francesco Acquaroli – come già detto – ha confermato la sua disponibilità a ricandidarsi per un secondo mandato, con il sostegno
compatto di tutto il centrodestra. Già sindaco di Potenza Picena dal 2014 al 2018, Acquaroli, che ha iniziato giovanissimo la sua carriera nel Movimento sociale italiano, è stato deputato tra le fila di Fratelli d’Italia e membro della Commissione parlamentare per le questioni regionali prima della sua elezione a presidente della Regione. Nel suo percorso politico non sono mancate le polemiche. Nell’ottobre del 2019, finì al centro dell’attenzione mediatica per aver partecipato a una cena organizzata in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma.
Il centrosinistra
Un pezzo grosso del Partito Democratico, Matteo Ricci, scende in campo per guidare il centrosinistra. «Stiamo lavorando a costruire la coalizione più ampia possibile – spiegano dal partito – che vada da Alleanza verdi e sinistra (che ha già confermato il suo sostegno) fino al Movimento 5 Stelle». La candidatura di Ricci, europarlamentare in carica, nasce da una spinta che viene dal territorio. «Ha già dato la sua disponibilità: è una risposta a una richiesta forte della gente. Solo nelle Marche ha raccolto oltre 50 mila preferenze alle europee, chi vive in quei territori sa bene quanto sia radicato». Con la candidatura di Ricci, la regione diventerebbe la terza – insieme a Toscana e Puglia (se arrivasse l’ok alla candidatura di Decaro) – in cui il centrosinistra schiererebbe un profilo riformista del Partito Democratico, la linea più distante dalla visione
marcatamente sociale e progressista della segretaria Elly Schlein.
Il mandato di Acquaroli
Il bilancio del presidente uscente sembra non convincere del tutto nemmeno nel centrodestra. «Ha fatto molto», sostengono i suoi, ma «il vero nodo resta un altro: il problema è nella comunicazione», dicono. «Il suo lavoro non è stato adeguatamente comunicato, lasciando che molte delle sue azioni passassero inosservate». E poi citano alcuni esempi, come l’impegno di Acquaroli in ambito agricolo, soprattutto per la promozione del biologico. O sulle infrastrutture: «Nei giorni scorsi – ci spiegano – è stato inaugurato un ponte da quattro milioni e rotti» nel fermano «ma nessuno sembra saperlo». Insomma sebbene il presidente sia sempre presente – «C’è sempre, dall’impegno istituzionale alla fiera del tagliolino di Campofilone» – le critiche si sono fatte sentire, soprattutto su tre temi: la gestione della sanità, la ricostruzione delle zone colpite dal terremoto del 2016 e la crescita produttiva. La parte economica ha il suo discreto peso. Ci sono state le crisi di alcune storiche realtà industriali come Beko, l’ex Merloni e i poli produttivi di Fabriano e in generale i dati segnalano la crisi di un regione che invece è sempre stata forte dal punto di vista produttivo.
I dubbi del centrodestra
Senza fargliene una colpa – almeno esplicitamente – a destra i dubbi sull
possibilità di Acquaroli di vincere le elezioni regionali sono più di una maldicenza. Gli alleati di FdI sono però elettoralmente troppo deboli per rivendicare alternative al partito della premier che sul territorio nazionale lamenta di avere pochi candidati governatori (il tema Veneto non è stato ancora sciolto) e dunque si va avanti, sapendo che la partita sarà difficile. Per attutire l’impatto di una eventuale elezione di Ricci, l’ipotesi del voto a settembre sembra essere l’unica soluzione. Tanto più mentre Veneto e Campania sembrano orientarsi verso novembre (il termine massimo è il 23 novembre). Una convocazione delle urne il 21 settembre, mentre la politica nazionale riprende il ritmo post estivo e le scuole hanno aperto da poco, potrebbe allontanare i riflettori.
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
“LE ALLEANZE SI FANNO CON I DIVERSI”
Il governo Meloni non è stabile ma immobile. E le elezioni del 2027 saranno un
referendum sulla premier. Per questo l’opposizione deve unirsi. Parola di Matteo Renzi, che rilascia oggi una lunga intervista al Foglio. «Ho lavorato nel
palazzo di Niccolò Machiavelli per cinque anni, forse ho appreso qualcosa. Il punto è questo. Con il sistema elettorale che abbiamo in Italia le elezioni del 2027 saranno un referendum su Giorgia Meloni. E Meloni sa così bene che può perderlo che sta pensando di cambiare la legge elettorale. Di qua odi là: per vincere l’opposizione deve andare unita. Dico male? Io non mi alleo in politica solo con le persone che mi piacciono, le alleanze si fanno con i diversi e per raggiungere obiettivi», dice il leader di Italia Viva.
Le elezioni
«Quando Salvini in mutande chiedeva i pieni poteri io ho fatto l’accordo con Conte, perché in quel momento l’obiettivo era bloccare un governo che voleva i pieni poteri. Quando si è trattato di portare Draghi al Governo ho mandato a casa Conte, e tanti di quelli che oggi parlano male di Conte allora erano i suoi fedelissimi. Lezioni di coerenza da gente che ha detto tutto e il contrario di tutto non ne prendo. Sono pragmatico. Il 2027 è un referendum su Meloni, che a quel punto governerà da cinque anni», sostiene. Alla premier Renzi riconosce «una dose di spregiudicata abilità comunicativa e politica, ripete solo i numeri che le fanno gioco, è la più avanti di tutti. E ha capito che se noi ci si mette tutti insieme, le elezioni lei le perde, non vince un collegio da Firenze in giù».
(da agenzie)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA DEL “CORRIERE”
L’industria dell’automobile occupa 9 milioni di lavoratori, più un incalcolabile indotto di fornitori e subfornitori. Su questo settore, già in crisi di suo, il presidente Donald Trump a fine marzo ha sganciato i dazi: più 25% su tutti i veicoli importati, ovvero circa la metà dei 16 milioni di auto vendute ogni anno negli Stati Uniti. Questo significa che i clienti statunitensi pagheranno le vetture straniere il 25% in più e, quindi, che quelle nazionali diventeranno più convenienti? E che nulla cambia per i clienti europei che acquistano un’auto prodotta in Europa, in Asia o in Messico? No, perché i dazi si applicano anche sull’import dei componenti. Tasse che alla fine graveranno in un modo o nell’altro su tutte le vetture: americane, europee, asiatiche. Vediamo come.
Sotto il marchio Fiat, Volkswagen, Ford, un’automobile contiene circa 20 mila pezzi: viti, valvole, molle, guarnizioni, batterie, lampadine. Provengono da decine di Paesi e a fabbricarli sono oltre 18 mila aziende sparse nel mondo.
Prendiamo, per esempio, il marchio americano per eccellenza e il modello che per 42 anni consecutivi è stato il più venduto negli Stati Uniti: il pick-up Ford F-150. Un’icona del vivere americano da due tonnellate e mezzo di peso e 430 cavalli di potenza. Sotto la carrozzeria solo il 45% è di origine americana. Il resto, ha stimato un’analisi di Caresoft per il Wall Street Journal, è un miscuglio di componenti originari di almeno 23 Paesi: i semiassi arrivano dal Canada, i cerchioni dal Messico, gli pneumatici dalla Corea del Sud, i sedili dalla Germania, i tubi dalla Romania e così via. Oltre a migliaia di altri componenti. Su ognuno di questi pezzi importati Ford pagherà un dazio che poi scaricherà in larga parte sugli acquirenti. Lo stesso meccanismo riguarda tutti i marchi americani e, alla fine, comporterà un aumento dei prezzi delle auto stimato fra i 3000 e 20 mila dollari, a seconda dei modelli.
Non solo Usa
Il problema non riguarda, però, solo i gruppi e i clienti americani. L’effetto dei dazi di Trump si farà sentire anche fuori confine perché la filiera dell’auto è inestricabile. Bmw, per esempio, produce gran parte dei modelli della serie X, destinati al mercato europeo, proprio negli Stati Uniti, mentre Mercedes fabbrica il suv Eqs soltanto in Alabama. Vuol dire che pagherà dazi indiretti anche l’acquirente europeo di questi modelli tedeschi.
La filiera globale dei componenti è talmente intricata che è quasi impossibile da
ricostruire.
Il viaggio di una centralina
La filiera globale dei componenti è talmente intricata che è quasi impossibile da ricostruire. Spesso questi pezzi fanno più volte avanti e indietro da un Paese all’altro per affrontare i processi di lavorazione che precedono l’assemblaggio finale in una delle fabbriche del costruttore. Da qui le vetture finite arrivano nei concessionari di tutto il mondo. Per esempio, l’Italia acquista dagli Usa centraline elettriche che hanno già subito due dazi perché contengono un microchip proveniente da Taiwan e sono imballate in un guscio fabbricato in Messico. Queste centraline vanno allo stabilimento VM di Cento (Ferrara) dove sono inserite su un motore che è poi spedito nel centro ricambi Mopar di Toluca, in Messico. Qui il motore viene montato su una Jeep che finirà sul mercato americano dopo aver subito un altro dazio del 25%. Tutti questi passaggi si scontreranno non solo contro il muro doganale eretto da Trump, ma rischiano anche di dover fare i conti con le contromisure adottate dai Paesi colpiti. Il Canada ha annunciato dazi del 25% sulle vetture provenienti dagli Stati Uniti, mentre l’Unione europea ha approntato un pacchetto di ritorsioni su 95 miliardi di merci americane, incluse le auto e i loro componenti. Questa guerra commerciale minaccia di far esplodere i costi dell’industria dell’auto che solo in Italia impiega oltre 260 mila dipendenti, esporta negli Usa veicoli per
3,4 miliardi di euro e componenti per 1,3 miliardi.
Gli esentati
I costruttori hanno perciò premuto disperatamente sulla Casa Bianca per ottenere una rimodulazione dei dazi. A parte la Cina, che subisce una tassa del 147% sulle vetture elettriche (in parte eredità dell’era Biden) e del 72,5% sulle altre auto, Trump ha concesso ai costruttori un’esenzione temporanea. Per evitare il dazio del 25% sulle vetture e le loro parti provenienti da Paesi esteri, tutti i veicoli devono essere costruiti per almeno il 75% del loro valore nel triangolo Usa-Messico-Canada. È poi stato aggiunto un complesso meccanismo di detrazione di durata biennale che, in sostanza, consentirà nel 2025 di annullare il dazio per le auto con almeno l’85% di contenuto Made in Usa e del 90% nel 2026.
Full made in Usa? Zero
Quante vetture possono usufruirne? Zero. Stando ai dati comunicati dagli stessi costruttori alla motorizzazione, oggi nessuno dei 549 modelli venduti negli Usa raggiunge la soglia per azzerare il dazio con lo «sconto Trump». Circa due terzi (351) hanno un contenuto nordamericano inferiore al 10%, e 183 non ospitano neanche un bullone patriottico. Fra queste figurano non solo auto di case straniere come Toyota, Volvo, Mercedes, Bmw, ma anche vetture american sounding come la Lincoln Nautilus di Ford e Chevy Trailblazer (fatte
rispettivamente per l’87% in Cina e per il 52% in Corea) e la Dodge Hornet di Stellantis (prodotta per il 56% in Italia). Il modello che si avvicina di più ai desiderata della Casa Bianca non ha un marchio a stelle e strisce ma sudcoreano: la Kia EV6 si rifornisce per l’80% dei suoi componenti in Nordamerica ed è assemblata a West Point, in Georgia. Seguono il pick-up Ridgeline della giapponese Honda e la Model 3 di Tesla, entrambe con il 75%.
Dove assemblano i grandi marchi
Va ricordato che i carmaker di Detroit, a seguito del trattato di libero scambio con Canada e Messico siglato nel 1992 da George H. W. Bush e rinegoziato da Trump nel 2020, hanno spostato una parte significativa della loro produzione nei due Paesi confinanti. Stellantis, per esempio, assembla in Messico e Canada il 56% delle auto destinate al mercato americano, mentre General Motors solo il 25% ma ne importa il 15% dalle sue fabbriche in Giappone. Ford è nella posizione migliore dal momento che assembla negli Usa l’80% dei veicoli per il mercato americano. Se si guarda sotto la carrozzeria, tuttavia, si scopre tutto un altro mondo. Stellantis, Ford e GM si procurano dall’estero rispettivamente il 50, il 60 e il 65% dei componenti utilizzati nelle vetture esposte nelle concessionarie statunitensi. Il muro commerciale eretto da Trump sta già creando effetti dirompenti su questa filiera senza confini. A rischio c’è anzitutto la continuità produttiva. Dichiara l’amministratore delegato di Ford, Jim Farley:
«Anche volendo, non possiamo comprare negli Stati Uniti viti, rondelle e tappetini, semplicemente perché non sono disponibili». Intanto Stellantis ha bloccato i lavori negli impianti di Toluca in Messico e di Windsor in Canada. Data la natura interconnessa della filiera, però, lo stop ha avuto conseguenze a cascata anche negli Stati Uniti: il gruppo ha annunciato esuberi temporanei di dipendenti in alcune fabbriche in Indiana e Michigan che riforniscono gli stabilimenti di Windsor e Toluca dei componenti necessari al loro lavoro di assemblaggio finale.
I costi finali
I costruttori hanno anche calcolato i costi cumulativi imposti dalla gimkana doganale di Trump: quest’anno Ford ha preventivato un aumento delle spese di 2,5 miliardi di dollari e GM addirittura di 5 miliardi. Stellantis ha invece detto al mercato di non essere in grado di stimare al momento come chiuderà il bilancio 2025, proprio a causa dell’incertezza sui dazi. Le imprese tenteranno certamente di ridurre questo incremento spremendo i loro fornitori che, spesso, già operano al limite della profittabilità. Il grosso invece si scaricherà sul prezzo delle auto. Di quanto? Le stime oscillano alla velocità degli annunci e delle retromarce del presidente repubblicano e delle contromisure adottate dai costruttori. Quel che è certo è che, fra pandemia, crisi dei chip e inflazione, negli Stati Uniti il prezzo medio delle vetture è già passato dai 31 mila dollari
del 2019 ai 48 mila del 2024. E che il nuovo rialzo dei listini colpirà soprattutto le auto più economiche, dal momento che l’80% di quelle al di sotto dei 30 mila dollari è di importazione.
L’agenzia di rating S&P ha perciò ridotto le stime di immatricolazioni negli Usa rispetto alle previsioni pre-dazi: meno 700 mila unità per il 2025, meno 1,2 milioni per il 2026 e meno 930 mila per il 2027. Dinanzi al tracollo del mercato, le case stanno diminuendo anche i volumi produttivi per evitare di trovarsi i piazzali pieni di auto invendute: quest’anno le fabbriche nordamericane sforneranno circa 1,3 milioni di veicoli in meno rispetto al 2024. Per trovare un taglio simile, conclude l’agenzia, bisogna tornare ai lockdown pandemici del 2020 o alla grande crisi finanziaria del 2008.
La paralisi
Tutto questo perché l’obiettivo di Trump è quello di spezzare la più globalizzata filiera produttiva al mondo, per riportare la manifattura a stelle e strisce ai fasti di un tempo. La posizione dei produttori è chiara: per costruire un nuovo impianto ci vuole tempo (2-3 anni) e molto denaro e, quindi, certezze sul lungo termine. Certezze che la Casa Bianca non garantisce perché cambia idea ogni giorno. C’è un problema di manodopera, anche specializzata, che al momento non c’è. Un problema di materie prime: quand’anche i cerchioni li costruiamo negli Usa bisogna comunque importare l’alluminio dal Canada sul quale si
pagherà dazio; come si pagherà sui microchip, che vengono da Taiwan e Sud Corea, e pure sulla gomma per pneumatici e accessori, che è tutta di importazione. Infine: ha senso aumentare la capacità produttiva negli Usa se poi quei veicoli non potranno esser esportati in altri mercati senza incorrere in pesanti dazi ritorsivi? In questa instabilità generale tutta l’industria dell’automotive nordamericana ed europea è paralizzata. A vantaggio del grande competitor, la Cina, che continua a sfornare nuovi modelli e tecnologia.
Francesco Bertolino e Milena Gabanelli
(da corriere.it)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
“LA LORO GUERRA E’ FERTILIZZANTE DEL TERRENO DEGLI AFFARI”
Erri De Luca, sembra che il mondo si sia stancato di scandalizzarsi. I potenti abusano
del potere in modo così sfacciato da ritenere esclusa ogni minima dose di vergogna.
La mutazione genetica prosegue: il politico ambisce a governare per accrescere la sua fortuna personale. Quello che un tempo era definito conflitto di interessi tra la funzione pubblica e l’interesse privato oggi è diventata prassi lecita. Un presidente può avvisare i suoi amici di intervenire in borsa conoscendo in anticipo decisioni che influenzano il mercato. Dunque ci siamo, prendiamone atto che alle pubbliche autorità è consentito agire per il tornaconto personale.
L’età trumpiana ha come rotto gli argini e ogni residua forma di etica pubblica è stata divelta. Il predecessore di Trump alla Casa Bianca, Joe Biden, poco prima di andarsene ha firmato la grazia in favore di suo figlio Hunter. Il conflitto di
interessi, negli Usa come in Europa, è così legittimato che nessuno ha in mente di perderci tempo. È divenuto tema di assonnati dibattiti giornalistici, roba da amatori e nulla più.
Quando lo scandalo non comporta conseguenze penali o di discredito per le autorità coinvolte, ecco che la notizia si trasforma in pubblicità del comportamento illecito istigando la società a comportarsi di conseguenza. È una mutazione iniziata in Italia con la carica di primo ministro occupata a lungo dall’imprenditore che faceva prosperare le sue reti grazie al suo governo. Conseguenza è che si trasforma il consiglio dei ministri in consiglio di amministrazione di una ditta.
Il presidente degli Stati Uniti infatti accetta in dono dal Qatar un aereo del valore di 400 milioni di dollari. Sarà addobbato con gli stemmi presidenziali e al termine del mandato sarà consegnato al tycoon per le sue trasferte private. Eravamo abituati alle corruttele e agli affari dei dittatori africani, ma qui il limite sembra superato.
C’è l’usanza dei doni di Stato scambiati tra i capi delle Nazioni. Vanno a finire in bacheca e non a disposizione del titolare in carica. Ma la mutazione genetica della politica fa in modo che anche un dono di Stato diventi proprietà privata del titolare di turno.
Al confronto il conflitto di Berlusconi nella piccola Italia appare decisamente minore e straordinaria – rispetto al silenzio di oggi – la mobilitazione civile e politica della nostra società. Lei però non condivide, mi pare.
Lui fu il precursore e l’Italia un laboratorio di trasformazione dello Stato in azienda, con la riduzione del cittadino a cliente. L’opposizione a questa deriva fu delegata alla magistratura, più che all’insorgere di un antagonismo sociale. Effetto fu che le innumerevoli sedi giudiziarie e le condanne non riuscirono a rovesciare il consenso dell’opinione pubblica, che continuò a votare a oltranza per il partito politico dell’imprenditore.
Accettiamo ogni immoralità in nome del bene supremo della pace che solo Trump e la sfilza di autocrati che governano gli Stati più potenti (la Cina, la Russia, l’India formano con gli Usa il quartetto avanzato delle potenze mondiali) sono in grado di decidere. Il negoziatore della possibile pace in Ucraina è il turco Erdogan, che – per dire – ha appena fatto arrestare il capo dell’opposizione al suo regime.
Intendono la guerra un fertilizzante del terreno degli affari. Quando ritengono mature le condizioni per avviarli cercano di normalizzare la piazza, invocando la pace. Ma le guerre hanno una loro forza d’inerzia autodistruttiva che non può essere ridotta a mercatino. Trump con le sue prospettive di proprietà privata scorrazza dalle pretese sulla Groenlandia, al Canale di Panama, alle terre rare dell’Ucraina al turismo d’élite sulla striscia di Gaza. Con lui gli Stati Uniti
sperimentano una nuova impotenza su scala mondiale.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 19th, 2025 Riccardo Fucile
MOBILITAZIONE IN TUTTA ITALIA CONTRO L’OSCURAMENTO DEI QUESITI E L’ASTENSIONISMO
La segretaria del Pd Elly Schlein partecipa questa mattina al presidio Rai a Roma in via Teulada 66, nell’ambito della giornata di mobilitazione “Spegniamo TeleMeloni, accendiamo la democrazia” indetta dal Partito democratico davanti alle sedi regionali della Rai per protestare, spiega una nota del Pd, “contro il black out informativo in corso sui referendum che si svolgeranno l’8 e 9 giugno prossimi”.Oggi giornata di mobilitazione in tutta Italia: a Roma alle 17 prevista maratona contro l’astensionismo della Cgil ai giardini di Piazza Vittorio, insieme alla segretaria del Pd e al sindaco di Roma Roberto Gualtieri e a tante altre personalità. A Torino dalle 17 in piazza Castello, si terrà un’iniziativa pubblica a sostegno della partecipazione popolare ai referendum.
(da agenzie)
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