DE RITA: “TUTTA LA POLITICA ITALIANA E’ MOSSA DAL RANCORE”
INTERVISTA AL SOCIOLOGO: “IL RANCORE SI E’ COAGULATO INTORNO AL M5S”
Le anime belle rivolgono appelli pieni di buone intenzioni: “Ma per uscire dal rancore, l’Italia avrebbe bisogno di una carica di libido che non ha più, un desiderio di crescere e possedere, la voluttà di andare oltre se stessa”.
Fosse stato solo per l’ossessione della misurazione dei dati della realtà italiana, cinquantaquattro anni fa, Giuseppe De Rita non avrebbe fondato il Censis: “Il 6 novembre del 1963 ricevetti la lettera di licenziamento della Svimez, la società in cui ero diventato capo della sezione sociologica. Diciassette giorni dopo, ero davanti a un notaio per creare — insieme alle altre tredici persone licenziate — una società di ricerche tutta mia. Non ce l’avrei mai fatta senza un impeto erotico, quell’energia che fa volere la vita. Del resto, è quello il periodo in cui ho fatto sette figli”.
Ogni anno, da allora, De Rita ha interpretato ogni piccola trasformazione della situazione italiana, scrivendo le considerazioni generali del rapporto Censis: una serie a puntate della storia nazionale, raccontata inventando parole che sono entrate nel lessico comune (“cetomedizzazione”, “sommerso”, “localismo”, “macchie di leopardo”) e hanno funzionato come luci accese all’improvviso su paesaggi complessissimi, immagini capaci di conferire un significato fulmineo a centinaia di pagine di tabelle, numeri, grafici, curve, statistiche e che hanno realizzato il miracolo di rendere la sociologia un feuilleton popolare: “Copiai l’idea a Guido Carli. Allora, tutti i giornali pubblicavano le considerazioni del governatore della banca d’Italia. Oggi, messe una dietro l’altra, anche le mie interpretazioni dimostrano che non sono state solo un rito”.
Le parole chiave del rapporto di quest’anno sono due: ripresa e rancore.
Lei l’ha mai provato, De Rita?
Renè Girard diceva che il rancore è il lutto di ciò che non è stato. Si prova quando si anela a qualcosa e non la si ottiene: una promozione, un aumento dello stipendio, un applauso. Mi è capitato di viverlo solo una volta, quando il professor Saraceno mi disse che non avrei più lavorato alla Svimez. Giravo il mondo come esperto internazionale. Stavo diventando qualcuno. Da un giorno all’altro, vidi sbarrata la strada della mia carriera. Fu tremendo. Perdonai Saraceno solo il giorno in cui andai al suo funerale.
Nel frattempo, cosa ne fece?
Anzichè rimpiangere come era stato bello, mi buttai, con rabbia, in una nuova impresa. Volevo dimostrare di non essere uno sprovveduto, un uomo senza qualità . Si può dire che, con il rancore, fondai il Censis.
Anche l’Italia può usarlo a suo favore?
Come ogni lutto, va affrontato reagendo. Il nostro paese, dopo essere riuscito a far espandere il ceto medio, è sospeso tra l’insoddisfazione di non crescere più e il terrore di fare un passo indietro. Il successo del Movimento 5 stelle alle elezioni del 2013 lo testimonia.
È la soluzione, politicizzare il rancore?
Dal rancore occorre fuggire. Farlo diventare un’arma della politica significa coltivarlo, non smuovendo la realtà di un millimetro. Politicamente, il rancore degli ultimi dieci anni si è coagulato intorno ai 5 stelle. Ma, in realtà , tutta la politica italiana è mossa dal rancore.
Cioè?
La Lega era nata per fare la secessione e non è riuscita a realizzarla. È questo il suo lutto di ciò che non è stato. Un rancore che la muove anche oggi che è diventata sovranista e ha elevato Marine Le Pen a modello.
E il centrosinistra?
La cultura cattolica e la cultura comunista hanno fatto diventare gli operai e i contadini di un tempo impiegati pubblici, insegnanti, pensionati. Quando però il meccanismo si è bloccato, anzichè avere il coraggio di cambiare gioco, sono rimasti lì a coltivare quei ceti di riferimento, senza nemmeno provare a elaborare il lutto.
Berlusconi, invece?
Doveva fare la rivoluzione liberale e ha fallito. Tuttavia, egli è l’unico che non è rimasto bloccato di fronte al lutto. Semplicemente, se ne frega di superarlo. Ha la sovranità dell’innocenza, benchè tanto innocente non sia.
Che pensa di internet?
Che ha reso incontrollabile l’espressione del rancore. Lo dico pur riconoscendo che se avessi dieci anni in meno mi precipiterei a capire come moltiplicarne le potenzialità . Non avendo più l’età , invece, noto che chiunque può scrivere su Facebook: “De Rita è un figlio di puttana”. Qualcun altro dirà : “Mi piace”. I social network sono il regno dello sputtanamento. Il cantico del rancore.
Vede vie d’uscita?
Mi sembra difficile che alle prossime elezioni si individui una strada che ci conduca fuori di qui. Credo, però, che considerare la velocità essenziale alla nostra società sia un grande errore. Per elaborare il lutto, è necessario del tempo. Invece, twittiamo in continuazione. Minuto per minuto. È come per la confessione: per la buona riuscita è necessario, prima, un esame di coscienza.
Da cosa dovremmo farci assolvere?
I buoni confessori ti spingono ad andare oltre ciò che ti ha fatto peccare. Nel tempo dei social network, invece, siamo tutti impantanati dentro noi stessi, e nessuna sollecitazione esterna ha la legittimità di venirci a smuovere di lì. Non serve a niente l’appello del presidente della repubblica, nè quello del capo della Cei. Servirebbe l’energia che ti spinge a non dormire cinque notti di fila per scrivere un testo. Quella che ti fa mettere su un’impresa nuova. Cercare una donna. Un nuovo amore. In una parola: la vitalità . La nostra è una società vecchia. Una società che ha avuto un enorme calo del desiderio.
C’è un viagra che possiamo usare?
La supplenza della chimica è niente rispetto a quello che veramente servirebbe: un rinascimento della passione, un ritorno del desiderio folle di crescere, qualcosa di emotivamente travolgente. Sputtanare sui social network, invece, ti fa passare la voglia di andare a puttane, come ti fa passare qualsiasi altra voglia.
Le disuguaglianze giustificano la rabbia?
Lo sviluppo, insegnava Hirschman negli anni cinquanta, è uno squilibrio continuato. La ricostruzione, il miracolo economico, l’emigrazione, il consumismo e la reazione al consumismo, cioè il 68: la storia degli ultimi settant’anni è tutta squilibrata. Eppure, questo paese è andato avanti.
Lei da dove è partito?
Sono cresciuto ai giardinetti di San Giovanni, a Roma. I miei amici si chiamavano Scoparo, Bucalice, Amleto Figa Lunga. Ci rubavamo le donne. Ci picchiavamo. Tornavamo a giocare a pallone insieme. A dieci anni avevamo conosciuto la guerra. A dodici la paura fottuta dei tedeschi. A quattordici tutti a fare la comparsa a Cinecittà . Ogni frase, una parolaccia. Va a mori’ ammazzato. Fio de ‘na mignotta. La vita brulicava. I miei dicevano con orgoglio: “Siamo ceto medio”. Io, però, sono cresciuto come un popolano, in strada. Quando ho conosciuto mia moglie, sono diventato borghese. È lei che mi ha insegnato il valore della rispettabilità , il tono del comportamento, l’ordine come stile di vita.
Va ancora a messa?
Ogni domenica.
Come fa un uomo così razionale a essere così fedele?
Sono stato educato dai gesuiti e da rosminiani. Mi hanno insegnato a coltivare la fede e la ragione, l’una insieme all’altra. Perchè la fede senza ragione diventa semplice devozione.
Ha amato Ratzinger?
È il papa che ha beatificato Rosmini, che ha coltivato il rapporto tra fede e ragione, ma non ha saputo amministrare la Chiesa. Il grande papa, per me, non è stato lui. Nè lo è stato Giovanni Paolo II. È stato Pio VI, grande organizzatore dell’Istituzione e autore della più grande enciclica del secolo scorso: “Populorum progressio”.
Per lei, è più importante Cristo o la Chiesa?
La Chiesa. Nessuna istituzione vive due millenni se si fonda su una sola persona. La Chiesa è fatta di tantissimi uomini venuti dopo Cristo. Pietro, Paolo, Giovanni. E tutti i santi, i grandi papi come Giovanni XXIII, il pontefice della mia giovinezza. Certo, la chiesa è stata puttaniera, corrotta, disgraziata, contestata. Ma è arrivata fino a noi. Un profeta, da solo, non ce l’avrebbe mai fatta.
Le hanno rimproverato che — dopo aver denunciato i vizi italiani per anni — si è comportato in maniera familistica, facendo diventare suo figlio Giorgio segretario generale del Censis. Si è pentito?
Il Censis è una società privata e non è tenuto a osservare il principio dei concorsi pubblici. Tuttavia, anche se lo avessimo fatto, non avremmo trovato nessuno con il profilo di mio figlio. Ho ritenuto che quella fosse la scelta giusta da fare e l’ho fatta. Chi se ne frega se qualche giornalista ha avuto da ridire. Credo di aver fatto bene. E i risultati sono lì a dimostrarlo.
(da “Huffingtonpost”)
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