IL RISCHIO UE CHE SPAVENTA IL MONDO
L’ANALISI DI BILL EMMOT, EX DIRETTORE DELL’ECONOMIST: GLI INVESTITORI E IL FATTORE RISCHIO
Noi qui nell’emisfero settentrionale stiamo per iniziare le nostre vacanze estive in uno stato d’animo cupo, in parte perchè alla nostra malinconia si sono unite alcune delle economie emergenti del Sud del mondo.
Ma la parola più importante da tenere a mente, quella che sta davvero determinando gli atteggiamenti dei mercati finanziari e anche delle gestioni aziendali, non è tristezza.
È rischio.
Se si dovessero guardare solo le previsioni economiche appena riviste, pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale la scorsa settimana, si vedrebbe solo buio.
L’Fmi ha tagliato la sua stima di crescita economica globale nel 2012 al 3,5%, grazie al rallentamento della crescita in Cina, India e Brasile, ma anche grazie alla recessione dell’euro-zona.
Il Fmi quest’anno prevede un calo del Pil della zona euro dello 0,3%, che scende a un preoccupante 1,9% in Italia e 1,5% in Spagna.
Questi dati seguono la crescita mondiale del 5,3% nel 2010 e del 3,9% nel 2011, così è chiaro che la tendenza è tristemente al ribasso.
Gli Stati Uniti sembrano relativamente in salute con previsioni di crescita del 2% per quest’anno, due volte di più della Germania (e dieci volte di più dello stagnante 0,2% della Gran Bretagna).
Ma anche con questi numeri la crescita è troppo lenta per avere molto impatto sulla disoccupazione tanto più che la popolazione degli Stati Uniti e la sua forza lavoro sono in crescita.
Eppure questo genere di numeri mi riporta indietro nel tempo.
Durante il mio incarico come direttore di The Economist, ricordo la pubblicazione di una copertina, penso fosse nel settembre 2002, che descriveva l’economia mondiale come «in stasi», con questo volevo dire che era come una nave a vela che non si muoveva perchè c’era assenza di vento.
Ciò si basava sulle previsioni di crescita del Fmi per il 2002 — ancora più basse per il 2003. Allora cosa successe?
In realtà il mondo, tra il 2002 e il 2007, ha avuto i cinque anni di crescita economica più veloce degli ultimi 40 e passa anni.
Sarebbe bello pensare che possa accadere di nuovo, e che salti fuori che noi tutti siamo stati troppo pessimisti.
Non è impossibile: le economie emergenti sono probabilmente solo in un rallentamento temporaneo, causato dal loro sforzi per ridurre l’inflazione dei prezzi e gli Stati Uniti hanno una notevole capacità di reinventarsi, come ora stanno facendo con il boom del petrolio e del gas.
Ma siamo realisti: non è probabile.
E la ragione principale non risiede in Cina o negli Stati Uniti.
Si trova nel rischio, o piuttosto nei sentimenti che le aziende e gli investitori hanno ora circa il rischio. Anche se la guerra in Afghanistan era iniziata nel 2001 e nel 2003 stava per iniziare in Iraq, in realtà le imprese, in quei giorni non percepivano grossi rischi nella loro attività , nei loro mercati, nei loro investimenti. Mentre ora sì.
Ovviamente, gli investitori e i manager sono sempre preoccupati del rischio.
Questo è il loro lavoro. Ma la differenza, ora, è che percepiscono che la gamma dei rischi è molto più ampia, la gamma di possibili eventi drammatici è più vasta rispetto al 2002.
La rivolta araba, con la guerra civile in corso in Siria, è un esempio, soprattutto se si associa alla tensione sul programma nucleare iraniano: questo rende il prezzo dell’energia ancor più imprevedibile del solito.
Il risultato è che l’utile e ben accolta caduta dei prezzi del petrolio che si è verificata negli ultimi mesi si è parzialmente invertita.
Le preoccupazioni per l’economia cinese e la sua stabilità politica dopo lo scandalo e le accuse di omicidio contro Bo Xilai, ex sindaco della Chicago cinese, Chongqing, rientrano in una categoria simile.
E sono, a mio avviso, esagerate: la capacità del governo di sostenere la crescita attraverso la politica monetaria e fiscale rimane forte.
Ma in un momento di generale nervosismo sul rischio sembra che alcune aziende non investano perchè in allarme per il futuro della Cina.
Anche così, la più grande fonte di preoccupazione è molto più vicina a casa.
È l’Europa. Il problema non è semplicemente il fatto che i debiti governativi sono enormi, che la crescita è inesistente e che vi è un fondamentale disaccordo tra i Paesi debitori e quelli creditori su come dovrebbe essere gestito l’euro.
Certo, queste cose sono importanti.
Ma il vero problema è che la gamma dei possibili esiti sembra così ampia. Come può una società pianificare i propri investimenti tenendo conto della possibilità dell’uscita greca dall’euro?
Che percentuale di probabilità dovrebbe dare alla possibilità che altri Paesi possano lasciare l’euro, o che la moneta possa crollare del tutto?
Che cosa dovrebbero pensare le imprese delle prossime elezioni italiane, con Beppe Grillo e Silvio Berlusconi che, entrambi, riflettono ad alta voce sul fatto che l’Italia debba abbandonare l’euro?
La risposta intellettuale, o analitica, è che le probabilità dell’uscita greca sono alte ma la probabilità che lascino altri Paesi o quella di un collasso completo sono molto basse.
La possibilità che l’l’Italia lasci l’euro e vada in default è inesistente: ogni banca italiana crollerebbe immediatamente.
Ciò che si sente spesso dire in Paesi al di fuori dell’area dell’euro, in particolare in America, e cioè la scissione della valuta in due, con due diverse valute comuni, una per il Nord e l’altra per il Sud dell’Europa è, a mio avviso, praticamente inconcepibile.
Tuttavia, in questo momento la nostra difficoltà è che le risposte intellettuali e analitiche non sono sufficienti. I consigli d’amministrazione e le istituzioni finanziarie devono prendere decisioni.
Quello che stanno facendo sempre di più, in risposta a questa incertezza sull’euro, e sull’Italia, è di non investire affatto.
Si sono seduti sul loro denaro, o lo mettono, in condizioni di scarsa resa, in luoghi apparentemente sicuri, come i Bund tedeschi.
Questo processo sta diventando una profezia che si auto-avvera. La liquidità sta scivolando lontano dalle economie della zona euro e, per motivi diversi ma correlati, anche dall’economia britannica.
Gli investitori in Grecia non stanno facendo quello che farebbero normalmente dopo una crisi finanziaria, ovvero correre a caccia di buoni affari.
Pensano che in futuro i prezzi potrebbero scendere ulteriormente e che la Grecia avrà una nuova crisi.
Se c’è una cosa che i governi, soprattutto quelli europei, hanno bisogno di pensare durante le vacanze è come ridurre queste percezioni di rischio.
Come si possono convincere le aziende e gli investitori che la gamma degli esiti possibili non è così ampia come temono?
C’è disponibilità di cassa in abbondanza.
Solo, non viene spesa.
Bill Emmott
(da “La Stampa”)
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