Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
LA PRESIDENZA DELLA REGIONE NE CONTA 1.385, DOWNING STREET SI FERMA A 1.337
Esiste in Italia un ufficio pubblico dove c’è un dirigente ogni sei impiegati. 
Si trova a palazzo dei Normanni, Palermo: è la presidenza della Regione siciliana.
Ma il governatore Raffaele Lombardo sappia che non è l’unico in Europa a guidare un esercito pieno zeppo di generali.
Il premier britannico James Cameron è nelle sue stesse condizioni: anche a Downing Street ogni dirigente ha in media sei sottoposti.
Il fatto è che pure i numeri sono più o meno gli stessi. Cameron ha 198 dirigenti, Lombardo 192.
Quanto ai dipendenti il Cabinet Office, equivalente della nostra presidenza del Consiglio, ne ha 1.337: quarantotto meno dei 1.385 che la presidenza della Regione siciliana contava alla fine del 2011.
Ciò basta per immaginare quali stupefacenti risultati potrebbe dare da queste parti una seria spending review.
Afferma la relazione della Corte dei conti sul rendiconto del bilancio 2011 che la Regione siciliana ha ufficialmente 17.995 dipendenti.
Su questo numero si è a lungo polemizzato, anche a proposito di paragoni che pure in Sicilia non vengono ritenuti congrui come quello con la Lombardia, Regione che ha il doppio degli abitanti ma un quinto del personale.
Ma è una cifra che non dice ancora tutto.
Intanto perchè nel 2011, anno in cui riesplodeva la crisi economica più drammatica da un secolo a questa parte, ben 4.857 di questi dipendenti, in precedenza reclutati con contratto a termine, sono stati assunti in pianta stabile, a tempo indeterminato.
Il che, argomentano i giudici contabili, non mancherà di avere ripercussioni future sui conti regionali.
E poi perchè a quei 17.995 se ne devono aggiungere altri 717 comandati e distaccati presso altre strutture che comunque fanno capo alla Regione.
Oltre a 2.293 a tempo determinato il cui stipendio è pagato in qualche modo dall’ente. Totale: 21.005. Un totale, però, anch’esso incompleto.
Dove mettiamo, infatti i 7.291 dipendenti delle 34 società controllate o collegate alla Regione siciliana?
Se contiamo anche quelli arriviamo a 28.796.
E facciamo grazia di forestali e lavoratori socialmente utili (24.880) in forza a molti Comuni, in parte a carico della casse regionali.
Personale le cui retribuzioni sono state al centro di un durissimo scontro fra Lombardo e il commissario di governo che aveva impugnato l’ultima legge finanziaria nella quale era previsto il ricorso a un mutuo, anche per far fronte a quel problema, di 558 milioni.
Una somma che avrebbe ingigantito ancora di più il debito della Regione, già cresciuto nel 2011 di altri 818 milioni arrivando al valore record di 5,3 miliardi.
I soli dipendenti «ufficiali» assorbono 760,1 milioni, e si tratta di un costo superiore del 45,7% rispetto al 2001.
Se però calcoliamo anche gli oneri sociali, allora si arriva a un miliardo 80 milioni. Cioè poco meno della metà del costo del personale delle quindici Regioni a statuto ordinario.
Le quali hanno, tutte insieme, un numero di dirigenti pari a quello della sola Sicilia. Sono 1.836. Ce n’è uno ogni 9 impiegati, con vette di 5 o 6 in alcune strutture, come appunto la presidenza della Regione.
L’anno scorso sono entrati in posizioni di responsabilità anche diversi soggetti esterni, circostanza che ha indotto la Corte dei conti a queste considerazioni: «È poco plausibile, a fronte di oltre 1.800 dirigenti di ruolo, ritenere che non siano già disponibili idonee professionalità all’interno dell’amministrazione.
La mancata valorizzazione delle risorse interne è in definitiva la causa dei costi sostenuti per retribuire i dirigenti esterni per i cui emolumenti è previsto un tetto massimo di 250 mila euro, di gran lunga superiore alla retribuzione massima dei dirigenti generali interni».
Per non parlare dei sette «uffici speciali» istituiti, secondo i magistrati, con «motivazioni alquanto generiche» e spesso «duplicazioni di funzioni già attribuite» ad altre strutture.
Nel rapporto si cita a titolo di esempio l’ufficio speciale Energy manager, che ha funzioni del tutto analoghe a quelle del Dipartimento regionale per l’energia.
Ma se al costo del personale «ufficiale» sommiamo anche quello dei dipendenti delle società partecipate (226 milioni) e dei dipendenti pensionati, che in Sicilia sono a carico della Regione (641 milioni), allora veleggiamo di slancio verso i due miliardi.
Dal 2004 al 2011 la spesa previdenziale è cresciuta del 31%, anche a causa di alcuni privilegi assolutamente sorprendenti sopravvissuti fino allo scorso mese di gennaio e che avranno effetti a lungo, negli anni a venire.
È appena il caso di ricordare che per i dipendenti della Regione la riforma Dini, quella che ha introdotto il metodo di calcolo basato non più sulla retribuzione ma sui contributi effettivamente versati, è entrata in vigore con otto anni di ritardo: il primo gennaio 2004, anzichè il primo gennaio 1996 come per tutti i comuni mortali.
Per giunta, fino all’inizio di quest’anno potevano andare in pensione con soli 25 anni di servizio tanto quelli colpiti da disabilità , quanto coloro che avevano un genitore disabile.
Nel 2011 si sono pensionati anticipatamente perchè figli di disabili 464 dipendenti regionali, contro 297 nel 2010, 230 nel 2009, 196 nel 2008, 165 nel 2007, 125 nel 2006, 138 nel 2005 e 121 nel 2004.
Da quando, proprio nel 2004, è stata perfezionata questa disposizione, hanno avuto la baby pensione, con un crescendo rossiniano, in 1.736.
Celebre il caso di Pier Carmelo Russo, pensionato a 47 anni per assistere il padre disabile, nominato però subito dopo assessore della giunta Lombardo.
Alle polemiche, lui ha replicato: «Quando sono andato in pensione il mio stipendio era prossimo a diecimila euro ed ero segretario generale della Regione, il massimo livello della carriera burocratica. Ho preferito il mio amatissimo padre e sono orgogliosissimo di averlo fatto. Da quando faccio l’assessore non ho mai percepito un centesimo. Tutta la mia indennità (300.000 euro lordi annui) l’ho devoluta in beneficenza. Mi considero una persona oltremodo fortunata e desidero sdebitarmi con la Divina Provvidenza».
Ai posteri l’ardua sentenza.
Sempre che la Regione possa in futuro pagare anche le loro, di pensioni. Già oggi il tasso di copertura dei contributi non arriva che al 28,7%.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
LE TESTIMONIANZE RACCOLTE DALL’AGENZIA HABESHIA DA UN GRUPPO DI 76 PROFUGHI ERITREI INTERCETTATI DA DUE UNITA’ DELLA MARINA ITALIANA E LIBICA CHE AVREBBERO COSTRETTO I RICHIEDENTI ASILO A TORNARE IN LIBIA
“Un gruppo di 76 persone – riferisce l’Agenzia Habeshia, diretta da padre Moses Zerai – sono state intercettate da mezzi navali battenti bandiera Italiana e Libica.
Una delle imbarcazione porta il nome di Napoleone.
I profughi, quasi tutti Eritrei, sono certi di essere stati intercettati da un pattugliamento congiunto italia e libia.
Una volta prese le persone – prosegue il resoconto – sono state riaccompagnate nelle acque libiche, presso una piatta forma petrolifera e consegnati ai militari libici, che hanno riportato il gruppo in Libia, nel porto di Tripoli, e quindi trasferiti in un nuovo centro di detenzione, ancora in fase di costruzione, minacciati dai militari che saranno deportati verso il paese di origine”.
I respingimenti in alto mare.
“Queste 76 persone – si legge ancora nel comunicato dell’agenzia – sono tutti richiedenti asilo. Nel gruppo ci sono donne e bambini, il più piccolo ha due anni. Chiedono aiuto per scongiurare la deportazione verso il paese di origine. Con la testimonianza di queste persone che chiedono aiuto – prosegue il dispaccio – si comprende come siano in atto dei respingimenti di massa in alto mare, senza che nessuno verifichi le reali situazioni e condizioni di chi avrebbe il diritto di asilo”.
L’appello alle autorità italiane.
“Facciamo appello alle autorità italiane – conclude Zerai – in virtù dei loro accordi bilaterali con le autorità libiche, chiedano alle autorità libiche di fermare ogni intenzione di deportazione dei profughi eritrei, per non mettere in pericolo la vita di queste persone, questi richiedenti asilo che vengano consegnate immediatamente nelle mani dell’UNHCR di Tripoli.
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
ALCUNE STORIE RACCONTATE CLANDESTINAMENTE E RACCOLTE DALLA FONDAZIONE “INTEGRA/AZIONE” DI DETENUTI RINCHIUSI NELLE CARCERI LIBICHE… PROVENIENTI DALL’AFRICA SUD SAHARIANA E DAL CORNO D’AFRICA E COSTRETTI IN CONDIZIONI DISUMANI NEI CENTRI DI DETENZIONI COSTRUITI CON SOLDI PUBBLICI ITALIANI
Queste che leggete di seguito sono le storie e le testimonianze raccontate clandestinamente
al telefono, e poi trascritte, di detenuti rinchiusi nelle celle delle carceri libiche dove vengono rinchiuse le persone che fuggono dai paesi dell’Africa sud sahariana e del Corno d’Africa.
Vivono in condizioni animalesche nei centri di detenzioni (alcuni dei quali costruiti con soldi pubblici italiani) assiepati come polli da batteria, ma dove in qualche modo riescono a tenere accesi alcuni cellulari, con i quali appena possono chiamano per denunciare quanto sta loro accadendo.
Queste che seguono sono i racconti raccolti dalla Fondazione IntegrA/Azione .
Una speranza che sta svanendo
Debesay, eritreo
“Mi hanno arrestato mentre camminavo in città a Benghazi – racconta Debesay, detenuto da più di due mesi nel carcere di Ganfuda – cercavo una barca insieme ad altri ragazzi per tentare di raggiungere l’Italia dove già è rifugiata mia madre.
Qui in carcere siamo disperati, frustrati, abbiamo provato ad uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti, neanche pagando le guardie”.
Debesay è riuscito a far arrivare a un trafficante 400 dollari per corrompere i militari libici per la sua liberazione.
Un pagamento anticipato senza alcuna garanzia, “un tentativo fallito: sono ancora qui. Scappare non è possibile, se provi a evadere vieni punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce”.
Le condizioni della detenzione sono disumane, con umiliazioni e vessazioni continue da parte dei libici. “Nella cella di trenta metri quadri siamo accalcati più di 60, dormiamo per terra, non ci sono reti ma solo materassi, sporchi o stuoie sul pavimento. Ci danno da mangiare tre volte al giorno, il più delle volte pane secco e acqua. Per il resto, un’attesa infinita.
Se stai male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l’abbandono e la morte. Non so veramente che dirti – conclude Debesay – non so cosa faccio, non so che pensare, la speranza sta svanendo…”
A 17 anni nell’inferno di Ganfuda
Mogos, eritreo
Mogos viveva ad Asmara in Eritrea, è scappato dal campo di addestramento dell’esercito eritreo di Saua per non trovarsi costretto ad andare al fronte a soli 15 anni. Una fuga lunga, durissima.
Passato il confine è stato quasi due anni in Sudan, per trovare il giusto trafficante di esseri umani e reperire il denaro per riprendere il viaggio sino alle coste libiche, per tentare di raggiungere l’Italia.
Come per tutti passare il deserto è stato un’odissea.
Un lungo viaggio senza ritorno andato “male, molto male. Come ti spiego – dice Mogos al nostro mediatore culturale – tu lo sai bene, hai già passato questo deserto, abbiamo viaggiato per 12 giorni, eravamo 50 persone ammassate su un camion”.
Ad un passo dal mare, quando sembrava finito l’incubo, “mi hanno beccato con i ragazzi che viaggiavano con me. Camminavo verso Tripoli, per trovare il modo per attraversare il mare, sicuro di avercela fatta, quando i militari libici mi hanno preso e arrestato nel corso di una retata.
Per due giorni mi hanno tenuto nel centro di Ijdabiyah, poi mi hanno trasferito qui a Ganfuda. Sono da quattro cinque giorni qui a Gandufa, si sopravvive tirando avanti giorno per giorno.
La cosa più dura è non vedere un futuro, un’uscita da questo viaggio infinito. I pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare”.
Alcuni prigionieri vengono scelti per lavorare da ricchi libici, che comprano i detenuti per poi usarli come forza lavoro a costo zero nelle proprie aziende o fattorie nel deserto. Questa uscita dal carcere, per trasformarsi da detenuti a schiavi è possibile solo per le persone con il passaporto, che viene sequestrato in modo da scongiurare la fuga del lavoratore comprato. “Tutti quelli che hanno il passaporto possono uscire, ma anche per questo ci vuole molta fortuna – spiega Magos – noi eritrei siamo tutti senza passaporto, per noi non c’è soluzione, non c’è futuro. A 17 anni sono bloccato qui, all’inferno”.
Io scomparso dal mondo
Samuel, eritreo
Samuel è un ragazzo di 23 anni che viene della periferia di Asmara. “Sono fuggito perchè non volevo fare la guerra, sono scappato in fretta e furia, senza poter neanche salutare la mia famiglia”. Da cinque giorni è anche lui nel carcere libico di Ganfuda: “Ci hanno preso durante il lungo viaggio dal Sudan e dal deserto ci hanno portati qui in questa prigione. Tutte le donne e i bambini che erano con noi – ci spiega Samuel – sono stati presi e trasferiti al centro della Croce Rossa a Benghazi, da allora non ne sappiamo più nulla”.
Le comunicazioni con l’esterno sono difficili, anche per il nostro mediatore è stato molto complicato contattare i detenuti nelle carceri.
“In 60 abbiamo un solo telefono cellulare nascosto in cella, è l’unico contatto con la famiglia, i connazionali, i trafficanti: l’unico contatto con il mondo. Io non sono riuscito ancora a sentire la mia famiglia, non sanno nulla di me e io non so più nulla di loro. Qui la vita è dura e faticosa – racconta Samuel – siamo sempre chiusi in cella, possiamo uscire solo quando ci danno il pane. Siamo frustrati, siamo stanchi della prigione, ma non c’è alcuna possibilità d’uscita, non c’è nessuna speranza”.
Siamo tanti, tantissimi e altri ne arrivano
Aroon, eritreo
Aroon ha 24 anni e viene anche lui dalla periferia di Asmara, ha condiviso il viaggio di fuga dall’Eritrea con Samuel, compreso l’epilogo di prigionia.
“Qui siamo divisi per nazionalità – spiega Samuel – somali, sudanesi ed eritrei, ognuno nella propria cella. Viviamo in ansia continua.
Stiamo resistendo, siamo costretti, per forza. Prima il viaggio nel deserto, ora la prigione, trattati come delinquenti, non ce la facciamo più”. La speranza nel futuro tende ad allontanarsi velocemente. “Non riusciamo a corrompere le guardie per uscire, quando paghiamo qualcuno ruba i soldi e non ci fa uscire,
Evadere è difficile, in pochi ci riescono e se ti prendono ti torturano.
La croce rossa non può fare nulla per noi perchè questo paese non ha un governo, tutto è caotico”.
“Siamo tantissimi detenuti qui – conclude Aroon – e altre persone stanno arrivando attraverso il Sudan verso la Libia, molti miei amici sono partiti. Come faranno a tenerci tutti qui”?
Dalla prigione al mare
Anwar, etiope
Nascosto in una stanza con diversi altri connazionali, Anwar è un giovane etiope dell’etnia Oromo, perseguitata nella propria terra e soggetta a vessazioni di ogni genere.
“Sono uscito dalla prigione di Ganfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva bisogno di manodopera. Così poi pagando sono riuscito a continuare il viaggio verso il mare. Ora sto raccogliendo gli ultimi soldi per arrivare a Tripoli e imbarcarmi per l’Italia”.
Nascosto in una casa sulla strada per Tripoli è in balìa del trafficante che dovrebbe condurlo alla costa e che irrompe più volte durante la telefonata con il mediatore della Fondazione IntegrA/Azione.
“Sono stato prigioniero in tante carceri qui in Libia. Prima sono stato a Kufrah poi a Ganfuda – ci spiega Anwar – La prigionia era terribile, bruttissima: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo il cibo, non c’erano medicine nè dottori. Ho passato tutte queste sofferenze e adesso sono diretto finalmente verso il vostro paese. In Libia non ci sono diritti, non c’è un governo. Per loro se tu mangi o non mangi, ti ammali o stai bene non cambia nulla. Voi siete in un paese dove c’è un governo”.
Ai lavori forzati
Meron, eritreo
A gennaio Meron era rinchiuso nel carcere di Kufrah, sotto la supervisione dell’UNHCR 4.
“A marzo la prigione è tornata sotto il controllo dei militari del nuovo governo libico e noi siamo tornati ad essere prigionieri – spiega Meron – ci costringevano ai lavori forzati pulendo carri armati ed armi”.
Poprio da questi lavori forzati ha avuto inizio uno sciopero della fame e una manifestazione repressa duramente dai militari. “Da Kufrah ci hanno portato in aereo a Ganfuda, dove sono rimasto quasi due mesi.
Ora con un po’ di fortuna e molta fatica sono riuscito ad uscire; lavoro in una fattoria di un padrone libico, nell’attesa di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungere mio fratello in Italia”.
Aspettando di salpare verso la speranza.
Salua, somala
“Sono stata in carcere a Ganfuda per due mesi – racconta la giovane Salua – la vita era molto difficile. Finalmente sono uscita, ora mi trovo a Tripoli nascosta in una casa”.
L’appartamento è di un trafficante che sta organizzando la traversate del Mare Nostrum. “Uscire dall’appartamento non è possibile, ci portano ogni giorno beni di prima necessità “.
Così si passa il tempo nell’attesa delle giuste condizioni meteo per la partenza. “Vengo in Italia la prossima settimana, mi sto preparando”. Mentre scriviamo Salua dovrebbe essere in procinto di partire verso l’Italia, non ci resta che augurarle ancora una volta buona fortuna.
Un ringraziamento particolare.
Le interviste sono state realizzate con l’insostituibile aiuto di un mediatore culturale di origine eritrea e collaboratore della Fondazione IntegrA/Azione, Mahamed Aman, cui va il ringraziamento più grande, per aver permesso un’indagine altrimenti impossibile, fornendo chiavi di lettura, informazioni fondamentali nella comprensione del contesto e decodifiche dei messaggi veicolati dai ragazzi intervistati.
Una collaborazione che nasce dalla volontà , da parte di Mahamed, di restituire speranza ai giovani nelle carceri e cercare di far conoscere le loro storie nel nostro Paese, che di quelle vicende è spesso complice.
Mahamed ha un fratello che sta ancora in Libia, nell’attesa dopo mesi di carcere di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungerlo in Italia.
(da “Mondo Solidale”)
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
MOLTI CENTRI DI DETENZIONE SONO SORTI CON RISORSE DISTOLTE DAL BILANCIO ITALIANO A SEGUITO DELL’ASSURDO ACCORDO CON LA LIBIA
In Libia ci sono poco meno di 30 strutture, tra prigioni comuni e centri di detenzione, destinati ai migranti che tentano la traversata dal paese d’origine per arrivare in Europa.
Uomini e donne costretti a seguire rotte prestabilite e controllate da trafficanti e affaristi che sulla loro pelle si arricchiscono.
Sfruttamento, condizioni inumane, viaggi drammatici, detenzioni e deportazioni coatte che sono l’ossatura della cerniera libica all’immigrazione verso il nostro Paese.
Un pezzo nascosto di quegli accordi firmati tra governi e istituzioni per frenare delle persone semplicemente costrette alla fuga da guerre, torture e morte, verso l’unico futuro possibile: l’Europa.
Viaggi senza ritorno.
Viaggi che una volta intrapresi non prevedono possibilità di ritorno e che costringono migliaia di rifugiati a restare anche anni sospesi nell’inferno libico. Un meccanismo di tratta di esseri umani consolidato e ben rodato nella Libia del Colonnello Gheddafi e che il cambiamento non ha scalfito.
La nascita di nuovi attori nella tratta rende anzi più drammatica la situazione per i migranti imprigionati, che devono misurarsi con un moltiplicarsi di intermediatori senza scrupoli, che stanno ricostruendo meccanismi di connivenza e corruzione con le forze militari libiche.
Come questo meccanismo si stia ricostruendo non è ancora dato sapere in maniera compiuta, di certo i migranti hanno ancor meno speranza di potere uscire da questi luoghi infernali.
Fondazione IntegrA/Azione intende verificare e far conoscere i gironi dell’inferno che i migranti vivono sulla loro pelle ogni giorno, anche come conseguenza degli accordi siglati il 3 aprile scorso tra Italia e Libia.
Cellulari nascosti nelle celle sovraffollate.
Le persone che abbiamo contattato direttamente in prigione si trovano nel carcere di Ganfuda, a circa dieci chilometri dalla città di Benghazi.
Il carcere a pieno regime “ospita” 500 detenuti.
Carceri finanziati con risorse italiane.
Molti centri di detenzione sono finanziati con i soldi italiani, come previsto nella legge Finanziaria 2005 a seguito degli accordi con Gheddafi, tramite uno stanziamento speciale di fondi (Articolo 1 – comma 544 – della legge 30 dicembre 2004 n. 311 recante disposizioni in materia di
“Finanziamento programma di cooperazione AENEAS in materia di flussi migratori”).
Di questa ricerca Fondazione IntegrA/Azione pubblica un primo estratto, per far sapere cosa succede in Libia, per ricordare quanto alto sia il prezzo umano degli accordi siglati con la Libia, nella speranza di un Paese che torni a puntare sull’accoglienza e l’integrazione segnando, finalmente, un segno atteso di discontinuità con il precedente governo Berlusconi e con le logiche della Lega Nord.
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
DA 21 MILIONI DI EURO A 11 PER IL 2012, DI CUI 9 GIA’ EROGATI PER COPRIRE 600 DOMANDE… DURA REAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI DEI FAMILIARI DEI MILITARI: “COME SI FA A TAGLIARE SULLA PELLE DEI MALATI DI TUMORE E LEUCEMIE PER COLPA DELLO STATO?”
I destinatari sono militari e civili malati di tumori e linfomi ma molto più spesso le loro
famiglie.
Perchè le vicende e le battaglie sono così lunghe che in gran parte i risarcimenti arrivano dopo la morte.
Passano anni da quel periodo trascorso in servizio all’estero nelle missioni di pace o dal periodo di leva nei poligoni italiani, in gran parte in Sardegna.
Ora nell’elenco dei tagli previsti dal governo tecnico di Monti ci sarà anche il Fondo per le vittime da uranio impoverito.
Una sforbiciata di circa la metà : da 21 milioni di euro a 11 per il 2012, di cui 9 già erogati per coprire circa 600 domande.
Tutto ciò è contenuto nella bozza del decreto legge del governo Monti. Tra i buoni pasto degli statali e le ferie obbligate per risparmiare si tagliano i soldi per chi si è ammalato dopo aver prestato servizio per lo Stato, secondo la lista per la spending rewiew (revisione spesa pubblica) preparata dal supercommissario Enrico Bondi.
“Come si fa a tagliare sulla pelle dei malati di tumore e leucemie per colpa dello Stato?” tuona Falco Accame, presidente dell’Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e famiglie dei caduti (Anavafaf), militare di professione, ex parlamentare socialista, presidente della commissione Difesa negli anni ’80, da sempre impegnato in prima linea per i diritti dei militari.
“Potrei capire questa scelta da un governo politico, ma da uno tecnico di certo no. Quel fondo è stato voluto nel 2008 dall’allora ministro alla Difesa La Russa. Ora si vuole tornare indietro, una scelta ignobile. Perchè — continua — risarcire è ammettere di non aver protetto i militari e civili in servizio e aver omesso delle informazioni sui pericoli reali”.
Accame sottolinea anche come sia riduttiva la dicitura “uranio impoverito“, perchè, ricorda, al momento della stessa istituzione del fondo (Finanziaria 2008: interventi sulle missioni) si è deciso di citare anche “la dispersione di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico”, come cause di malattie letali, ossia cadmio, nichel, torio e altre sostanze chimiche cancerogene.
Non solo di uranio impoverito si muore.
Una realtà accertata anche dal progetto Signum, uno Studio di Impatto Genotossico nelle Unità Militari promosso nel 2004 dalla della Difesa sui militari impegnati in Iraq nell’operazione “Antica Babilonia“: un progetto terminato l’anno scorso ma finora mai pubblicato dal ministero.
Gli indennizzi previsti dal fondo vanno sia ai “militari impegnati di adeguati indennizzi al personale italiano impiegato nelle missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, nonchè al personale civile italiano nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale”.
“Anzichè tagliare le spese per danni provocati”, secondo Accame, “sarebbe meglio ridurre quelli per le spese e sperperi militari. Perchè se no qui si rimarca ancor più pesantemente la distinzione tra militari di serie A, gli eroi caduti in Afghanistan, da piangere, e quelli di sere B, ammalati e morti di linfomi contratti dopo le missioni, da nascondere”.
L’associazione propone la sospensione delle parate militari e delle varie manifestazioni celebrative, e ancora la privatizzazione, delle Frecce Tricolori e della portaerei Cavour, definita “espressione di falsa grandeur”.
Da abolire le strutture di comando periferico, da ridurre le “forze di proiezione” per l’impiego all’estero: “La Costituzione — osserva Accame — prevede per le forze armate il dovere di difesa del suolo patrio”.
E poi il riferimento ai poligoni e all’inchiesta per disastro ambientale del pm di Lanusei, Domenico Fiordalisi.
Di recente è stato aperto un nuovo filone su un appalto presumibilmente “pilotato” sulle analisi all’interno del poligono di Quirra.
“Appalti a trattativa privata” che, per il presidente Accame, andrebbero “riesaminati e bloccati, così come il complesso militare industriale del quale gli effetti deleteri sono noti”.
Da rivedere anche le concessioni di servizi militari a ditte civili con apposite convenzioni e ridimensionate le basi straniere in Italia che assorbono ingentissime risorse.
E poi i progetti di acquisto come, ad esempio, quelli delle “Fregate Fremm, degli aerei F15, dei radar tabulari di potenza, del sistema di difesa antimissili Meads“. Alternative di risparmio che, al momento, non sono contemplate.
Punta alla marcia indietro l’avvocato dell’Associazione Vittime Uranio, Bruno Ciarmoli: “Facciamo appello alle forze politiche perchè i benefici introdotti dopo anni di battaglie siano mantenuti. Si tratta di almeno 2.000 militari gravemente malati ai quali lo Stato non ha mai riconosciuto alcuna forma di assistenza”.
Le ultime cifre ufficiali di militari o civili ammalati a causa del presunto contatto con uranio impoverito o nanoparticelle sono anche più alte.
Quelle che cita Accame si riferiscono all’audizione in Senato del colonello Roberto Biselli, direttore dell’Osservatore epidemiologico della Difesa: 3 mila e 671 casi dichiarati.
E ottenere il risarcimento non è certo una passeggiata: l’ultimo decreto, un mese fa, è stato recapitato alla madre di Fulvio Pazzi, militare volontario in ferma breve. Dopo una missione in Bosnia si è ammalato di linfoma di Hodgkin ed è morto nel 2003. Ci sono voluti nove anni e sette dinieghi, ora è “una vittima del dovere”.
Monia Melis
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
LO RILEVA L’ISTAT: UNA FAMIGLIA SU TRE HA DIMINUITO QUANTITA’ E QUALITA’ DELLA SPESA… NEL MEZZOGIORNO SI COMPRA ALL’HARD DISCOUNT
La spesa non è più quella di una volta.
La crisi influenza gli acquisti delle famiglie italiane anche per quel che riguarda gli alimentari.
Infatti il 35,8% delle famiglie nel 2011 ha diminuito la quantità e/o la qualità dei prodotti rispetto al 2010.
Lo riferisce l’Istat aggiungendo che è in aumento la quota di famiglie del Mezzogiorno che acquista generi alimentari presso gli hard-discount (si passa dall’11,2% del 2010 al 13,1% del 2011).
La maggior parte delle famiglie (il 67,5%) effettua la spesa alimentare – riferisce l’Istat – presso il supermercato, che si conferma il luogo di acquisto prevalente, nonostante una lieve flessione.
Quasi la metà delle famiglie (il 47,7%) continua ad acquistare il pane al negozio tradizionale, il 9,7% sceglie il mercato per l’acquisto di pesce e il 16,4% per la frutta e la verdura.
Tra il 2010 e il 2011 risultano in contrazione, su tutto il territorio nazionale e in particolare nel Centro e nel Mezzogiorno, le spese destinate all’abbigliamento e alle calzature.
Crescono, anche per effetto dell’aumento dei prezzi, le quote di spesa – riferisce ancora l’istituto di statistica – destinate all’abitazione (dal 28,4% al 28,9%) e ai trasporti (dal 13,8% al 14,2%).
Ma non è finita qui.
Circa 1.100 euro separano la spesa media mensile delle famiglie di operai (2.430 euro) da quella delle famiglie di imprenditori e liberi professionisti (3.523 euro).
La spesa media scende a 1.906 euro mensili per le famiglie con a capo un disoccupato, una casalinga o una persona in altra condizione non professionale (esclusi i ritirati dal lavoro, le cui famiglie spendono in media 2.139 euro).
A fronte dei veri problemi degli italiani, fa specie vedere come la classe politica sia intenta a disquisire e litigare su temi come riforme costituzionali, leggi elettorali, Rai e poltronifici vari, cose di cui non frega una mazza a nessuno.
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO 2012 DI LEGAMBIENTE: LO SCORSO ANNO 93 REATI AL GIORNO, 8000 SEQUESTRI E 300 ARRESTI…. MA I RICAVI CONTINUANO A SALIRE
Nonostante la diminuzione dei flussi di denaro destinati a opere a rischio d’infiltrazione
mafiosa, i fatturati delle cosche specializzate nell’aggressione all’ambiente aumentano perchè i clan diventano più aggressivi e il denaro illegale si muove in maniera sempre più disinvolta nei circuiti della finanza internazionale.
E’ la denuncia che viene dall’ultimo rapporto di Legambiente, Ecomafia 2012.
Una tendenza confermata dai numeri.
Nel 2011 i traffici gestiti da ecomafiosi sono arrivati a quota 16,6 miliardi di euro. I reati sono aumentati del 10%, arrivando a 93 al giorno.
In particolare sono triplicati gli illeciti nel settore agroalimentare e in quello del patrimonio artistico. In crescita anche gli incendi boschivi e i reati contro gli animali.
E’ un affondo aiutato da complicità che cominciano a venire alla luce grazie a una maggiore pressione delle forze investigative che, nel 2011, hanno effettuato 8.765 sequestri, 305 arresti (100 in più rispetto all’anno precedente) con 27.969 persone denunciate (7,8% in più rispetto al 2010).
Solo nei primi mesi del 2012 ben 18 amministrazioni comunali sono state sciolte per infiltrazione mafiosa e commissariate (erano 6 lo scorso anno).
Un allarme ripreso con preoccupazione dal presidente Giorgio Napolitano che, in un messaggio, chiede “nuovi metodi contro questa forma di criminalità “, e soprattutto di “potenziare le norme che permettano di contrastarla”. Poi l’appello ai giovani per la difesa dell’ambiente.
“Il confine tra legalità e illegalità è sempre più labile”, commenta il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza.
“Questa mafia, che si è trasformata per diffondersi ovunque, sembra non essere intaccata nemmeno dagli arresti dei boss. Mentre l’unico strumento che si è dimostrato efficace, la destinazione sociale dei beni confiscati, rischia di essere rimesso in discussione dall’ipotesi di vendita ai privati, con la concreta possibilità che i beni tornino in mano ai mafiosi. Su oltre 10.500 beni confiscati, infatti, solo 5.835 sono stati destinati a finalità istituzionali o sociali. Il resto è bloccato in un limbo”.
La maggior parte dei reati registrati (il 47,7%) riguarda ancora una volta le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, con la Campania in testa (5.327 infrazioni), seguita dalla Calabria (3.892), dalla Sicilia (3.552) e dalla Puglia (3.345).
Mantiene il quinto posto il Lazio (2.463), mentre la prima regione del Nord in classifica è la Lombardia (con 1.607 reati), seguita dalla Liguria (1.464).
“La novità che sta emergendo è l’intensificarsi delle attività di riciclo del denaro sporco e un’internazionalizzazione finanziaria più spinta dei proventi delle attività criminali”, osserva Enrico Fontana, responsabile dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente.
“Ma c’è anche da rilevare per la prima volta una flessione del ciclo illegale legato ai rifiuti e al cemento: segno di una pressione delle indagini che comincia a produrre i primi effetti. Ora c’è bisogno di un ulteriore salto. Per questo lanciamo la campagna Abbatti l’abuso: le case illegali vanno demolite come prevede la legge”.
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
MARONIANI VITTIME DELLA SINDROME DA RIMOZIONE: FINO AL 26 GIUGNO SUL SITO DELLA LEGA CAMPEGGIAVA ANCORA LA FOTO DI BOSSI, POI E’ STATA ELIMINATA PER UNA SETTIMANA, SALVO POI RIAPPARIRE IN FORMATO RIDOTTO
Bossi come Trotzkij. Un’esagerazione. Ma nel sito della Lega e sulla Padania sembrano aver preso alla lettera la lezione staliniana.
Cancellare tutto ciò che ricorda il passato, annichilire ogni immagine di Umberto Bossi e del suo «cerchio magico».
Riscrivere la storia del rinnegato abolendolo in effigie.
Anche se, stavolta, il «rinnegato Bossi» contrattacca e la sua gigantografia con il sigaro, momentaneamente sbianchettata, riconquista con impresa napoleonica il centro della scena usurpata.
È tutto vero. Non è un’esagerazione.
Da quando Roberto Maroni e i maroniani hanno proclamato il nuovo inizio della Lega umiliata dal clan familistico bossiano, è cominciato il rito della profanazione mediante annientamento dell’immagine del Capo un tempo venerato e amato a cui si doveva obbedienza pronta e incondizionata.
Per qualche giorno sul sito www.leganord.org si vedevano solo foto di Maroni sul palco, Maroni circondato dai suoi fedelissimi, Maroni omaggiato, Maroni in trionfo.
E Bossi? Di Bossi non c’era più traccia.
Solo il nome, in piccolo, sul simbolo della Lega Nord: cambiare stemma in fretta non è poi l’impresa più facile.
Ma per il resto, via ogni raffigurazione dell’ex Capo.
Se qualcuno avesse voluto leggere i discorsi di Bossi, un tempo onnipresenti, invasivi, schiaccianti, avrebbe dovuto andare in fondo alla pagina d’apertura del sito, tra link dal tono generico e anaffettivo come: «Libri e pubblicazioni», oppure «Retroscena».
La Padania , poi, si era dimostrata meritevole del nomignolo che già le era stato affibbiato ai tempi del Bossi trionfante: la «Pravdania», in onore della leggendaria Pravda , la «Verità », monumento alla menzogna di regime nel comunismo reale.
Solo che la «Pravdania» si era adeguata agli imperativi del nuovo gruppo dominante, accodandosi all’opera zelante e meticolosa di cancellazione di ogni reperto del passato. Specializzazione: fotomontaggio.
Ecco allora la fotografia di gruppo in cui i reprobi bossiani vengono sostituiti con il maroniano ortodosso, un’immagine in cui un drappello di dirigenti leghisti sventola il vessillo con il Sole delle Alpi: solo che al posto di Luciano Bresciani e della sudtirolese Elena Artioli compare il vicepresidente della Lombardia Andrea Gibelli, che non era nemmeno presente nella cerimonia in cui era stata scattata l’istantanea. Senza considerare le folle oceaniche che, sulla Padania , circondavano due giorni fa Maroni che galvanizzava i leghisti.
Folle oceaniche ma così oceaniche che certo non avrebbero potuto ondeggiare così massicciamente in uno spazio ampio ma non proprio oceanico come il Forum di Assago, dove è avvenuta l’intronizzazione del nuovo Capo.
Il sito con Bossi ripristinatoIl sito con Bossi ripristinato
Per carità , ritocchino. Per carità , miracoli di Photoshop.
Per carità , solo problemi, come dicono alla Lega, di ristrutturazione del server in un sito che sta cambiando volto e che ha avuto qualche problema.
Fatto sta che ieri Bossi, con un blitz, è tornato grandissimo e imponente, munito di quel sigaro che fa molto arma minacciosa e carismatica.
Il server si sta riaggiustando. Ma chissà se gli aggiustatori hanno mai letto il passaggio del «1984» di Orwell in cui è descritto il funzionamento del Ministero della Verità : «C’erano i vasti depositi dei documenti corretti, e le fornaci, dove si distruggevano i documenti originali. E in qualche posto, del tutto sconosciuti, c’erano i cervelli che coordinavano tutto il lavoro e definivano la linea politica secondo la quale si rendeva necessario che questo frammento del passato venisse conservato, quello falsificato, quell’altro ancora cancellato dall’esistenza».
Uguale alla Padania , alla «Pravdania», alla Pravda .
Del resto, l’arte della falsificazione dei nuovi regimi è stata splendidamente descritto da un libro di Alain Jaubert, «Commissariato degli archivi», pubblicato in Italia qualche anno fa da Corbaccio con una prefazione di Sergio Romano.
È l’arte di rettificare, scontornare, ritoccare, cancellare le immagini imbarazzanti di qualche vecchio dirigente caduto in disgrazia.
È un’arte molto in uso nei regimi totalitari, realizzata con criteri scientificamente inesorabili. Il «Ministero» orwelliano si è materializzato in Unione Sovietica con l’«Amministrazione centrale per gli affari letterari e l’editoria», a sua volta ricalcato sul modello del Ministero goebbelsiano della propaganda.
È l’arte di nascondere la realtà , come il palafreniere cancellato mentre la foto ufficiale ritrae il Duce, in groppa a un robusto cavallo, che sguaina la spada dell’Islam, apparentemente senza nessun aiuto.
È l’arte delle foto ufficiali in cui Trotzkij veniva annullato e con lui Kamenev, Bucharin, tutti i bolscevichi sacrificati sull’altare del Terrore staliniano.
E veniva annullato anche Liu Shaoqi vittima della angherie maoiste durante la Rivoluzione Culturale e poi la «Banda dei Quattro» scomparsa dalle foto dopo la morte del Grande Timoniere.
E venivano annullati i guerriglieri cubani, primo fra tutti Carlos Franqui, che aveva osato dissentire dalla linea ufficiale di Fidel Castro e del leggendario ma spietato «Che» Guevara.
Bossi annullato? Lui e il suo sigaro resistono stoicamente.
Ma chissà per quanto: chi controlla il passato, spiegava Orwell, controlla il futuro.
Il nuovo motto dei nuovi padani?
Pierluigi Battista
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 5th, 2012 Riccardo Fucile
IL MINISTRO DELLA SANITA’ SAREBBE RIUSCITO A BLOCCARE LA SCURA SULLE STRUTTURE MINORI: TROPPE LE DIFFERENZE LOCALI PER PROCEDERE A UN TAGLIO CENTRALIZZATO
Esce dalla bozza di spending review la norma che prevedeva la chiusura dei piccoli ospedali
(con meno di 120 o 80 posti letto), da parte delle Regioni, entro ottobre, pena il commissariamento.
Secondo quanto si apprende, il ministro Renato Balduzzi avrebbe vinto la sua battaglia all’interno del governo e di quella disposizione non resta più traccia nel provvedimento.
Sul provvedimento dovrebbe arrivare oggi il via libera del consiglio dei ministri.
Il responsabile della Sanità ieri si era posto chiaramente in contrasto con la regola che prevedeva la chiusura delle strutture periferiche più piccole.
“Non può essere lo Stato centrale a dire cosa tagliare nelle varie regioni, dove le situazioni sono diverse”, aveva spiegato Balduzzi.
Sul punto si erano scatenate polemiche ed erano stati fatti vari calcoli.
Secondo i dati del ministero, in Italia ci sono 257 strutture che hanno meno di 80 posti letto (tra quelle singole e quelle accorpate con altre, magari più grandi), ma ogni situazione locale è diversa.
Per questo l’idea di una decisione di tagliare presa a Roma pareva troppo pesante e difficile da applicare nelle varie regioni. Balduzzi ieri sera durante l’incontro con i governatori aveva annunciato di voler cambiare il provvedimento su questo punto.
Il taglio degli ospedali valeva circa 200 milioni, tra l’altro una cifra piuttosto bassa, per cui non valeva la pena creare malcontento tra i cittadini.
E’ passata la linea del ministero, che rimanda alle singole egioni la decisione su come intervenire. Resta dunque un’indicazione a seguire un principio di appropriatezza per le strutture piccole, cioè di eliminazione di quelle che non servono, cosa che peraltro è nota da tempo nei vari territori, ma cadono le imposizioni di taglio.
La spending review mantiene comunque l’obiettivo più generale di una riduzione dei posti letto ospedalieri, che oggi sono circa 4 ogni mille abitanti e in futuro dovrebbero diventare 3,6.
Del resto l’Europa pone il limite ancora più in basso, a 3,3.
Questa operazione si fa intervenendo sui grossi ospedali, magari accorpando le strutture doppione per risparmiare non solo spazi di degenza ma primari e personale in generale.
(da “La Repubblica”)
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