ALTRO CHE RISARCIMENTO PER RUBY: E SE CHIEDESSIMO NOI I DANNI A BERLUSCONI ?
I FEDELISSIMI DELL’EX CAVALIERE DICONO CHE DOPO L’ASSOLUZIONE È ORA DELL’INDENNIZZO, MA SONO GLI ITALIANI CHE DOVREBBERO CHIEDERE CONTO DEL DISASTRO BERLUSCONIANO
Adesso vorrebbe anche i danni.
Dopo la sentenza di Cassazione che lo ha assolto per il caso Ruby, Silvio Berlusconi sogna risarcimenti. Almeno simbolici.
Intorno a lui, però, c’è chi si sbilancia a chiedere anche indennizzi economici: “Assolto. E ancora assolto. Ma chi lo risarcisce della sofferenza e dei danni politici di questi anni? #aspettandolacorte europea”, ha scritto per esempio su Twitter la senatrice di Forza Italia Anna Maria Bernini.
Su Libero Franco Bechis si avventura in un calcolo spericolato: “Il Bunga Bunga ci è costato 500 miliardi di euro”, nel senso che la caduta di Berlusconi nel 2011, frutto anche ma non solo delle sue difficoltà dovute alle inchieste giudiziarie, ha fatto sprofondare il Paese in un disastro di disoccupazione e conti pubblici fuori controllo: “È un fatto che l’Italia del bunga-bunga fosse una sorta di Eldorado rispetto a quella oggi capitanata da Matteo Renzi”.
La disoccupazione era più bassa, idem il debito pubblico, c’erano stati meno tagli.
Un classico ragionamento post hoc ergo propter hoc, visto che i peggioramenti sono arrivati dopo sono da attribuire all’assenza dell’ex Cavaliere da Palazzo Chigi (e non, per esempio, all’effetto delle sue politiche e alle misure che i successori hanno dovuto adottare per tamponarne le conseguenze).
È pericoloso cominciare il gioco dei numeri, perchè si può scoprire che se si iniziasse un contenzioso civile “popolo italiano vs Silvio Berlusconi”, l’ex premier rischierebbe di dover pagare un conto molto più alto a quello imposto dal suo divorzio da Veronica Lario.
Il costo dello spread: 28 miliardi
Partiamo dalla fine: quando Silvio Berlusconi si dimette da presidente del Consiglio, il 12 novembre 2011, lo spread batte ogni giorno nuovi record.
Il 9 novembre era arrivato a 575 punti base che, tradotto, significa che i titoli di Stato italiani con scadenza decennale scambiati sul mercato erano più costosi del 5,75 per cento rispetto a quelli tedeschi.
Colpa dell’aumento di sfiducia degli investitori nella capacità dell’Italia — e del suo rissoso governo di allora — di sopravvivere alla crisi dell’euro o effetto di un “complotto dello spread”, come lo chiama Renato Brunetta?
I fatti a sostegno della prima risposta sono tanti. Ma il conto finale è comunque da pagare: secondo le stime de La-voce.info (fatte a febbraio 2013), se l’Italia avesse continuato a emettere debito pubblico ai costi precedenti alla crisi dello spread — che inizia con l’impasse tra Berlusconi e il ministro Giulio Tremonti sulla manovra estiva del 2011 — avrebbe risparmiato 28 miliardi di euro in 15 anni.
Quindi, in un’ipotetica causa di risarcimento, gli italiani potrebbero cominciare chiedendo indietro a Berlusconi quei 28 miliardi.
Il boom della spesa e il buco dell’Iva da 40 miliardi
Il Cavaliere si è sempre accreditato come un liberista nemico degli sprechi e pronto a tagliare la spesa pubblica con le cesoie.
I numeri dei suoi primi governi non sono coerenti con le promesse: nel 1994 la spesa pubblica era il 53,5 per cento del Pil, nel 1995 il 52,5.
Quando torna al potere nel 2001 era al 48 per cento, dopo cinque anni era al 48,7.
Rientra a Palazzo Chigi nel 2009 e la trova al 48,8, lascia nel 2011 che è quasi al 50.
La proporzione dipende da quanto crescono le spese ma anche da quanto cresce il Pil, e questo — soprattutto negli anni della crisi — non si può imputare tutto al centrodestra.
A Berlusconi e al suo ministro dell’Economia Giulio Tremonti si può invece ascrivere un buco vero da 40 miliardi.
Nella legge di Stabilità 2011, viene previsto un taglio delle detrazioni fiscali per per 4 miliardi nel 2012, 16 nel 2013 e 20 nel 2014 e un aumento dell’Iva ordinaria di un punto (che costa subito ai contribuenti 4,2 miliardi).
Se la riforma del fisco non si fa, scattano le clausole di salvaguardia: tagli lineari a tutte le deduzioni e detrazioni.
La riforma, ovviamente, non si è fatta (la delega fiscale è tuttora poco applicata). E per evitare il massacro tributario, i governi successivi hanno spalmato quei risparmi previsti trasformandoli, in gran parte, in aumenti dell’Iva.
Qualche taglio vero però Berlusconi lo ha fatto: sempre nella legge di Stabilità 2011, per esempio, ha ridotto i fondi per le politiche sociali, alla famiglia, alle politiche giovanili, all’infanzia, al servizio civile per oltre 400 milioni di euro in meno a disposizione delle fasce di popolazione che più hanno subito la crisi.
L’Università e la scuola hanno perso, tra 2008 e 2011, ben 10 miliardi.
Il regalo agli evasori a spese degli onesti
I contribuenti onesti poi, potrebbero chiedere indietro a Berlusconi le tasse che hanno versato al posto degli evasori condonati.
Secondo i calcoli del Sole 24 Ore, chi ha usufruito del primo scudo fiscale nel 2001-2002, per capitali da 65 miliardi ha pagato un’aliquota bassissima, il 4 per cento.
E lo Stato ha incassato 1,6 miliardi. La stessa aliquota è stata usata per i 12,4 miliardi di capitali dello scudo fiscale 2003, per un gettito di 500 milioni.
Sui 104,5 miliardi di euro emersi con lo scudo del 2009-2010 è stata pagata un’aliquota tra il 5,6 al 7 per cento, con un beneficio per lo Stato di 5,6 miliardi. In cambio di pochi spiccioli, gli evasori si sono messi al riparo da future contestazioni: la lista Falciani degli italiani con i conti alla Hsbc in Svizzera serve a poco.
Tra i responsabili di un’evasione stimata di 742 milioni di euro, ben 1264 hanno usato lo scudo fiscale.
E quindi non pagheranno un euro in più, neppure ora che sta per cadere il segreto bancario in Svizzera. Berlusconi e Tremonti hanno rinunciato a incassare 32 miliardi subito e poi 500 milioni all’anno, questo il prezzo di non aver imposto il rientro dei capitali svizzeri prima dei condoni. Gli affari suoi hanno congelato il capitalismo
Oltre ai danni causati, ci sono i benefici che Berlusconi ha ottenuto, che potrebbero essere oggetto di un’ipotetica causa risarcitoria.
Il bilancio 1994 fotografa la Rai all’inizio del ventennio berlusconiano. I ricavi sono 2 miliardi circa, di cui 1,13 miliardi di canone e 671 milioni di pubblicità , il 34 per cento del totale.
Nel 2001, al termine dei cinque anni di governo dell’Ulivo, la Rai sta molto meglio.
I ricavi totali sono saliti a 2,7 miliardi, di cui 1,35 provenienti dal canone e 1,128 dalla pubblicità , che è cresciuta dunque del 70 per cento ed è arrivata al 40 per cento delle risorse totali a disposizione della tv pubblica.
Nel 2013, ultimo bilancio disponibile, i ricavi totali Rai sono fermi a 2,7 miliardi, come dodici anni prima, ma il canone è salito a 1,755 miliardi e la pubblicità è scesa a 682 milioni, più o meno come nel ’94, e vale solo il 25 per cento del fatturato. In pratica, con l’efficace sistema di tutela degli interessi Mediaset, Berlusconi ha portato i telespettatori a pagare ogni anno 400 milioni in più di canone per compensare lo spostamento della pubblicità dalle reti pubbliche alle sue.
Negli anni si è sommato un regalo da alcuni miliardi di euro che B. si è fatto fare dai contribuenti, in particolare da quelli a lui più cari che non evadono il canone e altre tasse. L’influenza del sistema politico berlusconiano sul sistema delle grandi imprese è stato efficacissimo e dannosissimo quando c’erano in gioco i suoi interessi personali.
Oppure quando ha potuto esercitare direttamente il potere sulle aziende pubbliche.
A lui il Paese deve il rilancio di Paolo Scaroni, beccato in Mani Pulite per tangenti all’Enel, risuscitato da B. nel 2002 ovviamente come amministratore delegato dell’Enel, e poi trasferito all’Eni dove è diventato il braccio operativo degli amichevoli rapporti tra Berlusconi e Vladimir Putin.
Culminati negli accordi pluriennali per l’acquisto del gas rivelatisi assai onerosi dopo il crollo dei prezzi petroliferi.
Molto meno efficaci, ma non meno dannosi, gli sporadici tentativi di farsi regista delle trame di potere di salotti buoni e poteri forti.
Un mondo che lo ha sempre trattato da parvenu e che più che altro lo ha usato, conquistandone facilmente l’appoggio quando c’era da combinare qualcosa facilmente traducibile in interessi personali o elettorali di B.
Nel 2001, appena vinte le elezioni, B. dà la sua benedizione al ribaltone di Telecom Italia. Lui deve punire Roberto Colaninno per aver comprato Telemontecarlo promettendo ai suoi danti causa del centrosinistra di farne la loro tv di riferimento, e volentieri appoggia la Pirelli di Marco Tronchetti Provera che approfitta dell’isolamento di Colaninno, abbandonato dagli amici bresciani di Chicco Gnutti, e lo scala.
Effetto della lungimirante mossa di politica industriale, misurabile dopo quattordici anni: agli azionisti della Pirelli l’avventura è costata almeno 3 miliardi di euro, al Paese trovarsi con una rete telefonica bisognosa di miliardi pubblici per essere rattoppata.
Il disastro di Alitalia: 4 miliardi di euro buttati
Tenuto fuori dalle trame vere del potere bancario, assiste impotente al fallito assalto al potere delle Fondazioni bancarie del suo superministro Giulio Tremonti, sconfitto nel 2003 da una sentenza della Corte costituzionale che formalizza il potere di un’accolita di privati cittadini su alcune decine di miliardi che erano pubblici.
Nel 2005 si infila nelle trame dei furbetti del quartierino dando sponda al governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e al suo amico Gianpiero Fiorani, che vorrebbero scalare Antonveneta, nonchè a Stefano Ricucci che vorrebbe scalare il Corriere della Sera: tutti respinti con perdite.
Ma il vero capolavoro è il salvataggio dell’Alitalia nel 2008. Con la complicità dell’allora banchiere Corrado Passera, che oggi punta a ereditarne il ruolo di leader del centrodestra, sfila la compagnia di bandiera all’Air France che la pagherebbe bene e la regala alla cordata di Colaninno (che non è più di sinistra), mollando ai contribuenti un conto (tra perdite e cassa integrazione per sette anni agli esuberi) calcolato in almeno 4 miliardi.
Sullo sfondo il desolante panorama della distruzione dell’economia italiana, con ristoranti pieni (diceva) e fabbriche vuote.
Carlo Di Foggia, Stefano Feltri e Giorgio Meletti
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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