Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
FA NOLEGGIARE UN’AUTO A SPESE DELLA REGIONE PER ANDARE AL QUIRINALE POI AL RIENTRO LA FA DEVIARE PER ANCONA PER PARTECIPARE A UN CONVEGNO DI PARTITO: COSTO MILLE EURO
In auto blu, pagata dalla Regione, per parlare di costi della politica e tagli agli sprechi a un convegno di partito.
Protagonista è Matteo Richetti, presidente dell’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna, quota Pd, e numero due della corrente dei rottamatori guidata da Matteo Renzi.
È il 13 settembre del 2011.
Quel giorno l’agenda del presidente del consiglio regionale dell’Emilia Romagna è particolarmente fitta di impegni: in programma c’è prima una visita al Quirinale, per incontrare Giorgio Napolitano, e poi altri due appuntamenti.
Richetti decide di partire per Roma con l’auto a noleggio: viene prelevato a casa sua, in provincia di Modena, alle 6,30, e riaccompagnato a notte fonda.
Risultato: 16 ore e 15 minuti di viaggio, 1090 chilometri percorsi e una ricevuta da 1024,12 euro.
È lo stesso presidente dell’aula, in una nota stampa diffusa ieri, a scandire, ora per ora, il programma di quella giornata.
“Alle 12 dovevo essere al Quirinale per un incontro con il Presidente della Repubblica con la Conferenza dei presidenti delle Assemblee legislative”.
Impossibile, secondo Richetti, organizzare tutto prevedendo spostamenti in treno, dato che alle 14 “era poi in programma una assemblea plenaria della Conferenza stessa”. Mentre alle 18 “dovevo essere ad Ancona per una iniziativa pubblica sui costi della politica alla quale ero stato invitato”.
Ma se la trasferta al Quirinale, non c’è dubbio, è una missione istituzionale, non si può dire la stessa cosa dell’appuntamento di Ancona, citato dallo stesso Richetti. L’incontro pubblico, al quale il presidente dell’assemblea partecipa dopo la visita a Napolitano, infatti, è di altra natura.
Si chiama “Meno costi, meno casta” ed è un dibattito organizzato dal gruppo consiliare del Pd di Ancona, per discutere “le proposte nel Partito Democratico per una politica più sobria, trasparente e al servizio dei cittadini”.
Richetti, di ritorno da Roma, arriva nel capoluogo marchigiano con l’auto noleggiata usando soldi pubblici.
Lì, interviene al convegno insieme agli altri ospiti, tutti esponenti Pd.
“Mi avevano invitato in qualità di presidente dell’assemblea — spiega — La missione era autorizzata, non c’è niente di irregolare”.
Autorizzata dal presidente dell’assemblea, cioè da sè stesso.
Il rottamatore, poi, rivendica una serie di tagli. Ricorda di aver rinunciato all’auto blu, nonostante ne avesse diritto 24 ore su 24.
“L’ho eliminata una volta diventato presidente. Costava 80 mila euro l’anno: ora ci sono solo i costi per l’auto da noleggiare in caso di spostamento per motivi istituzionali e siamo così passati da un costo annuo di 130.000 euro a 50.000. E quest’anno la voce servizio automobilistico è scesa ulteriormente a 25 mila euro”.
Ieri, il Fatto Quotidiano aveva elencato una serie di spostamenti da centinaia di euro a viaggio.
Tutte missioni istituzionali, alle quali il presidente dell’assemblea decide di andare noleggiando un’auto con l’autista.
Di esempi ce ne sono a decine.
Tra costi per missione e varie ed eventuali si arriva a cifre per decine di migliaia di euro.
La mattina del 10 gennaio del 2011, ad esempio, Richetti ha un impegno a Casalecchio di Reno.
Dalla sede della Regione, in viale Aldo Moro, al teatro Testoni di Casalecchio di Reno. Il percorso è di 7 km e 800 metri chilometri e settecento metri.
In taxi una spesa di 15 euro. Ma Richetti con l’auto blu ne spende 103,12.
Anche perchè l’autista lo attende fuori dal teatro per 3 ore e 45 minuti.
Emiliano Liuzzi e Giulia Zaccariello
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
SE PERSINO VELTRONI HA PAURA, NEL PD PUO’ SUCCEDERE DI TUTTO
C’è una bomba innescata che potrebbe esplodere sabato.
C’è una miccia a combustione veloce che potrebbe far detonare gli equilibri del Pd con l’Assemblea nazionale che deve votare le nuove regole delle primarie proposte dagli uomini di Pierluigi Bersani.
Ieri bastava ascoltare le parole di Walter Veltroni, uno dei politici più accorti e parchi nel centrosinistra (soprattutto nel controllo delle proprie esternazioni) per rendersi conto che si sta per superare un livello di guardia.
Ieri l’ex candidato premier, presentando il libro di uno dei dirigenti più vicini, Giorgio Tonini, non aveva velato i suoi timori: «La mia angoscia — diceva — è che, sottoposto a tensioni estreme, il partito possa spaccarsi».
Non solo: «Le primarie sono un passaggio delicato, che va gestito bene, perchè rischiano di distruggere».
Parole pesanti come macigni. Che rimandano a quella riunione per le regole dove, sabato mattina, si fronteggeranno due spinte divergenti.
Ci sono due destini in gioco in un unico voto, e sono appesi al braccio di ferro fra la maggioranza che fa capo a Bersani e tutti coloro, che per motivi diversi e con storie diverse, fanno resistenza passiva, o sono in lotta contro di lui.
Eppure anche il segretario ha lanciato una sfida e sta rischiando molto: il dispositivo che ha immaginato per le primarie (che contiene punti molto restrittivi sul piano della partecipazione degli elettori, sui criteri dell’inclusione-esclusione dei candidati, sul quorum di firme necessario o meno per accedere alla sfida), per poter essere approvato ha bisogno infatti del voto di almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto nell’assemblea nazionale.
Questo vuol dire che, quasi automaticamente, il voto di sabato diventa un referendum nel gruppo dirigente, un voto di fiducia pro o contro il segretario.
Una volta superato questo scoglio, Bersani dovrà scegliere se, come e quando avviare la sua campagna per le primari.
I suoi fedelissimi annunciano ufficiosamente che dovrebbe accendere i motori il 15 ottobre, e che l’attendismo di queste ore rientri in una tattica calcolata.
Eppure prima c’è lo scoglio di quel voto sulle regole: chi prova a capire la partita politica e la posta in gioco, deve avere in mente un precedente clamoroso.
Quando nel 1991, al Congresso di Rimini, nacque il Pds, il segretario designato, Achille Occhetto non fu eletto, con una bocciatura sorprendente.
A farlo fuori era stata proprio la mancanza di un quorum qualificato: «Adesso cercatevi un altro segretario!» disse lui furibondo, e si rifugiò a Capalbio.
Di ragioni ne aveva. Anche in quel caso, infatti, si univano nel boicottaggio del voto, tutte le opposizioni al padre della Svolta.
C’erano il No chiaro e dichiarato della sinistra ingraiana, il dissenso di quelli che Occhetto chiamava in tono sprezzante gli “oligarchi ”, c’era la fronda dei dalemiani, e l’opposizione dei cosiddetti “miglioristi ” di Napolitano (che si stavano staccando dalla maggioranza occhettiana).
Oggi contro Bersani si catalizzano i malumori dei nuovi oligarchi, il dissenso dei minori tagliati fuori dalle clausole escludenti (sia «la sinistra» della Puppato che «la destra» dei renziani), e il mal di pancia diffuso in tutte le diverse anime centriste ben rappresentate dallo sfogo saturnino di Beppe Fioroni raccolto qui a fianco da Tommaso Labate.
Non può sfuggire a nessuno, l’importanza decisiva di questa partita, non solo per i destini e i rapporti di forza interni nel Pd.
Queste primarie, che solo dieci giorni fa sembravano un congresso di partito criptato, stanno diventando la prefigurazione non solo degli schieramenti in campo, ma anche dei possibili vincitori delle elezioni politiche.
I forum che Pubblico ha raccolto in questi giorni fra i principali protagonisti del centrosinistra (il nostro viaggio continua giovedì con Bruno Tabacci), ci danno una percezione immediata di come il ticchettare di questa bomba stia cambiando la disposizione delle squadre in campo, la percezione stessa che i leader hanno della loro futura campagna elettorale.
Provate a unire questi elementi.
Due giorni fa Antonio Di Pietro ci ha rivelato, quasi con un tono di disarmante stupore, che — se la partita è quella che si sta prospettando — potrebbe giungere a una scelta clamorosa: «Visto che se vince Renzi non c’è più il centrosinistra -ci ha detto — a me farebbe piacere sostenere Vendola… Ma potrei essere costretto a votare Bersani ».
Oggi Oliviero Diliberto, su queste stesse pagine, fa un ragionamento altrettanto sorprendente, soprattutto considerando che viene da un leader della sinistra radicale: «Io ho il dovere di fare tutto quello che posso per propiziare la vittoria di Bersani su Renzi. Il primo, malgrado tutte le differenze che ci separano, si muove ancora nella storia del movimento operaio, mentre il secondo è portatore di un progetto di destra liberista che vede in Monti il suo modello».
E qui si inserisce l’ultimo tassello: sabato pomeriggio, Nichi Vendola esordisce con la prima tappa della sua campagna per le primarie.
Non è un mistero che la decisione di partecipare sia stata a lungo meditata, anche tenendo conto di possibili scenari e dei rapporti di forza che i sondaggi annunciavano tra Bersani e Renzi.
Vendola — che resta un alleato, forse più fidato di alcuni suoi compagni di partito, per il segretario del Pd — si è ritagliato in queste primarie una mission: strappare al sindaco di Firenze i voti degli scontenti di sinistra che potrebbero spingerlo al sorpasso su Bersani.
Chi vince le primarie, quindi, disegna già lo scenario delle politiche: con Bersani un centrosinistra rinnovato.
Con Renzi un nuovo polo del tutto inedito, che fa saltare le vecchie distinzioni tra destra e sinistra.
È per questo che sabato la bomba già innescata, se Bersani non ce la fa, può scoppiare. E se non scoppia potrebbe prefigurare un esito (una nuova maggioranza intorno al segretario) nella battaglia all’ultimo sangue che si prepara.
Luca Telese
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
IL “MANIFESTO” DEL MOVIMENTO HA RACCOLTO GIA’ 25.000 ADESIONI TRA IL POPOLO DELLE PARTITE IVA E DELLE PICCOLE IMPRESE… CHIEDE INCENTIVI AL MERITO, FRENO DELLA SPESA CORRENTE E WELFARE INDIRIZZATO A GIOVANI E DONNE… CONSENSO POTENZIALE ALL’8% CON ELETTORI TRASVERSALI
Un anno fa veniva accolto coi pomodori, oggi fanno la fila per ascoltarlo.
Oscar Giannino, comunque la si pensi, è un fenomeno da non sottovalutare.
L’offerta politica oggi sul piatto, è chiaro, prevede l’armamentario dei vecchi partiti da una parte e una grande area anticasta dall’altra.
Si è aperto in mezzo lo spazio per un nuova forza liberista capace di risorgere dal ventennio berlusconiano.
Prova a riempirlo a modo suo Giannino, diversamente rottamatore, forse il più lucido e smaliziato interprete del disagio che ha trascinato il ceto medio professionale e gli imprenditori verso l’antipolitica.
Lo ha fatto partendo da un manifesto “Per fermare il declino” che ha arruolato economisti di primo piano (tra gli altri Luigi Zingales, Alessandro De Nicola e Michele Boldrin) e ha tutto il sapore del programma politico di un partito anti-tasse.
Lui precisa che lo diventerà solo a condizione che ci siano certi numeri, perchè “di tutto hanno bisogno gli italiani tranne che di una nuova sigletta”.
E i numeri, questa la sorpresa, potrebbero anche esserci: un sondaggio di Renato Mannheimer tributa a Giannino un consenso potenziale dell’8% frutto della capacità di pescare a destra e al centro come a sinistra (secondo Ispo conquista simpatie in misura relativamente maggiore tra gli elettori del Pd e M5S).
Ma è lui il primo a schermirsi quando gli si chiede se si candiderà (“fossi scemo”) e tutto il gruppo sembra orientato piuttosto a costruire il consenso dal basso, con un fitto programma di incontri nelle città di tutta Italia.
Il giannino-pensiero è il seguente.
Le regole passano per la limitazione del numero di mandati, lo stop al finanziamento pubblico dei partiti, l’eliminazione preventiva di ogni conflitto d’interesse, il coinvolgimento dal basso di aderenti ed elettori.
Il programma, in 10 punti, prevede iniezioni massicce di liberismo (meno tasse e meno Stato), incentivi al merito, abbattimento del debito con attivi patrimoniali pubblici, freno alla spesa corrente, imposte su lavoro e impresa del 6 e 5% e un radicale riorientamento del welfare verso giovani e donne.
Ma dove si colloca la nuova proposta di chi si impegna a fermare il declino?
Non con Monti, perchè ha centrato l’obiettivo credibilità -conti pubblici ma ha scordato in Bocconi metà dell’agenda, quella con tutti i capitoli su ripresa e sviluppo. Con Fini e Casini no, perchè sono da troppo tempo in Parlamento e hanno tentato una scaltra Opa sul premier per capitalizzarne il suo consenso che non è il loro.
Mai con Berlusconi che ha perso credibilità .
Gli incentivi alla rottamazione sono rafforzati dalla presenza tra gli animatori del listone-partito liberista di Zingales, bocconiano professore di finanza all’Università di Chicago e consigliere economico di Matteo Renzi.
Resta un forte collegamento con due comprimari come Emma Marcegaglia e Luca Cordero di Montezemolo, apparentati nella tradizione liberal-riformista ma lontani dalla gente comune per catodica distanza (lei estranea alle piazze, lui sempre pronto a salire sul treno della politica e mai a obliterare il biglietto).
Il consenso che interessa i giannino-boys però è diverso.
Non è quello liofilizzato, indotto dai media o di chi sta da sempre in politica. Lui prova a pescarlo direttamente nel popolo delle partite iva, dei professionisti e delle piccole imprese.
E a quanto pare lo trova.
Il “Manifesto”, anche grazie a una forte campagna in rete, veleggia oggi verso le 25mila adesioni.
La macchina organizzativa sul territorio cresce (ad agosto poteva contare su dieci volontari e oggi su 80) e oggi conto su un coordinamento in ogni regione (manca solo la Basilicata) e coordinatori per aree tematiche.
Anche la raccolta fondi è passata da 30 a 200mila euro.
Certo, non sono i milioni che possono metter sul tavolo i politici professionisti, ma sono tutti dichiarati online e con un tetto di 20mila euro per evitare influenze nel finanziamento.
La formula della serata-presentazione, che fa molto azienda e poco partito, ha un successo ampiamente imprevisto.
Nella tappa milanese del 27 settembre sono bastati un migliaio di volantini per richiamare più persone di quelle che la sala conteneva (gli organizzatori, quasi all’ultimo, hanno spostato tutti al Teatro Dal Verme, con 1400 persone e in sala e 400 rimaste fuori).
Al Teatro Giulia di Barolo di Torino stessa scena. Radiografia della sala.
In prima fila c’è il ceto medio produttivo deluso dal Pdl.
Non c’è Confindustria con le pesanti poltrone rosse, non ci sono gli amici di peso come Caltagirone.
I link economici col mondo produttivo sono piuttosto con le reti “Imprese che resistono”, “Verso Nord”, un pezzo veneto di Rete Italia, perfino i riformatori sardi (di più propriamente politico c’è l’affinità con Italia Futura, il think-tank dei finiani).
Ma il punto è che c’è davvero un sacco di gente.
Oltre la destra moderata e qualificata ci sono tanti centristi e perfino elettori del centro sinistra.
Ed è un fatto curioso perchè l’ispiratore del movimento contro il declino, giusto un anno fa, veniva ricoperto di pomodori dai collettivi della Statale di Milano.
Da allora, evidentemente, qualcosa è cambiato. Sarà che, pur avendo i numeri, la sinistra ha scelto di non governare e di lasciare ai tecnici il lavoro sporco dei tagli e dei conti.
Anche per questo, sostengono gli osservatori, ogni nuova offerta politica credibile può fare effettivamente breccia tra i delusi del Pd.
E realizzare così un bizzarro contrappasso: agli occhi di uno di sinistra, le vedute moderate e attendiste alla Bersani, rischiano di far apparire rivoluzionario anche il radicalismo ultraliberista di una destra moderata che non si è compromessa.
E che ora tenta di uscire allo scoperto con una capacità inaspettata di attrarre il consenso.
Di questi tempi, non è poca roba.
Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
PATRONI GRIFFI ASSICURA: “CI SARA’ ALLE POLITICHE”
«Credo che per le elezioni nel Lazio il governo non farà in tempo a varare le nuove norme sulla incandidabilità dei condannati definitivi. Ma c’è il massimo impegno a emanare il decreto legislativo prima delle elezioni politiche».
Il ministro della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi, non è pessimista.
Ma è realista e sa bene che la norma «liste pulite» dipende soltanto dalla data di approvazione del ddl anticorruzione in aula mercoledì 10 al Senato per poi esser rimpallato alla Camera tra fine ottobre e novembre.
«Il termine “a quo” è l’approvazione definitiva della legge, dopo di che il governo ha un impegno forte a varare il decreto legislativo in tempo utile per le elezioni politiche», conferma Patroni Griffi che però non nasconde una sottile preoccupazione per il successivo passaggio parlamentare.
Ove infatti Palazzo Chigi fosse così solerte da bruciare tutte le scadenze previste («il governo esercita la delega entro un anno») lo schema di decreto deve pur sempre transitare nelle commissioni parlamentari per il parere: e così, spiega il ministro al termine di una audizione a Montecitorio, «se le Camere si prendono legittimamente tutti i 60 giorni previsti, con i tempi saremo veramente stretti».
Eppure il problema di vietare ai condannati l’accesso in Parlamento, a Strasburgo e negli enti locali è un problema conosciuto fin da quando il ministro Angelino Alfano e il sottosegretario Giacomo Caliendo scrissero l’articolo 8 del ddl anticorruzione poi trasformato in articolo 17 alla Camera con piccole limature.
Riassumendo: alle prossime elezioni per il consiglio regionale del Lazio i condannati definitivi cui non si applica l’interdizione dai pubblici uffici potranno candidarsi.
Invece, visti i tempi incerti di approvazione del ddl anticorruzione, il governo è entrato in fibrillazione per non perdere il treno delle liste pulite alle politiche.
Il vice presidente del Csm, Michele Vietti, ha mandato un messaggio forte: «Evitare la candidatura dei condannati mi sembra il minimo, penso che la politica dovrebbe fare di più».
Per questo anche il Guardasigilli Paola Severino ha abbandonato il suo riserbo su una materia che considera non di sua stretta competenza: «Sul tema dell’incandidabilità parliamo di una delega con un tempo massimo e credo ci sia un fortissimo impegno perchè, appena ultimata la legge anticorruzione, questa delega possa essere riempita nei tempi più brevi possibili».
Ma il Pd non si fida e, con un ordine del giorno firmato da Silvia Della Monica, chiederà che il governo eserciti la sua delega entro un mese.
Ora il ministro Severino presenterà i suoi emendamenti: due per introdurre nel ddl anticorruzione i ritocchi chiesti dal Pdl (corruzione tra privati e traffico di influenze illecite) e uno per ammorbidire la norma Giachetti che impone un giro di vite sui magistrati fuori ruolo. Sull’eventuale fiducia si vedrà nelle prossime ore.
Dino Martirano
(da “il Corriere della Sera“)
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
LA CLINICA PAGATA A SISSI… L’EX FIDANZATA:” MI REGALAVA ANELLI, BORSE E VIAGGI”
Alcuni consiglieri regionali del Pdl del Lazio sapevano che Franco Fiorito prendeva tre indennità al mese. E non si sono mai opposti.
A raccontarlo ai magistrati il 19 settembre scorso è stato lo stesso ex capogruppo che poi ha indicato anche i motivi della sua sostituzione: «Sono stato fatto fuori perchè non ho accolto la continua richiesta di soldi che mi arrivava dagli esponenti di Forza Italia».
Un anticipo di quello che ripeterà probabilmente oggi, con nuovi e ulteriori dettagli.
I verbali allegati all’inchiesta sugli sperperi della Regione confermano la faida interna al partito. Ma svelano anche nuovi dettagli clamorosi sull’utilizzo dei fondi a scopi personali.
L’elenco delle spese lo fa Samantha Reali, l’ex fidanzata di «er Batman» che a verbale dichiara: «Mi faceva moltissimi regali. Il suo segretario mi portò anche i soldi in contanti per pagare un ricovero in clinica»
La «tripla quota»
Nel primo interrogatorio da indagato di fronte al procuratore aggiunto Alberto Caperna e al sostituto Alberto Pioletti, Fiorito deve spiegare tutti i bonifici e gli assegni elencati nella relazione degli investigatori del Nucleo valutario.
Gli uomini del generale Giuseppe Bottillo hanno analizzato nel dettaglio tutte le uscite dai conti intestati al Pdl. E hanno scoperto oltre un milione e 357 mila euro non giustificati.
Afferma il politico: «La scelta della cosiddetta “tripla quota” non è stata deliberata dal gruppo consiliare, ma risponde ad una prassi sempre seguita sia nel gruppo del Pdl sia negli altri gruppi che ho trovato al mio insediamento, a metà della passata legislatura allorquando ero componente della commissione Bilancio in quota all’opposizione»
Poi, sollecitato anche dai suoi legali, Carlo Taormina ed Enrico Pavia, indica i partecipanti all’accordo: «Non tutti i componenti del mio gruppo consiliare erano a conoscenza di questa prassi e delle modalità con le quali mi attribuivo la cosiddetta “tripla quota”.
Qualcuno ne era a conoscenza e tra questi i quattro membri della commissione Bilancio del mio gruppo: Romolo Del Balzo, Ernesto Irmici (portavoce dell’onorevole Fabrizio Cicchitto), Stefano Galetto e Andrea Bernaudo.
Preciso che i quattro componenti della commissione Bilancio non hanno percepito la cosiddetta “quota doppia” avendo optato per l’erogazione di eventi da parte della Presidenza del Consiglio».
«Volevano altri soldi»
I magistrati gli chiedono conto del dossier preparato contro altri esponenti del suo partito.
Fiorito li accusa: «La mia destituzione da capogruppo nasce dalla mia intenzione di regolarizzare alcune spese che mi sembravano fuori controllo effettuate dai consiglieri dell’ex gruppo Forza Italia che sono Francesco Battistoni, Lidia Nobili, Andrea Bernaudo, Giancarlo Miele, Romolo del Balzo, Chiara Colosimo, Carlo De Romanis, Veronica Cappellaro, nonchè il segretario di quest’ultima Andrea Palazzo, i quali volevano un ampliamento del plafond trimestrale. Non essendo stati da me accontentati, i citati consiglieri si sono rivolti al vicecoordinatore regionale Alfredo Pallone con il quale, a mia volta, mi ero più volte lamentato di tali continue richieste di maggiori fondi».
Quando gli viene chiesto conto delle fatture trovate nel tritacarte afferma: «Si trattava del pagamento di 6.000 euro (pari a 2.000 euro al mese) in contanti che ho fatto recapitare al proprietario di casa; una fattura per l’acquisto di cravatte presso “Marinella” effettuata dall’onorevole Miele di cui ho fatto pervenire copia alla stampa; una fattura non pagata del porto turistico di Tenerife dove era ormeggiata una barca ereditata da mio padre».
I diamanti per Samantha
Yacht, ville, automobili di grossa cilindrata: non ha mai badato a spese Fiorito. E lo ha dimostrato anche durante il suo lungo fidanzamento con Samantha Reali.
La donna viene interrogata lunedì scorso. I magistrati hanno la lista delle spese effettuate con la carta di credito del Pdl, le chiedono se ha mai ricevuto regali importanti.
Lei fa l’elenco e alcuni combaciano con gli esborsi addebitati al partito: «Era solito farmi dei regali per il compleanno e a Natale. Ricordo che oltre all’anello di fidanzamento, mi ha regalato altri due anelli (entrambi di Damiani). La gioielleria dove sono stati comprati è di Anagni. Verso la fine del 2010 siamo andati alle Maldive. Non sono a conoscenza dell’importo di questa vacanza. Un’ulteriore vacanza è stata quella di tre giorni a Positano presso l’hotel San Pietro. Come altri regali ho ricevuto due borse di Gucci, una per Natale 2010. A mia figlia ha regalato un computer portatile».
I contanti per la clinica
Nel maggio 2010 la donna è stata ricoverata e in quel caso è stato Pierluigi Boschi, il segretario di Fiorito, a consegnarle i soldi.
«All’inizio mi avevano prospettato un ricovero massimo di due o tre giorni. La degenza si è prolungata per circa 10, 12 giorni e per far fronte a questo imprevisto Fiorito si è offerto di sostenere le spese. Il costo complessivo della mia degenza credo si aggirasse sui 5.000 euro, pari a 500 euro al giorno. Tale somma mi è stata materialmente consegnata in contanti da Pierluigi Boschi perchè Fiorito era impossibilitato a raggiungermi. Ho poi consegnato tale somma all’ufficio amministrativo del reparto».
Poi conferma la grande disponibilità di denaro dell’ex fidanzato.
Parla di un viaggio a Tenerife, alle Canarie, della vacanza nel resort in Sardegna. E quando le chiedono i ristoranti frequentati, dice: «Sarà capitato raramente di andare a cena soltanto io e lui, la maggior parte delle volte erano cene tra amici o di lavoro che si svolgevano presso ristoranti di Frosinone e Anagni quali il Castello Ducale, il Verde Liri e altri. Per tutte le circostanze era sempre Fiorito a saldare il conto».
La finta assunzione
Le verifiche del Nucleo valutario hanno evidenziato quattro bonifici ricevuti dalla donna tra l’8 novembre 2011 e il 13 giugno 2012 per oltre 7.000 euro.
Lei nega di aver mai lavorato alla Regione. «Conobbi Fiorito in occasione della prima campagna elettorale, verso il 2005, e collaborai all’organizzazione su tutta la provincia di Frosinone. Non ho preso alcun compenso, poi è nata una relazione durata fino alla primavera 2011.
Anche nella seconda campagna elettorale ho prestato la mia collaborazione, ma non ho percepito compensi. Ho ricevuto i bonifici quando la nostra relazione era già finita, me ne sono accorta soltanto al secondo pagamento. Ho pensato si riferissero alla collaborazione prestata».
I magistrati le mostrano «la lista anagrafica dei dipendenti del Gruppo Pdl da cui la medesima risulta assunta il 1° ottobre 2011 e licenziata il 31 dicembre 2011».
Lei è categorica: «Non ero assolutamente a conoscenza di tale assunzione. Non ho mai firmato alcun contratto di collaborazione con il Gruppo del Pdl. Non ho chiesto spiegazioni sui bonifici perchè erano somme a me dovute».
Fiorenza Sarzanini
(da “Il Corriere della Sera“)
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
COME 10 ANNI FA… PER LA CORTE DEI CONTI L’ITALIA E AI PRIMI POSTI AL MONDO
L’Italia resta in «nero», come dieci anni fa.
Nonostante l’impegno nella lotta all’evasione fiscale di Agenzia delle entrate e Fiamme Gialle le ultime rilevazioni indicano che c’è ancora molto da fare.
Secondo il Rapporto Eures pubblicato ieri, che si basa sulle opinioni di un campione di cittadini al quale è stato chiesto di dire, in base alla propria esperienza di pagamenti, chi evade di più e come, la situazione non è cambiata rispetto all’inizio del decennio.
Anche per questo motivo il 70 per cento degli italiani è favorevole alle manette per gli evasori.
Chi sono i più incalliti?
Secondo l’esperienza del campione, composto da 1.225 italiani, la maggiore frequenza di comportamenti fiscali irregolari tocca ai professori che impartiscono ripetizioni casalinghe: il tasso di evasione è dell’89 per cento.
Ma è nella galassia dell’artigianato che si cumula la maggioranza delle categorie inclini all’illegalità : in testa i giardinieri con un tasso del 67,3 per cento, seguono il falegnami (62,8 per cento commette irregolarità ), gli immancabili idraulici (62 per cento).
Più indietro nella classifica la cosiddetta «filiera dell’automobile»: i carrozzieri sono al top con il più contenuto 40,6 per cento e l’Eures spiega che la presenza dei centri di assistenza delle case-madri e la mediazione delle società di assicurazioni nelle riparazioni, contribuiscono a porre un freno all’evasione.
E le altre categorie?
Dal Rapporto – che ne prende in considerazione 52 – risulta che è in nero il 60 per cento dei servizi alla persona, dalla colf alla baby sitter.
Mentre tra i professionisti la palma d’oro spetta agli avvocati (42,7 per cento), seguiti dai geometri, dagli psichiatri, dagli architetti, dai dentisti e dai medici.
Chi evade lo scontrino?
Naturalmente in testa ci sono i bar (17,8 per cento), seguiti dai venditori di materiali edili, pub, pizza al taglio, pasticceria.
Un fenomeno preoccupante che, come ha spiegato ieri il presidente della Corte dei Conti Giampaolino, intervenendo alla Commissione Finanze del Senato, pone l’Italia ai «primissimi» posti nella classifica mondiale dell’evasione.
Peggio di noi stanno solo Turchia e Messico. Tirate le somme, infatti, solo «tra Iva ed Irap il minor gettito lordo stimato dovuto all’evasione ammonta a oltre 46 miliardi l’anno» mentre nell’area che resta fuori (Irpef, Ires, altre imposte sugli affari e contributi previdenziali) «si collocano forme di prelievo che lasciano presumere tassi di evasione non molto dissimili » rispetto a quelli di Iva e Irap.
Qual è il danno provocato all’Italia?
Se l’evasione italiana dal 1970 fosse stata pari al livello statunitense (inferiore di 3 punti) il debito pubblico sarebbe stato, dopo vent’anni anni, molto più basso (76 per cento del Pil invece di 120 per cento) e l’aggiustamento necessario per riequilibrare la finanza pubblica «molto meno impegnativo».
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
POCHI CHEF E MANCATO CONTROLLO DELLA FILIERA: COSI DOMINANO I CINESI… SI ARRIVERA’ A UN CERTIFICATO DI AUTENTICITA’ DEL CIBO?
Se i chicchi di riso sono troppo duri poggiate delicatamente la bacchetta sul tavolo. Guardate con attenzione come è tagliato il sashimi.
Magari date un’occhiata se notate piatti-clone tipici della cucina nipponica (realizzati spesso in cera).
Direte: pochi segnali per capire davvero se siete di fronte a un ristorante “autenticamente” giapponese.
Il rischio è che lo chef nascosto in cucina sia originario del Guangzhou. Non proprio a due passi da Tokyo.
LE INSEGNE COPIATE
Così l’ipotesi-contraffazione — giocata sull’affinità linguistico-culturale e sulla capacità di replicare alla perfezione gli ideogrammi nipponici sulle insegne dei sushi-bar — sarebbe diventata la formula preponderante dei ristoratori cinesi per smarcarsi da un brand-Paese percepito come meno attraente.
Ecco perchè questa (presunta) mega-operazione di “distrazione di massa” non poteva che preoccupare anche Tokyo.
Tanto da indurre Jetro — l’ente governativo giapponese di promozione del commercio con l’estero — a giocare di sponda con Fipe (la federazione italiana pubblici esercizi) ipotizzando persino un certificato di autenticità del cibo per limitare al minimo gli effetti di questo inquinamento alimentare.
IL BOOM
Soprattutto perchè la cucina giapponese in Italia riscuote così tanto successo da essere diventata un vero e proprio fenomeno culturale.
Solo a Milano si calcolano oltre 200 ristoranti “simil-giapponesi” (nel 2006 erano 70). Mentre a Firenze sono 50, di cui solo sei — sembrerebbe — hanno al loro interno un cuoco proveniente dal paese del Sol Levante. Un paradosso.
Una crescita esponenziale di nuove aperture che sorprende non poco, considerando che ambasciata e consolato nipponico in Italia non hanno finora registrato una diaspora verso il Belpaese per intercettare la domanda culinaria nostrana.
IL LOW COST
Dice Lino Stoppani, presidente Fipe che questo interesse della folta comunità cinese verso la gastronomia del Paese-rivale (la Storia non dimentica certo l’eterna conflittualità sino-giapponese) abbia anche una motivazione economica: «I cinesi hanno grandissime competenze culinarie, sono instancabili lavoratori e soprattutto hanno puntato sul low-cost. Così succede che con 20 euro puoi mangiare pesce crudo in pieno centro a Milano. Una fascia di prezzo alla portata di tutti».
LA DISAFFEZIONE
Al potere d’acquisto ridotto al lumicino si associa una maggiore disaffezione verso la cucina cinese.
Le resistenze sono legate soprattutto all’igiene e alla qualità degli alimenti, amplificate dagli echi (mediatici) delle epidemie di Sars e Aviaria, che hanno finito per “razionalizzare” i ristoranti presenti in Italia che fino a qualche anno fa godevano di una certa credibilità .
Per molti esercenti l’unica via d’uscita è stata perciò quella di riposizionarsi sul mercato, aprendo un sushi-bar sfruttando la fortissima somiglianza somatica con i loro vicini d’Oriente.
LA FILIERA
Il resto l’ha fatto una filiera che di fatto sfugge a ogni controllo, con una serie di operatori in regime di oligopolio e inefficaci reti distributive che penalizzano di più le materie prime giapponesi rispetto alle omologhe cinesi.
Il risultato è il boom della cucina “fusion” servita alla cantonese. Con salsa di soia proveniente chissà da dove.
Fabio Savelli
(da “Il Corriere dela Sera“)
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
DAL PORCELLUM AL PORCELLINUM: VIA LIBERA ALLE PREFERENZE MA CON UN TERZO DI LISTINI BLOCCATI…RIPARTIZIONE DEI SEGGI PER LA CAMERA A LIVELLO NAZIONALE….PREMIO DI GOVERNABILITA’ SOLO SE SI SUPERA LA SOGLIA DEL 45%
E’ il “Porcellinum” che avanza. Sempre figlio dello stesso padre, Roberto Calderoli. E che ieri, dopo un colloquio con Silvio Berlusconi, si è messo a lavorare pancia a terra per tirare fuori un “piano B” che piacesse a Berlusconi, ma che incontrasse anche i desiderata di Pd e Udc.
Insomma, l’ennesimo pasticcio elettorale, un Porcellum corretto con quote proporzionali e premio di maggioranza, firmato immancabilmente Calderoli: una garanzia.
Ci si chiede, ora, se l’Italia riuscirà mai a liberarsi dell’ingegno del rubizzo ex medico padano, di stretta osservanza bossiana, per riuscire ad avere una legge elettorale che non abbia lo sgradevole sapore dell’inciucio, ma Calderoli è un maestro di pensiero politico declinato in percentuali e di lui pare che non si possa fare a meno.
Nel centrodestra, ovviamente.
La sua nuova creatura, in pratica introduce le preferenze per la scelta dei candidati (resta però 1/3 di listini bloccati) e la ripartizione dei seggi, per la Camera, non più a livello circoscrizionale, ma a livello nazionale.
Sale poi la soglia per avere il premio di governabilità : andrà alla lista o alla coalizione di liste che raggiungerà il 45% dei seggi (la prima bozza prevedeva il 40%) e consentendo di conseguire automaticamente il 55% dei seggi.
Il premio scende quindi al 10 per cento.
Proprio in virtù dell’incontro avuto ieri con Berlusconi, la nuova bozza piace anche al Carroccio e tiene conto delle richieste del Pdl, già contenute nel ddl Quagliariello per quanto riguarda premio (che però andrà alla coalizione e non al partito) e preferenze. E, infatti, il vicepresidente del Pdl al Senato ha gradito lo sforzo; la nuova bozza “contiene molte cose che l’accomunano con la nostre richieste — ha detto Quagliariello — e ci deve essere una discussione per capire qual è la maggioranza che si può formare attorno a questi principi prima di votare degli articolati”.
Dunque, sembra un progetto fatto apposta per ricreare, in commissione Affari costituzionali del Senato, un asse Lega-Pdl che, quindi, potrebbero approvare anche a maggioranza questa nuova impostazione che introduce un meccanismo maggiormente proporzionale rispetto alla versione precedente.
SISTEMA CAMERA
-sistema elettorale proporzionale corretto: attribuzione dei seggi a livello nazionale con metodo del quoziente e dei più alti resti sulla base di circoscrizioni delimitate in dimensioni demografiche ridotte rispetto a quelle attuali; conferma delle attuali norme di salvaguardia per le minoranze linguistiche;
-sbarramento nazionale al 5%, ovvero al 4% per le liste che partecipano a coalizioni che superino il 15%, ovvero al 6% in un insieme di circoscrizioni equivalenti ad 1/5 della popolazione;
-scelta dei candidati: in ambito circoscrizionale (2/3 con preferenze/a — 1/3 con lista bloccata);
-premio di governabilità : attribuzione alla lista o alla coalizione di liste che superi il 45% dei seggi di un premio che consenta di conseguire automaticamente il 55% dei seggi;
SISTEMA SENATO
– sistema proporzionale corretto: attribuzione dei seggi a livello regionale con metodo del quoziente e dei piu’ alti resti ; conferma delle attuali norme di salvaguardia per le minoranze linguistiche; -sbarramento su base regionale al 6 per cento, ovvero al 5% per le liste che partecipano a coalizioni’ che superino il 15%;
-scelta dei candidati: come alla Camera, in ambito regionale;
-premio di governabilita’ a livello nazionale come gia’ descritto per la Camera.
Questo lo schema che salva gli indagati da mettere per forza in lista (garantendo 1/3 delle liste bloccate), allarga il perimetro proporzionale per strizzare l’occhio all’Udc (ma chissà in modo quanto convincente) e introduce un premio di governabilità che potrebbe essere considerato interessante dal Pd.
Si tratta, comunque, di un sistema elettorale proporzionale corretto che, vista la situazione attuale, produce i presupposti per una grossa coalizione e — di conseguenza — lascia ampi margini al famoso Monti bis.
Il “porcellinum”, insomma, sembra fatto apposta per fotografare quel risultato elettorale che vogliono in fondo un po’ tutti (tranne il Pd) insieme con l’ampio spettro di “nuove” proposte politiche che si stanno assiepando sotto la bandiera di Monti.
I democratici, però sanno che da soli non possono fare molto per contrastare la deriva proporzionale.
Al Nazareno non fanno mistero di preferire, tra “Porcellum” e “Porcellinum”, sempre l’originale, ma bisogna anche pensare che la vittoria di Bersani alle primarie non è così scontata.
E se il partito si dovesse poi spaccare, quella correzione proporzionale farebbe comodo anche a loro.
La trattativa prosegue.
Sempre sotto l’occhio vigile di Calderoli, padre indiscusso di tutti “porcelli” di ieri e di oggi. E di certo anche di domani.
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 4th, 2012 Riccardo Fucile
MENTRE IN ALTRE CITTA’ GLI STUDENTI MANIFESTANO CONTRO LA MAFIA, A REGGIO SCOPELLITI PROMUOVE UNO SCIOPERO DELLE SCUOLE CONTRO LO SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO COMUNALE PER INFILTRAZIONI MAFIOSE… MA LA PROTESTA FA FLOP
All’inizio dell’anno, il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri aveva inviato la commissione d’accesso a Reggio Calabria per accertare la situazione del Comune .
E la commissione prefettizia ha concluso i suoi lavori indicando esplicitamente, secondo indiscrezioni, la scelta per lo scioglimento del medesimo per infiltrazione mafiosa.
Ora spetta al ministro Cancellieri portare in Consiglio dei ministri la richiesta, una volta fatta propria.
Nel frattempo, a Reggio Calabria, gli studenti hanno deciso di scendere in piazza per scioperare “in difesa della città ”.
Contro la presenza di elementi mafiosi in Comune?
No, contro il rischio di scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa. Reggio Calabria ormai è una città sull’orlo di una drammatica crisi di nervi.
Uomini delle istituzioni, si fa per dire, che incitano alla ribellione se il governo dovesse decidere per lo scioglimento.
Lo sciopero è fallito, per la scarsa partecipazione, ma le diverse decine di studenti che erano scesi in piazza sono stati comunque ricevuti in pompa magna dal sindaco.
A guidare il fronte è l’ex sindaco oggi governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti.
Con lui gran parte del Pdl e dello schieramento di centro destra.
Ma anche le “sigle” dell’antimafia locale si sono schierate contro lo scioglimento del consiglio comunale, sottoscrivendo un appello di un professore che ha raccolto più di cinquecento firme.
(da “La Stampa“)
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