IL PRIMO GIORNO DA CANDIDATO PREMIER
A PESCARA DI MAIO MOSTRA LUCI E OMBRE
“Presidente, presidente, presidente”. L’arrivo di Luigi Di Maio a Pescara, dove i suoi sono riuniti da tre giorni in lunghe sessioni di seminari e approfondimenti, è trionfale. Lo staff e la comunicazione hanno studiato tutto nel dettaglio.
La sua totale assenza nelle 72 ore che precedono il gran momento crea un’attesa spasmodica. Era stata presentata come una conferenza stampa, ma quella che va in scena al centro congressi dell’Aurum è una cavalcata trionfale dove le domande lasciano il posto a una lunga e fragorosa teoria di applausi (se ne sono contati più di cinquanta in un’ora e mezza).
La sala ad anfiteatro che porta il nome del vate D’Annunzio è stracolma. Gli aspiranti candidati si mescolano ai semplici attivisti, i deputati ai giornalisti.
Manlio Di Stefano e la moglie, insieme alla deputata Maria Edera Spadoni, finiscono addirittura dietro la batteria di telecamere che punta al nuovo capo politico del Movimento.
In prima fila e ai lati del palco lo stato maggiore al gran completo. C’è Davide Casaleggio, un muro con la stampa per tutti e tre i giorni dell’evento fatto salvo una scarna dichiarazione precompilata. Ci sono Rocco Casalino, vera e propria ombra di Di Maio, e Ilaria Loquenzi, a capo dello staff della Camera che ha curato nel minimo dettaglio la kermesse. In piedi Pietro Dettori, anima di Rousseau, poi il fedelissimo Max Bugani, la cui intelligenza politica è riconosciuta nell’inner circle che circonda Di Maio. E dietro ancora un lungo cordone di deputati a cornice della consigliera comunale Enrica Sabatini, vera padrona di casa.
Non c’è Beppe Grillo. Fatta salva una foto nel foyer che funge da sala stampa, il co-fondatore del Movimento è una sorta di convitato di pietra.
Non si è visto, non si è sentito, anche fosse per un collegamento video nel momento dell’incoronazione del capo politico. Di Maio lo cita. Ma lo fa in modo obliquo. Dice che è “fondamentale”.
Parla di lui al passato: “C’è stato un tempo in cui un solo uomo poteva riunire un numero così grande di persone. Adesso siamo in tanti”. Un solo sostantivo ad accompagnare l’omaggio un po’ sghembo. Non è fondatore, non è capo politico, non è garante, non è guida. “Megafono”. Solo e soltanto megafono.
L’età della maturazione del Movimento avanza galoppando. Un’epoca nuova, che vive sul crinale del rischio di scivolare in una personalizzazione potabile fino alle urne, ma che l’istante dopo potrebbe avere esiti imprevedibili.
Di Maio illustra i 20 punti del programma stellato.
Rapidità , sintesi, sull’eloquio – fin troppo metodico – si potrebbe lavorare.
C’è studio, la mimica del corpo calibrata, sempre in piedi davanti le slide che scorrono. In basso, sulla destra dello schermo, il dettaglio che rivela un mondo nuovo: il logo “Di Maio Presidente” a siglare tutte le slide. Simbolo di una personalizzazione come mai si era vista nella sia pur breve storia 5 stelle.
Sui 20 punti Di Maio ribalta il tavolo e lancia la sfida agli altri partiti: “Perchè non siete d’accordo con le nostre proposte? Dovrete spiegarcelo”. Lo sguardo è fisso al 5 marzo, nella speranza spasmodica che il centrodestra imploda su se stesso e gli si presenti la grande occasione del governo.
Gli accenti che il frontman pone nel suo discorso sono tutti piegati a questo obiettivo. La bussola del 2013 (ambiente, energia, acqua pubblica ecc…) è relegata in secondo piano.
Sono l’economia e il fisco a fare la parte del leone. Reddito e pensioni di cittadinanza, abbattere le aliquote Irpef e dell’Irap, niente tasse ai redditi più bassi, investimenti nell’occupazione, 17 miliardi in aiuti alle famiglie, la creazione di una banca pubblica per gli investimenti.
Un immaginifico piano che poco si preoccupa delle coperture, ma che tocca i tasti giusti per bucare in campagna elettorale.
È di fatto il primo vero giorno da candidato premier del vicepresidente della Camera. Quello della sua incoronazione. Una cavalcata trionfale che pur non può mascherare del tutto qualche stonatura.
A partire dalla difficoltà di arruolare nomi di peso per i collegi uninominali. Gli unici che presenta sono quelli di cui si è saputo negli scorsi giorni. Salgono accanto a lui Emilio Carelli, Gregorio De Falco, Elio Lannutti e Vincenzo Zoccano, si collega telefonicamente Gianluigi Paragone. Un po’ poco per non essere solo un contorno quando invece doveva essere la novità per sparigliare il campo.
Ciò nasconde l’altra inaspettata novità negativa: un problema di genere. Della difficoltà a compilare le liste su questo versante si è detto. Ma anche i volti nuovi sono tutti declinati al maschile, tanto che Di Maio è costretto a chiamare accanto a sè anche tre parlamentari uscenti, Laura Castelli, Paola Taverna e Giulia Grillo (in rappresentanza di nord, centro e sud del paese) per cercare di tamponare l’idea di un Movimento “troppo maschile” e suscitando non poche invidie e qualche veleno tra le colleghe.
Il candidato premier spiega che presenterà “persone che faranno tremare le vene ai polsi dei partiti”. Ma che su questo versante le aspettative siano state disattese, almeno in parte, è una convinzione che serpeggia anche in buona parte del gruppo parlamentare uscente.
Dettagli. Perchè l’amore fideistico che il loro popolo riversa nei confronti dei suoi frontrunner è la vera forza e la vera differenza qualitativa dei 5 stelle, il vero punto di cesura con gli altri partiti. Un popolo definito fino a oggi, con un po’ di ironia, come “grillino”.
Chissà se dovremo abituarci a chiamarlo “dimaiano”.
(da “Huffingtonpost”)
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