Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
LA RICERCA DI VISIBILITA’ ALL’ESTERO, PREMESSA DI UN TOUR MONDIALE CON CONTRATTI SUI DIRITTI TV…ANCHE UN GRUPPO DIMEZZATO RENDEREBBE SEI MILIONI DI EURO DI UTILI L’ANNO
Grillo non sopporta il dissenso.
Tutto è cominciato con le elezioni politiche, con quel risultato che Grillo non si aspettava e nemmeno desiderava.
Una vittoria piena del Pd con i Cinque stelle tra il 10 e il 15% sarebbe stato per lui il crogiuolo perfetto in cui gridare per i prossimi anni le solite parole d’ordine sulla casta, gli sprechi, la vecchia politica, e alimentare il malessere popolare che c’è, ed ha solide fondamenta nella vita reale.
L’aver difeso a spada tratta invece, con un partito al 24% e un gruppo parlamentare notevole e parzialmente controllabile, la linea dura del o da soli o niente, fino al consenso universale, gli è costato non pochi mal di pancia.
Nel suo blog ha deciso persino di eliminare la funzione «ordina i commenti per gradimento» perchè altrimenti la percezione sarebbe stata addirittura schiacciantemente contro il capo.
La situazione è poi peggiorata con i risultati delle amministrative, dove grazie alle preferenze conta più la persona che la leadership carismatica del capo: consensi dimezzati nei casi migliori e niente ballottaggi, o quasi.
Dati allarmanti soprattutto per i giovani neo-parlamentari che con questi numeri non saranno mai riconfermati.
Al crescere delle critiche alla linea monolitica del capo, sembra aprirsi un fuggi-fuggi estivo, alla ricerca di ospitalità altrove o in nuovi gruppi che diano qualche chance in più.
Facendo due conti, tutto sommato, un gruppo dimezzato porta comunque in casa Caseleggio circa 6-7 milioni netti e puliti all’anno.
Certo, si potrebbe discutere sul fatto che mentre l’ad di quell’azienda propugna l’azzeramento dei finanziamenti pubblici, poi chiude il suo bilancio da 6 anni a questa parte con l’80% di incassi da soldi pubblici prima dall’Idv e poi dai 5 Stelle.
Ma anche questa è la tipica coerenza italiana.
E sempre facendo due conti, anche con qualche accesso in meno, ma con un pubblico certamente più radicale e fedele alla linea, forse anche il blog di Grillo ne guadagnerebbe in termini di rapporto traffico-incassi.
La prossima scadenza elettorale con cui fare i conti però sono le Europee.
Un anno di tempo per epurare, snellire, fidelizzare, stringere tutti attorno al capo e ai temi da lui proposti.
Chi non è d’accordo vada pure via. Si perchè le elezioni europee sono le più complesse da condurre e vincere. Collegi ampi, con grandi differenze nei territori e nello stesso collegio, in cui conta e molto il radicamento.
In più le elezioni europee si affrontano con le preferenze e non solo con i voti di lista, e allora è importante lanciare per tempo gli uomini giusti.
Ed ecco pochi selezionati andare a lezioni di tv da Grillo e Casaleggio, e presentarsi a raffica in tutti i talk prima luoghi satanici da scomunica per rilanciare il verbo; la formula la solita: uno-a-uno, intervista frontale, niente dibattito e niente contraddittorio. Uno spot insomma.
Da cucire su misura per un rilancio ad hoc su Youtube o sul blog. Grillo punta ancora al 20%.
Ma in caso di ridimensionamento ha già pronto il piano B. I pezzi ci sono già tutti.
Il parlare solo con la stampa estera ha dato a Grillo una straordinaria visibilità , sempre sul confine tra leader politico, fenomeno mediatico e guru di una nuova società globale.
Una terza vita si apre per l’ex-comico genovese, che potrebbe rilanciare il messaggio di un movimento Cinque stelle che «avrebbe potuto» fare la rivoluzione ma i cui eletti «sono stati corrotti dalle stanze del potere» e lui «non ci sta più».
Da mesi ormai cresce il consolidamento delle relazioni con i gruppi Occupy e Indignados di tutta Europa, cui Grillo guarda con fervido interesse come macchina di rilancio, di comunicazione e di organizzazione, e che sarebbero il pubblico ideale per una tournèe mondiale, cui lui stesso comincia ad accennare.
Qualcosa in più di una semplice ipotesi, con le prime probabili date in Spagna, Grecia, Olanda, Danimarca e con uno sbarco anche in America: il tutto ovviamente accompagnato da contratti di ferro sui diritti televisivi.
Forse un nuovo libro accompagnerà e spiegherà questa nuova svolta, magari tradotto in più lingue: di certo, ultimamente anche i testi dei suoi discorsi stanno cambiando, almeno rispetto allo Tsunami Tour.
Linfa di nuovi autori? «Che bello quando queste piazze le riempivo sempre a pagamento, che nostalgia…» è frase ricorrente in tutti gli ultimi comizi elettorali a sostegno dei Cinque stelle.
Michele Di Salvo
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
SUL CURRICULUM DICE DI ESSERSI LAUREATA A SAN PIETROBURGO, POI MESSA ALLE STRETTE AMMETTE: “DI RUSSO CONOSCO SOLO TRE PAROLE”
Elena Bianchi, neo eletta al consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia per il Movimento 5 Stelle, sostiene di essersi laureata a San Pietroburgo, ma interrogata sull’argomento dichiara candidamente di non conoscere “più di tre parole in croce” della lingua di Dostoyevsky.
Udine Today ci dà notizia della polemica divampata in Rete sulla laurea (presa in Russia) della capogruppo grillina alla Regione Friuli-Venezia Giulia, Elena Bianchi.
Le perplessità di chi ha curiosato nascono dalle “tempistiche” elencate dalla capogruppo grillina in regione.
Come ha fatto? E come ha trovato il tempo? E quando è successo? La laurea è valida anche in Italia?
Elena Bianchi ha provato rispondere ai quesiti, ma le sue dichiarazioni non hanno convinto.
La “cittadina” sostiene di essere stata una studentessa-lavoratrice e di essersi recentemente laureata a San Pietroburgo.
Le accuse del “popolo della rete”, a cui il Movimento fa sovente riferimento sono chiare.
Per convincere di non aver mentito sul suo curriculum, avrebbe dovuto rispondere ad alcune domande, per esempio, quante volte è andata in Russia?
Dove ha dato gli esami?
Nel programma di studi c’è scritto a chiare lettere che bisogna sapere, condizione indispensabile, il russo parlato e scritto mentre lei afferma di sapere a malapena tre parole: come lo spiega?
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
POI AVVERTE: “SE GRILLO MI MINACCIA LO DENUNCIO”… BECCHI PERDE L’OCCASIONE PER TACERE: “SONO SCORIE”
La dissidente non è intenzionata a mollare. «Non ho assolutamente intenzione di passare al Gruppo Misto. Io sono ancora nel M5S e ci rimango finchè non dovessero decidere di espellermi», annuncia Adele Gambaro al termine della riunione congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, a Montecitorio, Beppe Grillo «deve stare attento, non può fare così», ha continuato la senatrice.
«Non è più un uomo qualunque, rappresenta milioni di italiani. Io non ho offeso nessuno e sono stata offesa, pretenderò da lui pubbliche scuse».
E sull’ipotesi di espulsione, che i colleghi senatori – secondo quanto si apprende – non avrebbero intenzione di avallare, la senatrice Gambaro dice: «Non me ne voglio andare perchè i rapporti al gruppo al Senato sono buoni».
Il tutto mentre Grillo dal blog insiste: «Pochi mesi fa, prima di essere eletta, nelle sue dichiarazioni d’intenti Gambaro scriveva: “Penso ad un Parlamentare che nel caso non fosse più in sintonia con il M5S, grazie al quale è stato eletto, la sua base, i suoi principi, semplicemente si debba dimettere”. Cosa è successo in questi mesi? Perchè la senatrice non rispetta quanto promesso “nero su bianco” agli attivisti che le hanno dato fiducia con il voto delle parlamentarie?».
Come dire, insomma: «Gambaro dimettiti».
Parole cui lei risponde inasprendo la sua posizione affermando: «se minaccia lo denuncio». E non solo.
A chi le chiede dei commenti al veleno apparsi sul blog, replica «Far intervenire la Digos? Ne devo parlare con il mio collaboratore che è un avvocato».
Su posizioni più miti nei confronti della collega, è l’ex capogruppo al Senato Vito Crimi. Che dopo un incontro con la Gambaro l’ha abbracciata pubblicamente.
Sul caso della «senatrice ribelle» è intervenuto anche Nicola Morra, nuovo capogruppo al Senato, che ha preso tempo spiegando che «al momento non ci sono in programma riunioni».
Niente espulsione dunque.
«Vorremmo acquisire elementi per conoscere bene e valutare con attenzione».
In serata però sono arrivate anche le dichiarazioni dell’ideologo non ufficiale del Movimento che in un’intervista a un settimanale ha detto: «Sono contrario alle espulsioni, che vadano via loro: sono scorie. Usano l’Ilva come pretesto, però secondo me vanno via per i soldi. Erano gli stessi che volevano tenersi in tasca la diaria».
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
DA TREVISO AD AFRAGOLA, CON UNA FORTE PRESENZA IN TOSCANA… COME CAMBIA LA MAPPA DEGLI AMMINISTRATORI VICINI AL ROTTAMATORE
Si potrà dire, come fanno i suoi fan, che è anche merito suo.
O che al contrario è lui, Matteo Renzi, il primo beneficiato da un centrosinistra vincente.
Fatto sta che il voto amministrativo, che spinge ovunque sul podio i sindaci sostenuti dal Pd, è anche il voto che segna l’affacciarsi di un numero sempre maggiore di sindaci renziani.
Vince la sinistra e vince anche il sindaco di Firenze: se due settimane fa Achille Variati ottiene il bis a Vicenza, dal ballottaggio escono adesso Giovanni Manildo a Treviso ed Emilio Del Bono a Brescia.
Escono Simone Uggetti a Lodi e, in Toscana, Bruno Valentini a Siena, che riconquista per un soffio la città sconvolta dallo scandalo Monte dei Paschi e per prima cosa ringrazia proprio Renzi.
Piccoli Rottamatori crescono.
Sempre in Toscana, terra d’elezione di Renzi, Leonardo Betti sbaraglia il ballottaggio di Viareggio.
A pochi chilometri da Palazzo Vecchio, sede del governo fiorentino, altri due nuovi volti renziani: Alessio Calamandrei ad Impruneta ed Emiliano Fossi a Campi Bisenzio, entrambi eletti al primo colpo.
Così a Gavorrano, nel grossetano, dove ha avuto la meglio Elisabetta Iacomelli.
A San Donà di Piave si laurea sindaco Andrea Cereser, mentre a Salsomaggiore Terme, dove il sindaco Renzi è andato durante la campagna elettorale, è Filippo Fritelli.
In Liguria Alessio Cavarra espugna Sarzana al primo turno, mentre a Velletri si conferma Fausto Servadio e a Melito, nel napoletano, s’impone Venanzio Carpentieri, ad Afragola Domenico Tuccillo, a Imola Daniele Manca.
Mentre nelle elezioni siciliane, dopo aver concluso il primo turno in testa, a Siracusa va al ballottaggio Giancarlo Garozzo. A Comiso ci andrà Filippo Spataro.
“Il Pd sta cambiando, arrivano nuovi sindaci”, ha non a caso rivendicato giorni fa lo stesso Renzi.
Che può adesso aggiungere i sindaci 2013 a quelli già in servizio.
Da Andrea Ballarè, eletto a Novara nel 2011 a Federico Berruti di Savona, anche lui in carica da due anni.
A Forli c’è Roberto Balzani, a Faenza Giovanni Malpezzi, nella città di Bersani, Piacenza, c’è Paolo Dosi, a Rimini Andrea Gnassi, a Lecco Virginio Brivio, a Belluno Iacopo Massaro, che un anno fa vinse sulla candidata di un Pd che non volle fare le primarie.
E poi ancora Giancarlo Piva a Este, Federico Vantini a San Giovanni Lupatoto, Nicola Garbellini a Canaro.
Mentre a Cernusco sul Naviglio c’è Eugenio Comencini, a Giffoni Paolo Russomando, a Pizzo Calabro Gianluca Callipo, a Villapiana, Roberto Rizzuto, a Recanati Francesco Fiordomo, ad Alghero Stefano Lubrano.
E’ un esercito in costruzione. A cui si può aggiungere la presidente del Friuli-Venezia-Giulia Debora Serracchiani, che condivide molte cose con Renzi.
E perfino il suo vice Sergio Bolzonello, ex sindaco di Pordenone: “C’è un numero crescente di sindaci e amministratori che si schiera con noi, che partendo dall’esperienza del territorio chiede con sempre maggior forza di rinnovare il Pd”, rivendica la deputata Simona Bonafè.
Come dire, che nella sempre più probabile corsa congressuale di Renzi, la carica arriverà proprio dagli amministratori.
Sono numeri però, quelli dei sindaci renziani, che non trovano riflesso nelle cariche di partito: non un segretario regionale (in Toscana Renzi ha candidato il deputato Dario Parrini) e solo Luca Lotti è entrato come renziano doc nella segreteria di Epifani (enti locali).
Mentre nella commissione congresso figura solo Lorenzo Guerini.
Il sindaco di Firenze può comunque contare sulla sua pattuglia di 53 parlamentari, con cui si tiene in contatto giornalmente: da Matteo Richetti a Roberto Giachetti, da Paolo Gentiloni a Ivan Scalfarotto, da Dario Nardella ed Ernesto Carbone alla stessa Bonafè. Ma la scalata al Pd si organizza anzitutto dai territori.
Massimo Vanni
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
DOCUMENTO DEI BERSANIANI: IL SEGRETARIO VA ELETTO TRA GLI ISCRITTI
Frenare Renzi. O meglio, stoppare la sua corsa verso la segreteria del Partito democratico. Dopo le elezioni amministrative, una parte del Pd fa la prima mossa.
E per farla deve rompere l’asse Bersani-Letta-Franceschini che oggi regge il Pd.
La corrente dell’ex segretario marcia (per il momento) da sola presentando un documento anti-Renzi.
Lo firmano solo i fedelissimi di Bersani: Maurizio Martina in rappresentanza del Nord, Stefano Fassina (Centro) e Alfredo D’Attorre (Sud).
I lettiani stanno a guardare mantenendo una totale neutralità .
Gli ex Ppi, i franceschiniani, non si schierano ma non si sottraggono ad alcune manovre che puntano a rallentare il sindaco. Enrico Letta osserva. Da lontano.
Amico di tutti, schierato con nessuno.
E se il congresso del Partito democratico avrà candidature contrapposte, cioè se Renzi avrà uno o più sfidanti, tanto meglio.
Non perchè il premier voglia parteggiare per qualcuno, ma perchè lui avrà così la possibilità di ritagliarsi, da Palazzo Chigi, il ruolo di baricentro del Pd.
«Non mi faccio coinvolgere nel congresso», ripete a tutti il Letta.
In nessun modo il presidente del Consiglio ha favorito l’iniziativa del suo amico “Pierluigi”.
Ma l’ipotesi di un candidato alternativo a Renzi (oltre a Gianni Cuperlo, già in campo da tempo) gli permette nuovi margini di manovra.
L’obiettivo vero resta quello di un patto con il sindaco.
Ma anche questo traguardo è più facile di fronte a una sfida interna al Pd combattuta sul serio. Soprattutto dopo le elezioni ammini-strative.
Che secondo lui hanno rafforzato l’esecutivo delle larghe intese e il suo presidente del Consiglio. In un modo o nell’altro, il futuro segretario del Pd dovrà fare i conti con Enrico Letta. E viceversa.
Anche i bersaniani sfruttano l’onda del voto per i sindaci.
La scelta di tempo per la presentazione del documento (che verrà pubblicato oggi online) non è casuale. «Abbiamo vinto noi la sfida dei sindaci. Adesso Matteo non può esagerare».
Non lo è nemmeno il sorriso di Bersani, il suo ritorno alla battaglia politica contro «il personalismo, contro i partiti proprietari ».
In parole povere, contro Renzi.
E contro il nuovo alleato di Renzi: Massimo D’Alema, nemico giurato dell’ex leader del Pd.
I bersaniani non possono rimanere a guardare, non vogliono rimanere stretti nella morsa del dalemiano Cuperlo e dell’avversario delle primarie Renzi. Perciò il documento non basta. Serve un candidato.
Che sarebbe stato individuato in Nicola Zingaretti. Corteggiato a lungo in queste settimane, il governatore del Lazio ha detto no. Per ora.
A Zingaretti guardano in molti.
Un gruppo di deputati giovani e trasversali, da Massimiliano Manfredi a Dario Ginefra, hanno apprezzato le parole del governatore contro le correnti, per un Pd che si ricostruisce sui parlamentati eletti con le primarie.
I Giovani Turchi vogliono giocare fuori dai rigidi schemi delle componenti.
«Siamo liberi di pensare con la nostra testa», dice Matteo Orfini.
La militarizzazione dei bersaniani apre ai “turchi” nuovi orizzonti. Ma la corsa del presidente del Lazio è una chimera.
E allora si ritorna al punto di partenza: c’è Renzi in pista, praticamente senza avversari. Ma i pericoli possono anche non essere in carne e ossa.
Possono nascondersi nelle regole del congresso, come ha denunciato il sindaco. Ieri i renziani sembravano impazziti a Montecitorio.
Vedono grandi manovre sui meccanismi di elezione del segretario.
Sospettano che dietro ci sia Dario Franceschini perchè una regola di cui si vocifera è mutuata dalla Margherita: pesare in maniera diversa il voto degli iscritti e il voto dei cittadini e degli amministratori locali. Insomma, non “una testa un voto”, non primarie aperte.
La prima riunione della commissione per le regole è lunedì.
Con una grana che rischia di spaccarla prima ancora di cominciare.
Il vertice ha deciso di chiamare a presiederla Davide Zoggia, ex braccio destro di Bersani. Una soluzione che piace anche ai franceschiniani.
Ma si ribellano in molti: renziani e giovani turchi, minacciando clamorose dimissioni. La richiesta è semplice: eleggere il presidente.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica“)
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
L’EX PD: “PROCESSI MEDIATICI, RIVEDERE IL CODICE ETICO”
Stavolta il bavaglio, o la regolamentazione per usare un termine caro a chi confonde la censura con la giustezza, potrebbe funzionare.
Forse perchè l’ex dermatologo Antonello Soro, officiato garante per la privacy, s’inserisce fra i non “divisivi”, scrive a pagina 17 di un’inconsueta relazione annuale, e invoca e annuncia nuove norme per le intercettazioni.
Per chi le raccoglie, la magistratura e per chi le pubblica, i media: “Intendiamo promuovere una riflessione sul possibile aggiornamento del codice dei giornalisti, al fine di coniugare al punto più alto il diritto di cronaca e dignità della persona”.
Le parole sono morbide, quasi flautate, ma non coprono le ambizioni di Soro: punire di più i cronisti.
“Per tale obiettivo — prosegue — questa potrebbe essere una strada meno divisiva e forse più concludente rispetto alle diverse ipotesi legislative tentate nella scorsa legislatura”.
Lì dove fallirono i vari Saverio Nitto Palma e Angelino Alfano, l’ex capogruppo Pd intravede il trionfo.
Soro ha individuato un doppio piano di azione: vuole sigillare le procure, rendere inaccessibile le telefonate, obbligare a continui e cervellotici cambi di password, a impenetrabili archivi digitali, a diabolici macchinari per rintracciare impronte e beccare il reprobo.
L’Autorità ha avviato un confronto con cinque procure pescate a campione, l’ufficio tecnico sta per redigere la norma, e il presidente se ne vanta: “Per garantire il più possibile le parti processuali e i terzi coinvolti, unitamente al segreto investigativo, abbiamo avviato un’attività conoscitiva sulle procedure seguite in materia di intercettazioni dai gestori incaricati e dalle Procure”.
Ma quel che preoccupa Soro, e quello che ha sempre tormentato i politici inciampati al telefono, è la presunta impunità dei giornalisti.
Eppure le leggi già esistono: i cronisti non possono pubblicare le intercettazioni ancora protette dal segreto e nemmeno riportare un colloquio integrale sino al secondo grado giudizio.
Pr completare la riforma, Soro ha bisogno di una sponda, di un riflesso disciplinare e così auspica una collaborazione con l’Ordine per inasprire il codice etico.
Soro dedica un lungo paragrafo a una personale lezione di giornalismo: “Sul versante della cronaca giudiziaria, la tendenza, sempre crescente, alla mediatizzazione dei processi rafforza l’esigenza di un’adeguata selezione delle notizie di rilevanza pubblica, da rendere con modalità rispettose dell’altrui riservatezza e della presunzione d’innocenza”.
Qualsiasi cosa volesse dire, Soro prova a ripeterlo qualche riga dopo: “La pubblicazione di atti di indagine deve rispondere a finalità di interesse pubblico e non a tensioni voyeuristiche, nella consapevolezza che non tutto ciò che è di interesse pubblico è di pubblico interesse. (…) Bisogna evitare fughe di notizie e quel ‘giornalismo di trascrizione’ che finisce per far scadere la qualità dell’informazione”. Di più, Soro non dice.
Daniela Santanchè, però, interpreta al volo: “Ci voleva il Garante per la privacy per porre un freno all’uso distorto e inappropriato delle intercettazioni. Va infatti nella giusta direzione l’annuncio di soluzioni e provvedimenti più adeguati, che aumentino lo standard di protezione dei dati trattati e di una revisione del codice dei giornalisti”. Qualche ora più tardi, interviene Franco Siddi (presidente sindacato Fnsi): “Il tema delle intercettazioni non va mai strumentalizzato. No a comportamenti autoritari”.
Il presidente di Montecitorio, Laura Boldrini, nonostante il ruolo istituzionale, è stata più netta: “La tutela della privacy non ostacoli il giornalismo”.
Assieme al futuro, a Soro interessa persino il passato e intima ai giornali di cancellare “dagli archivi notizie non più attuali che l’interessato ritiene pregiudizievole”.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
GRILLO PROGRAMMA UN NUOVO BLITZ A ROMA PER RIUNIRE I SUOI E TAMPONARE LA DIASPORA
Effetto Titanic. Un iceberg improvviso capace di disgregare il gruppo.
Le parole di Adele Gambaro, ascoltando i parlamentari Cinque Stelle, hanno la forza del colpo che non ti aspetti.
E che potrebbe far vacillare gli equilibri (precari). «Dimessa, tranquilla» sono gli aggettivi più ricorrenti per descrivere la senatrice. Anche per questo le sue parole sono suonate come «un fulmine a ciel sereno», sostiene un collega a Palazzo Madama.
Parole però meditate, al punto che – secondo quanto riferiscono fonti vicine al Movimento – incalzata da alcuni parlamentari per correggere il tiro, Gambaro avrebbe confermato la sua posizione con tenacia.
Tra i Cinque Stelle ci si interroga. Anche sulla reazione di Beppe Grillo.
In serata, il vertice tra senatori «per un confronto, non un processo», indetto per chiarire la direzione dei parlamentari. Si va verso un bivio pericoloso.
Aprire l’iter per l’espulsione potrebbe scoperchiare tutti i malesseri interni al gruppo.
La faglia dei delusi, ossia dei dissidenti ma anche di coloro che sempre più spesso si trovano costretti ad abbozzare una linea che condividono solo in parte, si è allargata.
Da quindici-venti persone in tutto a trenta-quaranta, con stime in ulteriore crescita. Un’accelerazione improvvisa nelle ultime settimane, con motivazioni che, secondo alcuni, si «rispecchiano nella presa di posizione della senatrice»: i post sulle istituzioni, le scelte dettate dai fedelissimi.
Il voto di ieri sul nuovo capogruppo al Senato con i parlamentari divisi in due schieramenti quasi uguali è la prova della ricerca di alternative all’interno del gruppo, diverse da quelle tenute finora. E proprio la scelta di non cambiare potrebbe essere tra le motivazioni che hanno spinto Gambaro – a distanza di qualche manciata di minuti dalla votazione – a fare il suo intervento ai microfoni di Sky.
Ipotesi, solo ipotesi. L’unica certezza, per ora, è che a finire travolta è la comunicazione. «Facciamo una grande fatica per veicolare i nostri discorsi ai contenuti e questi episodi spazzano via tutto il lavoro di giorni in un attimo – sbotta Claudio Messora, responsabile dello staff Cinque Stelle al Senato –. La diretta streaming per l’elezione del capogruppo è stata un successo, ma non se ne parlerà . Se ognuno dice quello che pensa senza seguire una logica di gruppo finiamo solo per essere autolesionisti».
Sul caso Gambaro Messora è secco: «Se gli stessi toni e le stesse battaglie che hanno portato 163 parlamentari nelle istituzioni ora infastidiscono, bisogna chiedersi per quale motivo continuare a stare nel Movimento».
Uscire dal pantano, ora, però, sembra sempre più complesso.
Più probabile che si vada verso una frattura. E un eventuale iter per l’espulsione della senatrice potrebbe essere la classica goccia che fa traboccare il vaso.
In questo caso – immaginano fonti vicine al Movimento – la discussione potrebbe portare allo scoperto un gruppo di persone, un nucleo che si staccherebbe in modo traumatico dando vita, numeri permettendo, a gruppi parlamentari autonomi.
Uno scenario apocalittico per i Cinque Stelle, che molti vorrebbero evitare.
Una soluzione caldeggiata sarebbe quella di dimissioni «volontarie» di Gambaro, seguendo quelle indicazioni che lei stessa aveva posto nel suo curriculum.
«Penso a un parlamentare che nel caso non fosse più in sintonia con il M5S, grazie al quale è stato eletto, la sua base, i suoi principi, semplicemente si debba dimettere», scriveva in vista delle Parlamentarie.
Sei mesi fa e prima di un’esternazione dai toni accesi. Ora per lei e per i parlamentari il dado è tratto. I nodi verranno al pettine presto, in pochi giorni, forse in tempo per il consueto vertice con Grillo, che si dovrebbe tenere nel giro di una settimana.
Una riunione che mai come ora si preannuncia infuocata. Intanto, c’è chi difende il leader: «Queste prese di posizione contro Beppe – dice la deputata Giulia Sarti – non ci fanno che male. Sono un modo di deresponsabilizzarci: i problemi sono nostri, del gruppo, e noi dovremmo essere i primi a volerli risolvere confrontandoci».
Emanuele Buzzi
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
LEGA DILANIATA DA SCANDALI E RISSE
E adesso chi glielo spiega, ai padani, che la Lega vuole «essere il partito egemone del Nord»? La caduta rovinosa di Treviso, che pareva assolutamente inespugnabile, non è solo un trauma.
È l’ultimo candelotto di dinamite che esplode in una polveriera. E dilania in risse omicide un partito un tempo monolitico.
Umberto Bossi era di ottimo umore, un anno e mezzo fa, alla nascita del governo Monti.
E dava di gomito: «Se sono così fessi da mandarci all’opposizione, ci rifacciamo la verginità ». Macchè: era l’inizio di un tormentato percorso di scandali e inchieste giudiziarie, coltellate ed espulsioni, fughe e tracolli elettorali.
E se il Senatur pensava di recuperare, fuori dal governo, il «suo» popolo deluso che già aveva consegnato alla sinistra il fortilizio di Novara, le «amministrative» della primavera 2012 erano state un disastro.
Nella scia degli scandali del «Trota» e di Francesco Belsito e del fascicolo «the family» e dei diamanti finiti in tasca al senatore Piergiorgio Stiffoni, erano cadute via via Monza, dove la Lega aveva suonato la grancassa «trasferendo» tre ministeri e il paese bergamasco di Mozzo caro a Roberto Calderoli e quello vicentino di Sarego sede del «Parlamento padano» e perfino il borgo natale dell’ Umberto, Cassano Magnago, da vent’anni dominato dal Carroccio e orgoglioso di considerarsi la «Betlemme leghista».
Almeno un leghista però, allora, aveva potuto cantare vittoria: il veronese Flavio Tosi, trionfalmente rieletto al primo turno.
Ma è proprio lui, oggi, a essere al centro delle polemiche intestine. Insieme con quel Bobo Maroni che su di lui aveva puntato e teorizzava appunto «l’egemonia leghista al Nord» ma già a fine febbraio, pur conquistando la Lombardia, aveva visto il Carroccio uscire col 13% scarso dei voti contro il 26% abbondante delle regionali del 2000.
Ma se è dolorosa la stangata di Brescia, che anni fa vide i primi trionfi bossiani e ora vede il Carroccio ridotto all’8,66%, è nel Veneto che più si nota l’emorragia.
Qui era nata la Liga Veneta del «Leon che magna el teròn».
Qui erano stati eletti, esattamente trent’anni fa, il primo deputato e il primo senatore.
Qui erano stati conquistati i primi comuni.
Qui il partito era arrivato a segnare record inimmaginabili, come a Chiarano, in provincia di Treviso, dove il sindaco Gianpaolo Vallardi si spinse nel 2009 a prendere in gara solitaria, contro una lista che univa destra e sinistra, il 76,6%.
Una maggioranza talmente «bulgara» che gli stessi leghisti ne ridevano chiamando il paese «Chiaranov».
Altri tempi. Persino a «Chiaranov», alle ultime politiche, quello di Alberto da Giussano era solo il quarto partito col 15,1% dopo il Pdl, il MoVimento 5 Stelle e anche il Pd che da quelle parti ha sempre contato come il due di coppe con la briscola a spade.
E intorno a «Chiaranov» sono cadute una cittadella dietro l’altra.
A partire, appunto, dai feudi scaligeri (dunque maroniani) di Flavio Tosi, contro il quale ieri a «La zanzara» di Radio 24 il consigliere regionale veneto Santino Bozza, espulso dalla Lega poche settimane fa, sparava a zero: «Tosi e Maroni devono andare nel centro del lago di Garda, nel punto più profondo, e immergersi più a fondo possibile. Hanno distrutto la Lega, devono sparire, vadano in vacanza in eterno».
Il confronto coi numeri trionfali dell’elezione di Luca Zaia, alle ultime Regionali del 2010, dice tutto.
Aveva 788.581 voti, allora, la Lega. Pari al 35,2%.
Con un vantaggio di oltre 10 punti sul Popolo della Libertà , umiliato dal sorpasso.
Bene: alla Camera, tre mesi fa, mentre il Pdl segnava il contro-sorpasso raddoppiando quasi i voti leghisti, i voti al Carroccio erano precipitati a 310.173 e a una percentuale del 10,8% nella circoscrizione Veneto 1 e 10,3% in quella Veneto 2.
Un disastro.
E un segno inequivocabile della rottura di un rapporto trentennale. Una rottura resa ancora più vistosa, alle ultime Comunali, proprio nelle zone dove più forte, fino alla strafottenza nei confronti degli avversari, pareva il partito.
Come appunto in provincia di Verona, dove la Lega alle Regionali del 2010 aveva preso il 36% e conquistato nel 2012 tra squilli di trombe il Comune capoluogo e oggi si lecca le ferite («La botta per me equivale a quando il Verona fu retrocesso. Spero che noi leghisti ci riprenderemo già l’anno prossimo, perchè la squadra ci ha messo 11 anni a risalire in serie A», sospira Tosi) rimediate in luoghi ritenuti sicuri come Villafranca, Bussolengo, Sona…
In provincia di Vicenza, Zaia aveva trionfato col 63,4% trascinando la Lega al 38%: tre anni dopo le Comunali del capoluogo hanno visto la padana Manuela Dal Lago sfracellarsi al primo turno contro il democratico Achille Variati e il Carroccio precipitare a un avvilente 4,59%.
Nel Veneziano, dove Francesca Zaccariotto aveva strappato nel 2009, dopo 25 anni, la Provincia alla sinistra e dove il governatore attuale aveva vinto portando il movimento bossiano al 26,1%, c’era in ballo San Donà di Piave dove proprio la Zaccariotto che gli era stata sindaco aveva il suo punto di forza: una disfatta. Con la Lega giù fino al 5,8%
Ma è a Treviso, come ha sancito coi consueti modi spicci Giancarlo Gentilini identificando il suo personale destino con quello di tutto il movimento e della Padania stessa, che «è finita l’era della Lega e del Pdl».
La città , per i leghisti veneti, valeva quanto Varese per i lumbard. Era la roccaforte. La perfetta «Padanopoli». Imprendibile, come il resto della Marca.
Tre anni fa, alle Regionali, il trevigiano Zaia aveva stravinto in provincia con quasi 66% dei voti, dei quali addirittura il 48,5% (il triplo del Pdl: il triplo!) di segno leghista.
Oggi i militanti telefonano a Radio Padania Libera sfogando la loro rabbia. Hanno perso a Castello di Godego, a Istrana, a Mareno di Piave, a San Biagio di Callanta, a Vedelago…
Un tracollo da panico.
Culminato appunto nella Waterloo della città capoluogo. Dove il vecchio «Sceriffo» finito sui giornali di tutto il mondo per le sue sparate razziste contro «i zingari» e «i culattoni» e i negri «inseguiti a casa loro dalle gazzelle e dai leoni» è stato annientato.
E la Lega Nord si ritrova, in quella che fu per un ventennio la «sua» città , con due consiglieri su 32. E una quota dell’8,54%.
Lui, il «Genty», è rimasto nel «suo» ufficio in municipio fino a mezzanotte meno un quarto.
Come se volesse restare aggrappato fino all’ultimo a quel suo pezzo di vita.
Quando se n’è andato, dicono, ha spento la luce.
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 12th, 2013 Riccardo Fucile
“IL PREMIER ITALIANO HA FATTO BEN POCO PER RIMETTERE IN MOTO L’ECONOMIA E NON CAPISCE CHE GOVERNARE COMPORTA SCELTE ANCHE IMPOPOLARI”
Il Financial Times si scaglia contro Enrico Letta.
“Il premier italiano può sorridere, guardando al risultato delle elezioni comunali, con la vittoria del Pd, lo stop di Silvio Berlusconi e il risultato negativo di Beppe Grillo che gela l’avanzata del populismo in Italia”, afferma un editoriale intitolato “La letargia di Letta”.
Ma, aggiunge il quotidiano britannico, “il presidente del Consiglio deve fare buon uso del fatto che gli italiani sembrano aver concesso il beneficio del dubbio al suo governo di larghe intese”.
In realtà , secondo il Financial Times, da quando è stato scelto da Giorgio Napolitano per guidare il governo, Letta “ha fatto molto poco per rimettere in moto l’economia” e in questo momento “il suo programma assomiglia sempre di più a una trilogia impossibile”.
E cioè: “Vuole tagliare le tasse, aumentare la spesa per l’istruzione e, allo stesso tempo, rispettare gli obiettivi sul deficit fissati da Bruxelles”.
Il quotidiano finanziario evidenzia invece che “governare comporta scelte difficili” e impopolari come insegna la “lezione del governo tecnocratico di Mario Monti”, le cui riforme non hanno pagato in termini di consenso popolare, così come è “difficile conciliare le priorità divergenti dei partiti che sostengono l’esecutivo”.
Inoltre, “c’è il rischio che la coalizione che sorregge Letta non resista se Berlusconi fosse condannato in uno dei suoi processi”.
Ma, conclude il Financial Times, “nessuna giustificazione regge quando le riforme sono così urgenti” e ora che con le ultime amministrative “gli elettori hanno dato spazio a Letta, il premier dovrebbe provare a far ripartire l’Italia”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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